cultura
Genere, sesso
e parameci
Avete presente i parameci? Sono forme unicellulari, nostri
«lontani parenti» ci ricorda Daniela Danna. La differenza
sessuale – “sexus” in latino significa separazione
– degli umani risulta incomprensibile a un paramecio il
quale, incontrando Danna (ricercatrice dell'università
di Milano, direttora di www.xxdonne.net
nonchè autrice di libri e ricerche preziose), le rivolge
nove scomode domande che finiscono nel divertente quanto sapiente
libretto Il genere spiegato a un paramecio (Bfs edizioni,
2011, pagg. 79, € 6,00).
Le nove domande sono toste assai: «perché siete
divisi tra maschi e femmine?»; «perché alcuni
popoli esagerano la distinzione di genere mentre altri la rendono
quasi insignificante?»; «cosa significa per voi
umani che siano le donne a fare figli mentre gli uomini non
possono?»; «voi donne volete essere uguali agli
uomini o differenti?»; «sessualità, come
la vivete?». C'è anche un perfido non-quesito,
ovvero «ho sentito dire che il matrimonio per voi è
condizione naturale»; e ancora: «cos'è il
lavoro?»; per concludere con «sento parlare di post-genere,
vi state forse riavvicinando a noi parameci?».
C'è da far drizzare i capelli in testa a incontrare parameci
tanto petulanti ma Danna non si spaventa per così poco:
accetta la sfida e, a mio avviso, la vince. Il paramecio può
essere soddisfatto: non c'è questione spinosa o complessa
che sia stata elusa o banalizzata.
Il titolo e il disegno in copertina fanno pensare a un testo
ironico ma è così solo in parte. Daniela Danna
è bravissima nel tenere insieme serietà e leggerezza,
come nel riassumere complessi passaggi storici e legislativi.
Ma è anche puntuale nel ricordare la significativa etimologia
delle parole e il loro significato mutante (o travisato): da
famiglia a stupro, da clitoride a... lavoro. Il paramecio –
e con lui chiunque legga questo libro – incontrerà
violenze e ignoranze, persecuzioni e pregiudizi, verità
assolute in un paese che altrove vengono capovolte. Riassumere
in poche pagine tutto ciò non è fatica da poco
(essere logorroici è facile, la sintesi invece richiede
lavoro e saggezza). Danna è netta e chiara, con la forza
dei fatti.
Se proprio dovessi cercare il classico pelo nell'uovo, direi
che solo nel rispondere alla questione del «sesso come
merce di scambio» Danna affronta alcuni nodi in modo un
po' sbrigativo: forse perché, come studiosa, ha dovuto
dipanare molte complessità sul mercato del sesso e inconsciamente
rimanda chi legge ai suoi precedenti volumi, in particolare
Donne di mondo: commercio del sesso e controllo statale
(Eleuthera, 2004) e Che cos'è la prostituzione: le
quattro visioni del commercio del sesso (Asterios, 2003).
Vale ricordare alcuni altri suoi libri: Amiche, compagne,
amanti: storia dell'amore fra donne (Uniservice, nuova edizione
2003); Ginocidio: la violenza contro le donne nell'era globale
(Eleuthera, 2007); Stato di famiglia: le donne maltrattate
di fronte alle istituzioni (Ediesse, 2009); e – con
Chiara Cavina – Crescere in famiglie omogenitoriali
(Franco Angeli, 2009). Danna ha anche elaborato, con l'associazione
di donne “Trama di terre” e la Regione Emilia-Romagna,
una ricerca sui matrimoni forzati, un fenomeno che – anche
in alcuni segmenti delle migrazioni – è preoccupante
a dir poco ma sottovalutato dalle istituzioni e anche dalla
società autodefinita civile.
Un po' di citazioni, tanto per far capire che – pur nella
sintesi – Danna non dimentica di informarci su questioni
basilari eppur rimosse ma anche di allargare il nostro orizzonte
informativo e cognitivo: nonostante le differenze fra i sessi
«le medicine vengono testate normalmente su individui
maschi»; dobbiamo fare i conti con imbrogli millenari
delle Chiese ma anche con scienziati sessisti; ma anche con
qualche donna che ancora si fa convincere dalla propaganda patriarcale
(«così come i lavoratori accettano le leggi sulla
proprietà, le donne possono credersi macchine per fare
bambini»); quanto alle “tradizioni” e alle
“libere scelte” Danna cita Fatema Mernissi «l'hijab
è una manna del cielo per i politici che affrontano una
crisi. Non è un semplice pezzetto del vestire, è
una divisione del lavoro. Rimanda le donne in cucina»;
infine Danna ci invita a non dimenticare neppure per un attimo
che «violenza è anche l'ignoranza sul proprio corpo»
e che «la principale diseguaglianza del mondo contemporaneo
rimane quella tra uomini e donne».
Giustamente ricordata e citata anche Laura Conti che, a proposito
di educazione, si chiedeva: «perchè vergognarsi
delle cose che danno piacere?» e sulla maternità
surrogata, nel 1981, scriveva: «C'è già
chi comincia a coltivare il sogno più classista o razzista:
esonerare una donna dall'albergare nel proprio utero il proprio
figlio, affidandolo all'utero di un'altra».
Daniele Barbieri
Se
il capitalismo
fa crack
Gli ultimi lavori di John Holloway dimostrano come si siano
assottigliate le divergenze di vedute tra settori dell'anarchismo
e della tradizione marxista. Ricordiamo, tra le altre opere,
un testo che si è affermato alla attenzione mondiale
del mondo antagonista, Come cambiare il mondo senza prendere
il potere? Il significato della rivoluzione oggi (IntraMoenia,
2004, pagg. 310) ma anche Che fine ha fatto la lotta di classe?
(Manifestolibri, 2003, pagg. 136) e articoli sul web, Against
and Beyond the State: An Interview with John Holloway (2007,
uppingtheanti.org),
The politics of dignity and the politics of poverty (2010,
hydrarchy.blogspot.it).
Crack Capitalism (Derive e Approdi, Roma, 2012, pagg.
256, Ä 18,00) è dedicato all'analisi della costituzione
e strutturazione del lavoro scisso dalla vita che viene imposto
con il capitalismo. Il titolo non si riferisce al crack
finanziario del capitalismo di questi anni ma alle strategie
per romperlo. La cesura esaminata dall'autore è tra un
flusso vitale che comprende attività lavorative nella
vita quotidiana, in buona parte autogestita, caratteristica
dei contesti precapitalistici e l'affermazione dell'impiego
salariato, un tempo e uno sforzo separato dalla attività
libera e cosciente. Holloway mira ad un aggiornamento della
teoria di Marx, in particolare sul duplice carattere del lavoro,
sia a livello concettuale sia nelle sue declinazioni pratiche,
quali l'effetto sulla generazione delle identità, con
la creazione di maschere; sui ruoli di genere e della sessualità;
sulla organizzazione del tempo. È un testo scritto in
un linguaggio ammaliante, sempre dinamico, evocativo, in cui
l'analisi si sposa alla tensione verso la liberazione, l'uguaglianza,
l'autonomia. Il tono è spesso poetico e profetico, etico
e politico, miscelando le tendenze emergenti nei movimenti con
il posizionamento personale dell'autore.
Il testo alterna passaggi analitici e argomentativi all'illustrazione
di esempi, trattati brevemente, soprattutto sulla capacità
di fare altrimenti: una sorta di panoramica delle alternative
esistenti su scala mondiale. Si tratta in massima parte di movimenti
locali e minuti che comprendono mobilitazioni sindacali, il
movimento piquetero, i centri sociali, rivendicazioni
studentesche, lotte ecologiste, fabbriche occupate, conflitti
per impedire la privatizzazione dei servizi, comunità
rurali, la solidarietà tra vicini. La mobilitazione anti-capitalista
è analizzata sempre con un'attenzione alla dialettica
tra vocazione individuale e all'organizzazione collettiva, entrambe
ritenute dimensioni imprescindibili della lotta efficace.
Holloway si forma e si ispira nella corrente dell'open marxism
anglosassone, in particolare quella collocabile nelle riflessioni
dell'operaismo legato all'Autonomia italiana – evidente
nell'interesse per l'organizzazione sociale del lavoro.
Sebbene lo strumentario analitico sia innovativo e personalizzato,
incentrato su concetti quali “dignità”, “crepe”,
“rifiuto-e-creazione”, “forza del fare”,
il riferimento a Marx e a un'ampia schiera di intellettuali
della tradizione marxista è la bussola su cui si struttura
la riflessione. Eppure quando si passa dall'analisi alla proposta,
il fatidico che fare?, Holloway prende le distanze dalla
messa in pratica dell'ortodossia marxista, non solo quella degli
Stati socialisti vecchi e nuovi ma anche quella dei partiti
e delle strategie della sinistra odierna; di fatto, sposa tendenze
anarchiche – senza mai ammetterlo apertamente –
sia quelle classiche che quelle frutto della sensibilità
libertaria sviluppatasi negli ultimi decenni. Nel testo di Holloway
si trovano riproposti, affinati e discussi presupposti che ormai
appaiono condivisi sia dai movimenti emergenti che da un ampia
gamma di autori che esaminano le forme di potere e del suo sovvertimento
in epoca contemporanea (Antonio Negri, Hakim Bey, Richard Day,
Raúl Zibechi, David Graeber). Si invita a prendere spunto
creativamente dalle esperienze liberate dalla mercificazione
capitalistica, rifiutando l'idea che esista una linea precostituita
da seguire. Si crede che la trasformazione si generi nella diversità
di sensibilità e di prassi, senza ricercare l'egemonia
ma guardando piuttosto agli spazi interstiziali con attenzione
e speranza. Si celebra l'ascesa del femminile e della sua sensibilità
nelle pratiche dei movimenti. Sebbene Holloway sia scettico
rispetto all'utilizzo della violenza che considera una modalità
estranea ai valori sovversivi e al contempo un cadere nella
logica privilegiata dallo Stato, difende l'azione diretta nelle
sue diverse forme e non sposa una posizione “completamente
pacifista” (p. 62). Nutre un forte scetticismo verso la
creazione di identità forti ed essenzializzate, mirando
piuttosto a trovare affinità inclusive che mantengano
e difendano le specificità dei diversi gruppi che si
muovono contro il capitale. Abbandona, senza rimpianti, la prospettiva
rivoluzionaria intesa in senso classico per puntare, piuttosto,
ad aprire e consolidare crepe ribelli nel sistema capitalistico.
Si concentra sugli effetti nefasti della separazione tra società
e potere politico, realizzato compiutamente con l'affermazione
degli Stati. Critica la tradizione marxista che, rinnegando
Marx, si muove nell'ambito del lavoro piuttosto che applicarsi
per la sua abolizione. Abiura il settarismo e l'avanguardismo
marxista per aprirsi ad un atteggiamento accogliente che tende
a valorizzare l'atto resistente del singolo e le varie forme
di lotta anche nella loro ambivalenza: una riflessione che corre
attraverso tutto il testo ammette le contraddizioni di questo
periodo storico che investono chiunque e qualunque gesto ma
non per questo svuotano la potenzialità sovversiva.
Holloway infine rifiuta di prendere le distanze a priori da
chi prende finanziamenti dallo Stato: la questione, afferma,
non è quella della purezza ma della direzione, senso
e prassi della lotta.
Non c'è nel testo una pulsione avanguardista né
tanto meno la fiducia in apparati istituzionali o gerarchici.
L'importante, sostiene Holloway, è come vengono costituite
le reti sociali, privilegiando l'auto-determinazione, decidendo
tramite la democrazia diretta e rifiutando quella rappresentativa.
Rispetto al lavoro, l'invito è di smettere di alimentare
il capitalismo e riappropriarsi del tempo e della capacità
di fare creativamente, secondo i nostri tempi e finalità.
Sono argomentazioni che partono da e riflettono le forme concrete
che prendono le mobilitazioni contemporanee: la capacità
di tenere fuori le forze della repressione da certe aree, la
moltiplicazione delle capacità autogestionali, la creazione
di mense popolari, la diffusione di scuole autogestite, il consolidarsi
di radio comunitarie.
L'analisi affascinante delle potenzialità trasformative
aperte dall'uscita dal lavoro sarebbe stata ulteriormente apprezzata
se l'autore avesse preso un posizionamento più deciso
su due questioni che appaiono cruciali in questa fase storica.
Primo: che livello di tecnologia è compatibile con la
riappropriazione delle modalità di lavoro ormai non più
gestite tramite il capitale? Se appare evidente che la tecnologia
avanzata si accompagna alla sua amministrazione gerarchica,
la proposta di Holloway di uscire dal capitalismo dovrebbe anche
prevedere una critica alla ipertecnologia contemporanea. Secondo:
sebbene Holloway accenni a questi tempi come un periodo “apocalittico”
non sono esplorate a fondo le ragioni e il contesto ecologico
della crisi incipiente. Ci si sofferma a lungo sulle crepe aperte
da una società in lotta ma le dinamiche emergenti che
annunciano il prossimo crollo dell'attuale organizzazione economica
appaiono piuttosto associabili ad una implosione interna al
sistema (ingordigia illimitata del capitale finanziario) e agli
effetti catastrofici del capitalismo sulla lunga durata (inquinamento
di aria, mare e acque sotterranee, cambiamento climatico, drammatici
tassi di estinzione di specie).
Stefano Boni
Quei primi
obiettori di coscienza
Vi sono “pezzi” della storia del movimento anarchico
che vanno riscoperti e studiati sia da un profilo storico, sia
per ricordare e far conoscere coloro che hanno lottato a favore
delle libertà civili e individuali. L'ultimo volume di
Andrea Maori, Dossier Libertà controllata. Polizia,
potere politico e movimenti per i diritti umani e civili (1045-2000)
edito da Reality Book, dedica uno spazio alla storia dell'obiezione
di coscienza degli anarchici Olivo Della Savia e Giorgio Viola,
il primo ricordato soprattutto per essere stato tra gli animatori,
insieme a Valpreda che ne fu il fondatore, del “circolo
anarchico 22 marzo” nell'ottobre del 1969.
Durante un dibattito presso il circolo culturale “Sacco
e Vanzetti”, associato alla Federazione Anarchica di Milano
il 9 settembre del 1965, sia Della Savia che Giorgio Viola esposero
pubblicamente il loro rifiuto di presentare servizio militare1.
I due si presentarono rispettivamente al carcere di Forte Bocca
e al centro reclute di Albenga, dove furono arrestati con l'accusa
di disobbedienza continuata e di rifiuto di obbedienza (una
nota della questura di Roma informava che «il Della Savia»
è compreso nella nota rubrica fotografica di «estremisti
già responsabili o concretamente indiziati di attentati
terroristici»; tale nota rivela la continuazione dell'anagrafe
dei sovversivi anche in epoca post-fascista).
In seguito a questi avvenimenti la Federazione Anarchica organizzò
un “Comitato provvisorio degli obiettori di coscienza”
che faceva capo a Angelo Damonti e Giuseppe Pinelli, responsabile
della biblioteca del circolo “Sacco e Vanzetti”.
Nonostante ciò Della Savia fu condannato dal tribunale
militare territoriale di Roma alla pena di cinque mesi di reclusione
militare. La reazione degli anarchici venne attentamente sorvegliata
dalla polizia di Livorno che seguì un dibattito che si
tenne presso la locale casa della cultura nel febbraio 1966.
L'assemblea venne introdotta da Mario Barbani, già noto
alle forze di polizia perché il 23 giugno del 1950 si
era ribellato all'autoritarismo militarista presentandosi davanti
al capo di stato maggiore dell'esercito e deponendo ai suoi
piedi il fucile, dichiarandosi indisponibile a continuare il
servizio militare2. Barbani,
durante l'introduzione al dibattito, sostenne che la vera obiezione
di coscienza scaturisce da motivi sociali a fronte dell'esercito
che è strumento di conservazione dell'attuale ordine
sociale: «Solamente una società di eguali, priva
di frontiere, di eserciti e di altri strumenti di potere può
dare all'umanità la fratellanza e l'uguaglianza auspicata,
che poi giustificano il fine che si promette l'obiettore di
coscienza».
Risulta evidente come l'obiezione di coscienza sia percepita
come affermazione di giustizia e uguaglianza. Barbani dichiarò
che il servizio militare veniva inteso come difesa del territorio
dello stato mentre il pensiero anarchico non ammette patria
né delimitazioni territoriali.
La relazione di Barbani abbracciò anche un profilo storico-politico:
venne infatti analizzato il militarismo statunitense alla stessa
stregua di quello sovietico, ricordando anche che l'Urss era
l'unico paese ove l'obiezione di coscienza non veniva ammessa.
A tale dichiarazione molti comunisti presenti in sala –
secondo quanto riportato dalle carte di polizia – si allontanarono
dal convegno. Tale affermazione e la conseguente reazione diedero
vita a una serie di polemiche all'interno dell'assemblea, come
si evince dalle parole di un oratore: «Comunisti e socialisti,
tradendo il pensiero universale del proletariato, hanno instaurato,
in Russia e in altri paesi, un altro dispotismo, creando nuove
patrie e nuovi confini che impediscono la fratellanza e l'uguaglianza
dei popoli».
L'opposizione delle istituzioni e la tendenza a monitorare ogni
espressione di pensiero a favore dell'obiezione di coscienza
è riscontrabile anche nella precisissima documentazione
posseduta dalle varie questure sparse sul territorio italiano:
materiale che raccolto darebbe vita ad una ricca storia del
movimento libertario, come questo stesso volume, con questa
preziosa sezione, testimonia.
Domenico Letizia
Note
- Obiettori di Coscienza relazione della prefettura
di Milano, 10 Dicembre 1965.
- Sergio Albesano, Storia dell'obiezione di coscienza
in Italia pag. 47.
Il
mio disco,
Silo Thinking
Mi ritrovo un po' per caso, tramite newsletter, conoscenze
comuni e la scelta del nome del mio progetto solista, Makhno,
che ha incuriosito alcuni redattori, a scrivere sulle pagine
di “A”, per parlare di un disco, il mio.
È d'obbligo innanzitutto, dato che di musica si parla,
dare dei riferimenti: Il mondo da cui nasce questo progetto
è quello della musica indipendente, dell'autoproduzione
e, musicalmente, da tutti i miei progetti del passato, Tasaday,
Six Minute War Madness, A Short Apnea, Uncode Duello. Progetti
che hanno come comune denominatore la contaminazione tra rock,
punk, improvvisazione e sperimentazione.
Perché Makhno? È superfluo spiegare il personaggio
su queste pagine. Mi ha affascinato la sua figura, la sua storia,
l'idea del combattere a tutti i costi per una causa collettiva,
senza compromessi, e finire esiliato, solo, perdente. Un riferimento
politico, ma anche intimo, personale. Che è poi la caratteristica
di tutto il disco: dal nome del progetto al titolo, da La
Makhnovtchina a Stiv, omaggio ad un amico scomparso, da
Zena, la rivolta del giugno 1960 contro il congresso
fascista a Genova, al vivere o morire di Custer, da Ulrike,
la mia scoperta del personaggio Meinhof pre lotta armata, alle
vicende personali di Fine della Storia, dai riferimenti
cinematografici come V for Vendetta per Remember
al rapporto fanatismo religioso/famiglia di Father and Son.
Raramente le tematiche sono espresse con testi espliciti, la
narrazione è lasciata a poche frasi, a frammenti campionati,
con una funzione più evocativa che narrativa; a chi ascolta
il compito di ricercarne il senso, i soggetti, e a darne una
propria interpretazione.
Un disco concepito in solitudine, ma anche frutto di un lavoro
collettivo: Wallace Records, Brigadisco, Hysm? sono le etichette
che hanno coprodotto con me Silo Thinking (lp vinile
12" (Wallace/Neon Paralleli/Brigadisco/Hysm?), espressione
di quel mondo a cui facevo riferimento prima, di autoproduzione,
di indipendenza per scelta. Troppe sono le realtà che
si professano indipendenti ma pronte a cambiare bandiera non
appena se ne coglie l'opportunità, o viceversa, gruppi
che sbandierano l'autoproduzione dopo aver bazzicato per anni
in ambienti mainstream, solo ora, che il mercato è cambiato.
Silo Thinking esce in vinile e download, ed è
possibile ascoltarlo in streaming dal mio blog: neonparalleli.blogspot.it.
Sta ora a voi, se siete curiosi, ascoltarlo e fare la vostra
recensione personale.
Grazie per l'attenzione.
Paolo Cantù
Anatomia
della
Germania nazista
Il libro di Peter Fritzsche Vita e morte nel Terzo Reich
(Laterza, 2010, pagg. 341, € 20,00) analizza la società
tedesca durante gli anni della dittatura nazista, al fine di
indagare l'effettivo grado di adesione del popolo germanico
al nazionalsocialismo. «Come vasto progetto di rinnovamento
politico, sociale e razziale, il nazionalsocialismo offriva
al popolo tedesco diverse modalità di partecipazione.
I tedeschi guardarono alle politiche naziste con paura, opportunismo
e carrierismo e con diversi gradi di convinzione ideologica.
E l'elenco potrebbe allungarsi ulteriormente per includere la
pigrizia, l'indifferenza e l'ignoranza».
Fritzsche cerca di penetrare nelle vite private dei tedeschi
dell'epoca utilizzando i diari personali, compilati dalla famiglia
Gebensleben di Braunschweig, dalla famiglia Durkefelden di Peine
e da Erich Ebermayer di Lipsia. Altro documento significativo
per la sua analisi è il libro Der Tod in Polen
di Edwin Erich Dwinger; pubblicato nella Germania degli anni
'40, racconta uccisioni di civili inermi, uomini, donne e bambini,
documenti di riconoscimento colorati in base all'affidabilità
politica e distruzione di chiese. Le vittime però non
sono i polacchi ma i tedeschi, in un significativo ribaltamento
dei ruoli fra carnefici e vittime: una sorta di tentativo di
autoassoluzione da parte del popolo tedesco. L'episodio narrato
– e gonfiato ad arte dall'autore – è quello
della “domenica di sangue” di Bydgoszcz: il 3 settembre
1939, due giorni dopo l'invasione nazista della Polonia, i nazisti
subirono una vendetta da parte dei cittadini di etnia polacca
nella città di Bydgoszcz; Bromberger Blutsonntag in tedesco.
D'altronde la tendenza all'autogiustificazione non è
nuova alla Germania degli anni di Weimar: la sensazione di accerchiamento,
lo spettro del trattato di Versailles e del “tradimento”,
con il mito della pugnalata alla schiena, provocarono nei nazisti
la reazione “uccidi o muori”, la “guerra totale”
e l'autoassoluzione per i crimini commessi, con l'affermazione
“Se non avessimo fatto questo gli altri lo avrebbero fatto
a noi”, dove per altri sono intesi soprattutto gli slavi
e gli ebrei.
È proprio nei confronti dei presunti “altri”
che viene indirizzato lo scontro all'interno della società
tedesca: ebrei, disabili, individui definiti asociali, oppositori
religiosi e politici, piccoli delinquenti comuni: vite degne
contro vite indegne.
La Weltanschauung nazista, abbinata al terribile periodo
della depressione economica, sprigionò enormi energie
ed aspettative nel popolo tedesco, cavalcate abilmente dalla
propaganda. Per rafforzare la volksgemeinschaft, la comunità
di popolo, fu introdotto ad esempio il saluto a Hitler, che
ebbe successo soprattutto nei primi anni di dittatura, in cui
tutti gli altri saluti erano praticamente scomparsi. Le cose
però cambieranno già nel 1940, quando le privazioni
della guerra cominceranno a minare il morale della popolazione.
Al di là del già noto sfondo storico, i diari
famigliari analizzati da Fritzsche ci permettono di entrare
più in profondità, nell'intimità delle
case tedesche, esaminando le diverse reazioni all'avvento del
nazionalsocialismo.
Elisabeth Gebensleben ad esempio, moglie del vice sindaco di
Braunschweig, convinta nazionalista, diventa una fervente nazista
già nel 1930, impegnandosi attivamente nell'Associazione
delle donne naziste. Il figlio Eberhard invece, dopo essere
entrato nelle SA, andrà in Olanda con le truppe d'occupazione
della Wehrmacht, proprio nel paese in cui, prima della guerra,
si era trasferita la sorella, sposata ad un olandese e incapace
di comprendere appieno la trasformazione in atto nella sua stessa
famiglia. Innamoratosi poi di una mischlinge, una “sangue
misto” incontrerà grandi difficoltà.
Diverso è il caso di Karl Durkefelden, che si oppose
al regime per tutta la sua durata, pur vedendo tanti suoi ex
compagni socialdemocratici o comunisti passare con i nazisti.
Lui e la moglie rimasero oppositori, mentre altri loro famigliari,
compreso il padre di Karl, entrarono nel vortice nazista.
Più ambiguo il percorso di Erich Ebermayer che, pur essendo
contrario al nazismo, aderisce ed abbraccia la volksgemeinschaft.
Il libro vive di un continuo dialogo tra grandi fatti storici
e vite private. Al contesto generale appartiene ad esempio l'analisi
della situazione economica. Sotto il regime nazista si verificò
un effettivo miglioramento del tenore di vita, che fu però
decisamente inferiore rispetto agli obiettivi prefissati e alle
aspettative del popolo: calò la disoccupazione, soprattutto
grazie all'enorme mole di lavori pubblici, ma peggiorano le
condizioni di lavoro degli operai. Un sostegno alla popolazione
fu offerto dall'associazione Kraft durch Freude, con gite e
vacanze organizzate; inoltre, nei sogni di Hitler, doveva esserci
un'automobile per ogni famiglia tedesca: per questo venne creata
la Volkswagen, che avrebbe fornito le automobili per far spostare
i conquistatori tedeschi nelle immense autostrade del Reich.
Altri collanti per la volksgemeinschaft furono la radio,
il cinema, le marce, le divise, le bandiere, gli stendardi e
la Wehrmacht, che tornava esercito di leva.
Per quanto riguarda il cinema l'esempio più emblematico
è forse quello di Leni Riefenstahl che, con due film,
celebra i fasti del nazismo: Il trionfo della volontà
ed Olympia, il primo sul congresso di Norimberga, l'altro
sulle Olimpiadi del 1936 a Berlino. Nel frattempo aumentano
le sale cinematografiche, i cinegiornali e i film di propaganda
come Io accuso, sull'eutanasia dei disabili o Suss
l'ebreo.
Le vendite di radio subiscono un incremento grazie alla Volksempfanger
(radio del popolo) Ve301, senza raggiungere però i numeri
conquistati negli Stati Uniti. La radio serviva a tenere unita
la volksgemeinschaft, a creare l'unter uns, il
“tra di noi” del popolo tedesco: uno scopo raggiunto
soprattutto nei primi anni di guerra.
La rivoluzione nazista, come è noto, è strettamente
legata alla biologia: la Germania era un corpo da risanare e
le vite indegne dei virus. A questo scopo, l'ordine dei medici
si prestò a svariati crimini: dall'eliminazione dei disabili
a quella degli ebrei, dagli asociali agli omosessuali e dagli
oppositori politici e religiosi e agli slavi.
La legge per la sterilizzazione obbligatoria è del 1938
e il numero degli interventi eseguiti è stimato intono
a 400.000. Il programma di eutanasia, chiamato Aktion T4 dall'indirizzo
della villa dove aveva sede la “centrale operativa”
(Tiergartenstrasse 4), prese avvio nel 1938 con l'uccisione
di alcuni bambini per ordine diretto dello stesso Hitler. Nell'ottobre
del 1939 invece, una lettera dello stesso Führer (che sarà
retrodatata al 1° settembre, in concomitanza con lo scoppio
della guerra) diede il via all'uccisione degli adulti.
Già dal 1933 invece, inizia il calvario per gli ebrei
tedeschi, colpiti da leggi discriminatorie sempre più
terribili, che sfoceranno nella celebre kristallnacht
del 9 novembre 1938, in cui vennero distrutte migliaia di vetrine
di negozi appartenenti ad ebrei, danneggiate case e mobili,
distrutte 267 Sinagoghe, uccise 100 persone, arrestate altre
25.000 e 10.000 deportate in campo di concentramento. Chi poteva
espatriare lo fece, anche perdendo tutto, molti inviarono i
propri figli da parenti o in Palestina, nella dura vita dei
Kibbutz.
Nel '38 scatta il piano imperiale di Hitler: l'Anschluss
dell'Austria, l'annessione dei Sudeti e, nel '39, l'attacco
alla Polonia, il tutto per assicurarsi il lebensraum,
lo spazio vitale ad est, nell'ottica di quella che, per Hitler,
si stava configurando come una sorta di guerra coloniale: “La
Russia è la nostra Africa” (anche se forse nella
mente del dittatore l'esempio da seguire non era tanto l'impero
britannico quanto gli Stati Uniti, che avevano eliminato gli
indigeni su base razziale). La guerra era uno degli scopi principali
del nazismo: guerra significava cementare saldamente la volksgemeinschaft.
Nella primavera del '40 tutta l'Europa occidentale si arrende
alla Germania, unica resistenza la Gran Bretagna. Hitler, forte
delle facili vittorie, rivolge le sue attenzioni ad est e attacca,
con l'operazione Barbarossa, l'Unione Sovietica nel giugno 1941.
La guerra a est deve essere estremamente brutale e rappresenta
l'occasione per chiudere i conti con il nemico numero uno, gli
ebrei: speciali squadre di SS, le Einsatzgruppen, si muovono
dietro il fronte e fucilano uomini, donne e bambini ebrei in
gigantesche fosse come quella di Babi Yar.
Alla fine del 1941 l'assassinio di massa raggiunge il culmine
della sua brutale efficienza: la morte viene data tramite gas
– come già sperimentato con l'eutanasia degli adulti
disabili – con la creazione di numerosi campi di concentramento
come Auschwitz, Sobibór, Belzec e Treblinka. L'avvio
ufficiale dell'operazione viene dato durante la Conferenza di
Wannsee, il 20 gennaio 1942.
Ma come ha reagito a tutto ciò il popolo tedesco? Era
a conoscenza di quanto accadeva? Dalle pagine di Fritzsche sembra
emergere che sì, soprattutto alla fine della guerra,
i tedeschi in patria erano a conoscenza di tutto ciò,
soprattutto grazie ai racconti dei soldati, ma l'atteggiamento
più diffuso era evitare di parlarne, fingere di non sapere
o, tutt'al più, nascondersi dietro al mito della dicotomia
“Wehrmacht buona”, “SS, Gestapo e Partito
cattivi”. La vergogna ebbe la meglio sulla colpa: sia
durante che dopo la guerra i tedeschi si rifugiarono in letture
come Jünger o Dostoevskij, quest'ultimo citato anche da
Etty Hillesum, morta in un campo di concentramento, che vedeva
nelle opere dello scrittore russo un'efficace rappresentazione
dell'insondabilità del male.
Probabilmente l'insondabilità del male lascerà
la spiegazione di questi dodici anni terribili per sempre incompleta.
Alessandro Fiori
Dalla
parte
degli ultimi
Don Andrea Gallo, prete angelicamente anarchico, ancora una
volta “spiazza” tutti: il suo ultimo libro Come
un cane in chiesa (edizioni Piemme, 2012, pagg. 182, €
15.00) – titolo che evoca Savonarola che si auto considerava
un cane che abbaia e che quindi crea fastidio –, si differenzia
fortemente dagli altri libri scritti in precedenza: questa volta
infatti troviamo 12 letture tratte dal Vangelo e commentate
a suo modo.
Si tratta di alcune delle pagine più “forti”,
quelle che raccontano la storia di prostitute, peccatori, degli
ultimi insomma, gli stessi che sono oggi ai margini della società,
rappresentati dalla nuova folla di barboni, trans, tossici,
migranti, gli stessi che don Andrea incontra e raccoglie sulla
strada da decenni.
Ed
è alla strada, che lui indica come la sua vera università,
che pensa, sperando di risvegliare le coscienze anche attraverso
i libri, proponendo lo stesso messaggio che la Comunità
di San Benedetto, da lui fondata 42 anni fa, tenta di lanciare
quotidianamente.
Quella di Don Gallo è un'adesione completa al messaggio
di Gesù, «nutrire l'affamato, accogliere lo straniero,
vestire l'ignudo, visitare l'ammalato sono atti di giustizia,
ma per Gesù sono anche veri e propri gesti di devozione
e chi li compie è come se rendesse culto a Dio stesso».
Nel “giudizio finale” (Mt 25, 31-46) Gesù
si scaglia contro i qualunquisti, i menefreghisti, si scaglia
e maledice tutti coloro che non lavorano per la giustizia sociale
e per il bene comune, li chiama proprio “maledetti”:
«Il Maestro che ha predicato sempre l'Amore per il Padre
e la misericordia usa tale durezza proprio contro quelli che
definisce “sepolcri imbiancati”, chi esibisce bontà,
devozione, religiosità, ma nella vita quotidiana rimane
indifferente nei confronti di chi è in stato di bisogno,
accumula beni di ogni genere, sfrutta i deboli, non paga le
tasse».
Contro tutti i “perbenismi” che ci portano ad inquietarci
di fronte a manchevolezze altrui e ci tolgono la capacità
di capire che l'unica vera bestemmia contro Dio, spesso perpetrata
proprio da chi si dice “cristiano”, è l'ingiustizia,
la fame, la mancanza per una parte troppo grande di esseri umani
del minimo di risorse per condurre una vita appunto “umana”,
risorse che continuano ad essere nelle mani di pochi.
Accanto al suo vangelo laico, la Costituzione, la grande conquista
della resistenza partigiana resa possibile a prezzo di sangue
e sacrifici, don Gallo ci dice come anche il Vangelo sia fonte
straordinaria per combattere la barbarie odierna, con i suoi
principi di liberà, di giustizia e di fraternità
su cui basare un'etica dei diritti e dei doveri.
Ogni capitolo è accompagnato da vignette di Vauro Senesi,
graffianti e smitizzanti, hanno il pregio di mettere il dito
sulle piaghe che accompagnano la nostra vita di questi ultimi
anni, in chiave satirica e critica, sanno farci ridere, anche
se amaramente, con la stessa incisività che don Andrea
ci dona attraverso le sue parole.
Di qualunque cosa possa essere accusato don Andrea è
certo che “non tace” ed è compagno di tutti
coloro che hanno come obiettivo la liberazione dell'uomo, mettendo
come primo punto il perseguimento della giustizia sociale.
Elisa Rinaldi
Una
sobria
rivoluzione
Sedazione o sedizione? Era il 1981 quando i brani Straight
Edge e Out of step vennero dati alle stampe e il
loro autore (Ian MacKaye della hardcore band di Washington Minor
Threat) non poteva certo immaginare la portata e l'impatto che
quelle parole avrebbero avuto. In quelle parole si coagulava
e prendeva forma una “tensione” che già da
diverso tempo percorreva i circuiti punk: il rigetto dell'equazione
tra ribellione ed abuso di alcol, droghe e promiscuità
sessuale. Un'equazione su cui, a ben pensarci, il movimento
socialista ha riflettuto fin dalle sue origini, ponendosi il
problema della diffusione e dell'abuso di alcool tra i lavoratori.
L'osteria, la birreria, il pub erano luoghi dove abitualmente
il proletariato si riuniva, discuteva e dove magari si decideva
uno sciopero, ma era anche i luoghi dove ci si abbrutiva affogando
nel bicchiere fatiche e umiliazioni.
Nata come strettamente individuale l'opzione “straight
edge” diventa un “movimento”, sebbene estremamente
informale. I diritti degli animali ed il vegetarianesimo/veganesimo
entrano a far parte del suo bagaglio ideologico e ovunque nascono
gruppi e fanzine che si rifanno esplicitamente a quelle idee.
Attraverso interviste a musicisti e attivisti politici, brevi
saggi e manifesti, il libro di Gabriel Kuhn (fondatore della
Alpine Anarchist Productions, curatore di raccolte di scritti
di Landauer e Mühsam ed inserito dagli Stati Uniti nella
No Fly List) ripercorre la storia dello straight edge e punta
i riflettori sulla sua presenza all'interno del più ampio
movimento libertario/autogestionario (non manca però
chi dà dello straight edge una lettura estremamente conservatrice:
gli Hardline, intolleranti, antiabortisti, omofobi, sessuofobi
fino al ridicolo).
All'interno dell'antologia, intitolata Straight Edge XXX
“Storie, filosofia e racconti della scena Hardcore Punk”
(Shake Edizioni, 2011, pagg. 268) risultano particolarmente
interessanti i manifesti Davvero uno spreco: anarchia e alcool
e Verso un mondo meno incasinato: sobrietà e lotte anarchiche.
Entrambi scritti da militanti anarchici, mettono sotto la lente
dello straight edge gli stravizi alcoolici e psicoattivi nelle
rispettive comunità radicali e l'impatto negativo che
questi possono avere sia sulle relazioni interne ai gruppi di
militanti che sulla capacità di essere attivi, creativi
e propositivi verso l'esterno. Straight edge come “via
sobria” alla Rivoluzione?
Igor Ninu
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Da sinistra: Massimiliano Loizzi (alla chitarra giocattolo) e Giovanni Melucci (al pianoforte) |
Teatro
I Mercanti di Storie compiono dieci anni
Nella stagione che segna i 10 anni di attività, i Mercanti
di Storie hanno presentato a Milano al Teatro della Contraddizione
il loro nuovo spettacolo, D'amore e altre rivolte. Scusami
cara ma devo salvare il mondo, di e con Massimiliano Loizzi,
la musica di Giovanni Melucci e la direzione e organizzazione
di Patrizia Gandini. “Una ballata di ordinaria follia
per anime strambe, convinti che quando l'amore è vero
amore, è sempre un atto di rivolta e la rivolta è
sempre un atto d'amore”.
Massimiliano e Patrizia li ho incontrati per la prima volta
qualche anno fa durante uno dei soliti cortei milanesi del 25
aprile. Impossibile non notarli, con il loro grande cartello
con su scritto “L'adunata dei refrattari”, evidente
richiamo al noto periodico anarchico pubblicato per la prima
volta nell'aprile 1922 a New York. Il loro manifesto refrattario,
presentazione allo spettacolo intitolato proprio Radio ovvero
l'Adunata dei Refrattari, così recitava: “In
questi tempi bui e ambigui, dove poche sono le gocce di speranza
e la nostra regina Libertà è in cerca di domicilio...
noi piccolo pugno di comuni gitani, apolidi, terroni, meridionali,
disertori, teatranti, musicanti e stradaroli, ci aduniamo refrattari
alla legge ed al divieto comune di libero pensiero” (http://mercantidistorie.blogspot.it/).
Andai ovviamente a vedere lo spettacolo e da lì non ho
più smesso di seguirli.
A partire da Mi sono arreso a un nano, ispirato alla
vita e alla poesia di Piero Ciampi, a Solo con Abatjour.
Ovvero come ho salvato il mondo, questo consorzio informale
di artisti precari e indipendenti percorre il paese allestendo
spettacoli di teatro canzone, anche in luoghi non convenzionali
come bar e circoli (compreso due feste di sottoscrizione al
settimanale anarchico Umanità Nova all'Ateneo Libertario
di Milano).
I loro spettacoli sono dei veri e propri happening dove satira,
riflessione, intrattenimento, musica, poesia, politica e canzone
convivono, in un'atmosfera capace di coinvolgere il pubblico
facendo sì che non vi siano spettatori passivi ma dando
a ciascuno la possibilità di dire la sua quando vuole.
Rifuggendo il pubblico viziato dei teatri istituzionali, incapace
di meravigliarsi, il loro teatro canzone, comico e poetico,
è coinvolgente ed emozionante allo stesso tempo, fornendo
continui spunti di riflessione attraverso il sorriso, decisamente
contro la comicità ossessiva proposta dalla televisione
italiana e contro la risata fine a se stessa che obnubila i
cervelli.
Ognuno dei loro spettacoli nasce dal desiderio di raccontare
il mondo e i tempi in cui viviamo pur conservando ferma la convinzione
e la ricerca di un altro mondo possibile: l'obiettivo –
racconta Massimiliano – è quello di invitare a
una rivoluzione dei sentimenti, del pensiero e del mondo, appesantire
gli spettatori alleggerendoli, sperando che un giorno –
parafrasando un noto slogan – sarà una risata a
seppellire l'autorità.
Selva Varengo
(In)attualità
di John Cage
Le trasformazioni dei linguaggi artistici nel corso del novecento
– dal cinema alle arti visive, dalla musica all'architettura
– sono state guidate da una volontà di cambiamento
radicale, segnata dalla responsabilità di un mutamento
sociale da parte delle personalità attive in ambito artistico.
Il linguaggio, al di là di quello verbale, si delinea
in ogni sua variante come forma comunicativa tesa alla revisione
dei rapporti di potere: una lettura simile dei cambiamenti culturali
è stata avanzata dalla critica del dopoguerra fino all'affermazione
del ruolo preponderante dell'arte nella società e nei
costumi.
John Cage è uno di quei compositori che hanno sicuramente
operato delle modifiche strutturali, dopo di lui imprescindibili,
nel modo di scrivere e praticare la musica, talmente radicali
da rappresentare un solco tracciato nella storia della cultura
umana e del pensiero. Dalla lettura dei testi scritti di suo
pugno (faccio riferimenti alla raccolta di saggi e conferenze,
Silenzio, Shake 2010, e a Lettera a uno sconosciuto,
Socrates 1996), è presto rintracciabile la matrice filosofica
che si incarna nella sua musica, quella di un vitalismo naturalistico
che, muovendo dal rifiuto dei sistemi compositivi tradizionali
e delle prassi esecutive influenzate dalla notazione e dai costumi
del tempo, giunge all'annichilimento della componente raziocinante
nella definizione delle opere e all'affidamento al caso e all'indeterminazione
per la realizzazione formale dei pezzi. Le scelte linguistiche
compiute da John Cage (che non si limitano solo al più
che noto uso dell'I Ching per la notazione) rientrano
nella loro integrità tra quelle scelte artistiche che
fanno la storia, non solo di un linguaggio, ma anche di una
società. La musica del compositore americano, infatti,
non solo compie un formidabile passo nella storia che dalla
dissoluzione del sistema tonale giunge alla capillare diffusione
di sistemi alternativi, ma agisce direttamente sulle forme di
fruizione dei pezzi, sulle modalità dell'ascolto, sul
ruolo rivestito dai musicisti o dagli ascoltatori, sull'uso
alternativo di strumenti esistenti e sull'uso di strumenti alternativi,
sulla rivalutazione del rumore come elemento timbrico musicale,
sul rapporto tra musica e danza, ecc.
Il linguaggio, se capovolto e rivoluzionato fino a questo punto,
supera il momento di semplice negazione del preesistente e si
impone come novità che afferma se stessa oltre il banale
rifiuto della tradizione: il principio metafisico che la sorregge
non ha la presunzione di dichiararsi canone e ipostatizzazione
linguistica, poiché soggetto esso stesso alla possibilità
di mutamento.
Oggi, in un momento in cui nell'arte regna la legge del nuovo
e in cui l'avanguardia è la direzione unica del fare
cultura, nessuno oserebbe mai di riproporre i dispositivi musicali
di Cage, ma uno sguardo retrospettivo e la conseguente contestualizzazione
del suo lavoro nel tempo in cui ha agito e al quale ha reagito
illuminerebbe sulla portata storica di certe opere. 4'33''
(1950) è entrato nella storia come il pezzo del silenzio,
quello che sintetizza tutto il pensiero musicale e filosofico
del musicista americano, quello che più di tutti ha generato
critiche spietate ed entusiastiche approvazioni: nell'occasione
della sua esecuzione, David Tudor si sedette di fronte al pianoforte
e gli unici gesti che compì furono la chiusura e l'apertura
della tastiera alla fine di ogni movimento. Si ottenne il silenzio
per un tempo di 4 minuti e 33 secondi, durante il quale non
si ascoltò null'altro che il borbottio e i movimenti
del pubblico, il gesti di Tudor che muoveva il coperchio della
tastiera, un insieme di suoni che non possono essere previsti
ma che al contempo sono oggetto dell'ascolto perché gli
unici che vengono emessi nel tempo in cui si attende l'emissione
di suoni dal pianoforte, che però tacet. Il pezzo
affida al pubblico il ruolo di esecutore imprevisto, anonimo
e soggetto al cambiamento al riproporsi dell'esecuzione, di
parte attiva alla realizzazione di un pezzo che abdica all'incontrastata
autorità di cui ha sempre goduto nella sua forma scritta.
John Cage, inoltre, inventa il concetto di happening
così come si diffonde nel corso degli anni '60, e si
esibisce a fianco di artisti come Merce Cunningham, Robert Rauschenberg
e i Fluxus.
L'esperienza del mondo, inteso come insieme di fenomeni avulsi
dalla gestione intellettualistica dell'essere umano, emerge
come nuovo aspetto strutturale, non solo come messaggio: l'azione
non è razionalmente giustificata, le gerarchie e i rapporti
di potere sono assenti (Henry David Thoreau è un riferimento
nella condotta del musicista ) – ci riferiamo al rifiuto
dell'ascolto frontale in eventi come il Black Mountain Pieces,
1952, o il Musicircus, 1967, in cui chiunque era chiamato
a suonare quel che voleva, contemporaneamente a tutti gli altri,
con l'obiettivo di sentire la diversità come armonia.
Ai cent'anni dalla sua nascita, ai sessant'anni dalla composizione
di 4'33'', ci uniamo entusiasti ai tributi e ai plausi
a John Cage.
Livio Giuliano
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