Rivista Anarchica Online


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Quaderni dal carcere

a cura di Laura Antonella Carli
fotoAFA - Archivi Fotografici Autogestiti


L'universo carcerario raccontato attraverso i libri: dalle testimonianze dirette degli ergastolani a riflessioni di ampia portata sulla legittimità stessa dell'esperienza penitenziaria. Con un racconto e un breve estratto drammaturgico.



I libri che presentiamo in queste pagine hanno degli aspetti in comune che vanno oltre l'argomento carcerario. Sono entrambi opere corali: il primo, dedicato al tema dell'ergastolo ostativo, raccoglie le testimonianze di alcuni detenuti, il secondo è invece una raccolta di saggi curati da Silvia Buzzelli, docente di diritto penitenziario e procedura penale europea e sovranazionale e si accompagna a un dvd contenente un documentario di Germano Maccioni, girato nel 2011 presso la Casa circondariale di Lodi. La scrittura, l'origine dei contributi, il punto di vista dei due lavori è chiaramente molto diverso, entrambi però aprono a una serie di dubbi: la pena detentiva è davvero “un male necessario”? È davvero la “migliore delle pene possibili”?
Quando ci si avvicina a certe tematiche, come ci avverte don Ciotti, «non è possibile attivare il pensiero semplice» e questi due documenti, anche in virtù della propria diversità di approccio, ci offrono utili strumenti per rapportarci al mondo del carcere in modo complesso, non complicato, ma meditato e consapevole, aprendo a punti di vista e insinuando qualche dubbio. Se infatti Francesco Maisto, presidente del Tribunale di sorveglianza di Bologna, nel documentario di Maccioni chiarisce immediatamente che il carcere è soltanto una delle pene possibili previste dalla costituzione, don Ciotti cita Carlo Maria Martini, secondo il quale non ci si può limitare a pensare a “pene alternative” ma è necessario immaginare “alternative alle pene”. «Il carcere, insomma, – spiega il sacerdote – è un prodotto dell'uomo e in quanto tale ha avuto un inizio ma può dunque anche avere una fine».



Brevi interviste a uomini ombra

Urla a bassa voce. Dal buio del 41 bis e del fine pena mai (Nuovi Equilibri, 2012, pagg. 190, € 15.00) è la testimonianza collettiva di 35 ergastolani, interrogati su diverse tematiche legate alla loro vita in carcere: la famiglia, la salute, il perdono, la giustizia, fino ai temi più delicati: l'omicidio, il suicidio. Don Ciotti, nella sua premessa, lo definisce «un libro importante e necessario», come è sempre necessario tutto ciò che ci obbliga a fare i conti con il sommerso, con le realtà comunemente esiliate lontano dagli occhi. Ed è proprio dall'angolo più remoto della già marginale realtà carceraria, dal “buio del fine pena mai” che provengono le testimonianze raccolte. Gli “uomini ombra” sono infatti, secondo una sorta di auto-designazione poetica, gli ergastolani ostativi, cioè coloro ai quali è negata qualsiasi riduzione della pena, qualsiasi beneficio: dalle visite familiari ai permessi. «Vale a dire che l'ergastolo è totale, effettivo e senza termine», spiega don Ciotti. Tale regime speciale è una conseguenza dell'inasprimento delle leggi per combattere la criminalità organizzata in seguito ai delitti di mafia dei primi anni '90 e coloro che vi sono sottoposti sono i condannati per reati associativi che hanno scelto di non collaborare con la giustizia. È una decisione, quella di non collaborare, che, come spiega la curatrice Francesca de Carolis, «viene ribadita con forza. Fino a respingere la legittimità del termine “pentiti” che comunemente ormai tutti usiamo per indicare i collaboratori di giustizia, trasformando l'atteggiamento morale che accompagna il riconoscimento di colpa in figura giuridica.» Si tratta di uno dei temi più cari ai protagonisti del libro, perché è il vero discrimine tra gli “uomini ombra” e coloro che, a parità di reato, sono tornati in libertà. Ed è uno degli argomenti sui quali sembrano essere tutti concordi.

Il tempo scandito e il tempo vuoto

I contributi, tutti raccolti tra la primavera del 2010 e l'autunno del 2011, sono raggruppati in macro-sezioni tematiche e introdotti da titoletti che presentano l'argomento e da qualche breve incursione della curatrice. Le domande che hanno stimolato gli interventi, raccolte grazie a un appello telematico tra le proposte di medici, giornalisti, religiosi e cittadini non sono riportate nel libro, anche se in parte sono intuibili dalle risposte, sulle quali la curatrice ha cercato di intervenire il meno possibile, limitando al minimo modifiche e correzioni e lasciando spazio alla testimonianza diretta, con tanto di incertezze sintattiche e contraddizioni. Lo stesso discorso vale per le brevi autopresentazioni che aprono il volume, alcune di poche righe, altre più dettagliate – anche se i racconti biografici più intimi emergono nel corso del libro, quando si toccano i temi della famiglia e degli affetti: tanti rimpiangono di non aver visto crescere i propri figli e vorrebbero avere la speranza di poter recuperare almeno con i nipoti.
Nell'ottica di restituire uno spaccato autentico, senza demagogia e senza giudizi, diversi brani del libro sono dedicati alla descrizione della vita in carcere: i suoi ritmi, i suoi suoni, le sue presenze. Sul concetto di tempo in carcere sono due i ragionamenti che prevalgono: da una parte ciò che più viene temuto e percepito come alienante è l'ozio forzato dei regimi penitenziari più duri. Carmelo Musumeci, ricordando la sua esperienza all'Asinara, spiega: «Non avevo nessuna attività. A quel tempo il regime di tortura del 41 bis non prevedeva nessuna attività culturale, sportiva, lavorativa. Si viveva da cane in un canile». Il secondo aspetto che emerge a proposito del tempo in carcere è la sua rigida organizzazione modulare, la stessa descritta da Foucault, che considerava parte integrante dei meccanismi disciplinari la ferrea amministrazione del tempo – la stessa della fabbrica e della scuola –, un modo per garantire insieme efficienza, controllo, docilità e sorveglianza gerarchica. Giuseppe Pullara ad esempio vuole sfatare il luogo comune secondo cui «in carcere c'è più tempo libero; sappiate che tutto il nostro tempo libero è cadenzato dal regime penitenziario». Colazione, battitura delle sbarre, passeggiata, rientro, doccia... tutto ad un'ora precisa, tutto è perfettamente scandito, limitando «il tempo “libero” a un lumicino, per cui ogni soggetto lo vive come meglio può: chi studia per non oziare o pensare alla negatività in cui è costretto a vivere, chi scrive molte ore, anche la sera tardi; chi guarda la tv dalla mattina alla sera; chi si dedica alla cucina preparando piatti succulenti e altri pessimi, per sperimentare». Ciò che Giuseppe lamenta è l'assenza di maggiori stimoli per impiegare in modo fruttuoso anche il tempo non organizzato: lavoro, corsi specialistici, progetti culturali... La stessa presenza della tv suscita alcune perplessità, ad esempio Musumeci si mostra scettico: «Molte persone “perbene” del mondo dei vivi dicono: “Hanno anche la televisione!” ma spesso è anche grazie alla televisione che i detenuti sono docili come pecore». Il motivo per cui Giuseppe non guarda la tv è invece meno politico, più personale: è il senso di estraneità e impotenza nei confronti del mondo raccontato dai teleschermi: i telegiornali gli danno la netta percezione «di un mondo che cambia senza poterne fare parte».



Arrugginirò come il ferro”

Il libro ospita interventi di vario tenore: militanti, intimi, propositivi, amareggiati. Alle riflessioni più amare si alternano momenti più leggeri in cui si racconta ad esempio la difficoltà di ingegnarsi nella preparazione di ricette che rendano il vitto carcerario più sopportabile: sono storie rocambolesche, che vanno dalla sostituzione fantasiosa di alcuni ingredienti difficili da reperire alla costruzione di una sorta di forno rudimentale. Da una parte ostinati sprazzi di vita, come la voglia di studiare, di continuare a comunicare con il mondo esterno, addirittura di realizzare qualche manicaretto; dall'altra momenti di sconforto, come il pensiero del suicidio che, dicono gli “uomini ombra”, una volta o l'altra sfiora un po' tutti.
Antonio Presta ha 40 anni (38, all'epoca delle interviste). È entrato in carcere a 19 anni, condannato all'ergastolo a 25. Racconta: «Un vecchio ergastolano mi disse: “Noi ergastolani prima diventiamo carcerati, poi il carcere”. Ecco, non è un luogo comune quando si afferma che diventiamo arredamento del carcere, perché non potrò oppormi a lungo; prima o poi, mi piaccia o no, sarò 'il carcere': arrugginirò come il ferro, sarò umido e pieno di muffa come i muri, mi aprirò e mi chiuderò alla stessa ora e morirò ogni volta in un giorno diverso, fin quando esisterà l'ergastolo, fin quando resisterà il mio corpo».

Laura Antonella Carli

Questa è la storia di Biagio: né morto, né vivo, né sano

Qui di seguito ospitiamo un racconto che ci ha inviato Carmelo Musumeci, ergastolano ostativo, attualmente detenuto presso il carcere di Padova. Carmelo è nato il 27 luglio 1955 ad Aci Sant'Antonio, in provincia di Catania.
Quand'era all'Asinara, in regime 41 bis, riprese i suoi studi e in cinque anni terminò le scuole superiori per poi conseguire, dopo tre anni di studi la laurea in giurisprudenza con una tesi in sociologia del diritto dal titolo Vivere l'ergastolo.
In carcere ha scoperto la passione per la scrittura, tra i suoi libri Undici ore d'amore di un uomo ombra e Zanna blu. Carmelo ama il linguaggio fiabesco e per descrivere la sua condizione di ergastolano utilizza metafore evocative: gli ergastolani sono gli “uomini ombra”, l'ergastolo è la “pena di morte viva”, lo Stato è “il ladro di sogni”.

Mi viene da sorridere quando sento parlare di convegni sulla sanità in carcere, è un sorriso ironico e benevolo al tempo; per vivere e per stare bene c'è bisogno di amare e di libertà.
(Alessandro Bruni)

«Biagio Campailla è un giovane “Uomo Ombra” arrestato in giovane età e condannato all'ergastolo ostativo.
È arrivato da poco tempo dalla Sardegna, dal lager di Badu Carros, e abbiamo fatto presto amicizia.
Tutte le mattine appena ci aprono i cancelli, viene a trovarmi nella mia cella, gli faccio il caffè, lo ascolto e provo a confortarlo.
Biagio sta male, soffre di una malattia genetica come la sorella, che per questa malattia è scomparsa da pochi anni.
Soffre di numerosi linfonodi latero-cervicali, di cervicobrachialgia, di ipoastenia sinistra e dell'arteria mammaria interna sinistra che incrocia e impronta il vaso venoso succlavio, che da 15mm passa a 6mm con conseguente possibile situazione clinica di sindrome dello stretto toracico superiore.
Sulle sue spalle pesano due gravi condanne, tutte e due mortali, ma, bizzarria della sorte, una condanna può far finire l'altra.
Dagli uomini è stato condannato alla “Pena di Morte Viva” (così chiamiamo l'ergastolo ostativo, quello senza possibilità di liberazione), dal destino invece è stato condannato a questa rara malattia.
Biagio s'è sposato giovane, appena quattordicenne, come accade ancora nel meridione, ha quattro figli e a quarantadue anni ha cinque nipoti.
Ha una famiglia che risiede in Belgio da tanti anni: dolce, colorita, solare e affettuosa, con una madre malata ma combattiva che lo segue con affetto da quattordici anni, l'ho conosciuta nella sala colloqui.
Biagio mi parla spesso dei suoi figli e dei suoi nipotini e mi confida che gli dispiace che a causa della malattia non potrà vederli crescere.
L'altro giorno mi ha confidato che non ha neppure più l'energia per stare male, che quello che lo terrorizza di più è spegnersi lentamente fra sbarre e cemento.
Penso che abbia ragione perché quello che fa più paura ad un uomo ombra malato è morire prigioniero, lontano dai propri familiari. Invece quello che terrorizza un uomo ombra sano è continuare a vivere senza neppure un calendario in cella per segnare i giorni che mancano al suo fine pena.

Questa è la storia di Biagio: né morto, né vivo, né sano, che si sta spegnendo lentamente come una candela senza luce e al buio in una prigione dei buoni.»

Carmelo Musumeci
Padova, dicembre 2012


Dove tutto è scontato e niente lo è

La raccolta saggistica I giorni scontati (Sandro Teti Editore, 2012, pagg. 205, libro + dvd € 20.00) ci invita immediatamente ad aprire il vocabolario: «cercate il verbo “scontare” e l'aggettivo “scontato”: non sorprendetevi se i significati vi condurranno dentro il carcere». I contributi ospitati nel volume, opera di un gruppo di studiosi, direttori penitenziari, educatori, esperti europei e giuristi, sono tutti caratterizzati da una grande precisione terminologica, a cui Silvia Buzzelli ci abitua fin dall'introduzione, nella quale utilizza spunti lessicali come chiave d'accesso a una riflessione che sappia mettere in discussione i falsi assiomi legati all'universo carcerario. Prima ancora però c'è il titolo, giocato su un'interessante polisemia. Tra i tanti significati del verbo “scontare” e dell'aggettivo “scontato”, i più facilmente riconducibili all'ambito detentivo parlano di “fare ammenda” e “patire le conseguenze di uno sbaglio”. In questo caso però, oltre all'ovvio legame con l'argomento in questione, il titolo pone l'accento su un'altra accezione: “scontato” significa anche “previsto, prevedibile, dato per certo” e “dare per scontato” vuol dire smettere di problematizzare una questione, considerala ovvia, già data, non oggetto di discussione. E qui arriviamo a quello che, io credo, è l'obiettivo del libro: scardinare questa semplicità di analisi e riaprire la riflessione sul carcere, sul suo funzionamento, sulle sue criticità, sulla sua stessa esistenza: «Tutto è scontato e niente lo è, compresa l'esistenza del carcere. Questa è la ragione degli appunti, questo il motivo del documentario».
La difficoltà di un discorso così elaborato è tenuta presente dagli autori stessi, che sono chiamati a scrivere non dei lavori conclusi quanto degli appunti (non a caso il sottotitolo è Appunti sul carcere), che rimandino ad altri approfondimenti e soprattutto testimonino indirettamente della complessità e della difficoltà di affrontare l'argomento con organicità e coerenza. Anche il termine “appunto” non ha un solo significato: è inteso anche come rimprovero, come osservazione. «E di rimproveri al nostro sistema detentivo – osserva Bruzzelli – se ne possono muovere davvero parecchi».

Luogo ideologico per individui generici

Gli appunti raccolti nel libro sono frutto di approcci diversi e mettono a fuoco differenti aspetti della questione, con una grande attenzione allo spazio-carcere: dal significato – reale, metaforico e simbolico – delle sbarre e come esse incidono sulla visibilità e sugli incontri tra detenuti, fino allo studio più specifico di due luoghi-tipo: l'isola di Gorgona, ultima isola-carcere italiana, sede di un penitenziario a indirizzo agricolo-zootecnico, e il carcere di Lodi, raccontato con approccio storico, ricostruendone le tappe, senza prescindere da chi vi è vissuto.

Proprio nella casa circondariale di Lodi è girato il documentario I giorni scontati, che costituisce la seconda parte del progetto. «È un film nel carcere, non sul carcere», spiega Silvia Bruzzelli, che ci racconta come l'idea di un progetto diviso in due parti, strettamente correlate ma che fanno riferimento a due supporti diversi, video e cartaceo, sia nata dalla volontà di «abbandonare un'analisi a senso unico», facendo ricorso ad uno sguardo diverso: quello della telecamera, ma soprattutto quello di un regista-attore, un artista, che sappia interpretare la realtà con occhi sensibili e immergersi in essa in prima persona. In questo modo al lettore-spettatore è offerta la possibilità di «gettare uno sguardo dentro locali, di solito opachi, spesso impenetrabili». «Diamo per scontata l'esistenza delle prigioni, ma non vogliamo affrontare le realtà che producono e le condizioni di coloro che le vivono – racconta il regista Maccioni –. Siccome sarebbe troppo penoso accettare l'eventualità che capitasse a noi stessi, tendiamo a considerare il carcere come qualcosa di avulso dalla nostra vita, una sorte riservata ad altri, un luogo ideologico per generici individui indesiderabili. Il che ci solleva dalla responsabilità di riflettere sulle problematiche concrete che affliggono i funzionamenti di tali strutture. Riflettere su questa presenza-assenza significa iniziare a riconoscerne i paradossi».
Maccioni ci accompagna alla scoperta della vita nel carcere di Lodi con l'ausilio della direttrice, Stefania Mussio e con il commento prezioso di Francesco Maisto, presidente del Tribunale di sorveglianza di Bologna. Quest'ultimo, fin dal primo intervento, mira a sfatare il luogo comune secondo cui la pena è una e una sola: il carcere. «Questo non sta scritto da nessuna parte. La costituzione, all'articolo 27, parla di pene, che non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». Maisto, anche in virtù della propria professione, non è un abolizionista, ma ritiene che sia comunque essenziale partire da questa consapevolezza: il carcere non è l'unica pena possibile. Dalla sua prospettiva riflette su come la situazione penitenziaria attuale soffra di un'assoluta mancanza di razionalità, anche in termini di efficienza dei costi, e si mostra amareggiato per l'assuefazione che in Italia abbiamo sviluppato nei confronti del malessere delle persone. Anche questo, secondo Maisto, è dato per scontato.
Nella seconda parte del progetto si mantiene dunque l'eterogeneità di contenuti che caratterizza il libro: l'approccio giuridico si accompagna dunque a quello artistico, per offrire spunti di analisi su quello che Bruzzelli definisce “il problema di fondo”: «la presenza, cioè, di un “corpo carcerato”, prigioniero di un'istituzione naturalmente contraddittoria e ipocrita nel momento in cui si prefigge lo scopo di punire senza sofferenza».

Laura Antonella Carli

Questa è la storia di un erbivoro...

«...Un detenuto condannato alla reclusione fino al giorno 99 del mese 99 dell'anno 9999. “Fine pena mai“, come una ghigliottina al rallentatore. [...]
Colpire il carcere significa colpire lo stato al cuore. Cambiare il carcere è il passo più importante verso un cambiamento radicale della società. Come cittadino di questa città carceraria posso lottare per i diritti più elementari. Lo sa, signor giudice, che nella cella del penitenziario che mi ospita posso avere solo dodici fotografie? Chi l'ha deciso questo numero? E da cosa dipende? Sono dodici come gli apostoli? E perché non trentatré come i trentini o sette come i nani? Se mia madre mi porta la foto del matrimonio di mio cugino, le devo ridare indietro quella di mio nipote che ha fatto la cresima. Giochiamo alle figurine.
Signor giudice, mi svegliano alle sette con la battitura, alle otto passa la colazione, mentre la cena è alle cinque del pomeriggio. Per mangiare di nuovo devo aspettare venti ore. Oppure devo fare la domandina allo spesinoto e accedere al sopravvitto, ma per quello si deve pagare. E quale carcerato può permettersi di fare la spesa tutti i giorni? C'è gente che passa le due ore d'aria giornaliere a elemosinare monetine e gli bastano solo per fare una telefonata a settimana, perché chiamano in Africa o in Cina. E lo sa perché, signor giudice? Perché quaranta detenuti su cento sono immigrati. Detenuti che hanno commesso reati piccoli e piccolissimi. Perché ottanta immigrati regolari su cento sono stati irregolari e dunque in questo paese per un immigrato essere irregolare è la norma, perciò diventa normale che finisca in galera. A questi bisogna aggiungere altri trenta detenuti su cento che sono tossici. Capisce? Settanta detenuti ogni cento hanno rubato la mela soltanto per fame. E considerando la totalità degli ospiti nelle nostre prigioni, soltanto uno su due è stato condannato in via definitiva, perché quell'altra metà sconta una pena senza aver ricevuto una condanna.»

Ascanio Celestini
da Pro patria, Einaudi, 2012, pagg.136, € 17.50
Il libro è tratto dall'omonimo spettacolo teatrale (vedi “A” 373, estate 2012)


I numeri dietro le sbarre

Secondo dati aggiornati al 30 giugno 2012:
1.546 è il numero degli ergastolani in Italia, tra cui 35 donne.
Più di 100 hanno alle spalle oltre 26 anni di detenzione (limite previsto per accedere alla libertà condizionale); la metà di questi ha superato i 30 anni di detenzione.
Circa 1.200 è il numero degli ergastolani ostativi; 154 sono i morti in carcere durante l'anno 2012; 60 è il numero dei suicidi avvenuti in carcere durante l'anno 2012.

Per contatti e per saperne di più

http://urladalsilenzio.wordpress.com
www.carmelomusumeci.com
www.associazioneantigone.it
www.ristretti.org
www.informacarcere.it
www.innocentievasioni.net