cultura
Crisi di Gaia
e della soggettività
Pubblicato solo come e-book negli Usa (primavera 2012), con
il laconico titolo Declaration, è uscito in italiano,
ma in versione anche cartacea, il nuovo saggio di Antonio Negri
e Michael Hardt, con diversa titolazione: Questo non è
un manifesto (Feltrinelli, 2012, pp.112, e 10,00). Titolo
curioso. Per un verso rimanda a un celebre quadro del surrealista
Magritte in cui viene raffigurata una pipa, seguita dalla dicitura
Ceci n'est pas une pipe. (L'intento dell'autore era di
sottolineare la differenza tra l'oggetto reale e la sua rappresentazione:
mettendo in risalto la differenza fra il mondo della realtà
e quello dei segni, il dipinto invita alla riflessione sulla
comunicazione umana e i suoi codici, verbali e non). Per altri
versi il nuovo saggio di Negri e Hardt non può non richiamare
alla memoria un altro manifesto, quello di Marx ed Engels, commissionato
dalla Lega dei Comunisti e pubblicato nel 1848.
In fondo, se facciamo interagire lo sguardo straniante surrealista
con il pensiero critico marxiano forse possiamo cogliere la
prospettiva di questo agile volumetto, il verso dove intende
volgersi. Il libro non vuole presentarsi come un manifesto perché
viene dichiarata finita l'epopea dei produttori di manifesti
con la separatezza che, volenti o nolenti, essi producono; oggi
siffatta presenza non è indispensabile, peggio, diviene
ostacolo da oltrepassare, poiché ogni tentativo di elaborazione
teorica rivendica la sua internità genetica rispetto
alla prassi del movimento, alla sua espressività: “I
manifesti offrono lo squarcio di un mondo a venire chiamando
in vita un soggetto che, sebbene fantasma, deve materializzarsi
e diventare agente del cambiamento. I manifesti fanno le veci
degli antichi profeti che con il potere della loro visione creano
un popolo. Gli attuali movimenti sociali hanno invertito questo
ordine rendendo obsoleti manifesti e profeti”.
Figure soggettive della crisi
Il libro prende le mosse dai movimenti che, nella stagione trascorsa,
hanno incendiato le piazze di tutto il mondo: Madrid, Atene,
Il Cairo, New York, per ricordare le più note. Le pagine
più interessanti sono quelle che provano a descrivere
le forme di soggettività prodotte dalle attuali crisi
sociali e politiche: sono l'indebitato, il mediatizzato,
il securizzato e il rappresentato. Si tratta di
figure impoverite, il cui potenziale di azione si trova sempre
più dissimulato e mistificato. Vediamole da vicino, come
spunto per alcune osservazioni critiche, nella consapevolezza
che il libro dispiega comunque anche altre tematiche che qui
non vengono toccate.
Aggiungiamo solo che l'approdo finale del volume intende tratteggiare
le nuove forme che potrà assumere il potere costituente
dispiegato dai movimenti, i quali imporranno una radicale socializzazione
dell'interpretazione costituzionale (motivo, questo, assai caro
a Negri, fin dagli scritti contenuti ne La forma stato,
volume del '77 e oggi riproposto, in cui la costituzione italiana
del '48 veniva – a partire dalle lotte operaie e dalla
modificazione della composizione di classe – sottoposta
a critica; ciò va ascritto a merito di Negri, dinanzi
a una sinistra – anche alternativa – tutt'oggi saldamente
ancorata all'applicazione del dettato costituzionale).
Ma veniamo alle figure nate dall'odierna crisi. L'indebitato
è l'esito antropologico dell'egemonia della finanza.
Il dominio non viene più esercitato esclusivamente sul
luogo di lavoro e dentro l'orario della giornata lavorativa,
ma si dispiega sull'intero arco del tempo di vita e attraverso
una coercizione morale che si esplicita, in primis, insinuando
senso di colpa nella coscienza del soggetto. “L'indebitato
è coscienza infelice che rende la colpa una forma di
vita”. (Per una genealogia del debito non si può
non rimandare al ponderoso saggio di David Graeber, Debito.
I primi 5000 anni, edito dal Saggiatore l'anno passato).
Il mediatizzato è colui che si trova sottoposto
a un surplus di informazione, attraverso canali televisivi,
web, telefoni cellulari. Questa invasione mediatizzata anziché
arricchire e divenire strumento di liberazione, passivizza il
soggetto, giocando il ruolo di Big Brother che –
attraverso l'esercizio di una servitù volontaria (La
Boétie è un autore da rileggere in questi tempi,
insieme a Orwell!) – rende sempre più indistinta
la separazione tra controllo sociale, lavoro e vita.
Il securizzato è la persona che vive in un costante
stato d'eccezione, dove la paura signoreggia e in cui le consuetudini
legali sono sospese da un potere totale, panottico, che richiede
all'attore sociale di saper recitare, in un vero e proprio teatro
dell'assurdo quotidiano, sia il ruolo di guardia che quello
di recluso. Con le parole di Foucault, citato nel libro, “La
prigione comincia ben prima delle sue porte”.
Il rappresentato esprime la crisi irreversibile in cui
versa il sistema politico fondato sul principio di rappresentanza,
laddove quest'ultima non è agente di pratiche democratiche
ma il suo contrario. Non basta: la rappresentanza rivela ancor
più oggi, con la presenza di sistemi di potere a livello
planetario che ne erodono l'esercizio, la mistificazione che
la fonda: l'essere, per definizione, un dispositivo volto a
separare l'elettore dall'eletto, il controllore dal controllato.
Da dove ripartire?
Da questa fotografia dello stato di cose Negri e Hardt si indirizzano
verso un rovesciamento di prospettiva, non come esito dialettico,
ma come l'irruzione di un kairos soggettivo in grado
di infrangere il presente.
Ma – domandiamoci – queste figure raccontano davvero
tutto quello che c'è da sapere sull'attuale crisi o sono
descrizioni parziali? Dico ciò perché colpisce,
proseguendo la lettura, il modesto rilievo volto alla questione
cosiddetta ambientale. Ancor più strano, dato che in
un passaggio del libro si parla del degrado e della distruzione
di piante e specie animali, della contaminazione della terra
e del mare, giungendo a questa conclusione: “Sembra che
l'umanità sia completamente impotente davanti alla distruzione
del pianeta e delle condizioni necessarie alla propria vita”.
Dopodiché il discorso vira e prende altra direzione.
Strano. Delle due l'una: o non si crede a una simile affermazione
(la si fa perché politically correct) o se le
si dà il dovuto credito non può essere congedata
sbrigativamente.
Ancora: le figure dell'indebitato, mediatizzato, securizzato
e rappresentato sono esaurienti nel comprendere tale crisi o
c'è dell'altro che può aiutarci a capire perché
siamo nello stato in cui siamo? Prima delle figure sopra ricordate,
anzi, condizione necessaria perché queste potessero affermarsi
ce n'è un'altra: il soggetto scisso da ogni relazione
con la natura, fuori e dentro di lui. Tali interrogativi non
li troveremo nel libro di Negri e Hardt. C'è, al contrario,
in tutta la produzione di Negri un'enfasi posta verso la società
metropolitana, il lavoro astratto, il cognitariato, le nuove
tecnologie, ecc. Il fatto che oggi l'economia finanziaria –
la produzione di denaro per mezzo di denaro – sopravanzi
gli altri settori economici, indica il prevalere dell'astrazione
da ogni relazione vitale. Il capitalismo, nella sua corsa verso
un profitto sempre maggiore, sta intaccando la sostanza naturale
della vita, mettendola a repentaglio.
Non si tratta di coltivare fantasie utopistiche o, peggio ancora,
regressive (come certe posizioni di Zerzan che rischiano di
invalidare la portata critica del suo stesso pensiero). Lo sappiamo
bene, bisogna guardare avanti, ma facendo i conti con la propria
storia (qui l'aggettivo possessivo “propria” si
riferisce alla storia della specie umana), domandandosi: come
è iniziato tutto ciò? da dove ripartire? (Ad esempio,
da anni, in solitudine, Jacques Camatte va riflettendo su tale
ordine di questioni, a partire dall'erranza millenaria dell'umanità).
Ancora: se guardiamo a casa nostra, notiamo che un punto di
snodo fondamentale delle lotte in corso si trova in Valsusa
e non in qualche megalopoli à la Blade runner.
Questo vorrà pur dir qualcosa. Intorno alla difesa del
territorio e della comunità che vi risiede si stanno
davvero ricomponendo reti multitudinarie (ambientalisti, centri
sociali, precari, studenti, cittadinanza attiva, ecc.). Sarebbe
opportuno partire dalla concretezza di queste esperienze, anziché
inseguire una qualche centralità (di volta in volta:
l'operaio-massa, l'operaio-sociale, il lavoratore cognitivo),
vero e proprio pensiero ossessivo dell'operaismo. Per fare un
esempio, Luca Abbà, che è stato – suo malgrado
– simbolo della lotta No Tav, fa l'agricoltore biologico
e il giardiniere, non ha certo la fisionomia del lavoratore
cognitivo, semmai è più vicino ai temi riguardanti
real work e reinhabitation di cui parlano Gary
Snyder e i bioregionalisti americani.
Da qui dobbiamo allora iniziare, con l'intelligenza di saper
costruire ponti fra gli uomini e le donne che protestano nelle
piazze delle città in fiamme e la costruzione di una
relazione vitale tra il mondo umano, animale, vegetale e minerale,
ciò che gli antichi chiamavano Gaia, l'organismo vivente
di cui facciamo parte. In questa direzione piacerebbe incontrare
anche Negri e Hardt.
Federico Battistutta
Piazza Fontana/
La ricostruzione che ancora manca
Piazza Fontana 43 anni dopo. Le verità di cui abbiamo
bisogno, a cura di Stefano Cardini (Milano-Udine, Mimemis
Edizioni, 2012, pp. 287, euro 20,00) è un libro nato
su iniziativa del Centro di ricerca in Fenomenologia e Scienze
della persona dell'Università Vita-Salute San Raffaele.
Gli autori devolvono il ricavato dei diritti d'autore all'Associazione
delle vittime della strage.
Il libro è composto da dieci interventi di autori diversi.
L'impulso a scriverlo è derivato dal dibattito suscitato
dal film Romanzo di una strage di Marco Tullio Giordana.
In questo libro si parla ben poco della strage di Piazza Fontana,
della morte di Giuseppe Pinelli, dell'omicidio del commissario
Calabresi e delle altre vicende legate a questi eventi. Tranne
Luciano Lanza, Sul filo della memoria. Un racconto di parte
ma non partigiano, e Guido Salvini, 12 dicembre 1969.
Una storia incompiuta, tutti gli altri autori più
che riflettere su quei fatti cercano di rispondere al quesito
filosofico: «La verità esiste?», come nota
Roberta De Monticelli nell'intervento conclusivo.
Si ragiona quindi sul rapporto tra verità e finzione
nel mondo d'oggi e sul rapporto tra verità e ricerca
storica, ci si interroga a fondo sul rapporto che tanto lo storico
quanto il comune cittadino ha con la storia più recente
di questo Paese e, più in generale, con la Storia tout
court. Vien da pensare che forse sono venute meno le condizioni
che hanno permesso per lungo tempo agli esseri umani di percepire
la propria esistenza come uno svolgimento nel tempo, cioè
dotata di senso storico.
Si arriva così a domandarsi se sia possibile arrivare
a una conoscenza autentica del passato, o ci si debba accontentare
di «rappresentazioni» e «narrazioni»,
magari arbitrarie, visto che in molti casi la storia sembra
diventata una procedura di assemblaggio più o meno creativo
di materiali del passato senza alcun rapporto con la ricerca
di qualsivoglia «verità». Perciò un
libro come questo offre molti necessari spunti di riflessione
sulla filosofia della storia che però, non sostanziati
da una puntuale ricostruzione dei fatti, in Piazza Fontana
43 anni dopo data per scontata e acquisita, rischiano di
apparire dotte disquisizioni sul sesso degli angeli.
Nell'introduzione il curatore scrive che questo libro «è
anche un ragionato elogio della storiografia» e
tuttavia l'unico intervento ascrivibile a uno storico è
quello di David Bidussa, La storia degli anni inquieti. Il
dovere e il problema di scriverla. Bidussa è uno
studioso profondo e intelligente, ma è uno «storico
sociale delle idee»: anche lui, quindi, più filosofo
che storico.
Ciò che ancora manca, nella letteratura sulla strage
di Piazza Fontana, è però proprio una ricostruzione
compiutamente storiografica, cioè scevra, nei limiti
del possibile, da contaminazioni ideologiche, filosofiche, sociologiche,
politologiche, giornalistiche.
L'abuso pubblico, il vero e proprio stupro della storia che
è stato condotto in tempi recenti, ha fatto sì
che oggi sia sempre più difficile comunicare l'importanza
della conoscenza storica per il progresso civile di un paese
ma anche per il progresso intellettuale dei singoli individui.
Questo libro, pur dotato di innegabili pregi, funziona come
accorato appello contro tale degenerazione ma, sul piano della
conoscenza storica, nulla aggiunge a quanto già sappiamo.
Semmai cagiona la disperante sensazione che niente di più
riusciremo mai a sapere e che sia oramai impossibile scrivere
la storia dei fatti del 12 dicembre 1969 e dell'epoca che li
ha generati.
Andrea Saccoman
La notte in cui
nacque Frankenstein
È un libro anonimo. Vedendo la copertina, leggendo solo
il titolo, questo libro non dice nulla. Ma proprio l'anonimato
sembra la sua forza. Su uno sfondo nero, tetro, che richiama
alla mente l'oscurità e l'ignoto, campeggia l'immagine
di un pipistrello con le ali aperte, che si confonde con lo
sfondo descritto. O meglio, si tratta di un vampiro! Molto originale,
la copertina. Che a prima vista sembra non avere alcuna relazione
con il titolo del libro. D'altronde, quando il titolo e la copertina
di un libro ci svelano ogni cosa, la delusione è assicurata.
Non è questo il caso.
Il libro che stiamo recensendo – Shelley, Byron, Polidori,
La notte di Villa Diodati, a cura e con un saggio introduttivo
di Danilo Arona, (Nova Delphi, Roma, 2011, pp. 350, € 12,00)
– contiene tre capolavori della letteratura inglese della
prima metà del XIX secolo, ed è un libro che merita
la nostra attenzione. Chi oggi non conosce Frankenstein
di Mary Shelley? Eppure il celebre romanzo gotico è ancora
in grado di stupirci. Dopo tante pubblicazioni in lingua italiana,
esce ora, con una nuova traduzione e per I tipi delle edizioni
romane di Nova Delphi, una nuova edizione, in cui l'opera è
raccolta insieme ad altri tre testi della letteratura inglese
firmati da Lord Byron (La sepoltura) e da John Polidori
(Il vampiro): non un'antologia, ma un lavoro curato e
unitario, di cui ci aiuta a tracciare le fila il prezioso saggio
introduttivo di Arona, notevole per intelligenza e sensibilità,
che ci fornisce un ausilio per contestualizzare le opere in
questione.
La notte del titolo, fredda e molto piovosa, è quella
del 16 giugno 1816. Un gruppo di intellettuali e letterati si
incontra a Villa Diodati, sulle rive del lago di Ginevra; ispirati
dalla lettura di un vecchio volume di novelle fantastiche, Phantasmagoria,
alcuni di loro, tra cui Byron, Shelley e Polidori, si cimentano
in una sorta di scommessa letteraria: ognuno avrebbe scritto
un racconto fantastico da leggere e confrontare con gli altri
nelle notti successive. Nascono così La sepoltura,
Il vampiro e il celebre Frankenstein. Non meno
originale di quest'ultimo è il racconto di Polidori,
il primo della lunga serie di romanzi sui vampiri (da Dracula
a Twilight), molti dei quali portati anche sul grande
schermo.
Il saggio introduttivo di Danilo Arona analizza e descrive tutta
una serie di dinamiche sociali e umane dei vari personaggi di
fantasia, collegandoli con le esperienze personali dei loro
autori e in qualche modo giustifica la nascita di questi mostri
tracciando una biografia molto ben riuscita dei loro autori
e creatori, restituiti alla loro vita quotidiana. Una tale ricostruzione
storico-letteraria non esisteva, se non parzialmente nell'introduzione
di Mary Shelley al suo Frankenstein. Merito di Arona
l'aver presentato e fatto conoscere questa storia, ben oltre
la leggenda, e completato la ricostruzione di Shelley, fatta
di poche, scarne e soggettive righe.
Ne viene fuori un libro stupendo, che restituisce le tre opere,
per la prima volta riunite, al loro naturale contesto e alla
propria curiosa genesi: quella suggestiva notte di letture e
storie di fantasmi a villa Diodati, nel lontano 1816.
Franco Di Sabantonio
Dietro le ultime
elezioni americane
Spinto dalla macchina della comunicazione mediatica, eletto
per ben due volte alla presidenza degli Stati Uniti, il fenomeno
Obama risulta in parte incomprensibile se non si va a riconsiderare
un passato quarantennale durante il quale ben tre candidati
di colore scesero in campo per la presidenza. Di questi tre
candidati il pubblico forse ricorda solo Jesse Jackson, immemore
di Dick Gregory e di Shirley Chisholm.
Matteo Ceschi, autore di Tutti i colori di Obama. L'altra
storia delle elezioni americane (Franco Angeli, Milano 2012,
pp. 151, euro 22.00) ricerca le origini del successo di Obama
nell'America politica e sociale profonda, caratterizzata dalla
lotta per i diritti civile dei neri e contro ogni pregiudiziale
razziale. Lo fa ripercorrendo il dibattito culturale e politico
che ha attraversato la comunità nera circa la possibilità,
non affatto scontata, fin dall'inizio, di giungere a una visione
post-razziale (post-racial) che, secondo l'autore, si è
affermata tra mille difficoltà, superando il pregiudizio
razzista così diffuso in quel paese e non solo, al fine
di abbattere le divisioni etniche. Si consideri che la comunità
afro-americana aveva costruito e difeso la propria identità
sulla netta contrapposizione fra “noi e loro”, per
rivendicare e rivalutare le lontane origini africane in nome
di un nazionalismo nero, una sorta di separatismo rispetto all'identità
nazionale americana.
L'analisi è condotta con una dettagliata disamina di
come i mezzi di comunicazione, stampa e televisione, diedero
o non diedero spazio e commenti alla discesa in campo dei candidati
neri alla presidenza del paese. Al pubblico genericamente disattento,
compresa quella parte critica verso il sistema americano, si
ripropongono le battaglie intraprese dai precedenti candidati
neri, a cominciare da Dick Gregory che nel 1968 annunciò
la sua candidatura in nome del Peace and Freedom Party, una
formazione politica californiana nata l'anno prima su posizioni
marxiste libertarie. Due i suoi intenti sintetizzati in uno
slogan: «Per prima cosa farei dipingere la Casa Bianca
di nero. Per seconda riporterei a casa tutti i ragazzi dal Vietnam».
Nel dettaglio poi il suo programma evidenziava la centralità
della post-racial politicis a partire dalla difesa dei diritti
di tutte le minoranze e la chiamata a una lotta comune per una
serie di obiettivi politici e riformisti radicali.
Negli anni settanta il disegno post razziale riscontrò
un certo credito all'interno del movimento femminista anche
se incontrò la resistenza di una visione impostata sul
binomio genere-razza e l'idea di una liberazione delle donne
di colore che escludeva dal dibattito le femministe bianche
americane e europee. Il messaggio fu invece recepito diversamente
dal movimento delle lesbiche e in alcuni settori di orientamento
marxista libertario. Le lesbiche videro nel discorso post- razziale
un modo per superare definitivamente quella che consideravano
la prigione del gender in cui si era impantanato il movimento
femminista. In questo contesto emerse la candidatura, all'interno
del partito democratico, di Shirley Chisholm, una donna afroamericana
prima a essere eletta alla camera dei deputati. Il fatto che
questa volta ad incarnare lo spirito post-razziale fosse una
donna afro-americana con una rispettabile carriera istituzionale
diede valore a una scelta non affatto scontata. Ma non tutta
la comunità politica nera l'appoggiò. Una parte
continuò a indicare nel separatismo nero il modo di agire
della comunità al fine di avviare una politica “nera”
indipendente a uso e consumo della popolazione nera: il concetto
di Blak nation era così contrapposto a quello di American
people della candidata.
Pur ottenendo una certa risonanza nella campagna elettorale
delle primarie dei democratici, naturalmente Shirley Chisholm
non la vinse, ma contribuì a rafforzare l'dea del post-racial
come soluzione all'interno della quale tutte le componenti etnico-sociali
avrebbero potuto trovare i canali più adatti per esprimersi
e partecipare alla vita politica. Dei precedenti due aspiranti
alla presidenza, solo Jesse Jackson, candidatosi due volte (1984
e 1988) alle primarie del partito democratico poté godere
di una certa visibilità presso i media. Animatore della
comunità afro-americana fin dai tempi delle marce per
i diritti civili, si ritagliò uno spazio sulla stampa
e nella televisione e si guadagnò stima e simpatia in
una parte della comunità culturale di massa: giornalisti,
scienziati, ecologisti, il magnate di Playboy, star della società
dello spettacolo, musicisti come Aretha Franklin, Michael Jackson
e il regista Spike Lee. Le sue conoscenze e l'abilità
oratoria in pubblico, l'autorevolezza conseguita in patria e
all'estero con posizioni politiche coraggiose, consentirono
al reverendo si mantenere la scena anche dopo i due consecutivi
tentativi di conquistare la nomination democratica.
Fin dalle sue origini, essendo figlio di una famiglia meticcia,
Obama impersonò la versione post-razziale. Si può
infatti dire che la “portava nel sangue”. La sua
visione contribuì alla destabilizzazione delle linee
del colore e delle identità etniche, tanto che si è
parlato di post-etnic, una concezione che si oppone all'assunto
che le persone siano vincolate per una sorta di ordine naturale
delle cose, a fare causa comune con altri che hanno la pelle
dello stesso colore, gli stessi tratti somatici, la stessa discendenza.
Il suo fu ed è un approccio ecumenico alla questione
razziale che cammina su una fune da equilibrista. Dà
voce alle minoranze che si sentono emarginate e disprezzate,
con un tono conciliante che non fa sentire minacciati i bianchi
e dà ai conservatori l'impressione di essere disposto
ad ascoltare i loro punti di vista.
Diego Giachetti
Taranto/
inquinamento, malapolitica e passione calcistica
L'Eroe dei due mari (Altrainformazione e PeaceLink editori,
2012, pp. 100, € 10,00): un libro a fumetti, tratto da
un romanzo di Giuliano Pavone, che narra una storia di sport
e passione calcistica quale sogno di riscatto sociale per una
città come Taranto, simbolo e paradigma di tutti i sud
del mondo impegnati a difendere la propria dignità contro
lo strapotere capitalista e iperliberista, e che vuole rappresentare
un importante parallelismo con l'esistenza sociale di una popolazione
privata del proprio diritto alla vita, alla salute e alla dignità
del lavoro. La visione moderna dello sport del calcio, non quello
professionistico e legato alle bieche logiche di mercato, ma
quello di provincia, incarnato da persone che vivono in una
città dove le problematiche occupazionali, economiche
e sociali mordono con forza le basi della dignità umana,
rappresenta un valore nella lotta quotidiana dei cittadini di
Taranto per rivendicare il diritto alla salute e al lavoro in
forma degna e conforme alla Costituzione, ossia “lavorare
per vivere e non per morire”. Originale è la modalità
rappresentativa del libro che tratta, tramite il fumetto, e
illustra, in forma visiva, un parallelismo che, scritto in termini
testuali, non espliciterebbe quel senso di dinamicità
e vicinanza alle tecniche di comunicazione molto affini ai giovani.
Tramite l'animazione visiva del fumetto, sapientemente tracciata
dai giovani autori, viene alleggerita la componente comunicativa,
per focalizzare lo scottante e drammatico contenuto delle vicende
tarantine. L'eroe dei due mari porta al riscatto la squadra
calcistica del Taranto, così come i movimenti ambientalisti
conducono una città alla riappropriazione di diritti
imprescindibili: la salvezza di una Taranto che vive il dramma
del proprio declino, della trasformazione ambientale, attraverso
il degrado e il dissesto ecologico, a causa dell'inquinamento
industriale. “L'Eroe dei due mari” fa vivere un
sogno di riscatto alla squadra del Taranto. Attualmente tale
riscatto invece permane, non viene arrestato, ma riesce a dare
la massima espressione di sé tramite un forte movimento
associazionistico, di democrazia partecipata e attivismo dal
basso, volto alla realizzazione di una città ecosostenibile,
a misura di persona.
Fra classe operaia e quanti si occupano di problemi ambientali
ed ecologici esistono molti punti di contatto. Sarebbe un grave
errore scinderli. È giusto quindi che le esperienze si
confrontino, perché la crisi ambientale non potrà
essere risolta se non si vince la lotta per attuare condizioni
lavorative accettabili, con adeguati interventi sanitari e di
bonifica e con la realizzazione di opportune misure di sicurezza
nei luoghi di lavoro, per il rilancio culturale, morale, umanistico
e ambientale della città di Taranto.
In appendice il libro è corredato da venti pagine di
cronologia, scritte da Giuliano Pavone, in cui si ricostruisce
la storia del rapporto fra Taranto e l'Ilva, ricche di dati
sull'inquinamento ambientale.
Laura Tussi
Non soltanto
Gaetano Bresci
È uscito recentemente il libro di Alessandro Affortunati
Fedeli alle libere idee. Il movimento anarchico pratese
dalle origini alla Resistenza (Zero in condotta, 2012,
pp. 192, Ä 12,00). Ne pubblichiamo la prefazione
di Giorgio Sacchetti.
Anarchico di Prato, ovvero, regicidio di Monza:
quelle tre palle che il 29 luglio del 1900 cambiano il corso
della storia italiana fissano, in un'immagine tragica e memorabile,
un evento destinato a proiettarsi, con effetti condizionanti,
su tutto il nuovo secolo. L'anarchismo militante, dopo l'era
delle cospirazioni e degli attentati, abbandona quelle prassi
organizzative di derivazione post-risorgimentale per trovare
una sua nuova dimensione, popolare e di massa, specie in Toscana.
Complici di tutto questo il progetto giolittiano di allargare
le basi dello stato e la conseguente apertura di nuovi inediti
spazi per la politica e la socialità. Le narrazioni tardo
novecentesche, la stessa storiografia, hanno però pregiudizialmente
inchiodato, per così dire, Prato alla figura di Gaetano
Bresci.
Occorrevano allora studi pregevoli come questo di Affortunati
per restituire ad un movimento i suoi connotati effettivi e
veritieri, dentro un ambito territoriale molto interessante
dai punti di vista socioeconomico e antropologico culturale.
La ricerca ha inizio dai prodromi internazionalisti libertari,
ossia dalla fase in cui si esplicita anche localmente la tendenza
antiautoritaria del socialismo, per approdare alla Resistenza.
È una presenza certo minoritaria, ma vivace e significativa,
quella che emerge. Le cesure temporali racchiudono settant'anni
con i vari snodi cruciali, politici e sociali: dalla crisi di
fine secolo (culminata con quell'episodio che ha reso Prato
“famosa”) fino alla guerra europea, dalla Rivoluzione
d'ottobre al fascismo, dalla guerra di Spagna alla lotta partigiana.
Sono eventi di grande impatto che si rivelano come traumi anche
esistenziali, capaci di mutare psicologia e orizzonti mentali,
oltreché la quotidianità di milioni di uomini
e donne, e che ridefiniscono le modalità stesse della
militanza operaia.
Il libro, che prende le mosse da una bibliografia di base non
copiosa, si caratterizza principalmente per l'utilizzo di un
ricco repertorio di documenti, carte di polizia ma anche fonti
soggettive, e per la centralità assegnata alle storie
di vita dei militanti. Inoltre è ben presente la visuale
sul peculiare contesto sociale ed economico territoriale, non
tanto come mera descrizione ambientale, ma come nesso fra identità
del lavoro e formazione delle culture politiche sul territorio.
Le commistioni con la vecchia Sinistra risorgimentale e la sociabilità
legata ai mestieri tessili connotano gli esordi dell'anarchismo
pratese. Affortunati ci fornisce una mappa ragionata, assai
pregevole, del sovversivismo locale, di quell'humus popolare
ribelle che cova nei tuguri abitati dal popolino, fra le botteghe
di artigiani ed i magazzini di cenciaioli indipendenti.
Quando, negli anni ottanta dell'ottocento, si esaurisce il ciclo
virtuoso dell'internazionalismo si apre una lunga fase di ripensamento
teorico ed organizzativo. La questione sociale di Firenze
lancia nel 1884 il nuovo Programma per il comunismo anarchico,
redatto da Errico Malatesta. Nel decennio successivo si giungerà
ad una vera e propria revisione dell'originario progetto cospirativo
(lascito peraltro di prassi ereditate da Mazzini, Garibaldi
e Pisacane). Ma “la rivoluzione non si fa in quattro gatti...”.
La crisi di fine secolo impone un diverso protagonismo delle
masse popolari. La medesima esigenza palesata a suo tempo dalla
“svolta” di Andrea Costa trovava una possibile soluzione,
sebbene di segno opposto: “... la rivoluzione non si fa
che quando il popolo scende in piazza...”. E la piazza
rimarrà, per gli anarchici, il luogo topico per l'agognata
insurrezione, almeno fino alla “settimana rossa”
del 1914.
Su questo lungo periodo di transizione il libro ci fornisce
spunti di eccezionale interesse: sulla pubblicistica libertaria
edita a Prato (ad esempio la Tribuna dell'operaio del
1892), sulla presenza in città di un influente quanto
discusso personaggio come Giovanni Domanico, sul rapporto conflittuale
e dialettico che si instaura con il nuovo partito appena fondato
a Genova. “Il confine fra anarchismo e socialismo rimaneva
in città molto sfumato...” scrive Affortunati.
Nel centro tessile nasce, sotto l'iniziale egida libertaria,
la Camera del lavoro. È la fase in cui l'anarchismo italiano
“incontra” il sindacato. Con i tumulti del pane
del Novantotto, che in Toscana hanno il loro epicentro a Figline
Valdarno e a Prato, la questione sociale si fa questione nazionale.
Le fortune francesi delle teorie sindacaliste rivoluzionarie
si replicheranno in Italia. Organizzazione anarchica, anticlericalismo
e antimilitarismo saranno poi gli altri fronti di impegno degli
anarchici pratesi. Infine la guerra civile e la lunga lotta
antifascista.
Una preziosa appendice sugli schedati del Casellario politico
centrale suggella il volume. Ne emergono figure epiche di militanti
(un nome per tutti: Anchise Ciulli), storie di vita avventurose.
Sui connotati proletari di questo movimento a Prato, affatto
trascurabile, non vi sono dubbi. I mestieri esercitati nella
statistica riportata vedono al primo posto quello di tessitore,
al secondo: classificatore di stracci...
Giorgio Sacchetti
Mendace
come un eroe
Underground, the Julian Assange story nasce come film
per la tv australiana Channel Ten. Girato nel 2012 dall'australiano
Robert Connolly, è un adattamento del libro del 1997
Underground: Tales of hacking, madness and obsession on the
electronic frontier scritto dalla ricercatrice e giornalista
Suelette Dreyfus, con la collaborazione di Julian Assange.
Il film, ambientato a Melbourne alla fine degli anni '80, ricostruisce
le vicende dell'adolescente Julian (nome in codice “Mendax”),
patito del computer, in particolare quando, con due amici altrettanto
appassionati, trova il modo di accedere alla rete riservata
Milnet, il network militare degli Stati Uniti d'America. Julian
scopre documenti riservati che rivelano l'uccisione deliberata
di civili da parte del governo Usa durante il conflitto in Iraq,
nell'Operazione Desert Storm. Il ritmo si fa incalzante con
la polizia sulle tracce dei ragazzi (alias “International
Subversives”). L'incoscienza della gioventù si
mischia allora al senso civico, alla determinazione e all'urgenza
di fare la differenza, condividendo la conoscenza con la collettività,
in un percorso di coerenza e attivismo che oggi conosciamo,
di militanza nei fatti e nella prassi.
Scorrono i titoli di coda al British Film Institute. La ricercatrice
Suelette Dreyfus sale sul palco per una sessione di domande
e risposte. Ci parla di un importante progetto sul “whistleblowing”
un concetto che purtroppo in Italia fa ancora fatica a entrare
nell'uso quotidiano. Il whistleblowing (da “blow the whistle”,
soffiare il fischietto), è quell'attività rischiosa,
eroica e coraggiosa che consiste nel denunciare dal suo interno
le malefatte di un'organizzazione, un'impresa privata, l'esercito,
il governo. In questo senso WikiLeaks è un'organizzazione
whistleblower, in quanto dà voce a documenti riservati
di interesse pubblico, ricevuti in forma anonima, garantendo
un impatto globale e al contempo proteggendo la fonte. Suelette
e altri ricercatori dell'università di Melbourne hanno
lanciato il World Online Whistleblowing Survey, il primo sondaggio
internazionale sul whistleblowing, a cui chiunque può
partecipare rispondendo a domande sulla propria attitudine rispetto
a questa pratica, e alle condizioni necessarie perché
la “soffiata” possa avvenire.
E “whistleblower” è una parola chiave in
tutta la vicenda WikiLeaks. Oltre ad Assange, il whistleblower
che sta pagando duramente per aver voluto mostrare al mondo
intero le menzogne e i crimini commessi dal governo statunitense
e non solo, è Bradley Manning. Il soldato, in carcere
militare dal maggio 2010 (più di 900 giorni), è
sospettato di aver passato a WikiLeaks migliaia di documenti
segreti e cablogrammi diplomatici tra cui il video Collateral
Murder che mostra in diretta l'uccisione di dodici civili
iracheni da parte di elicotteri Usa nel 2007. Il capo d'accusa
più scioccante che pende sul destino di Manning è
quello di aver “aiutato il nemico”, crimine punito
con la pena capitale nella più potente “democrazia”
del mondo. La domanda chiave che si sono posti in tanti è:
“Chi è il nemico?” La risposta più
probabile è che il nemico siamo noi, la collettività
stessa, l'opinione pubblica, WikiLeaks.
Infatti, esporre crimini di guerra e menzogne perpetrati dai
governi è un atto che la stampa mainstream di tutto il
mondo è stata pronta a condannare, crogiolandosi nell'autocensura,
nella diffamazione, nella viltà. Sui contenuti del “leak”
ovviamente, è un muro di silenzio. Peccato che tra i
“giornalisti” protagonisti di questa operazione,
siano in tanti a ignorare l'essenza del mestiere di chi fa inchiesta
e indaga su crimini politici. No, non lo possono sapere gli
scribacchini che passano il tempo a scopiazzare articolacci
di bassa qualità sulla frequenza delle docce di Assange.
Tutti i possibili mezzi sono stati dispiegati in questi due
anni con l'intento di zittire e censurare questo giornalista
che in pochi hanno il coraggio di chiamar tale: da quello economico
a quello mediatico della propaganda, fino a quello legale. È
la famosa trappola della legalità. Lo sanno le libere
pensatrici, gli anarchici, le attiviste, i giornalisti scomodi
che devono affrontare sulla loro pelle la repressione, le intimidazioni,
i controlli, le schedature: queste sono le armi con cui lo stato
punisce la resistenza civile. Chi viola il segreto di stato
infrange la legge perché la collettività non può
sapere. In fondo qual è lo scopo ultimo di un governo
se non quello di esistere? Qualunque pazzo intenda smascherarne
le malefatte o abbia il coraggio di opporsi e metterne in discussione
la legittimità dev'essere zittito e sottoposto a pena
esemplare. Una macchina propagandistica di autoconservazione
si attiva immediatamente, con un'efficacia collaudata e scientifica,
per isolare il colpevole e infamarlo. Grandi ideali di patria
e onore saltano fuori sbandierati con orgoglio ed ecco che il
concetto di legalità assume contorni inquietanti. La
legalità tanto sbandierata dai governi (ricordiamo le
parole di Obama su Manning: “He broke the law”,
“Ha infranto la legge”), è la legalità
di torturare, massacrare, lanciare bombe sui civili, assassinare
“criminali”, buttarli in mare. Il tutto impunemente.
E in questa farsa di ideali sbandierati e proclamati in pubblico,
mentre dietro le quinte si spiano i liberi cittadini del libero
mercato, Underground è un film più attuale
che mai, dall'intrinseca coscienza politica, realizzato in un
momento in cui anonimato e sorveglianza sul web sono questioni
essenziali per chiunque faccia uso della rete, non solo per
gli attivisti di mezzo mondo coinvolti nella campagna per la
libertà di stampa che ruota attorno a WikiLeaks e Assange.
Un appunto finale per gli appassionati del Commodore 64 e di
un'era in cui la tecnologia muoveva i primi passi: sono brividi
di piacere. L'hacker, questa creatura sconosciuta, misteriosa,
deformata e infame, aggeggia con plasticoni enormi, stacca e
riattacca fili furtivamente, con la maestria incosciente di
una gioventù che anela al cambiamento. Ed ecco che l'hacker
altro non è che un attivista, o meglio un attore all'interno
di una società addormentata e annichilita dalla propaganda.
Un essere fluido che si muove tra codici e password mendaci,
in continua sfida con gli altri e con se stesso, che finisce
per esporre le schifezze dei governi per il bene di cittadini
ingrati e colpevoli di apatia e disinteresse, egoismo e conformismo,
per poi prendere tutta ma proprio tutta la colpa. Se quel qualcuno
è un giovane australiano che a distanza di vent'anni
ha poi cambiato per sempre l'essenza stessa del giornalismo,
ben venga.
Serena Zanzu
Retrospettive/
Pasolini l'eretico
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Pier Paolo Pasolini (1922-1975) |
Disilluso? Dillo senza timori!
Marina Cvetaeva
Pier Paolo Pasolini (Bologna, 5 marzo 1922/Roma, 2 novembre
1975) oggi avrebbe novant'anni. Forse. Senza la tragica morte
su commissione all'Idroscalo di Ostia. Forse sarebbe ancora
vivo. È arduo immaginarlo nel nostro tempo, cittadino
di una società, collettività integralmente omologata
che, insieme al cinismo, alla disillusione, alla televisione
– creatura atroce –, all'indifferenza civile e morale,
coltiva tuttavia il personale, congenito e strutturale disimpegno
politico/sociale in una spettacolare apatia culturale.
Vivrebbe in un paese che ha corrisposto perfettamente alle sue
analisi sulla mutazione e il degrado antropologici, ovvero il
“genocidio culturale”. Chissà cosa avrebbe
detto – ma soprattutto scritto – della caduta di
tutte le ideologie, dei mass-media, della giustizia, del Vaticano,
della cultura, dei giovani, di tutti i politici-clown-clan,
del potere economico, del capitalismo, della sinistra... Sicuramente
– come sempre – avrebbe avuto più intuito
di tanti pseudo intellettuali; ci sarebbe stato d'aiuto per
leggere poeticamente e antropologicamente una società
degenerata e imbarbarita.
Ancora oggi c'è una ricorrente attitudine a sminuire
il valore teorico degli scritti pasoliniani e ancora si sente
ribadire il concetto secondo cui la sua Weltanschauung è
unicamente poetica. Proprio come scrive Pasolini nel '66: “È
un modo per esorcizzarmi. [...] È quindi anche un modo
per escludermi e di mettermi a tacere”. Un intellettuale
puro che precorre i tempi delle inchieste. A mo' d'esempio si
legga il suo libro postumo Petrolio in cui egli comprende
in tempi non sospetti la funzione-cardine di Eugenio Cefis (successore
di Enrico Mattei all'indomani della sua non accidentale morte)
nell'indicare un mutamento autoritario non più basato
sulle stragi ma sulla limitazione della democrazia e sul totalitarismo
del sistema economico globale. Le identiche tematiche contro
cui ci scontriamo in questo momento storico.
Alberto Moravia sosteneva che “Pasolini è morto
in una maniera intonata non già alla sua vita ma ai pregiudizi
e alle convinzioni della società italiana; ossia non
per colpa sua ma per colpa degli altri. In altri termini e per
dirla con chiarezza definitiva: Pelosi e gli altri come lui
sono stati il braccio che ha ucciso Pasolini; ma i mandanti
del delitto sono una legione, in pratica l'intera società
italiana. [...] E cioè: la borghesia italiana che è
secondo noi, tutta o quasi conservatrice quando non è
addirittura fascista. [...] Questo suo dovere di perire per
mano assassina lo circondava come una nube funesta fin dai tempi
del suo processo in Friuli. [...] Pasolini era del tutto indifeso
e non si appoggiava a nulla come tutti i veri intellettuali.
[...] Donde l'insopprimibile sua tendenza a scandalizzare. [...]
Ignorava il pericolo mortale che correva scandalizzando una
classe come la borghesia italiana che in quattro secoli ha creato
i due più importanti movimenti conservatori d'Europa,
cioè la controriforma e il fascismo”.
Negli anni in cui Pasolini osserva la società come poeta,
scrittore, drammaturgo, linguista, saggista, giornalista, sceneggiatore
e regista, già intuisce i tempi, l'epoca, “il progresso
come falso progresso”. Sul Corriere della Sera del 29
ottobre '75 scrive: “I giovani sottoproletari romani hanno
perduto (devo ripeterlo per l'ennesima volta?) la loro 'cultura',
cioè il loro modo di essere, di comportarsi, di parlare,
di giudicare la realtà: a loro è stato fornito
un modello di vita borghese (consumistico): essi sono stati
cioè, classicamente, distrutti e borghesizzati”.
Non si può sorvolare sul suo coraggio e sulla sua forza.
“Io sono una forza del Passato. [...] Giro per la Tuscolana
come un pazzo, / per l'Appia come un cane senza padrone. [...]
E io, feto adulto, mi aggiro / più moderno d'ogni moderno
/ a cercare i fratelli che non sono più”.
La “disperata vitalità” spinge Pasolini a
concepire e pianificare la propria morte violenta quale “montaggio
del film della sua vita”, come asserisce Giuseppe Zigaina,
“la morte-montaggio”.
La straordinarietà del montaggio di Salò
o le 120 giornate di Sodoma sta nel far coincidere il
tempo della morte reale con il tempo del montaggio del film
postumo in cui si è rivelato l'estremo gesto formativo
del Poeta. Analogia tra montaggio reale e montaggio metaforico
della sua opera-vita. “Una cosa – scrive Pasolini
– è essere martirizzati in camera e una cosa è
essere martirizzati in piazza, in una 'morte spettacolare' –
ma la cosa essenziale è restare in vita”. In cui
“restare in vita” indica restare nella vita del
dopo, ossia nella gloria e nell'eternità.
Pasolini intuisce anzitempo i rischi insiti nel neocapitalismo
italiano, un modello fondato sull'accumulazione di beni superflui
più che su uno sviluppo etico-culturale. Dice appunto:
“E io ritardatario sulla morte, in anticipo sulla vita
vera, bevo l'incubo della luce come un vino smagliante”.
Addita in primo luogo la televisione, atta a sovvertire il tessuto
sociale e ad alterare in profondità l'individuo
e i suoi comportamenti psichici, culturali e umani. Oggi il
suo coraggio intellettuale sarebbe essenziale: dire ciò
che è, sempre e dovunque. Questa è la dimensione
antropologica, culturale e politica in cui collocare Pasolini
oggi per rileggerlo e farlo rivivere in chiave marxista e libertaria,
in un presente sempre più omologato, globalizzato e conformista
e in un futuro le cui premesse presagiscono un deserto culturale
apocalittico.
Domenico Sabino
Londra
Incendiata la storica libreria Freedom |
I
locali della storica libreria anarchica Freedom di Londra
hanno subito un pesante attacco incendiario nella notte
tra giovedì 31 gennaio e venerdì 1 febbraio.
Nonostante l'intervento dei pompieri, che hanno lavorato
fino alle 7 di mattina per spegnere le fiamme, una parte
del piano terra dell'edificio ha subito considerevoli
danni. Fortunatamente nessuno è rimasto ferito.
Secondo le ricostruzioni dei compagni, è stata
forzata una finestra e poi versato del liquido infiammabile
all'interno. L'attacco non è stato rivendicato
ma è assai probabile che esso sia da attribuirsi
all'estrema destra, che già nel 1993 si era resa
responsabile di un atto simile.
Freedom non è solo una libreria: è un
editore di movimento dal 1886, quando Charlotte Wilson
e Pëtr Kropotkin cominciarono a pubblicare l'omonimo
giornale, che continua a uscire mensilmente. Freedom
edita libri e ospita le attività di diversi gruppi
tra cui Solidarity Federation, Anarchist Federation,
Advisory Service for Squatters, Corporate Watch e London
Coalition Against Poverty.
Dal giorno dopo l'incendio la risposta solidale di tante
e tanti è stata tangibile, tanto che lunedì
4 febbraio Freedom ha riaperto i battenti, anche se
il magazzino, che contava circa ottomila volumi, si
è ridotto non di poco.
Chi voglia aiutare per la ricostruzione può farlo
con una donazione o acquistando dei libri dal sito:
www.freedompress.org.uk
E-mail: shop@freedompress.org.uk
Freedom Press 84b Whitechapel High Street, London, E1
/QX, Regno Unito.
(grazie per la collaborazione ad Antonio Senta)
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