La svastica
allo stadio 4
I piedi di Mozart
di Giovanni A. Cerutti
L'esemplare e drammatica vicenda umana e sportiva del moravo Matthias Sindelar.
Se seguite il calcio con passione
è quasi impossibile che non vi siate trovati almeno una
volta a discutere per stabilire chi sia stato il più
grande calciatore di tutti i tempi, senza peraltro riuscire
a venirne a capo. Troppi i criteri che possono essere usati
come riferimento, troppe le variabili da prendere in considerazione.
Ma se la discussione avviene tra veri conoscitori del calcio
e della sua storia, non sarà troppo difficile trovare
l'accordo sul ristretto numero di campioni da prendere in considerazione:
Alfredo Di Stefano, Pelé, Valentino Mazzola, Johan Cruijff,
Matthias Sindelar, Diego Armando Maradona, Ferenc Puskás,
forse Ricardo Zamora, ma, si sa, valutare i portieri non è
facile. Ognuno di loro ha interpretato con classe e fantasia
i diversi modi con cui si è giocato a calcio nelle diverse
epoche; qualcuno di loro è diventato anche un simbolo
dello spirito del tempo in cui ha vissuto. L'incedere volitivo
di Mazzola è stato l'immagine della ricostruzione dell'Italia
distrutta da vent'anni di fascismo, lo sguardo malinconico di
Puskás della fuga dall'oppressione del totalitarismo
sovietico, i capelli al vento di Cruijff della rivoluzione dei
costumi nell'Europa tra la fine degli anni sessanta e l'inizio
degli anni settanta. Matthias Sindelar, invece, si è
trovato a fronteggiare il periodo più buio della storia
europea, opponendosi con coraggio e dignità alla violenza
nazista. Ma non è diventato un simbolo. Può esservi
capitato di aver sentito commentare “un tiro alla Sindelar”
– detto per inciso: il famoso tiro a rientrare nell'angolino
l'ha inventato Sindelar, non Maradona, né Zico, né
Corso – o “una finta alla Sindelar”; non credo
abbiate sentito commentare che uno dei più grandi centravanti
di tutti i tempi si sia rifiutato di vestire la maglia della
nazionale tedesca, dopo che l'Austria era stata annessa con
la forza al Reich, in virtù dell'Anschluss. Né
che la nazionale austriaca non poté partecipare per lo
stesso motivo ai mondiali del 1938 in Francia, nonostante si
fosse qualificata alla fase finale e fosse, anzi, una delle
favorite.
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Matthias Sindelar (Kozlov, 10 febbraio 1903-Vienna, 23 gennaio 1939) |
Da un
pallone di stracci alla sfida con Meazza
Matthias Sindelar era nato a Kozlau, un villaggio della Moravia
che oggi fa parte della Repubblica Ceca, il 10 febbraio del
1903. Nel 1905 la sua famiglia si era trasferita a Vienna, la
capitale dell'Impero, dove suo padre aveva trovato impiego come
muratore. Matthias crebbe tirando calci a un pallone di stracci
per le strade polverose del quartiere operaio Favoriten, dove
si stabilivano molte famiglie provenienti dalla Moravia, dalla
Boemia e dall'Ungheria in cerca di lavoro. Dopo che il 28 luglio
1914 l'Austria-Ungheria aveva dichiarato guerra alla Serbia
a seguito dell'attentato in cui era morto l'erede al trono Francesco
Ferdinando d'Absburgo, innescando la serie di eventi che avrebbe
portato alla Prima guerra mondiale, anche il padre di Matthias
venne richiamato nell'esercito imperiale nel corso della mobilitazione
generale del maggio del 1915. Jan Sindelar morirà due
anni dopo sul fronte dell'Isonzo combattendo contro l'esercito
italiano. Matthias ha solo quattordici anni, ma è costretto
a trovarsi un lavoro come meccanico per aiutare la madre Rosie,
rimasta sola con altre tre figlie.
Fu Karl Weimann, un maestro di scuola elementare ed ex calciatore
dilettante, ad accorgersi del talento di Matthias, quando prese
a trasformare in partite quasi vere gli interminabili giochi
dei ragazzi del Favoriten. Funzionario della federazione calcistica
austriaca, Weimann sostituì il pallone di stracci con
un vero pallone, tracciando un vero campo con la polvere dei
mattoni rossi che si trovava in gran quantità nelle numerose
fornaci che sorgevano nel quartiere e segnando le porte sempre
grazie ai provvidenziali mattoni. Nel 1918, accompagnò
il quindicenne Sindelar a sostenere un provino per la squadra
del quartiere, l'Hertha Vienna, dove venne selezionato da Febus
Oster. Tre anni dopo, a soli diciotto anni, debuttò in
prima squadra. Subito conquistò i tifosi con il suo gioco
leggero e fantasioso, guadagnandosi l'appellativo con cui sarà
per sempre identificato nel mondo del calcio, der papierene,
cartavelina. Ma al principio della stagione 1923-24, un brutto
incidente al ginocchio, che comportò la lesione del menisco,
sembrò porre fine a soli vent'anni a una promettente
carriera. Le tecniche chirurgiche, infatti, erano ancora molto
rudimentali e non era ancora possibile intervenire sul menisco
con prospettive di recuperare la piena funzionalità del
ginocchio per sostenere lo sforzo agonistico. Più o meno
negli stessi anni, ad esempio, Árpád Weisz aveva
dovuto lasciare i campi da gioco per un incidente al menisco.
Tuttavia, vennero presi contatti con Hans Spitzy, un famoso
chirurgo austriaco, che decise di tentare per la prima volta
l'operazione al menisco su di un calciatore. L'intervento riuscì
perfettamente e Sindelar fu in grado di ritornare a giocare,
sia pure al termine di una lunga e faticosa rieducazione. Da
allora scese sempre in campo con una speciale fascia elastica
a protezione del ginocchio destro, quasi un marchio di fabbrica,
come le cavigliere di Ruud Krol cinquant'anni dopo. E cambiò
il modo di giocare, accentuando ulteriormente la componente
tecnica per evitare accuratamente ogni tipo di contrasto. Velocità
e controllo assoluto del pallone, come in occasione di quello
strabiliante goal segnato alla nazionale italiana il 20 marzo
del 1932 a Vienna, nella partita vinta dagli austriaci per 2-1,
quando raccolse di testa un corner proveniente dalla destra,
saltò un primo difensore, riprese la palla di testa,
saltò un secondo difensore, riprese la palla sempre di
testa e batté inesorabilmente l'incredulo Sclavi. Quel
giorno Sindelar segnò entrambi i goal dell'Austria, vincendo
la sfida con Meazza, autore del goal degli azzurri, che di lì
a poco avrebbero indossato spesso e volentieri una casacca nera,
con l'immancabile fascio littorio.
“Un
autentico capolavoro”
Senza Sindelar, però, l'Hertha retrocesse, precipitando
in una grave crisi economica, che costrinse i dirigenti della
squadra a vendere i giocatori migliori. Nonostante questa operazione,
la società viennese non riuscì mai a riprendersi
dalle difficoltà e si sciolse nel 1930. Sindelar finì
nell'Amateur Vienna, dove debuttò nel campionato 1924-25,
che due anni dopo mutò il nome in Austria Vienna, quando
divenne ufficialmente una squadra di professionisti. L'anno
dopo arrivò anche il debutto in nazionale, in quello
che sarebbe passato alla storia, proprio grazie a Sindelar,
come il Wunderteam, la squadra meravigliosa, che dominò
il calcio europeo degli anni trenta, guidata dal leggendario
direttore tecnico Hugo Meisl, e allenata dall'inglese Jimmy
Hogan. Il calcio di Hogan aveva tratti molto poco britannici,
e per questo non gli furono mai affidati né la nazionale,
né club di primo piano del campionato inglese, basato
com'era su una fittissima rete di passaggi corti, che implicavano
giocatori dotati di una tecnica raffinata. Si può anzi
dire che l'essenza di quello che sarà conosciuto in tutto
il mondo come il calcio danubiano sia stata concepita dal tecnico
del Lancashire. C'era sempre un passaggio ancora da fare prima
di arrivare in porta, o uno spazio ancora da percorrere. Nemmeno
Pep Guardiola, dunque, ha inventato niente.
L'uso di riferirsi alla nazionale austriaca con l'appellativo
di Wunderteam prese piede tra i giornalisti dopo la travolgente
vittoria del 16 maggio 1931 riportata a Vienna contro la Scozia,
battuta per 5-0. Iniziò allora una striscia impressionante
di risultati utili, con quattordici vittorie e due pareggi,
63 goal fatti e solo 20 subìti, inframmezzata soltanto
dalla sconfitta per 4-3 riportata il 7 dicembre 1932 allo Stamford
Bridge di Londra contro la nazionale inglese. Ma, paradossalmente,
quella sconfitta in mezzo a tante vittorie segnò la definitiva
consacrazione dell'Austria e di Sindelar. Gli inglesi, che rifiutavano
ostentatamente di partecipare alle competizioni internazionali
ritenendo il loro calcio troppo superiore a quello che si praticava
nel resto del mondo, si erano sentiti in obbligo di organizzare
un'amichevole con la nazionale più quotata in quel momento
per ribadire la loro supremazia. «Gli austriaci ci hanno
dato una lezione» titolò il “Daily Express”,
«Nessuno all'altezza di Sindelar» fece eco il “Daily
Mail”, mentre il “Daily Herald” sosteneva
che «i nostri ospiti ci hanno insegnato come si gioca».
Sotto di due reti, gli austriaci avevano rimontato, chiudendo
nella loro metà campo per larga parte del secondo tempo
gli inglesi, che si salvarono soltanto grazie alla superlativa
prova del portiere del Birmingham Harry Hibbs. «Il goal
di Sindelar è stato un autentico capolavoro, che nessun
altro, né prima, né dopo di lui, riuscirà
più a fare contro avversari così forti come gli
inglesi. Partendo dalla linea di metà campo dribblò
con l'eleganza del suo inimitabile stile chiunque gli si parasse
davanti, entrando in rete palla al piede». Così
l'arbitro della partita, il belga John Langenus, che aveva arbitrato
a Montevideo il 30 luglio del 1930 la prima finale del campionato
del mondo tra Uruguay e Argentina, descrisse qualche giorno
dopo la rete di Sindelar.
Già nell'immediato dopopartita l'Arsenal di Herbert Chapman,
l'inventore del sistema, offrì quarantamila sterline
per il trasferimento di Sindelar, e nei giorni successivi arrivarono
offerte equivalenti dal Chelsea, dal Tottenham, dal Manchester
e dal Liverpool. Ma Sindelar le rifiutò cortesemente
tutte. Preferiva continuare a vivere in Austria, anzi nella
sua Vienna. Per tutta la vita non si mosse mai dal quartiere
operaio dove era cresciuto, continuando a restare fedele per
tutta la carriera ai colori dell'Austria Vienna, che pure non
era una squadra di vertice assoluto e deve le sue vittorie proprio
alla classe di Sindelar. Un atteggiamento non infrequente nel
calcio del passato, come mostrano i casi di Gigi Riva con il
Cagliari o di Stanley Matthews con il Blackpool. Ma il calcio,
allora, non si valutava soltanto in termini di vittorie; la
componente estetica era non meno rilevante. Famosa la raccomandazione
di Erbstein ai giocatori del grande Torino: la gente che viene
allo stadio si deve soprattutto divertire, una vittoria senza
spettacolo è ben povera cosa. E nei caffè di Vienna
la borghesia, in misura significativa anche ebraica, commentava
le partite dei viola così come commentava gli spettacoli
teatrali o i primi film. E cominciò a chiamare Sindelar
con l'appellativo che gli aveva dato Hugo Meisl: i piedi di
Mozart. Sindelar arrivò l'anno dopo il primo scudetto
della squadra viennese e contribuì in modo determinante
alla vittoria nel campionato del 1925-26, ma dopo di allora
l'Austria Vienna non riuscì più a vincere il titolo
fino al dopoguerra. Più brillanti i risultati in Coppa
d'Austria, vinta cinque volte con Sindelar in squadra, e in
campo internazionale. L'Austria Vienna si aggiudicò,
infatti, per due volte, nel 1933 e nel 1936, la Mitropa Cup,
la prima competizione europea per squadre di club, cui partecipavano
le migliori formazioni dei campionati dei paesi dell'Europa
centrale, Italia compresa. Dopo aver eliminato in semifinale
la Juventus di Carcano, vincendo 3-0 a Vienna con due goal di
Sindelar, e pareggiando 1-1 a Torino, nel 1933 i viennesi batterono
in finale l'Inter di Weisz, vincendo a Vienna per 3 a 1, con
tre goal di Sindelar, dopo aver perso per 2 a 1 all'Arena. Sindelar
vinse ancora il duello con Meazza, autore di due goal, uno a
Milano e uno a Vienna. Nel 1936, invece, dopo aver eliminato
il Bologna di Weisz negli ottavi di finale, batterono in finale
lo Sparta Praga, vincendo per 1-0 a Praga, dopo aver pareggiato
0-0 a Vienna.
La popolarità di Sindelar divenne tale che fu uno dei
primi calciatori, se non il primo, a essere scelto come testimonial
per pubblicizzare articoli quali gli orologi Gruen, gli abiti
Jawo, i cappotti Tlapak e i prodotti caseari delle fattorie
Enden. Grazie a quest'ultima campagna pubblicitaria Sindelar
divenne ampiamente noto anche al di fuori della cerchia degli
appassionati di calcio: Vienna si riempì di enormi cartelloni
su cui campeggiava il suo volto. Grazie a questi contratti,
Sindelar si affrancò definitivamente dalle ristrettezze
economiche che avevano segnato la sua infanzia, che il professionismo
gli aveva permesso di superare in modo ancora provvisorio.
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Il
Wunderteam. Da sinistra a destra - In piedi: Schramseis,
Nausch, Hofmann, Zischek, Sindelar, Braun, Schall, Vogel.
Accosciati: Gschweidl, Hiden, Blum
(Foto: Lothar Rübelt) |
Uno
stato troppo piccolo e debole
Stante il permanente rifiuto delle nazionali anglosassoni
di prendere parte alle competizioni internazionali, l'Austria
si presentava quale netta favorita alla seconda edizione dei
mondiali di calcio, che si sarebbe disputata dal 27 maggio al
10 giugno del 1934 in Italia. Ma il paese stava attraversando
uno dei momenti più turbolenti della sua breve storia.
Nel settembre del 1933, il cancelliere Engelbert Dollfuss, salito
al potere nel maggio del 1932 alla guida di una coalizione imperniata
sul partito di orientamento conservatore dei cristiano-sociali,
aveva sciolto il parlamento e messo fuori legge tutti i partiti
politici, assumendo poteri dittatoriali e imponendo una nuova
costituzione che adottava un modello di stato corporativo –
in cui era ammesso un solo partito, il Fronte patriottico da
lui fondato nel 1933 riunendo tutti i partiti conservatori –
ispirato al regime fascista di Benito Mussolini, che nell'agosto
si era reso garante dell'indipendenza austriaca nel corso di
un vertice tra i due paesi svoltosi a Riccione. L'avvento al
potere di Hitler in Germania, infatti, aveva ulteriormente esasperato
i conflitti e le lacerazioni interne alla Repubblica austriaca,
mutando di segno la prospettiva pangermanica, che ne aveva a
lungo caratterizzato il dibattito interno.
All'indomani della Prima guerra mondiale, il nuovo stato austriaco
era parso subito troppo piccolo e debole economicamente, privato
del retroterra imperiale. Si erano, perciò, formate forti
correnti politiche in tutti gli schieramenti che proponevano
una riunificazione con la Repubblica tedesca, dove pure la prospettiva
era vista favorevolmente, anche all'interno della Spd, nonostante
l'unificazione fosse stata esplicitamente vietata dai trattati
di Saint-Germain-en-Laye, che regolavano le condizioni dello
smembramento dell'Impero austro-ungarico tra le potenze vincitrici
e la Repubblica austriaca. Il vincolo internazionale risultò
alla fine insormontabile, e d'altra parte, dopo le elezioni
dell'ottobre del 1920, la vita politica austriaca si era ben
presto polarizzata, con effetti di latente guerra civile, intorno
allo scontro tra i socialdemocratici – partito di maggioranza
relativa con una forza elettorale che si aggirava intorno al
42%, dotato di una solida struttura organizzativa e di un impianto
ideologico così radicale da impedire la nascita di un
significativo partito comunista, e saldamente radicati a Vienna,
che governarono ininterrottamente con risultati significativi
fino al 1934 – e la coalizione dei partiti nazionalisti
e conservatori, radicati nelle campagne, in modo particolare
il partito cattolico dei cristiano-sociali, che alleandosi riuscirono
a governare, invece, il paese. La crisi economica determinata
dal crollo della borsa di Wall Street nel 1929, e che investì
con particolare virulenza l'Austria, contribuì a esasperare
ulteriormente lo scontro, che venne innervato da nuove tensioni
dopo l'affermazione e il consolidamento del regime nazista in
Germania seguito alla nomina di Hitler a cancelliere il 30 gennaio
1933. Sostenendo massicciamente il partito nazista austriaco
e premendo sugli assetti internazionali man mano che il suo
regime acquisiva stabilità, Hitler reintrodusse il tema
della riunificazione tra Austria e Germania tanto nel dibattito
interno austriaco, quanto nello scenario europeo. Ma era chiaro
a tutti che quella riunificazione somigliava sinistramente a
una annessione, anzi apparve sempre più chiaro che si
trattava solo del primo passo verso una politica estera estremamente
aggressiva, che non si sarebbe certo accontentata di riportare
all'interno dei confini del Reich la nazione tedesca sparsa
in diversi stati.
I socialdemocratici, fino ad allora favorevoli alla riunificazione,
come il partito tedesco, nel quadro delle comuni istituzioni
liberaldemocratiche e federali, divennero, naturalmente, fieramente
ostili all'Anschluss. Ed anche Dollfuss capì che
la prospettiva di annessione avrebbe tolto all'Austria ogni
tipo di autonomia e di spazio di manovra. Perciò cercò
la protezione italiana, che risultò decisiva anche nel
sostenere l'involuzione autoritaria del regime austriaco. Si
arrivò, quindi, allo scontro finale. Le reazioni della
Spö ai provvedimenti del cancelliere del settembre del
1933 diventarono il pretesto per aggredire i quartieri operai
di Vienna, dove era nato e abitava anche Sindelar, vanto dell'amministrazione
socialdemocratica. Il 12 febbraio 1934 una forza di diciassettemila
uomini composta da reparti dell'esercito, della polizia e delle
milizie fasciste della Heimwehr attaccò a colpi di artiglieria
le case del quartiere. In quattro giorni di battaglia vennero
uccise mille persone, anche donne e bambini, e ferite circa
quattromila, nonostante la resistenza opposta dallo Schutzbund,
la milizia armata del partito.
L'instabilità politica e la grave crisi economica misero
in forse la partecipazione ai mondiali della nazionale di calcio.
Il campionato si era svolto tra grandi difficoltà, finendo
con largo ritardo e molti calciatori non furono in grado di
rispondere alla convocazione. La Federazione era ormai ridotta
alla bancarotta e riuscì ad allestire una spedizione
di fortuna, rinunciando a molti componenti della staff di Meisl.
Ciononostante, il Wunderteam, dopo aver eliminato la
Francia negli ottavi di finale e l'Ungheria di Sárosi
nei quarti, arrivò in semifinale dove si trovò
a dover affrontare i padroni di casa dell'Italia. L'amichevole
svoltasi a Torino nel febbraio si era risolta con la chiara
vittoria dell'Austria, pur priva di Sindelar, per 4 a 2. Ma
il regime aveva investito molto sull'evento. Già l'eliminazione
della Spagna nei quarti di finale aveva sollevato più
di un dubbio. La partita era terminata 1 a 1 dopo i tempi supplementari.
Ferrari aveva pareggiato allo scadere, ribattendo in rete la
palla persa da Zamora, autore di una prestazione all'altezza
della sua straordinaria fama, caricato irregolarmente da Schiavio.
L'arbitro convalidò ugualmente. La partita venne rigiocata
il giorno dopo, come imponeva il regolamento di allora, ma misteriosamente
Zamora non venne schierato tra i pali. È quasi certo
che intervenne Mussolini in persona per convincere gli spagnoli
a rinunciare al grande portiere. L'Italia vinse con un goal,
anch'esso dubbio, di Meazza, che si appoggiò platealmente
sulle spalle di Guaita. Al rientro in patria, lo svizzero Mercet,
arbitro della seconda partita, venne sospeso dalla federazione
elvetica per l'evidente parzialità dell'arbitraggio,
che aveva sollevato critiche in tutta Europa e gettato discredito
sul calcio svizzero nel suo complesso.
La semifinale venne disputata il 3 giugno del 1934 allo stadio
di San Siro. Su un terreno fangoso, la pesante fisicità
degli azzurri, tollerata dall'arbitro, lo svedese Eklind, si
impose sulla tecnica degli austriaci. Controversa anche in questo
caso l'azione del goal che risolse la partita. Al 19' del primo
tempo Meazza carica irregolarmente il portiere austriaco Platzer,
che perde la palla; raccoglie Guaita, probabilmente in fuorigioco,
e segna da due passi. Sindelar era stato marcato duramente da
Luisito Monti, il centr'half della Juventus di Carcano,
che non aveva rinunciato a nessun mezzo pur di fermare il campione
austriaco, che al termine della partita dovrà ricorrere
alle cure dei medici di una clinica ortopedica di Milano. La
rivalità tra i due caratterizzò il calcio degli
anni trenta, come ebbe a ricordare Vittorio Pozzo nel necrologio
che scrisse in morte di Sindelar su “Stampa sera“
il 26 gennaio 1939. Tanto era tecnico ed elegante l'uno, quanto
era potente e grezzo l'altro, che non riusciva a sopportare
i fraseggi e gli svolazzi dell'austriaco. Nel corso della semifinale
della Mitropa Cup persa dalla Juventus a Vienna, innervosito
oltre misura da un avversario quel pomeriggio anche più
imprendibile del solito, Monti aveva finito per farsi espellere
dopo un brutto fallo a gioco fermo. La domenica successiva,
a Roma nello Stadio nazionale del Partito nazionale fascista,
che sorgeva nell'area ora occupata dallo stadio Flaminio, l'Italia
vinse la finale contro la Cecoslovacchia per 2 a 1, con un goal
di Schiavio ai supplementari. Il giovedì gli austriaci,
senza Sindelar e delusi per non aver avuto la possibilità
di battersi alla pari contro i padroni di casa, avevano perso
la finale per il terzo e quarto posto per 3 a 1 contro la Germania.
L'Italia era senz'altro una grande squadra, piena di campioni,
ma il gioco era evidentemente truccato: il regime voleva una
vittoria di prestigio e la ottenne utilizzando qualsiasi mezzo.
Negli anni seguenti le partite tra le due nazionali divennero
scontri carichi di tensione, tanto che tre anni dopo a Vienna
la partita valida per la Coppa Internazionale venne interrotta
al 74' dall'arbitro, lo svedese Olsson, che non riusciva più
a gestire il gioco eccessivamente violento praticato in campo,
con colpi proibiti che volavano da entrambe le parti, mentre
l'Austria si trovava in vantaggio per 2 a 0. Curiosamente quell'incontro
divide ancora oggi le due federazioni: nelle statistiche ufficiali
di quella austriaca la partita è conteggiata come vinta,
in quelle italiane come non disputata.
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Sindelar
in una campagna pubblicitaria |
Una
strada ormai segnata
L'involuzione autoritaria impressa da Dollfuss non era riuscita
a stabilizzare la situazione all'interno dello stato austriaco.
Anzi, la soppressione delle libertà politiche e l'estromissione
del partito socialdemocratico dall'arena parlamentare favorirono
di fatto l'affermazione senza nessuna mediazione della questione
dell'Anschluss, nei termini posti da Hitler, al centro
della vita politica austriaca. Il 25 luglio 1934, il partito
nazionalsocialista austriaco, attivamente spalleggiato dai tedeschi,
tentò un colpo di stato, assassinando il cancelliere
Dollfuss e insediando un governo nazista, chiaro prologo alla
riunificazione. Mussolini reagì mobilitando l'esercito,
che presidiò in forze i confini del Brennero e della
Carinzia. Temeva molto di dover condividere i confini con la
Germania nazista, tanto più che si sarebbe certamente
subito creata una questione altoatesina. L'affinità ideologica
non aveva ancora fatto premio sulle logiche geopolitiche; e,
inoltre, Mussolini era ancora convinto che l'Italia potesse
giocare un ruolo di grande potenza sullo scenario internazionale.
Sappiamo tutti come è finita. L'appoggio italiano permise
al Fronte patriottico di riprendere il controllo del governo,
che venne affidato a von Schuschnigg, già ministro della
giustizia nel primo governo Dollfuss, che represse sanguinosamente
i disordini. A quel punto Hitler, che non aveva ancora consolidato
compiutamente il suo potere all'interno della Germania e che
non si era ancora dotato di una sufficiente forza militare,
si trovò costretto a condannare pubblicamente l'assassinio
di Dollfuss, dichiarandosene completamente estraneo.
Ma la strada era ormai segnata. Mussolini si sfilò rapidamente,
man mano che il regime di Hitler conquistava il centro della
scena internazionale, pensando prudentemente di entrare nella
sua orbita e von Schuschnigg non poté far altro che consegnarsi
all'abbraccio mortale della Germania nazista. Il 12 febbraio
1938, nel corso di un vertice a Berchtesgaden organizzato con
qualche margine di ambiguità dall'ambasciatore tedesco
a Vienna von Papen, firmò un accordo che prevedeva l'abrogazione
della norma che aveva messo fuori legge il partito nazionalsocialista
austriaco, la liberazione di tutti i suoi militanti ancora in
prigione, la nomina dei filo-nazisti Seyss-Inquart a capo del
ministero dell'Interno, Glaise-Horstenau della Guerra, che avrebbe
dovuto provvedere a integrare i due eserciti, e Fischböck
delle Finanze, che avrebbe dovuto provvedere all'inserimento
del sistema economico austriaco in quello tedesco. Il 9 marzo
il cancelliere tentò una mossa disperata, indicendo per
la domenica successiva, 13 marzo, un plebiscito, chiedendo alla
popolazione di esprimersi con un sì o con un no sull'annessione
alla Germania, annessione che giorno per giorno stava avvenendo
nei fatti, con la regia di Seyss-Inquart. Chiese anche l'appoggio
dei socialdemocratici, liberando dalle prigioni i militanti
e permettendo la ricostituzione legale del partito. E lo ottenne
in nome dell'opposizione frontale al nazismo, che in quel momento
coincideva con la salvaguardia dell'indipendenza austriaca.
Ma questa svolta politica arrivava troppo tardi. Compiuta qualche
anno prima, avrebbe sicuramente impedito la deriva nazista,
ma il terreno d'intesa avrebbero dovuto essere le istituzioni
liberali. Ma von Schuschnigg era il tipico esponente delle classi
dirigenti conservatrici dell'Europa tra le due guerre, che pensavano
che la soluzione del problema storico dell'integrazione delle
classi popolari nella nascente società di massa doveva
passare attraverso la costruzione di regimi autoritari a partito
unico, nutrendo profonda diffidenza e autentico disprezzo per
i modelli democratici occidentali. Hitler reagì ordinando
movimenti di truppe alla frontiera, comunicando contemporaneamente
al cancelliere, tramite Seyss-Inquart, che il plebiscito doveva
essere assolutamente annullato. Von Schuschnigg si piegò,
avendo constatato che ormai la polizia e l'esercito erano stati
ampiamente infiltrati dai nazisti. Ottenuto questo successo,
Hitler rilanciò subito, secondo quella che era una sua
tipica caratteristica, chiedendo le dimissioni del cancelliere
e la nomina al suo posto di Seyss-Inquart. Questi avrebbe dovuto
inviare un telegramma a Berlino chiedendo l'intervento tedesco
per sedare i disordini che minacciavano la sicurezza della capitale.
Disordini, inutile dire, inesistenti. Von Schuschnigg si piegò
nuovamente, ma il presidente della repubblica Miklas si rifiutò
di nominare Seyss-Inquart, che assunse comunque il potere a
capo di un governo provvisorio e chiese l'intervento tedesco,
mentre con un ultimo sussulto di dignità von Schuschnigg
tenne un nobile discorso alla radio, in cui rendeva nota la
natura della minaccia tedesca, smascherando la menzogna con
cui Hitler aveva cercato di giustificare il suo intervento.
Così il 12 marzo le truppe tedesche entrarono a Vienna.
L'Austria venne cancellata dalle carte geografiche, diventando
il giorno dopo l'Ostmark. Qualche mese dopo, anche questo
barlume di identità venne dissolto e la nuova provincia
venne smembrata in distretti amministrativi, ricalcati sui confini
dei Länder storici. Mussolini fece sapere che l'Austria
gli era «indifferente», mentre il premier inglese
Chamberlain dichiarò alla Camera dei Comuni che una Germania
più soddisfatta nella sua naturale sfera d'influenza
sarebbe stata meno aggressiva nei confronti degli interessi
fondamentali dell'Inghilterra e della Francia. Aggiungendo che
la Gran Bretagna non avrebbe garantito l'indipendenza della
Cecoslovacchia. Le porte per il patto di Monaco erano aperte.
Poi sarebbe toccato alla Polonia.
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12
Marzo 1938 - La prima pagina del Los Angeles Times |
L'ultima
volta della nazionale austriaca
Tra le conseguenze dell'Anschluss ci fu anche lo scioglimento
della federazione di calcio austriaca, che venne inglobata in
quella tedesca. Il campionato austriaco venne soppresso e annesso
a quello tedesco, attraverso la creazione di un girone denominato
dell'Ostmark, che si disputava all'italiana con partite di andata
e ritorno, la cui vincitrice era ammessa al campionato nazionale
tedesco. L'unica squadra austriaca a fregiarsi del titolo tedesco
fu nel campionato 1940-41 il Rapid Vienna, che detiene, così,
il singolare record di aver vinto il campionato di due nazioni
differenti. Val forse la pena ricordare che tra il 1934 e il
1942 lo Schalke 04, la squadra per cui faceva il tifo Hitler,
vinse sei dei suoi sette scudetti. Anche nelle squadre austriache
venne proibito il professionismo, che i nazisti consideravano
un segno di decadenza dello sport, parte della congiura materialista
ebraica tesa a fiaccare lo spirito ariano; ma solo dopo i mondiali
del 1938, per non compromettere l'impegno dei calciatori austriaci
selezionati per la nazionale.
E, naturalmente, venne sciolta anche la nazionale austriaca.
Terminò così l'epopea del Wunderteam, che
non ebbe la possibilità di sigillare con la vittoria
ai mondiali del 1938 la sua straordinaria parabola. Il 5 ottobre
1937, battendo a Vienna la Lettonia per 2 a 1 l'Austria si era
assicurata la qualificazione alla fase finale che si sarebbe
disputata in Francia dal 4 al 19 giugno 1938. Ma il 5 giugno,
allo Stade de Gerland di Lione la Svezia non trovò nessun
avversario, accedendo automaticamente ai quarti di finale.
Ma prima che fosse posto mano allo scioglimento definitivo,
i gerarchi nazisti pensarono di poter impiegare utilmente per
un'ultima volta la nazionale di calcio austriaca. Hitler aveva
deciso di sottoporre l'Anschluss al giudizio popolare,
soprattutto per fronteggiare le critiche dell'opinione pubblica
internazionale, che pure disprezzava, ma non era ancora in grado
di ignorare, fissando per il 10 aprile un plebiscito su tutto
il territorio nazionale. Così, il ministro della propaganda
Goebbels, che significativamente aveva lo sport tra le sue competenze,
si diede da fare per organizzare al Prater di Vienna una partita
di calcio amichevole tra le nazionali dell'Austria e della Germania,
anzi tra la selezione dell'Ostmark e la selezione dell'Altreich,
per suggellare l'amicizia tra i due popoli. Hugo Meisl era morto
l'anno prima, il 17 febbraio 1937, e la responsabilità
della scelta di accettare la sfida venne delegata da dirigenti
e compagni a Sindelar. Molti calciatori spingevano per giocare,
perché sarebbe stato il selezionatore della nazionale
tedesca Sepp Herberger a decidere chi di loro sarebbe stato
convocato in nazionale per i mondiali francesi. Sindelar era
d'accordo. Anche se aveva in mente qualcos'altro.
Le due squadre avevano la stessa divisa ufficiale, maglia bianca
e pantaloncini neri, ma allora toccava alla squadra di casa
indossare la seconda divisa, per dovere di ospitalità.
Così il pomeriggio di domenica 3 aprile 1938 gli austriaci
scesero in campo agli ordini dell'arbitro tedesco Alfred Birlem
con una fiammante maglia rossa, che abbinata ai pantaloncini
bianchi e ai calzettoni rossi riproduceva la bandiera nazionale.
In avvio i tedeschi tentarono di imporre la loro potenza atletica,
ma ben presto gli austriaci presero in mano le redini del gioco.
Iniziò allora uno sconcertante balletto dalle parti del
portiere tedesco Jakob: agli ordini di Sindelar, gli austriaci,
dopo aver saltato i difensori avversari, rinunciavano ostentatamente
a segnare, volgendo sguardi di sfida verso la tribuna delle
autorità, dove stava seduto von Tschammer und Osten,
nominato da Hitler Commissario del Reich per gli sport, dopo
aver guidato l'organizzazione delle Olimpiadi di Berlino. I
tifosi austriaci ci misero poco a capire cosa stava succedendo:
il Wunderteam stava irridendo i tedeschi, che con la
forza stavano sovvertendo i valori sportivi, cancellando i migliori.
Finché, al 17' del secondo tempo Sindelar lasciò
partire un tiro “alla Sindelar“, infilando la palla
nell'angolino della porta difesa da Jakob. Quindi inscenò
un per lui del tutto inedito balletto di gioia sotto la tribuna
dei gerarchi, tra le risa divertite del pubblico. Qualche minuto
dopo, il terzino Schasti Sesta raddoppiò con una sassata
da cinquanta metri. Lo stadio si riempì di bandiere austriache
saltate fuori da chissà dove, la gente era esaltata e
per un momento credette di dimenticare cosa stava davvero succedendo.
La sconfitta urtò non poco i tedeschi, tuttavia il senso
dell'operazione era contenuto nella cerimonia finale. Le due
squadre sfilarono insieme, come previsto dal copione di Leni
Riefenstahl che stava riprendendo la partita; quindi si misero
sull'attenti davanti alle autorità e al comando di von
Tschammer und Osten scattarono nel saluto nazista. Due calciatori,
però rimasero impassibili, con le braccia ostentatamente
lungo i fianchi: Matthias Sindelar e il suo grande amico Schasti
Sesta, il cui padre era stato arrestato insieme ai suoi compagni
socialdemocratici nel 1934. Von Tschammer und Osten se ne andò
infuriato, Leni Riefenstahl dovette tagliare qualche metro di
pellicola, mentre la notizia si sparse per Vienna, nonostante
la censura della radiocronaca. Per una settimana, Sindelar divenne
il simbolo dell'Austria che non voleva morire. Ma la realtà
non avrebbe tardato a reclamare le sue ragioni. Il 10 aprile
i sì all'Anschluss furono il 99,08% nella Grande
Germania nel suo complesso e il 99,75% in Austria.
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12 Marzo 1938 - Anschluss / annessione
dell'Austria. Nella foto l'esercito tedesco a Salisburgo |
Un
orgoglioso rifiuto
La mattina dopo Sepp Herberger si recò a casa di Sindelar
per proporgli la convocazione in Nazionale. Herberger era uomo
di sport – ma si può essere solo uomini di sport
quando il mondo intorno sta bruciando? – e aveva bisogno
del centravanti austriaco per vincere i mondiali. La sua era
una buona squadra, atleticamente preparata, ma povera di tecnica
e di fantasia. Il rifiuto opposto da Sindelar fu netto. Addusse
come giustificazione i ripetuti problemi al ginocchio e l'età
che ormai gli rendeva difficile recuperare in una competizione
serrata come il campionato mondiale, dove si giocava ogni due
o tre giorni. Ma a nessuno, tantomeno ai tedeschi, sfuggì
che i motivi del rifiuto erano ben altri. In un intervista rilasciata
nel dopoguerra, Herberger – che attraversò indenne
il nazismo, allenando ininterrottamente la nazionale tedesca
fino al 1964, vincendo clamorosamente i mondiali del 1954 battendo
in finale a Berna la grande Ungheria di Puskás –
riferì, ancora incredulo dal suo punto di vista, che
Sindelar decise secondo criteri estranei a valutazioni sportive.
Non riusciva a capire come un calciatore poteva rinunciare a
diventare campione del mondo, raggiungendo la giusta consacrazione
di una carriera straordinaria, per questioni che non avevano
niente a che fare con il calcio e con lo sport. Per inciso,
la spedizione francese della squadra tedesca fu un disastro.
Accolti da urla e fischi fin dal loro arrivo in albergo, i tedeschi
vennero eliminati al primo turno dalla Svizzera di Karl Rappan,
l'inventore del verrou, il nonno del catenaccio. Andati
in vantaggio al 29', i tedeschi erano stati raggiunti allo scadere
del primo tempo, senza più riuscire a superare la difesa
elvetica. La ripetizione della partita avvenne sempre al Parco
dei Principi di Parigi cinque giorni dopo, esaurite tutte le
partite degli ottavi di finale. Al momento del saluto nazista
della squadra tedesca volò in campo di tutto, così
come succederà prima delle partite degli azzurri al momento
del saluto fascista. I tedeschi si portarono in vantaggio per
due a zero, grazie a un'autorete, al 22' del primo tempo. Ma
gli svizzeri, prima accorciarono le distanze, ancora allo scadere
del primo tempo, quindi raggiunsero nuovamente il pareggio al
64', schiantando, infine, gli avversari grazie a una doppietta
del centravanti del Ginevra Servette André Abegglen.
4 a 2 tra le urla di scherno del pubblico. Due anni dopo, i
tedeschi sarebbero tornati a Parigi, ma questa volta ricacciarli
sarebbe costato sangue e sofferenze atroci.
Matthias Sindelar venne trovato morto nel suo appartamento accanto
alla sua compagna, l'ebrea italiana Camilla Castagnola, la mattina
del 23 gennaio 1939. Avrebbe compiuto trentasei anni pochi giorni
dopo. Dei suoi ultimi mesi di vita si sa molto poco. Le uniche
certezze riguardano la sua carriera sportiva, le cui informazioni
si possono ricavare dallo spoglio dei quotidiani e dalle statistiche
ufficiali della sua squadra e della federazione austriaca. Sindelar
partecipò con l'Austria Vienna – per qualche mese
Sportclub Ostmark, fino a che le proteste dei tifosi imposero
nel luglio del 1938 il ritorno al nome originale – al
girone austriaco del campionato tedesco, giocando l'ultima partita
il giorno di Santo Stefano a Berlino contro l'Hertha, segnando
il goal del 2 a 2 finale. Il suo ultimo goal. Per il resto si
rincorrono troppe versioni difficilmente verificabili, perlopiù
basate su testimonianze raccolte, anche a molta distanza dai
fatti, da giornalisti sportivi, poco sensibili alle regole storiografiche
sull'uso delle fonti, o affidate a ricostruzioni che hanno subìto
troppi passaggi per essere pienamente attendibili.
Così, l'identità di Camilla e le circostanze in
cui Matthias la conobbe – suggestiva e delicata la versione
che tratteggia Nello Governato nel suo La partita dell'addio,
ma per sua stessa ammissione basata su ipotesi e adattata alla
costruzione narrativa del suo romanzo – sfuggono a una
collocazione precisa. Allo stesso modo è molto verosimile
che la Gestapo avesse aperto un fascicolo su di lui e lo stesse
seguendo, così come le sue simpatie socialdemocratiche
– tutta la sua biografia sembra indicare questa direzione
– sono quasi certe, ma anche in questi casi nessuno ha
prodotto un riscontro definitivo. È, invece, quasi sicuro
che Sindelar non fosse ebreo, mentre è solo probabile
che la voce che lo fosse venne fatta circolare ad arte dalla
Gestapo.
Ma, in fondo, importa poco. Sarebbe certamente opportuno che
qualcuno cercasse con cognizione di causa di fissare con precisione
quanto avvenuto per chiarire fino in fondo i contorni di una
vicenda così significativa. Ma questo lavoro, pur doveroso
e indispensabile, non aggiungerebbe nulla alla grandezza del
gesto di Sindelar. Per chi vuole vedere, il suo significato
è di una eloquenza evidente.
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La tomba di Matthias Sindelar |
Lo
spirito dei tempi
Sappiamo, però, per certo che Sindelar difese pubblicamente
Michl Schwarz, quando venne allontanato dalla presidenza dell'Austria
Vienna. Tra i primi provvedimenti presi riguardo al calcio austriaco
c'era anche – e come poteva mancare – l'allontanamento
di tutti i dirigenti e i calciatori ritenuti ebrei. Al termine
di una partita dell'Austria Vienna, un gruppetto di militanti
del partito nazista si era avvicinato mentre Schwarz e Sindelar
stavano conversando sulla porta degli spogliatoi, urlando minacciosamente
che era proibito parlare e salutare «un porco e ricco
ebreo». Sindelar – su questo, invece, abbiamo molte
concordanti e inoppugnabili testimonianze – rispose: «Ogni
volta che avrò la fortuna di incontrarla, signor presidente,
le dirò sempre buongiorno», chiudendo la questione.
Schwarz riuscì, poi, a fuggire a Zurigo e al termine
della guerra riassunse la presidenza dell'Austria Vienna, che
mantenne fino al 1955. Morirà novantenne nel 1968.
Anche le circostanze in cui avvenne la morte di Sindelar restano
avvolte nel mistero. La versione ufficiale parla di avvelenamento
da monossido di carbonio, dovuto al cattivo funzionamento della
stufa che riscaldava l'appartamento. Un incidente molto comune
all'epoca, specie nel quartiere dove era rimasto a vivere Sindelar.
Camilla gli sopravvisse tre giorni, senza mai riprendere conoscenza.
Ma restano molte zone d'ombra. Intanto, i corpi vennero ritrovati
dalla Gestapo, che gestì tutta l'operazione, fatto del
tutto inusuale ed è proprio difficile pensare a un caso
fortuito. Non venne ordinata l'autopsia, né sembra sia
stata ordinata un'inchiesta, né venne mai trovato l'eventuale
fascicolo relativo, nemmeno nel dopoguerra. D'altra parte nel
caos delle convulse fasi della liberazione molti documenti andarono
perduti; inoltre i sovietici restarono a Vienna fino al 1955,
quando l'Austria venne neutralizzata e restituita alla propria
sovranità, e le ragioni della guerra fredda si sovrapposero
alle ragioni della storia degli anni trenta. Troppe cose non
erano funzionali ai nuovi scenari. L'unica autorità esterna
che la Gestapo ammise nell'appartamento di Sindelar fu una squadra
di vigili del fuoco, che riferirono di non avere sentito odore
di gas, né di aver riscontrato difetti di funzionamento
della stufa, ma non furono autorizzati a stendere un referto.
E da ultimo, i corpi di Matthias e Camilla vennero immediatamente
cremati dopo le esequie, impedendo per sempre qualsiasi riscontro.
La notizia si sparse subito per la città. Nessuno ebbe
dubbi sul fatto che Sindelar fosse stato assassinato dalla Gestapo,
ed è difficile pensare il contrario. Anche la tesi del
suicidio, che pure ancora oggi è molto accreditata, sia
nella versione dell'uomo depresso e sconfitto che ha visto crollare
il suo mondo, politico e sportivo, sia nella versione dell'eroe
romantico che compie l'ultimo gesto di rivolta, sembra avere
poca consistenza. Nell'un caso e nell'altro sembra mal combinarsi
con la biografia di Sindelar e con il suo modo di essere.
L'amministrazione nazista di Vienna cercò di imporre
funerali in forma strettamente privata, ma ben presto arrivarono
alla sede dell'Austria Vienna oltre quindicimila telegrammi,
che resero impossibile impedire lo svolgimento di una cerimonia
pubblica. Qualche giorno dopo, oltre quarantamila viennesi accompagnarono
il feretro di Matthias allo Zentralfriedhof, il cimitero centrale
di Vienna. Da allora ogni 23 gennaio sulla sua tomba continua
a raccogliersi una piccola folla di tifosi e gente comune, anche
dopo che i suoi compagni e quelli che l'hanno conosciuto se
ne sono andati, per ricordare il grande campione che non si
dimenticò di essere un uomo.
Sindelar, però, non è diventato un simbolo, perché
non rispecchiava lo spirito dei tempi. Nell'Europa tra le due
guerre – e credo ancora oggi – la tranquilla determinazione
di chi pensa di dover rispondere prima di tutto a se stesso,
alla propria struttura morale, al proprio modo di essere quali
che siano le condizioni che regolano la vita pubblica, non era
per nulla un atteggiamento diffuso. E comportamenti come quelli
di Sindelar inquietano perché ricordano a tutti che non
esistono strade obbligate, che è sempre possibile reagire
alla prepotenza e all'ignoranza. Né la retorica della
lotta resistenziale vale a riscattare le viltà e i piccoli
interessi che permisero l'ascesa di Hitler. I vibranti discorsi
di Winston Churchill alla Camera dei Comuni – cui pure
ogni europeo dovrà per sempre eterna riconoscenza –
non riusciranno mai a far dimenticare l'ignavia di una intera
generazione e a cancellare il senso di desolazione che ci stringe
lo stomaco quando rileggiamo i discorsi che nella stessa aula
pronunciò Neville Chamberlain.
Ma c'è dell'altro. Matthias Sindelar, pur essendo stato
uno dei più grandi calciatori di tutti i tempi, stenta
a essere ricordato come tale. Ha infranto il dogma che il calcio
è un mondo che basta a se stesso, che chi ci si dedica
deve dimenticarsi di quello che succede intorno a lui. Il fastidio
per chi non ha pensato solo a segnare e giocare è così
grande da aver rimosso i valori assoluti che il suo calcio ha
rappresentato. Per cui, se vi capiterà di vedere su qualche
campetto di periferia un ragazzino talentuoso infilare la palla
all'incrocio dei pali con un morbido tiro a rientrare, vi prego,
non ditegli più «tiri come Maradona», ma
«tiri come Sindelar». Oltretutto farete la figura
di chi il calcio lo conosce davvero. E augurategli di diventare
un uomo retto e buono come lui.
Giovanni A. Cerutti
Per saperne
di più
La figura di Matthias
Sindelar è stata riportata al centro dell'attenzione
in Italia dal bel romanzo di Nello Governato La partita dell'addio.
Matthias Sindelar, il campione che non si piegò a Hitler,
Mondadori, Milano 2007.
Governato ha scelto di colmare le lacune sulla biografia di
Sindelar attraverso la forma del romanzo, scelta che lo ha anche
indotto ad adattare alcune circostanze alla costruzione dell'impianto
narrativo. Il racconto è comunque coerente con i fatti
storici e ha il suo punto di forza nella ricostruzione dall'interno
dei meccanismi che regolano il mondo del calcio e nel disegno
della psicologia di Sindelar. Governato è stato, infatti,
un centrocampista di ottimo livello, a lungo colonna della Lazio.
Informazioni precise
sulla carriera di Sindelar si trovano sulle pagine dedicate
al centravanti austriaco e a Hugo Meisl dal sito ufficiale della
Fifa, Fifa.com. Un accenno alla storia di Sindelar si trova
anche nel libro di Simon Kuper Ajax, The Dutch, The War,
Orion, London 2003.
In occasione degli
europei disputatisi in Austria e in Svizzera nel 2008 sono stati
pubblicati numerosi articoli su Sindelar di valore diseguale.
Tra quelli che ho consultato segnalo quello di Jonathan Wilson,
Sindelar: the ballad of the tragic hero, pubblicato su
“The Guardian“ il 3 aprile 2007, quello di Robin
Stummer, The striker who snubbed Hitler, pubblicato sul
“New Statesman“ il 12 giugno 2008 e quello di Simon
Kuper Political Football: Matthias Sindelar, pubblicato
su “Channel 4 News“ il 16 novembre 2007.
Per la sintetica
ricostruzione delle vicende dell'Anschluss e dell'Austria
degli anni venti e trenta, ho fatto riferimento ai classici
lavori di William L. Shirer, Storia del Terzo Reich,
Einaudi, Torino 1962 (ed. or. The Rise and Fall of the Third
Reich, Simon & Schuster, New York 1960), di Helmut Konrad
Stadler, Austria, in Il fascismo in Europa, a
cura di S. J. Woolf, Laterza, Roma-Bari 1968 e di Massimo L.
Salvadori, Storia dell'età contemporanea dalla restaurazione
all'eurocomunismo, Loescher, Torino 1977.
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