racconto
Vietato ridere
di Angelo Gaccione
illustrazioni di Adamo Calabrese
Una storia scritta per le bambine e i bambini. Ma non solo per loro.
Nella città di Furfantopoli,
regnava, ormai da molti anni, uno spietato dittatore di nome
Dominius. Non gli andava mai bene niente, e non faceva altro
che vietare, perseguire, imprigionare, condannare a morte. Insomma,
gli abitanti erano costretti a vivere nella paura, nel terrore,
e tutti avevano il cuore in gola perché nessuno si sentiva
al sicuro, ed il castigo poteva capitare in qualsiasi momento
a capriccio del dittatore.
A Furfantopoli governava l'arbitrio e i poveri sudditi conducevano
un'esistenza amara, fatta di angoscia e di infelicità.
Più di tutto Dominius odiava i colori ed il riso: queste
due cose così belle lui non poteva proprio sopportarle.
Voi vi chiederete perché, ma quando sarete più
grandicelli scoprirete da soli che gli uomini di potere sono
grigi, funerei, mortuari e non ridono quasi mai. Amano la guerra,
cioè la morte; esaltano le armi e vivono di intrighi.
Si fanno scortare ovunque vanno perché hanno paura dei
loro governati, e si nascondono dentro grosse macchine blu e
con i vetri neri. Le loro azioni quasi sempre provocano dolore
e pianto alla gente semplice: più perversi di così...
giudicate voi stessi.
Dominius aveva fatto bandire un ordine in cui si diceva che
a Furfantopoli era severamente vietato ridere, in casa e fuori,
e chiunque fosse stato sorpreso a ridere sarebbe stato messo
a morte. Furfantopoli era diventata dunque, la città
più triste della terra.
Le mamme, per timore che i loro bambini potessero divertirsi
per strada, li tenevano chiusi in casa. Voi sapete come sono
fatti i bambini: sono spensierati, amano giocare e ogni occasione
diventa per loro un divertimento, un sollazzo. I bambini sono
gioiosi, è nella loro natura, e ridono, ridono tanto;
perché se non ridono che razza di bambini sono? Sono
loro che portano l'allegria negli adulti: perché sono
buffi, fanno domande impertinenti e ne inventano una più
del diavolo. Insomma, senza bambini la vita sarebbe un cimitero
e non varrebbe la pena di vivere.
Da quando Dominius aveva vietato di ridere, per le strade non
si vedeva più un bambino e nei giardinetti, nelle piazze,
nei cortili, non si udiva più uno schiamazzo, un'esplosione
di allegria, una bella risata che allargava il cuore. Insomma,
una noia ma una noia... un silenzio tetro, un'atmosfera triste,
una vita che non era vita e ben presto i giovani sposi smisero
di mettere al mondo bambini, perché doleva il cuore vedere
come fossero costretti a crescere, e dunque non ne valeva proprio
la pena. In questo modo la popolazione di Furfantopoli cominciò
ad invecchiare e si avviava lentamente verso la sua inesorabile
fine.
Un tempo lontano non era stato così. La città
aveva un nome bellissimo: era stata battezzata Libertariam dai
suoi abitanti, perché non era vietato nulla. Non era
consentito solo fare del male agli altri, ma per il resto non
c'erano né gendarmi, né galere, né muri
col filo spinato, né eserciti, né armi, né
divise o giudici e si respirava un'atmosfera elettrizzante,
un fervore, un'allegria... insomma, era l'aria salutare della
libertà. I bambini, per esempio, potevano ridere a squarciagola
e stare per le strade e nelle piazze a divertirsi senza che
alcuno osasse dire a o ba.
I regolamenti da osservare erano pochissimi e comprensibili
a tutti, infatti a Libertariam non esistevano avvocati e le
rare liti (ma erano rare), venivano risolte in Assemblea, com'era
nella tradizione della città; com'era sempre avvenuto
a partire dalla sua fondazione.
Bisognava chiedere e non rubare, perché tutto era di
tutti, tranne le cose più intime, quelle affettive e
che non si potevano scambiare.
Non prendere più del necessario per non sottrarlo agli
altri.
Rispettare il lavoro di ognuno, perché ogni lavoro è
necessario.
Proteggere i beni più grandi della vita: la terra, l'acqua,
l'aria, i boschi...
Non dimenticare che ogni albero è come una madre che
genera un figlio, e se se ne taglia uno bisogna piantarne due,
perché madre e figlio siano sempre uniti, perché
possano sempre rigenerarsi.
Armi, guerra e denaro non erano solo considerati inutili, ma
spaventosamente dannosi.
Con questi pochi, ma sani princìpi, Libertariam prosperava
ed era una città solidale e pacifica.
Quando Dominius, a capo di un poderoso esercito di mercenari
di ogni sorta l'aveva occupata e sottomessa, tutto era rapidamente
cambiato. Quello che era di tutti era diventato di un solo dittatore
e della sua spietata corte. E soprattutto era stata abolita
la libertà, e perché più nessuno se ne
ricordasse, era stato persino cancellato il nome originario
e sostituito con Furfantopoli.
Non contento di avere abolito il riso, Dominius, che non ridendo
mai era sempre di pessimo umore, un brutto giorno ordinò
che tutte le case fossero pitturate di nero. Immaginatevi lo
sconforto, lo scoramento dei poveri abitanti. Le belle, colorate
facciate che avevano reso così gioiose, vive e gentili
le case di Libertariam, si trasformarono in un'unica colata
di notte e di buio. Sull'intera città calò una
cappa cupa, funerea, ed il sole vi si adagiava solo per morirvi.
Non risplendeva più un solo angolo e tutta la città
pareva immersa in un lutto eterno.
Ma come presto anche voi imparerete, non si può tenere
a lungo una città in schiavitù. Voi certamente
sapete, miei cari piccoli lettori, che tutti gli imperi della
storia sono crollati. Se non lo sapete, lo imparerete presto
a scuola. E c'è sempre qualcuno che prima o poi dà
il segnale della rivolta, della ribellione, della libertà.
Un uomo così esisterà sempre, in ogni tempo, in
ogni luogo: è possibile che da grandi molti di voi saranno
così e non sopporteranno un dittatore come Dominius.
Soprattutto non sopporterete le guerre, i gendarmi, i divieti,
e che ai vostri bambini sia proibito ridere. Insomma vi ribellerete
e Dominius avrà paura di voi.
A Furfantopoli quest'uomo un bel giorno arrivò.
Come fosse riuscito ad entrare in città non si è
mai saputo; come avesse potuto eludere il controllo delle guardie
in una delle porte dei bastioni, è rimasto sempre un
mistero.
Fatto sta che come un virus contagioso, il vento della libertà
e della disubbidienza era penetrato fra le mura di Furfantopoli.
Ricordatevi che per abbattere un tiranno a volte basta poco
e la fantasia è un'arma potentissima.
Il nostro generoso eroe era proprio quel che si dice un uomo
dotato di una spiccata fantasia. A vederlo - peccato che voi
non abbiate potuto conoscerlo - non aveva nulla di particolare.
Aveva un'altezza normale, un fisico normale, una faccia normale.
Era intelligente e altruista, questo sì, perché
se non si è intelligenti e generosi, hai voglia a cavare
un ragno dal buco. Con la sua intelligenza egli aveva creato
una minuscola contagiosa macchina per far ridere, che stava
comodamente in una tasca e che si poteva portare in giro senza
dare nell'occhio. Bastava pigiare un pulsante e subito quella
si metteva a ridere smodatamente e non si fermava più,
e chiunque si trovava nelle vicinanze ne veniva contagiato come
se gli stessero facendo il solletico, e iniziava a ridere anche
lui a crepapelle fino a farsi venire le lacrime agli occhi,
fino a non poter reggere più le budella. Lo spettacolo
era di uno spasso incredibile e non c'era alcun rimedio, tant'è
che la gente pareva invasata e si rotolava per terra fino a
perdere i sensi, fino a morire dal ridere, a morire ridendo.
La prima volta che il giovane usò la sua allegra invenzione,
fu durante una importante parata militare. Sulla Piazza d'Armi
davanti al Castello le truppe del dittatore, vestite in alta
uniforme, erano tutte rigidamente schierate e al suono delle
trombe si apprestavano a rendere onore al loro capo Dominius
che doveva passarle in rassegna. Avrebbe annunciato loro che
presto un'altra città vicina sarebbe stata invasa, per
essere sottomessa al suo volere. Un'altra sanguinosa guerra,
dunque.
Il nostro inventore, che si era munito di un discreto numero
di macchinette, azionò i pulsanti e le lanciò
tra le gambe dei soldati.
Accadde il finimondo: appena le macchinette cominciarono a sghignazzare,
i militi non si tennero più; come se avessero avuto una
lucertola nelle mutande o una formica nel sedere, si scatenarono
in un'orgia di risate saltando da un lato all'altro della piazza
come se ballassero la tarantella. Le righe furono rotte scomponendo
il geometrico disegno ordito dai superiori e il disordine prese
il sopravvento. Si davano pacche sulle spalle a vicenda, colpi
di spada sulla testa fino a fracassarsela e senza cessare un
istante di smettere di ridere. Era un delirio in cui nessuno
capiva più un accidente, mentre man mano che il tempo
passava, si vedevano i primi mucchi di corpi afflosciati senza
vita uno sull'altro. Ridevano e morivano; morivano dal ridere
e facevano ridere altri che a loro volta si apprestavano a tirare
le cuoia, dal tanto ridere.
Appena Dominius giunse sulla piazza scortato da un gruppo di
arcieri, fu colpito da una risata nervosa, stizzosa, come se
gli fosse andata di traverso una coscia intera di maiale. Gli
arcieri gli davano colpi decisi sulla schiena con l'intento
di soccorrerlo, ma non ci fu nulla da fare. Il dittatore che
aveva tanto odiato ridere, fu strozzato da una risata a cui
non era abituato. Schiattarono anche gli arcieri, sempre ridendo,
e di tutta la corte di Dominius non rimase neppure un tacchino.
Detto senza offesa e con carità cristiana, fecero tutto
sommato una bella morte. Di solito i tiranni finiscono impiccati,
ma a Dominius e ai suoi scherani andò fin troppo bene.
Appresa la notizia, il popolo si riversò per le strade
a festeggiare la fine della tirannia. Il giovane inventore fu
portato in trionfo e in suo onore fu piantato un albero gigantesco
nella piazza principale, detto l'albero della libertà.
Da allora divenne una felice consuetudine.
Naturalmente tutti i divieti di Dominius vennero aboliti, distrutte
le prigioni e tagliato il filo spinato. La città riprese
l'antico nome di Libertariam e tornò ad essere un luogo
solidale e pacifico. Si dice che i più validi pittori,
dai quattro angoli della terra, furono chiamati per ridipingere
con colori magnifici le facciate delle case. I monelli ne approfittarono
per scorrazzare per le vie, fare scherzi ai passanti e divertirsi
con...
No, per favore non chiedetemi altro, mentre scrivo qui fa un
caldo boia, sono stanco e poi non è che mi senta così
bene. Continuate voi la storia, immaginate: siete giovani e
avete fantasia da vendere.
Angelo Gaccione
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