Ambiente, salute, lavoro
Smettiamo di produrre morte!
di Antonio Senta
C'è produzione e produzione, e quindi “c'è lavoro e lavoro“ dice uno slogan dei valsusini, ripreso da diversi ecologisti e movimenti di base in tutta Italia. E anche a Taranto...
Chi ha avuto l'occasione di leggere
il rapporto del ministero della salute sull'inquinamento in
Italia, reso noto nell'autunno del 2012 da alcuni siti di controinformazione,
non credo sia rimasto indifferente1.
Il rapporto elenca una serie di luoghi in cui l'inquinamento
è causa diretta di malattia e di morte. Sono state citate
solo le situazioni più note, su cui in molti casi ci
sono indagini o sentenze da parte della magistratura. Così
è probabilmente da intendersi per difetto il dato di
circa sei milioni di abitanti del “bel paese” a
rischio di malattie mortali, dagli onnipresenti tumori alle
malattie respiratorie, da quelle circolatorie a quelle neurologiche
e renali.
A me il rapporto, per quanto ministeriale e sicuramente limitato
e reticente, ha colpito davvero. Non che la questione dell'inquinamento
in Italia e delle sue conseguenze mortali sulla nostra salute
non mi fosse chiara, almeno a grandi linee. Lo sappiamo tutti:
“il cancro” è malattia diffusissima e, credo,
molti di coloro che stanno leggendo queste righe hanno avuto
a che fare, direttamente o indirettamente, con questa patologia.
Nell'Europa a 27 stati i tumori oggi sono la principale causa
di morte, insieme alle malattie del sistema circolatorio: in
media 169 decessi per 100.000 abitanti (dati del 2009), con
picchi in paesi quali l'Ungheria, la Polonia, la Slovenia, la
Repubblica Ceca, la Slovacchia, la Lettonia e la Lituania, non
a caso tutti a ridosso della centrale di Chernobyl. In Italia
in particolare l'incidenza dei tumori sulla popolazione è
aumentata di quasi il 40% in 30 anni, dal 1970 al 2001.
Accanto alla questione degli incidenti di Chernobyl, e ora di
Fukushima, cause acclarate – nonostante i silenzi, le
omertà dei governi e dei baroni del nucleare –
dell'aumento di patologie tumorali, l'elenco parziale fornito
dal ministero della salute tira in ballo discariche, industrie
chimiche e della ceramica, petrolchimici, miniere e industrie
di amianto, industrie siderurgiche, impianti di rigenerazione
di oli esausti, centrali a carbone e gas, raffinerie e aree
portuali, centrali elettriche, inceneritori. Le cause sono molte
altre, basti pensare che il ministero non cita l'inquinamento
da CO2 e quello elettromagnetico, la questione della contaminazione
delle acque, né le trivellazioni in mare, né tutto
ciò che in termini di salute comporta la presenza di
basi militari e poligoni.
Seppur
con profonde differenze di classe
Al netto delle omissioni e dei silenzi, è evidente tuttavia
che siamo di fronte a un problema dalle dimensioni gigantesche.
L'inquinamento e la devastazione dei territori precludono infatti
la possibilità materiale di vivere una vita dignitosa
e si affiancano così alla causa di “malessere”
per eccellenza, cioè la questione sociale per cui oggi
il 99% della popolazione è costretto a subire il dominio
del rimanente 1%, per seguire il felice slogan del movimento
Occupy. Come già avevano compreso i movimenti ecologisti
fin dagli anni settanta accanto e intrecciata al salario, alle
condizioni e ai ritmi di lavoro, al diritto a un alloggio e
ai servizi di base, sta la salubrità del luogo di lavoro
e dei territori dove si vive, in nome del diritto a non ammalarsi
di inquinamento. Quest'ultimo colpisce in misura maggiore e
più grave gli strati più bassi della popolazione,
quelli che vivono nei quartieri a ridosso delle produzioni di
morte, come nel caso del rione Tamburi a Taranto, quelli che
non possono permettersi cure mediche, in una società
in cui la terapia è sempre meno un diritto ed è
sempre più un lusso. E però, seppur con profonde
differenze di classe, l'inquinamento colpisce tutti: anche il
ricco industriale con la villa in collina a una trentina di
chilometri dalla propria fabbrichetta chimica rischia di ammalarsi
di inquinamento, ucciso dalla propria produzione di morte.
Si capisce quindi che la posta in gioco è enorme, tremenda
e concerne la vita stessa. Non so esattamente perché
ma trattare di questi temi non mi sembra sia particolarmente
comune. Credo che la ragione stia nella sensazione di impotenza
di fronte a tutto ciò, combinata con una certa dose di
fatalismo. Mi è capitato diverse volte, di fronte all'evidenza
dei dati cui si accennava, di sentirmi ripetere che «sì,
l'inquinamento è un grosso problema, ma oggi esistono
le cure e soprattutto non bisogna dimenticare che una volta
si moriva di fame». Molti accaniti difensori di questo
sistema sembrano sostanzialmente sostenere che non ci sia alternativa
tra la fame (di una volta) e il tumore (di oggi). Quest'ultimo
sarebbe cioè un inconveniente lungo il cammino del progresso,
superabile grazie agli avanzamenti della scienza. Per avvalorare
la propria tesi utilizzano un dato a loro dire inoppugnabile:
l'aumento della vita media nelle società occidentali.
Al di là del fatto di chiedersi che vita sia quella di
chi è costretto alla medicalizzazione continua tra cure,
medicinali e terapie, c'è un'altra obiezione: in Europa
l'aumento dell'aspettativa di vita alla nascita dal 1960 a oggi
è aumentata di 8 anni. Secondo alcune previsioni aumenterà
di altri 5 anni entro il 2050. Ciò significa che il picco
di crescita c'è già stato e che nei prossimi anni
si regredirà e che, quindi, l'idea determinista di un
aumento progressivo dell'età media non posa su basi particolarmente
salde. Se poi associamo ciò alla crescente incidenza
dei tumori, si comprende come una delle cause del rallentamento
delle aspettative di vita nei prossimi anni sia proprio l'inquinamento.
Lavoro,
ma non “a tutti i costi”
Il diritto alla qualità della vita, a condizioni ambientali
dignitose, è stata posta dai movimenti ecologisti e di
difesa della salute già da decenni. La questione dell'Ilva
di Taranto oggi ricorda quella della Farmoplant a Massa, dell'Acna
a Cengio, della Eternit a Casale Monferrato, del polo petrolchimico
di Marghera.
Il Comitato dei cittadini e lavoratori liberi e pensanti di
Taranto sta rendendo palese la necessità di fuggire dal
ricatto tra ambiente e lavoro: propone di uscire dall'acciaio
oppure di produrlo ricorrendo a tecnologie compatibili con la
salvaguardia delle condizioni ambientali e della salute, facendo
pagare ciò allo stato e al gruppo Riva, preservando e
riqualificando la forza lavoro.
La “Taranto libera” sta manifestando da mesi la
propria avversione a un sistema che ha condannato la città
a essere la pattumiera d'Italia, rivendicando il diritto alla
salute, all'ambiente e al lavoro “non a tutti i costi”.
Migliaia e migliaia di persone sono scese in piazza, per lo
più ignorate dai media mainstream come accaduto per il
grande corteo del 15 dicembre 2012, evento senza eguali in termini
di partecipazione nella storia della città2.
Il caso delle proteste a Taranto, alle quali si affiancano innumerevoli
movimenti che dalla Calabria al Lazio, dalla Campania alla Val
Susa, dalla Lombardia all'Abruzzo lottano contro la devastazione
del territorio, ha il merito di farci interrogare sul senso
della produzione oggi: cioè su cosa produrre e a che
fine. C'è produzione e produzione, e quindi “c'è
lavoro e lavoro” dice uno slogan dei valsusini, ripreso
da diversi ecologisti e movimenti di base in tutta Italia: questo
è il punto, io penso.
Ci sono produzioni volte al profitto che causano morte e devastazione.
Bisogna rifiutare di lavorare per la morte: di fronte alla minaccia
di chiusura degli impianti di Taranto, lo scorso dicembre gli
operai dell'Ilva di Genova sono scesi in strada con grande determinazione
per difendere il posto di lavoro, minacciando di sfondare il
portone della prefettura con un mezzo meccanico3.
Hanno dato una grande dimostrazione di forza operaia: ma a che
pro, viene da chiedersi, quando si legge che a Taranto nascono
bambini col tumore alla prostata?
L'operaio – inteso come salariato, precario, disoccupato,
insomma come sfruttato – che lungi dall'essere scomparso
è invece il 99% della società occidentale, non
può oggi che considerare il diritto alla qualità
della vita nel suo complesso, assumendosi in prima persona la
responsabilità del rapporto con il territorio. Quello
che possiamo fare è assumere un punto di vista generale
sull'essere vivente e sul pianeta in cui si vive. In questo
senso il ribaltamento dei rapporti sociali, la redistribuzione
delle ricchezze e del diritto a una vita dignitosa deve andare
al di là del lavoro e della produzione, investendo tutta
la sfera di attività umana. Come recitava il titolo di
un ciclostilato del 1977 del Collettivo libertario di lotta
ecologica di Forlì: «Il comunismo senza ecologia
è come la camera a gas».
Antonio Senta
Note
- http://popoff.globalist.it/Detail_News_DisplayID=40410
- http://www.youtube.com/watch?v=NsktV0Iir20;
http://www.youtube.com/watchv=jwcNDDSyLa4
- http://www.youtube.com/watch?v=eTtcT_CG1qQ
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