Pinelli
“e 'a finestra c'è la morti”
di Gabriele Fuga ed Enrico
Maltini
Con questo titolo
(e il sottotitolo “Pinelli, chi c'era in quella notte”)
esce in queste settimane un libro delle edizioni Zero in Condotta.
Si tratta di un'appassionata e documentata ricostruzione di
uno degli episodi emblematici della criminalità del Potere,
intrecciato con le cronache e le vicende politico-giudiziarie
della madre di tutte le stragi, cioè l'attentato del
12 dicembre 1969 a Milano, in piazza Fontana.
Ne sono autori un avvocato anarchico (Fuga) e un componente
nel 1969 (con Pinelli e altri) di Crocenera Anarchica, con la
collaborazione di Elda Necchi (negli anni '70 attiva nella controinformazione
di Lotta Continua).
Questo libro condensa anni di ricerche e contribuisce a illuminare
meglio sia lo svolgimento dei fatti al quarto piano della Questura
milanese sia il più generale contesto nel quale avvennero,
tra servizi segreti, politica, depistaggi, ecc.
Ne pubblichiamo due capitoli. E in chiusura un vecchio
fumetto di Anarchik (“Morte accidentale di uno sceriffo”)
sempre valido.
Abbiamo rivolto alcune domande all'autore.
Premessa
E persiru la testa
e non sannu cosa dire
la corda gruppa gruppa
è morto senza colpa.
E lo chianginu l'amici
li scontenti e gli infelici
e lo piangi la moglieri
li compagni ferrovieri.
Che innocente lo infamari
gli inquirenti di Milano.
Per tre giorni e per tre notti
interrogato ai ferri corti
tra fumate e cosi storti
nella morsa lu stringeru.
E che fumu intra la notti
li pensieri s'annebbiaru
era chiusa la finestra
poi aperta la lasciaru.
Era quasi mezzanotte
e 'a finestra c'è la morti.
(Parlato):
“E chi fici la morti?
L'aspittò fuori la corti a Giuseppe
o entrò dalla balcunata
entro la stanza affumicata
e annebbiò li sentimenti
dell'esperti inquirenti?”
Era quasi mezzanotti
e caddi nella corti
e strisciò du cornicioni
che era sotto a lu balconi.
Era morto sull'istanti
steso a terra malamenti
ma pareva fossi morto
un istante precedenti.
Lu questore dissi poi
non l'abbiamo ucciso noi
Lamento per la morte di Giuseppe Pinelli,
di Franco Trincale (1970).1
Franco Trincale è un cantastorie siciliano e compose
questo lamento poco dopo la morte di Giuseppe Pinelli,
la notte del 15 dicembre del 1969, tre giorni dopo la strage
di piazza Fontana2. Trincale
evoca nel suo canto la tragedia e il dolore di quella notte,
ma con insolita precisione mette anche in rima i dubbi e gli
interrogativi che anni di inchieste e indagini ancora non hanno
chiarito. L'unica certezza rimasta è che “'a
finestra c'è la morti”. Una morte che continua
a pesare come una montagna, come testimoniano i libri, le inchieste
e da ultimo un film3, che ancora
poco tempo fa ha suscitato discussioni accese. Un manifesto
affisso allora dagli anarchici milanesi affermava, con l'enfasi
retorica di quegli anni: “Gli anarchici non archiviano
e non dimenticano” e Camilla Cederna scriveva: “Pinelli
è infine un simbolo che va al di là del suo tremendo
destino” (Pinelli. Una finestra sulla strage,
Feltrinelli, 1971). Ancora oggi, non solo gli anarchici, ma
moltissimi cittadini di ogni ceto, età e cultura non
hanno archiviato e non hanno dimenticato Giuseppe Pinelli, anarchico
e ferroviere, come simbolo e come persona.
Come sappiamo, la verità storica su quella morte ancora
non è scritta, pur se nel suo ultimo libro La notte
che Pinelli (Sellerio, 2009), e nel successivo pamphlet,
43 anni (2011, sul web), Adriano Sofri ha raccolto con
attenzione ogni più piccolo dettaglio su ciò che
quella notte accadde nella stanza al quarto piano della questura
di Milano. Un'opera che ha il merito di mettere al sicuro una
preziosa mole di materiale che rischiava di perdersi nel tempo.
Un tempo che sembra non passare mai, se anche la rilettura di
Una storia quasi soltanto mia, il racconto di Licia Pinelli
a Piero Scaramucci, riproposto nuovamente nel 2010 per l'Economica
Feltrinelli, suscitava le stesse emozioni della prima volta,
ormai trent'anni fa.
Quella fase della nostra storia è da tempo oggetto di
studi da parte di accademie ben più qualificate di chi
scrive queste righe e a loro compete il compito di descriverle
e analizzarle. Noi voliamo più basso, per tanti di noi
ancora oggi Pino Pinelli non è solo un dato politico,
è una parte della nostra vita, il suo è stato
il destino di un compagno e di un amico, che prima in vita e
poi in morte, ci ha accompagnato da allora fino ad oggi e continua
a farlo.
In queste note sono raccolti documenti e impressioni su un tema
tuttora assai nebuloso: chi altri c'era, oltre ai personaggi
ormai ben noti, nella questura milanese in quei giorni e in
quella notte? Intorno a Pinellli si aggiravano funzionari di
alto grado elusivi e sfuggenti, sui quali vi è ancora
molto da chiarire: quale fu il loro ruolo, quale stato e quali
istituzioni servivano e come hanno potuto sottrarsi per anni
alle inchieste della magistratura. Un racconto che non svela
segreti inediti o sconvolgenti, ma è una rappresentazione,
un quadro a volte più chiaro, a volte quanto mai oscuro
delle circostanze in cui Pinelli morì e Valpreda divenne
il mostro. Di sconvolgente c'è forse solo una cosa: il
livello – morale, politico e culturale – degli uomini
ai vertici dei nostri servizi “di sicurezza”, l'uso
che facevano delle così dette “fonti” e l'evidente
subordinazione a disegni e strategie decise da sfere più
alte e più lontane non solo da noi, ma anche da molte
delle strutture di governo del paese. Ma non saranno i giudizi
di chi scrive a contare: le loro stesse parole, qui riportate
ampiamente, diranno tutto.
Gran parte delle fonti utilizzate derivano da un'altra preziosa
mole di materiale, che la “Casa della memoria” di
Brescia ha messo al sicuro, digitalizzando migliaia e migliaia
di pagine4 di atti istruttori
e processuali relativi alle inchieste sulla strage di piazza
Fontana del 12 dicembre 1969, su quella della questura di Milano
del 17 Maggio maggio 1973, sulla strage di piazza della
Loggia a Brescia il 28 di Maggio1974, sulla strage di Bologna
del 2 Agosto agosto 1980 e su altri episodi di quegli anni,
che segnarono in modo tanto crudo la nostra storia. Può
sembrare incredibile a ogni persona di buon senso, ma gran parte
di quel materiale rischiava di andare al macero, sulla base
di una normativa secondo la quale gli atti processuali anteriori
al 1980 dovrebbero essere distrutti.
Ospiti ingombranti
Sappiamo già dai libri e dai documenti processuali
su piazza Fontana del ruolo di quel centro di potere occulto
chiamato Ufficio Affari Riservati5
(vari gli acronimi: A.R., AA.RR., UAR, D.A.R., Uaarr), facente
capo al Ministero degli Interni e guidato prima “occultamente”
dal 1965 al 1972 e poi ufficialmente fino al 1974 – anno
in cui, due giorni dopo la strage di piazza della Loggia a Brescia,
fu formalmente sciolto – dal prefetto Federico Umberto
D'Amato. Un ufficio al quale è da anni associata la qualifica
di “famigerato”, struttura al vertice dei servizi
segreti della Repubblica e implicata in tutte le trame più
inconfessabili della storia di questo paese. Che l'Ufficio Affari
Riservati del Viminale, erede spirituale dell'OVRA fascista,
sia stato Il cuore occulto del potere, come titola il
libro di Giacomo Pacini, Storia dell'Ufficio Affari Riservati
del Viminale, 1919-1984 (ed. Nutrimenti, 2010) ed il principale
artefice della strategia della tensione e delle stragi è
ormai implicitamente – ma non giuridicamente – accettato
da tutti. Non per nulla Pacini dice, di D'Amato, che è
stato per anni “detentore di un potere talmente vasto
da permettergli di condizionare perfino le scelte politiche
dei vari ministri dell'Interno in carica”.
Luciano Lanza in Bombe e segreti (Elèuthera, 1997),
Aldo Giannuli in Bombe a inchiostro (BUR, 2008), Mimmo
Franzinelli ne La sottile linea nera (Rizzoli, 2008),
il già citato Giacomo Pacini e altri autori hanno descritto
nei particolari lo smisurato potere che derivava a D'Amato dai
suoi rapporti con la CIA e i servizi europei, con i capi dei
vari servizi di informazione nostrani, militari e non, con i
ministri degli Interni oltre che con Ordine Nuovo, Avanguardia
Nazionale e tutta la fascisteria e i golpisti dell'epoca.
Quello che sorprende e quello di cui per troppo tempo non ci
siamo resi conto, è che il tenebroso Ufficio, nei giorni
della strage di piazza Fontana e della morte di Pinelli, era
fisicamente presente nei locali della questura di Milano, con
funzionari di alto rango e con un'intera squadra tecnica e informativa,
giunti a Milano da Roma già il 13 dicembre. Una presenza
davvero occulta: i soli di cui si trova traccia negli atti di
allora sono il vicequestore Silvano Russomanno6
ma esclusivamente per la vicenda dei vetrini “trovati”
nella borsa inesplosa alla Banca Commerciale di Milano, ed Elvio
Catenacci – definito allora dai giornalisti “l'ispettore
fantasma” – l'unico ufficialmente inviato “in
missione” per una sedicente inchiesta dal ministero degli
Interni, nominalmente direttore dell'UAR, in realtà fantoccio
di D'Amato. Molti altri erano presenti, ma nessuno fu mai interrogato
nelle due istruttorie dei giudici Giovanni Caizzi e Carlo Amati
prima e di Gerardo D'Ambrosio poi, effettuate sulla morte di
Giuseppe Pinelli. Nessun accenno a questi ingombranti ospiti
della questura milanese neppure nel processo intentato dal commissario
Calabresi al direttore di Lotta continua Pio Baldelli.
La loro presenza e quella di un folto gruppo di funzionari e
il loro ruolo nella questura di Milano subito dopo la strage,
sono stati nascosti ai magistrati inquirenti e occultati ai
media e alla storia per oltre 27 anni. Solo dal 1996, con la
scoperta dell'archivio segreto della via Appia7
e delle carte ivi conservate, sarebbe stato virtualmente possibile
scoprire il pesantissimo ruolo avuto da costoro anche nella
morte di Pinelli, ma da allora fino ad oggi su quel ruolo nessun
magistrato ha voluto indagare.
Chi c'era in quei
giorni nella questura di Milano
Pinelli entra col suo motorino in questura a Milano il pomeriggio
del 12 dicembre vi rimane fino alla mezzanotte del 15, quando
precipita dal quarto piano e muore. Tra le persone che in quei
giorni circolavano a vario titolo in questura c'erano poliziotti
di diverso grado, qualche carabiniere, i sospetti e i fermati
(che raggiungeranno il numero di 150), giornalisti, spie e uomini
dei servizi segreti. Alcuni li conosciamo ormai bene, di altri
invece poco o nulla abbiamo saputo per molti anni. Quelli che
conosciamo sono:
– Antonino Allegra, capo dell'Ufficio Politico (ma anche
uomo di Federico D'Amato). Allegra non ha dubbi sulla colpevolezza
di Pinelli negli attentati. La mattina del 16, a poche ore dalla
tragica morte, scrive8:
Di seguito a precedenti rapporti pari numero ed oggetto,
si comunica che alle ore 0.15 di questa notte mentre il Commissario
Aggiunto dott. Luigi Calabresi ed altri ufficiali di polizia
giudiziaria, nelle persone dei sottufficiali di P.S. Panessa
Vito, Mainardi Carlo, Mucilli Pietro e Caracuta Giuseppe,
presente il Tenente dell'Arma dei Carabinieri LOGRANO Savino,
procedevano, nei locali dell'Ufficio Politico, all'interrogatorio
di PINELLI Giuseppe, nato a Milano il 21.10.1928 qui residente
in via Preneste n. 2, ferroviere, anarchico, fortemente indiziato
di concorso nel delitto di strage commesso contro la Banca
Nazionale dell'Agricoltura in Milano, il medesimo, con repentino
balzo, si precipitava da una finestra socchiusa nel sottostante
cortile cadendo al suolo dopo aver urtato contro i rami di
un albero. Immediatamente trasportato al vicino Ospedale Fatebenefratelli,
veniva ricoverato con prognosi riservatissima per frattura
cranica ed altro e vi decedeva alle ore 1.45.
Ancora il 10 febbraio del 1970, a quasi due mesi dalla morte
di Pinelli:
Sulla correità materiale e morale del Pinelli
in ordine ai numerosi attentati di ispirazione anarchica verificatesi
nel 1968 e nell'anno in corso a Milano e in numerose altre
città italiane questo ufficio nutriva da tempo molteplici
sospetti, tanto che, al fine di controllarne i movimenti ed
i contatti aveva disposto saltuari pedinamenti nonché
un controllo telefonico, autorizzato dalla procura della repubblica
di Milano, dal 22 agosto al 6 settembre in relazione alle
indagini sugli attentati ai treni dell'8 agosto 19699
(...) lo stesso aveva posto in essere tattiche, che per la
loro natura o per la concomitanza con determinati eventi delittuosi
(attentati sui treni dell'8 agosto) facevano fondatamente
ritenere che non fosse estraneo a siffatte azioni terroristiche.
Prima ancora della strage, nell'ottobre-novembre '69, Allegra
era stato vivamente allertato dall'UAR sulla pericolosità
del Pinelli, in quel periodo si sprecano infatti le informative
su un supposto viaggio di Pinelli a Parigi, viaggio che non
avrà mai luogo, ammesso che fosse previsto, e poi che
male ci sarebbe stato?
|
La squadra politica della questura milanese.
Da sinistra a destra: Vincenzo Putomatti, il
vice-dirigente Beniamino Zagari, Antonio Allegra, Marcello Giancristofaro
e Luigi Calabresi. Non compaiono nella foto gli altri componenti:
Antonio Pagnozzi, Edmondo Lavitola, Raffaele Valentini e Pasquale
Diogene |
Antonino Allegra è anche il funzionario che solo pochi
giorni prima del 12 dicembre aveva minacciato Pinelli di fargliela
pagare, come risulta da testimonianze agli atti del processo
Calabresi-Baldelli. Allegra è anche colui che intorno
alle 22 del 15 dicembre, due ore prima della caduta, accusa
Pinelli delle bombe del 25 aprile all'Ufficio Cambi della Stazione
Centrale e minaccia che gli porterà presto le prove,
“avute da fonte confidenziale”. Sempre Allegra
è colui che la mattina del 16 dicembre accompagna il
tassista Rolandi (che avrebbe portato col suo taxi Valpreda
in banca), prima agli Affari Riservati del Viminale, secondo
quanto deporranno due addetti dello stesso ufficio e solo in
un secondo momento davanti al Magistrato inquirente.
Luigi Calabresi, commissario di P.S. Di lui molto è stato
già detto e contraddetto, ma ancora qualcosa ci sarà
da dire.
Calabresi fu sì correo e responsabile (formale o non
solo) della morte di Pinelli, ma al contrario di Allegra, dai
documenti esaminati non risulta che era tra coloro che manovravano
nel “grande gioco”. Sia chiaro che questo non diminuisce
le sue responsabilità, solamente aggrava quelle dei suoi
superiori, diretti e indiretti. In questo quadro Calabresi appare
piuttosto una pedina, se pure determinante, e forse solo le
ragioni della sua morte potranno spiegare un giorno il suo vero
ruolo. Per il resto, continuiamo a non sapere se la morte aspettò
Pinelli “fuori la corte”, o “entrò
dalla finestra nella stanza affumicata”.
In questura ci sono altre due figure importanti, che molti allora
conoscevano: una è il maresciallo Antonio Pagnozzi dell'Ufficio
Politico, sezione ordine pubblico. L'altra è una spia:
Enrico Rovelli.
|
Fig. Mappa del quarto piano della questura di
Milano |
Per le stanze affumicate
Uno che invece certamente in questura non c'è
è il Questore di Milano Marcello Guida, il cui ruolo
è esclusivamente di rappresentanza: non dirige le indagini
e non vi partecipa, si limita a riferire ufficialmente ciò
che gli viene detto di riferire. Se parla di suo, fa gaffes
irrimediabili. Guida sarà bruscamente svegliato dopo
la mezzanotte del 12 dicembre e arriverà solo in tempo
per la famigerata conferenza stampa in cui il suicidio
di Pinelli sarà “prova evidente della sua responsabilità
nella strage”, presenti e consenzienti Allegra e Calabresi,
tra gli altri. Una conferenza stampa che resterà una
nera macchia per la questura di Milano, ma che avrà il
merito di suscitare nei giornalisti presenti, tra i quali l'indimenticabile
Camilla Cederna e poi Corrado Stajano, Aldo Palumbo, Renata
Bottarelli, Gianpaolo Testa un sentimento di ripugnanza tale
da motivare poi anni di impegno nella ricerca di un'altra verità.
Come emergerà invece solo molto più tardi dagli
archivi della via Appia, altri esperti inquirenti si
aggiravano per le stanze affumicate; il già citato
vice questore Silvano Russomanno giunto a Milano con il collega
D'Agostino, il maresciallo Ermanno Alduzzi e una squadra tecnica
e informativa (?) di oltre una decina di persone, guidata da
tale Guglielmo Carlucci, che diventerà poi il vice di
D'Amato. Dove materialmente fossero in quei giorni e durante
gli interrogatori di Pinelli non lo sappiamo, ma le stanze della
questura erano sempre quelle e dovevano essere ben affollate.
Tra tutte quelle citate, la figura di spicco è senz'altro
Silvano Russomanno, che è anche colui che comanda, dunque
da lui è giusto cominciare.
Chi c'era in quella stanza?
Nell'immaginario di chi visse quel periodo vi è una
stanza con cinque agenti, il fermato Pinelli, una finestra,
molto fumo. Nella stanza in fondo al corridoio c'è Allegra,
nel corridoio un carabiniere (Sarti) e un altro (Lo Grano) sta
appoggiato allo stipite della porta. Ma alla luce degli atti
che abbiamo letto l'immagine si sfuoca e diventa incerta: vi
sono in giro anche Russomanno, Alduzzi e Catenacci e ancora
D'Agostino e Carlucci con una squadra di una decina di persone...
“che dovevano rimanere riservati”.
Un sacco di gente dunque. Gente che comanda, come i funzionari
hanno affermato senza mezzi termini: “... presero in
pratica la situazione in mano”, “... erano
gerarchicamente dipendenti”, come ha affermato Antonio
Pagnozzi, gente che “non abbiamo mai avuto resistenze
da parte dei Dirigenti dell'Ufficio Politico”, come
conferma ancora più esplicitamente Guglielmo Carlucci,
vice di D'Amato, e ancora: “Confermo che al Pinelli
durante il fermo fu contestata una falsa confessione di Valpreda:
così si usava, allora eravamo i padroni delle indagini”,
una frase formulata come da persona presente al fatto. Ma allora
chi contestò la confessione? Chi fece il famoso saltafosso
(Valpreda ha parlato) prima associato al suicidio
e poi stranamente retrocesso di oltre quattro ore? Fu Calabresi,
come dissero in questura? O fu un carabiniere che “irruppe
nella stanza” come dalla deposizione di Giuseppe Mango?
O furono gli uomini di D'Amato che erano “padroni delle
indagini” e che “così usavano?”
Le versioni su chi fu sono molte e diverse, quelle sul
quando fu anche: segno che chi e quando realmente fu
non può essere detto?
Certamente il capoverso precedente ha molti punti interrogativi,
ma vorremmo chiedere al lettore se riesce a trovare una ragione
per la quale dovremmo accettare la descrizione degli avvenimenti
di quella notte, così come è stata raccontata
dagli uomini ufficialmente presenti, visto che l'unico
di cui ci saremmo potuti fidare era “steso in terra
malamenti”, sul cortile di sotto.
Immaginiamo la scena: Pinelli improvvisamente precipita, il
momento è drammatico, gli agenti vanno in panico...“e
persiru la testa e non sannu cosa dire”, le conseguenze
possono essere ingestibili, “la corda gruppa gruppa”
(gruppa = si aggroviglia), una decisione deve essere presa sull'istante,
non c'è tempo per scendere in cortile. Chi ha voce in
capitolo per farlo? Calabresi e Allegra, certamente, ma anche
e forse di più quelli che avevano preso “...
la situazione in mano” e da cui gli uffici politici
prendono ordini e “si sentono gerarchicamente dipendenti”.
A chi avranno guardato gli agenti sgomenti nel chiedere che
fare? Ad Allegra e Calabresi o ai Russomanno, Catenacci
e loro uomini? Mettendosi nei panni di un poliziotto la risposta
non è difficile: gli agenti guardano al loro Commissario
e al loro Capo dell'Ufficio, il commissario e il capo guardano
ai gerarchicamente superiori. Stando alle loro stesse
parole, su chi dava le direttive in quella questura non ci sono
dubbi.
|
La pianta della stanza di Calabresi fornita dalla
questura. Per far apparire più grandi gli spazi e consentire i “tuffi” e i “balzi”, i mobili sono
rimpiccioliti in modo evidente. In proporzione alla luce della porta, indicata in un metro, le sedie avrebbero un lato di 20
centimetri!. Falso in atto pubblico? |
“Sbiancò in volto”
È solo una ipotesi, ma se per caso nella stanza ci
fossero state una o più presenze riservate, come
avrebbero dovuto comportarsi quelle ufficiali per garantire
loro la riservatezza? Forse solo tacendone la presenza,
o anche fingendo di essere state loro presenti in luogo
di altri?
Gli agenti descrissero i fatti prima con parole troppo simili
quali i tuffi, i balzi, il famoso sbiancò in volto,
che peraltro ritrattarono in aula con versioni molto più
vaghe e sfumate, ma anche contraddicendosi ampiamente. L'impressione
di tutti fu allora che si fossero messi d'accordo, ma un'altra
ipotesi, che non esclude la prima, è che non tutti
fossero presenti, o che qualcuno fosse presente in luogo di
altri. Di sicuro Lello Valitutti, che dallo stanzone dei fermati
poteva vedere il corridoio, ha sempre detto che non vide Calabresi
uscire dalla stanza e dirigersi verso lo studio di Allegra.
Al quarto piano c'erano però altri uffici, oltre a quello
di Calabresi ove si svolgeva l'interrogatorio, che Valitutti
non poteva vedere e sotto il quarto piano c'è il terzo,
collegato in fondo al corridoio con le scale di servizio. Dunque
frotte di persone potevano entrare e uscire dalla stanza di
Calabresi senza essere viste, ivi comprese quelle non poche
che, come ha spiegato Carlucci, dovevano restare riservate
e delle quali in effetti nessuno parlò mai. In quei piani
alti della questura di Milano i chi, i dove e i quando sono
davvero molto incerti.
Milano, 28 gennaio 1970. Il giudice Caizzi, che conduce la prima
istruttoria sulla morte di Pinelli, ascolta la testimonianza
di Aldo Palumbo, il cronista dell'Unità. È quasi
mezzanotte, appena uscito dalla sala stampa della questura Palumbo
si sofferma sui gradini che portano al cortile per accendersi
una sigaretta e sente
un colpo come di legno che sbattesse in alto, un grido
indistinto e una successione di tre tonfi.
E continua:
Ho sollevato gli occhi verso l'alto ed ho visto dalla
penultima finestra sul fondo verso sinistra e illuminata,
una persona curva oltre la balaustra che guardava in basso.
13 novembre 1970, processo Calabresi contro Baldelli. Aldo
Palumbo ripete la sua testimonianza:
alla finestra, l'unica illuminata al 4° piano intravidi
solo una silhouette illuminata da dietro; una persona che
sembrava curva sulla ringhiera, poi si girò.
Le altre finestre degli uffici che si affacciano sul cortile
sono quindi spente. In successione, quelle di un ignoto piantone,
Allegra, anticamera di Allegra, Zagari, La Vitola, Valentini,
Calabresi, Giancristofari, tutte spente salvo quella corrispondente
alla stanza di Calabresi. La piantina del 4° piano della
questura mostra l'entrata all'Ufficio Politico. Tutte le stanze
citate si trovano, entrando, sul lato sinistro del corridoio,
a destra invece, lo stanzone dei fermati, una segreteria, gli
uffici di Pagnozzi, Putomatti e Finocchiaro, in fondo, una porta
a vetri immette alle scale di servizio che evidentemente portano
ai piani inferiori.
Nell'ultimo lampo di vita di Giuseppe Pinelli, le dichiarazioni
dei funzionari sui rispettivi spostamenti, i saltafossi, i cambi
di guardia, che modificheranno spesso quanto a orari
e versioni, sono molteplici.
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|
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La stanza di Calabresi e la finestra da cui precipita
Pinelli, come appaiono dall'unione di tre fotografie. Al contrario
di quanto riporta la mappa falsificata fornita dalla Questura,
con i cinque (ma anche fossero stati quattro) agenti presenti,
lo spazio per “balzi felini” e “tuffi”
è del tutto inesistente |
Al terzo piano...
Lello Valitutti, l'unico testimone, sveglio nonostante il
micidiale panino alla mortadella fornito dalla questura e allertato
dai rumori da poco sentiti, dichiara che di fronte all'apertura
sul corridoio, con vista sulla porta di Allegra, non ha visto
passare nessuno, mentre stando alle dichiarazioni ufficiali,
avrebbe dovuto veder passare Calabresi che portava i verbali
ad Allegra. Ma l'ufficio di Allegra è spento e Palumbo
difficilmente si sbaglia, da vecchio cronista sa come fissare
i ricordi.
Poiché è improbabile che Calabresi, come ha sostenuto,
sia uscito dalla fatidica stanza per portare i verbali di Pinelli
ad un Allegra seduto al buio, sembra proprio che Valitutti,
nonostante sia un anarchico, abbia detto il vero.
Perché insistere tanto su questi particolari? Dove vogliamo
arrivare o meglio dove vogliamo scendere? Per la verità
siamo attratti dal terzo piano. Perché Russomanno, Carlucci,
Alduzzi e l'altra decina o più di persone facenti parte
della squadra dovevano pur stazionare da qualche parte,
con tutta la riservatezza del caso, noi guardiamo al terzo piano.
Perché?
Nella sua deposizione, Oronzo Perrone, autista di Calabresi,
situa l'ufficio politico al terzo piano. Naturalmente sarà
stato un lapsus.
Il vigile Panizza Alfonso che riceve la chiamata dalla questura
si sente dire che “un fermato si è gettato dal
terzo piano…”. Evidentemente è un altro
lapsus, ma il terzo piano è in qualche modo nelle loro
menti e il vecchio Freud difficilmente sbaglia32.
Se i colloqui tra i funzionari avvenivano fuori dalla vista
dei fermati, al quarto piano erano disponibili solo gli uffici
di Pagnozzi, Puttomatti e Finocchiaro mentre quello di Giancristofari
era gelato (per questo si erano spostati da Calabresi, che aveva
la stufetta), un po' pochi per tutta quella gente. Il terzo
piano, collegato con le scale di servizio, è più
adatto allo scopo e spiegherebbe anche l'assenza di movimenti
fra l'entrata principale e gli uffici che l'unico rimasto in
questura, Valitutti, quella notte avrebbe potuto vedere.
Credere ad Anna Bolena può richiedere un certo sforzo:
ma anche Rovelli sostiene che lui stesso, con i compagni del
Ponte della Ghisolfa, telefonò all'ufficio di Allegra
verso le 23,30 o poco più tardi, per avere notizie di
Pinelli, a seguito di un accordo preso nel pomeriggio con lo
stesso Allegra: non rispose nessuno.
E non si sa neppure dove Russomanno e Alduzzi abbiano interrogato
Rovelli, condotto in questura la sera del 13 dicembre. Certamente
non in un luogo visibile da occhi indiscreti.
A mettere le pezze ci pensano Calabresi e Allegra, che infatti
non si muovono dalla stanza e istruiscono i subalterni sulla
versione univoca da fornire al magistrato il giorno dopo: il
tuffo, lo sbiancamento anarchico33
ecc., intanto l'unico estraneo alla questura, il carabiniere
Lo Grano, è già sceso in cortile, loro invece
no, nessuno si muove. Versione troppo univoca, che infatti subirà
parecchie modificazioni durante il processo a Baldelli, solo
pochi mesi dopo.
E quando Licia Pinelli, informata dai giornalisti, chiamerà
la questura, Calabresi uscirà dal suo ufficio e si recherà
in quello di Allegra per rispondere. “Sa signora, qui
abbiamo molto da fare” dirà a Licia, per giustificarsi
di non averla avvertita. Chissà se prima ha acceso la
luce?
E tanto per aumentare la confusione, il questore Guida scriverà
il 16 mattina al ministero dell'Interno che “nella
stanza contigua (a quella del ”fatto“, n.d.r.)
era il Commissario Cap o Dr. Allegra, dirigente l'Ufficio
Politico”. Contigua? Strano, perché stando
alla mappa ci sarebbero ben cinque stanze di mezzo. Ma ancora
altri particolari devono far riflettere.
Come confermato da Licia Pinelli, alle 22,30 arriva una telefonata
dal centralino della questura per avere il libretto ferroviario
dove i dipendenti delle Ferrovie segnano i viaggi gratuiti di
cui usufruiscono. Dunque l'argomento dell'interrogatorio in
quel momento sono gli spostamenti in treno di Pinelli. Sappiamo
che c'è qualcuno che è particolarmente appassionato
a questo argomento, qualcuno che si era fissato nel voler a
tutti i costi attribuire a Pino le bombe sui treni dell'agosto
'69, come scriverà con enfasi già il 18 dicembre
'69 all'Egregio commendatore. Gli originali delle missive di
Russomanno a D'amato su questo argomento, a due giorni dalla
morte di Pino, sono in appendice (d) a questo libro e
documentano la pervicacia e la fretta con cui il nostro cerca
di incastrare gli orari dei treni per “incastrarvi”
anche “il suicida Pinelli”, come viene invariabilmente
chiamato, con sospetta insistenza. Identici argomenti saranno
ripresi da Allegra in un rapporto del successivo 10 febbraio.
Ma allora, chi conduceva l'interrogatorio? Chi c'era in quella
stanza? La verità è che non lo sappiamo e le continue
modifiche nella ricostruzione dei fatti da parte dei testimoni
(che alla fine, a loro dire, non avrebbero visto nulla...) non
fanno che aumentare i dubbi.
Sono ipotesi, è vero, e altri scenari sarebbero pensabili.
Ma è solo per dare un'idea di come e quanto le cose possano
essere andate diversamente da quella che, per anni, è
stata la versione ufficiale.
Se allora scomponiamo la visione della stanza e dei personaggi
che abbiamo troppo facilmente accettato per data, tutto diviene
possibile ed il possibile può essere molto peggio di
prima. I più riflessivi fra noi, come del resto la stessa
moglie Licia, hanno sempre avuto difficoltà ad accettare
che Pinelli sia stato deliberatamente buttato dalla finestra
o comunque ucciso volutamente da Calabresi o chi per lui. Piuttosto
si pensava all'incidente, alle grosse mani del rozzo Panessa,
a un alterco, un gesto di difesa... come anche La Strage
di Stato e il bcd avevano suggerito. Ma se dentro
lì c'erano personaggi del tipo di quelli che abbiamo
visto, funzionari incaricati da alti poteri di porre mano a
una “strategia della tensione” che prevedeva a freddo
e solo come primo atto una strage di civili da attribuire ad
anarchici, le cose cambiano. A questi livelli la morte di un
ferroviere anarchico poteva non essere che un dettaglio.
|
Il cortile interno della Questura, la freccia
in alto indica la finestra da cui è volato Giuseppe Pinelli |
Occhio al tranello
Fatale errore di D'Amato e Russomanno: quello che loro sapevano
dell'anarchico era frutto di informazioni poliziesche,
schedari di questura, veline di spioni. Tutti strumenti troppo
rozzi per delineare una figura umana, per raccontare una persona.
Del vero Pinelli non avevano idea alcuna. Non solo, ma nella
loro cultura di sbirri d'alto bordo non potevano immaginare,
come ahimè scopriranno troppo tardi, che un ferroviere
anarchico potesse essere ricco di storia, di amici, di cultura
e di passioni, che potesse avere familiarità con studenti
e operai ma anche studiosi, sindacalisti, docenti universitari.
Una figura che la sera stessa della morte avrebbe toccato l'anima
di smaliziati giornalisti e che solo pochi giorni dopo, per
quei meccanismi misteriosi che nessun fascicolo di questura
riuscirà mai a schedare, susciterà sentimenti
di rivolta morale in migliaia di persone che nemmeno lo conoscevano.
E fu così che un anarchico, caposquadra manovratore allo
scalo Garibaldi di Milano, incrinò i piani del “più
potente funzionario degli apparati di sicurezza italiani”.
Se si immagina nella questura di Milano uno scenario simile
a quelli descritti, con movimenti di persone estranee, presenze
non dichiarate, funzionari “invisibili” che comandano
e magari interrogano, ove ad un certo punto qualcosa di grave
accade, per cui si deve individuare un responsabile gerarchico,
ma che alcuni alti gradi, peraltro padroni delle indagini,
debbano per le note ragioni restare “riservati”,
la posizione del commissario Calabresi può divenire obbligata
e molto scomoda, e però spiegare molte coincidenze.
Ma qui occorre cautela, per non cadere nel tranello in cui è
caduto Paolo Cucchiarelli nel suo Il segreto di Piazza Fontana:
se in una ipotesi tutto quadra questo non basta per certificarla
come vera, occorrono delle prove, perché molte ipotesi
possono quadrare, ma una sola è quella vera.
Dunque a differenza di Cucchiarelli non affermiamo che queste
sono verità, ma solo che sono alquanto verosimili. Diciamo
allora che sono ipotesi da verificare, in nome di una verità
che qualcuno, prima o poi, dovrà ancora scoprire.
- Si potrebbe spiegare il rifiuto del Ministero ad assumere
la difesa d'ufficio del commissario, come ha testimoniato
la moglie Gemma. Un processo pubblico è sempre un rischio
da evitare. Qualcosa o qualcuno potrebbe saltar fuori, qualche
agente potrebbe tradirsi. Forse ci si andò vicini quando
il giudice Biotti, interrogando l'agente Panessa in dibattimento,
gli dovrà dire: “Scusi, ma perché lei
ride sempre quando si parla della finestra?”, e
poco dopo sarà costretto a richiamarlo: “Sig.
Panessa, lei parla troppo!”. Rischi inutili quelli
di un pubblico dibattimento, tanto più se un servitore
dello stato è disponibile a fare da paravento.
- Si spiegherebbe la tardiva “rivolta” di Calabresi,
sulle cui spalle furono lasciate cadere tutte le tegole, nei
confronti dei superiori, come racconta tra le altre cose la
fonte Dario.
- Si spiegherebbe un altro particolare strano: Allegra dichiarò
al giudice Lombardi nel marzo 1974, quando Calabresi era già
morto, che la notte del 13 dicembre il commissario era stato
da lui inviato in Svizzera, a Basilea, per incontrare tale
Chittaro Job, che avrebbe avuto importanti notizie da svelare.
Ebbene, alcuni compagni della Crocenera anarchica e altri
di Lotta Continua parlarono allora col Chittaro, che si rivelò
un mitomane semianalfabeta, visionario e del tutto inattendibile.
Non è pensabile che il giorno dopo la strage Calabresi,
che non era stupido e conosceva il suo mestiere, potesse perdere
tempo per un individuo simile. Per di più Allegra,
nella stessa dichiarazione, fa un'ammissione assurda dicendo
che il console italiano lo aveva già tempo prima avvertito
della inaffidabilità del tizio.34
|
Il
commissario Luigi Calabresi durante il processo da lui intentato contro “Lotta Continua” |
Un fatto è certo
Come pezza di appoggio Allegra presenta un documento, a suo
dire di provenienza anonima (?) del consolato italiano
di Basilea in cui si certifica che l'incontro tra Chittaro e
Calabresi è avvenuto alle 10 del mattino del giorno 13
dicembre.
Le dichiarazioni di Allegra sono però confutate dal giornalista
Giorgio Zicari, allora nota firma del “Corriere della
sera”, oltre che informatore dei servizi35.
Di fronte al dott. Nunziante, il 5 giugno 1974, nell' ufficio
del giudice Tamburino, Zicari riferisce che Calabresi si era
recato in Svizzera non a Basilea o non solo a Basilea come sostenuto
da Allegra, ma a Lugano, Chiasso e forse Bellinzona, dove in
alberghi che lui conosceva facevano tappa elementi fascisti.
Nella stessa deposizione Zicari afferma che prima di morire
“il Calabresi aveva scoperto tutto il gioco. Aveva
scoperto che dietro la strage di piazza Fontana, dietro tutti
i terroristi, c'erano degli uomini di destra”, confermando
in pratica le dichiarazioni che Dario attribuisce alla moglie.
Vere o false che siano queste affermazioni, le riportiamo perché
un confidente e “portavoce” dei servizi (che sta
per essere bruciato) non parla a caso e le sue parole un significato
lo hanno sempre.
Comunque sia, tornando a quelle stanze un fatto è certo:
tutte quelle persone c'erano, da qualche parte stavano e qualcosa
facevano. Dove e cosa nessuno lo ha mai chiesto e nessuno lo
ha mai detto. Gabriele Fuga
Enrico Maltini
Note
- 1.
- http://www.youtube.com/watch?v=KjALo7ZOaUE
- 2.
- Venerdì 12 dicembre 1969 alle ore 16:37 scoppia
una bomba nella sede della Banca Nazionale dell'Agricoltura
in piazza Fontana a Milano, uccidendo diciassette persone
(quattordici sul colpo) e ferendone altre ottantotto. Una
seconda bomba viene rinvenuta inesplosa in una borsa di pelle
nella sede milanese della Banca Commerciale Italiana, in piazza
della Scala. Eseguiti i primi rilievi, viene fatta prematuramente
brillare, distruggendo elementi fondamentali per le indagini.
Una terza bomba esplode a Roma alle 16:55 in un passaggio
che conduce alla Banca Nazionale del Lavoro ferendo tredici
persone. Altre due bombe esplodono a Roma tra le 17:20 e le
17:30, davanti all'Altare della Patria e all'ingresso del
Museo centrale del Risorgimento, in piazza Venezia, ferendo
quattro persone.
Si contano, dunque, cinque attentati terroristici concentrati
in un lasso di tempo di appena 53 minuti, che colpiscono contemporaneamente
le due maggiori città d'Italia.
La mattina del 15 dicembre l'anarchico Pietro Valpreda viene
fermato a Milano e condotto a Roma. A mezzanotte dello stesso
giorno Giuseppe Pinelli precipita da una finestra del quarto
piano della questura milanese, nella quale era ristretto dal
pomeriggio del 12. Valpreda sarà rilasciato dopo tre
anni di carcere e una forte mobilitazione in suo favore da
parte di tutte le forze democratiche (da Wikipedia).
- 3.
- Romanzo di una strage, di Marco Tullio Giordana,
liberamente ispirato all'omonimo libro di Paolo Cucchiarelli,
Ponte alle Grazie, 2009.
- 4.
- Il lavoro viene svolto da detenuti, regolarmente retribuiti.
- 5.
- Nel 1963 l'allora ministro dell'Interno Paolo Emilio Taviani
(che era stato il principale referente politico delle organizzazioni
tipo Stay behind e Gladio) avvia la ristrutturazione
dell'Ufficio Affari Riservati (UAR), aumentandone le funzioni
e le competenze ed affidandone la direzione al questore di
Genova Savino Figurati. E' in questo periodo che nei ruoli
di comando delle sezioni interne dell'apparato compaiono i
nomi di Silvano Russomanno, Bonaventura Provenza, Giovanni
Fanelli e Federico Umberto D'Amato, quest'ultimo incaricato
di coordinare il lavoro delle “squadre periferiche”
delle diverse città e di stabilire i compensi delle
“fonti”. Un ruolo di assoluta responsabilità
che ben presto fa di D'Amato il cardine dell'intero Ufficio.
Negli anni successivi, Umberto D'Amato diventa, e rimane fino
al 1974 (scioglimento dell'UAR a seguito della strage di Brescia),
l'uomo di fatto al vertice dei sistemi informativi della Repubblica
e la vera guida dell'UAR, mentre il direttore Elvio Catenacci
ne è solo formalmente il capo. Anche dopo il 1974 continua
a operare come consulente nell'ambito dei servizi di sicurezza
e del Ministero degli Interni, fino al 1984 quando va in pensione.
A livello internazionale D'Amato è dal 1965 il rappresentante
italiano presso l'Ufficio per la sicurezza interna del
Patto atlantico (Uspa), ufficio che ha tra i suoi compiti
il rilascio del cosiddetto Nos (nulla osta segretezza) che
permette a chi lo ottiene l'accesso ai documenti riservati
dei servizi segreti.
D'Amato diviene anche il capo della delegazione italiana presso
il Comitato di sicurezza della Nato, organismo sovranazionale
che si riuniva periodicamente a Bruxelles e che era composto
dai principali servizi di sicurezza dei paesi Nato competenti
in materia di sovversione, terrorismo e sicurezza interna.
Ancora a fine anni Sessanta, D'Amato è il maggiore
responsabile della creazione di un altro organismo sovranazionale,
non Nato, chiamato Club di Berna, con il compito di coordinare
il lavoro non dei servizi ma delle polizie dei principali
paesi europei. Tale organismo diviene un autorevole osservatorio
sui movimenti studenteschi ed extraparlamentari. D'Amato si
trova così ad essere il maggiore referente non solo
dei servizi di informazione e sicurezza più o meno
segreti ma anche delle informative e delle attività
delle forze di Polizia. Secondo Giacomo Pacini, D'Amato fu
“il più potente funzionario degli apparati
di sicurezza italiani” (da Wikipedia).
- 6.
- È Russomanno che trova, o meglio fa trovare
al commissario Beniamino Zagari, nella borsa inesplosa della
Banca Commerciale di Milano, il “vetrino” che
doveva ricondurre a Valpreda e alle lampade liberty da lui
costruite.
- 7.
- Il 4 ottobre 1996 Aldo Giannuli, storico e consulente del
giudice di Milano Guido Salvini, trova in un deposito della
via Appia a Roma circa 150 mila fascicoli del Ministero dell'Interno.
Fascicoli segreti, non catalogati, che contengono informazioni
e reperti sull'operato dei servizi segreti italiani ed in
particolare dell'Ufficio Affari Riservati, nel frattempo diventato
Ucigos e nel1981 Dcpp (Dipartimento centrale della polizia
di prevenzione).
Capo della Dcpp è all'epoca del ritrovamento dell'archivio
della via Appia quel prefetto Carlo Ferrigno, che sarà
nominato nel 2003 Commissario nazionale antiracket, che nel
novembre 2012 (duemiladodici!) è stato arrestato per
abusi sessuali, sfruttamento della prostituzione femminile,
millantato credito, rivelazione di segreto d'ufficio e il
cui nome finisce in gloria spuntando nelle indagini sui “bunga”
“bunga” di Arcore (di fronte a tanto, anche per
un cinico anarchico lo scoramento è totale).
- 8.
- In tutti i testi relativi a documenti e deposizioni qui
riportati, gli errori di grammatica, sintassi e punteggiatura
sono originali.
- 9.
- L'8 di agosto 1969 otto bombe rudimentali a bassa potenza
esplodono su 8 treni in movimento in diverse località
d'Italia, provocando 12 feriti; una bomba inesplosa viene
trovata sul treno Bari-Venezia e un'altra viene trovata alla
stazione centrale di Milano sul treno Trieste-Parigi. Per
questi attentati gli ordinovisti veneti Franco Freda e Giovanni
Ventura saranno condannati nel 1981.
- 32.
- È noto che secondo Sigmund Freud il lapsus
non è un errore casuale ma costituisce un canale attraverso
il quale trovano sfogo pensieri che, altrimenti, resterebbero
rimossi da una censura, ovvero in questo caso dagli ordini
di servizio ricevuti. In pratica si dice il vero per sbaglio.
- 33.
- “Sbiancare”, verbo usato soprattutto in Lombardia.
Nell'ufficio di Calabresi l'unico che può avere introdotto
questo termine durante la scuola quadri improvvisata al quarto
piano della questura per preparare la versione ufficiale dell'accaduto,
è Mainardi, nato in provincia di Pavia, di tutti gli
altri presenti essendo Mucilli il più settentrionale
(è nato a Chieti).
- 34.
- Allegra dice testualmente: «... per quanto mi
consti anzi posso dire con certezza che il dott. Calabresi
fu inviato dall'amministrazione in Svizzera una sola volta
e precisamente la notte successiva alla strage di piazza Fontana,
esattamente fu inviato a Basilea per tentare di incontrarsi,
tramite gli uffici consolari con tale Chittaro. (...)
Faccio presente che precedentemente mi ero recato io a Basilea
prendendo contatto con il viceconsole Pasquinelli. Dalle informazioni
fornitemi dal viceconsole mi resi conto che le notizie promesse
dal Chittaro erano di nessuna importanza».
- 35.
- Giorgio Zicari era nel 1969 un informatore dei Servizi,
dai quali riceveva in cambio “veline” esclusive.
Inizialmente fonte del SID, era poi passato all'UAR. Il suo
ruolo sarà svelato da Giulio Andreotti, allora Ministro
della difesa, in una intervista a Massimo Caprara del 20 Giugno
1974. Le dichiarazioni di Zicari precedono dunque di soli
quindici giorni la rivelazione di Andreotti.
Pinelli
Piazza Fontana
Il
nostro dossier su Pinelli è sempre disponibile.
Sommario:
Luciano Lanza, Quel distratto silenzio / avvocati Marcello
Gentili, Bianca Guidetti Serra e Carlo Smuraglia, Assassinio?
No, malore attivo / Paolo Finzi, L'anarchico defenestrato
/ Piero Scaramucci, Pino? In prima persona, come al
solito / Franco Fortini, I funerali di Pinelli / Cronologia
dal 1969 al 2005
Il
dossier costa € 1,00. Per almeno
20 copie (anche di altri nostri dossier), il costo unitario
scende a 50 centesimi. Per oltre 200 copie (anche di
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Morte
accidentale di uno sceriffo
Striscia
originariamente apparsa in “A” 13 (giugno 1972)
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