teatro in Bolivia 3
Burattini nelle miniere
di Federica Rigliani
Dagli spettacoli itineranti di burattini e marionette alle esperienze didattiche in scuole, miniere e villaggi indigeni: la storia di Chango e del Teatro Runa.
L'argentino Edgar Darío
González, detto “Chango”, arrivò in
Bolivia da Buenos Aires nel 1969 per una tournée di un
mese con il suo teatro itinerante di marionette e burattini.
Ci tornò nel '70 con la moglie Mirta e la sua famiglia
per stabilirsi a La Paz: “cominciai a lavorare con i centri
minerari grazie a un contratto della Comibol – la Confederación
Minera de Bolivia – che mi permise una sopravvivenza di
circa cinque mesi”. Divenne regista e direttore delle
attività teatrali del Tusa di La Paz e del teatro di
Cochabamba, lavorò con l'Universidad Mayor de San Andrés
e con il teatro dell'Universidad Católica: “fui
scelto come direttore perché si pensava di me che fossi
la persona più adatta ad esprimere ciò che, artisticamente,
gli allievi avrebbero voluto imparare. Io venivo da una scuola
che lavorava molto sul corpo dell'attore, sulla voce, conoscevo
forme di lavoro che questi giovani volevano apprendere. Con
il mio gruppo non ci preoccupammo solamente di rappresentare
i nostri spettacoli, ci sembrava doveroso organizzare una vera
e propria scuola di teatro. Pensavamo che non fosse possibile
fare teatro senza avere una preparazione tecnica teatrale solida,
legata al lavoro psicofisico, alla ricerca, al gioco, alla musica,
ai colori del paese in cui stavamo vivendo.”
Ma nel 1971 ci fu il colpo di stato di Ugo Bánzer e Edgar
Darío González lasciò di nuovo paese: “fui
bollato e non potetti fermarmi. È un po' l'ideologia
delle dittature latinoamericane, tutto ciò che aveva
un barlume culturale orientato a sinistra era da perseguire”.
In Argentina, però, lo attendeva la stessa sorte, le
dittature sembravano perseguitarlo e quando nel 1975 il paese
passò al regime di Videla lui fece ritorno in Bolivia
e fondò a Cochabamba il Teatro Runa: “Runa
vuole dire uomo, uomo della terra, uomo campesino. Era
costituito da dieci o dodici persone, tutti giovanissimi, dai
tredici ai venticinque anni. Non eravamo ancora un gruppo, perché
ognuno di noi viveva nelle proprie case. Il Centro de Educación
de Portales ci ospitò e ci dette un minimo di denaro
per poter iniziare a lavorare”.
Perché proprio la Bolivia? “Chissà se è
stato per una parentela storiografica, culturale, affettiva.
Io sono nato a Salta, una piccola città vicina alla Bolivia
che ha la sua stessa cultura. Non so. Io mi sentivo bene in
Bolivia, per questo la scelsi. Mi innamorai di quel paese. Questa
è la ragione. È stato un problema di amore da
popolo a popolo, da uomo a uomo”.
Con la possibilità di mettere in piedi un vero e proprio
progetto González si pose il problema che fu anche di
Nuevos Horizontes: restituire al teatro la sua funzione
etica ed educativa. Tutti gli spettacoli del Teatro Runa,
infatti, erano tratti da racconti accuratamente selezionati
in cui venivano fatti convogliare elementi di attualità
che avrebbero dovuto trasmettere agli spettatori un grande senso
etico e di responsabilità: “[...] Partivamo da
una considerazione molto semplice. Ci chiedevamo cosa stesse
succedendo in quel preciso momento nel paese poi, sulla base
di questo, prendevamo tutti gli elementi che costituivano, in
quell'esatto momento, la realtà e, una volta portatili
sulla scena, realizzavano essi stessi lo spettacolo”.
Motivato anche dal bisogno personale di allontanarsi dal teatro
commerciale, guardò al mondo rurale e declinò
l'esigenza e la ricerca del teatro campesino-indígeno
di Gabriel e Verónica Martínez nella volontà
di avvicinare un pubblico non urbano e di conoscere le tradizioni
legate a questa terra. Nel tentativo di valorizzare e far conoscere
le radici della cultura boliviana, per poi metterle in scena,
si avvicinò sempre più alle leggende native e
ai personaggi della mitologia locale, come la volpe e la tigre.
Ricercò, come dice lui, la magia che qui vive, ma non
approfondì mai il discorso linguistico pur usando sempre
qualche parola quechua nei suoi spettacoli: “Usavamo
poco la parola, se non c'erano altre soluzioni parlavamo, ma
se potevamo esprimerci anche mimando preferivamo quest'ultima
forma espressiva alla parola recitata. La parte più rappresentativa
era quella delle azioni drammatiche, erano facili da vedere
e comprendere.”
Castigare con il sorriso
La struttura degli spettacoli era estremamente semplice, proprio
per favorire la comunicazione con gli spettatori, mentre lo
spazio assumeva un ruolo di grande importanza soprattutto rispetto
alla presenza dell'attore poiché la scenografia non rappresentava
un problema: “non la usavamo mai, non la consideravamo
importante. Pensavamo che la cosa importante fosse lo spazio
scenico vuoto e, al suo interno, l'attore”. La presenza
del gruppo era accompagnata sempre da musica, gli attori cantavano,
suonavano diversi strumenti e scrivevano loro stessi la maggior
parte delle musiche che interpretavano. Erano rumorosi e gioviali
nel presentare questo teatro, per scelta ironico e satirico:
“Ci sono molti modi di dire la verità. Uno di questi
modi è far ridere la gente, i latini dicevano che bisognava
castigare gli altri con il sorriso. Noi facevamo un teatro satirico,
festivo [...]”.
Il primo spettacolo, Vida, pasión y muerte del Atoj
Antonio, tratto curiosamente dallo stesso testo sul quale
lavorarono Gabriel e Verónica Martínez, era una
metafora della lotta tra l'oppressore e l'oppresso affidata
alle figure mitologiche della volpe e della tigre: “non
volevamo fare un teatro politico. Questo racconto è una
satira della realtà”. Fu ricevuto così bene
dalla critica e dal pubblico che venne scelto per rappresentare
Cochabamba nel Festival Nazionale di teatro di Sucre, nonostante
tutti dicessero che l'argentino in questione non poteva rappresentare
la città perché “straniero”.
Chango non diresse da solo Atoj Antonio, lo realizzò
come un'opera collettiva perché credeva necessario trasmettere
la sua esperienza a chi poteva sviluppare una pratica registica:
“Io ero il regista, ma la mia idea era formare altre persone,
preparare futuri registi, far loro acquisire sicurezza nel lavoro,
io sapevo che un giorno o l'altro avrei lasciato, ma loro avrebbero
potuto e dovuto continuare anche senza di me”. Edgar proponeva
un racconto in cui venivano incastonate tematiche attuali o
tratte dalla storia recente, poi i ragazzi improvvisavano con
le proprie emozioni, le proprie parole, il proprio sentimento
e le proprie esperienze quotidiane. Nascevano quaranta, cinquanta
scene, a volte da pulire altre volte quasi pronte. Ne sceglievano
dieci o quindici, le più espressive, e con quelle strutturavano
lo spettacolo, le liberavano del superfluo affinché svelassero
solo il nocciolo.
Il pubblico accolse con entusiasmo la loro proposta, ma quando
lo spettacolo raggiunse la prima comunità isolata lo
stupore del regista fu enorme: i campesinos conoscevano
la storia perché i loro nonni e i loro bisnonni l'avevano
tramandata all'immaginario collettivo raccontandola. Quel pubblico
cominciò a sfidare sonoramente l'antagonista e ad immedesimarsi
sempre più col protagonista, incitandolo e tifando letteralmente
per lui, con enfasi e ardore. Se González sentiva la
necessità di tornare nelle comunità più
lontane, quelle conosciute agli esordi, dopo quella prima rappresentazione
prese la decisione di viaggiare in lungo e in largo per il paese,
andare “dove stava la gente, alla ricerca di un contatto
diretto con gli spettatori”. Non voleva più fare
teatro nei teatri istituzionali, lì presentava solo la
prima: “A noi non interessò mai né la fama,
né il denaro. Tutto questo non apparteneva alla nostra
ideologia. Al centro del nostro lavoro c'era la comunicazione
umana e il nostro primo problema era quello di capire il modo
di comunicare con una o l'altra comunità.” Il Teatro
Runa arrivò in luoghi dove nessuno era mai stato
e scoprì un paese meraviglioso che neanche i componenti
del gruppo, quasi tutti boliviani, conoscevano. “[...]
conoscevo più io la Bolivia che questo gruppo di giovani
boliviani. [...] Mi sembrò fondamentale organizzare con
loro dei viaggi che li avvicinassero alla cultura da cui provenivano,
affinché potessero conoscere Sucre, Potosí, Cochabamba,
Tarija e i piccoli pueblos sperduti di quelle regioni.”
Il gruppo lavorò nelle comunità indigene e nelle
miniere, nei campi di pallone, nelle chicherias e nelle
carceri traendo la sua forza solo dalla volontà che motivava
ognuno di loro: “Laddove c'era uno spazio libero e pulito,
c'eravamo noi con il nostro teatro. [...] Arrivammo in luoghi
impensabili da raggiungere, impensabili per la gente e ancor
più per il teatro, lavorammo in comunità isolatissime
e visitammo Alquile, Telamayo, Techile, Chorloque, Cenany, Tupiza.
Proprio lì conobbi Liber Forti ed il suo Conjunto: loro
organizzarono la nostra tournée e ci ospitarono nella
loro casa”. Si spesavano gli spostamenti, si muovevano
in autostop dormendo dove capitava e affidandosi alla generosità
delle comunità in cui arrivavano, alle quali chiedevano
un prezzo simbolico per l'entrata “un peso boliviano,
cifra che equivale al niente, però questo ricavato minimo
ci permetteva di vivere”. Furono anni di conoscenza e
condivisione vissuti come consegna totale: “In questi
viaggi apprendemmo molte cose che il teatro non insegna, cose
che si imparano solo nelle relazioni umane tra le persone”.
Il regista credeva più che mai giusta la direzione della
sua ricerca e di questo specifico fare teatrale, ma a un certo
punto dovette fare i conti con i limiti di questa scelta e riconoscere
una serie di problemi che non permettevano di dedicarsi pienamente
al lavoro: “rimaneva sempre ad un livello di non totale
professione, molti di noi lavoravano e studiavano; nonostante
la puntualità che ogni ragazzo metteva nel lavoro, nonostante
la volontà di indagare l'attività teatrale, non
eravamo nella possibilità di dedicarci completamente
al teatro”. E quando, nel 1978, incontrò Odin Teatret
al Festival de Teatro de Ayacucho cominciò a pensare
ad un teatro indipendente e professionale a cui dedicarsi tutto
il giorno, in cui spendere ogni energia, ogni momento: “ci
scontrammo con la serietà e la professionalità
di quel gruppo. Io decisi di abbandonare tutte le attività
parallele che fino a quel momento avevo svolto per vivere decentemente
[...] Proposi al gruppo una vita comunitaria in una casa di
campagna, in molti rimasero, altri andarono definitivamente
via [...]”. In questa fase nacquero De aquí,
de allá, de acullá, Historias de pañuelos
e una collaborazione intensa con le scuole che rappresentava
sempre un alto momento umano.
Il pane dell'allegria
Era un periodo difficile e duro, ma grazie ai chilometri percorsi
negli anni precedenti il gruppo era molto conosciuto per il
suo lavoro, tutti sapevano che il Teatro Runa portava
il teatro dove il teatro non andava, forse fu per questo che
la Fondazione Interamericana non esitò a finanziare
con 100 mila dollari il suo progetto teatrale per quattro anni:
“ci dette il denaro necessario per cucinare questo pane
dell'allegria che andrà ad alimentare una goccia del
sangue dell'uomo nuovo che intendiamo costruire”, si legge
nell'editoriale di uno dei quattro numeri della rivista pubblicata
dal gruppo.1 Da quel momento
in poi nessuno pagò più per assistere a uno spettacolo
del Teatro Runa, né in campagna, né in
città. Il denaro alleggerì le difficoltà,
permise l'acquisto di un'automobile, di mezzi tecnici per il
suono e delle luci, alcuni di loro misero insieme anche i risparmi
e acquistarono una casa a Tarija. Era il 1980. In quella casa
nacquero Aquí estan los cantores, Habla cantando,
Los títeres pasan en el camino. L'organizzazione
della quotidianità si strutturò intorno a una
comunità totalmente autosufficiente e indipendente: “una
piccola grande comunità in cui ognuno aveva i suoi compiti:
cucinavamo, facevamo le pulizie a turno, Organizzammo un orto
molto bello, ricco, con tanta verdura fresca... avevamo una
casa sempre aperta a tutti. I nostri ospiti potevano fermarsi
per una settimana gratis, poi dovevano contribuire alle spese.
Noi non ce l'avremmo mai fatta con la nostra economia ad ospitarli
tutti.”
Gli anni '80 segnarono una grande possibilità dal punto
di vista professionale, ma un nuovo colpo di stato, quello di
García Mesa, inaugurò un altro periodo di repressione
che rese difficile lavorare. Qualche giorno dopo essersi stabiliti
a Tarija, paramilitari che lavoravano per i Servizi di Intelligenza
argentini, protetti dal Dipartimento di Stato nordamericano,
fecero incursione nella casa per cercare armi e prelevarono
il regista e suo figlio. In prefettura li interrogarono sul
loro lavoro, sul perché di quel via vai continuo e sospetto
di stranieri, ma dovettero scusarsi con loro e rilasciarli quella
stessa notte. Il villaggio di San Lorenzo, gli allievi e i maestri
delle scuole elementari e medie si sollevarono in massa per
difenderli, mentre alcuni uomini importanti della destra locale
si fecero garanti per Don Darío e il lavoro del Teatro
Runa. Ma alcuni furono incarcerati, altri ancora vollero andar
via, ed elementi validi, pilastri del lavoro come Juan Espinoza,
Federico Rocha e Gonzalo Cuella lasciarono il gruppo dopo soli
sei mesi di progetto, convinti che “non si poteva rimanere
in un paese che ti uccideva”. Chango, che rimase con i
suoi figli, Naira e Nuri, quell'anno aveva saputo anche che
sua moglie Mirta era desaparecida in Argentina, di lei
non avrebbe mai più avuto nessuna notizia. Dopo un po'
tornò anche Federico, con lui e con alcuni ragazzi che
avevano partecipato ai seminari si costituì un nuovo
gruppo che lavorò fino al 1983.
Due furono le direzioni che il Teatro Runa seguì:
da una parte la preparazione degli attori, la ricerca formale
e la collaborazione con tutto il mondo teatrale che chiedeva
di incontrarlo, dall'altra l'impegno in un grande progetto pedagogico.
Sempre più intensa fu la ricerca teatrale, affrontata
con metodo e disciplina: gli attori ricevevano uno stipendio,
dedicavano un tempo fisso allo studio, all'allenamento, alla
formazione e alla preparazione artistica. Inoltre, per assicurare
l'apertura del gruppo e l'integrazione con altre realtà
artistiche che favorissero uno scambio e una crescita interna,
González offrì delle borse di studio ad allievi
boliviani ed europei: “Avevamo dei borsisti dalla Finlandia,
dall'Islanda, dalla Svizzera, dalla Germania, gente che arrivava,
lavorava con noi e viaggiava con il nostro teatro. Portavano
la loro cultura e le loro radici, ci permettevano di crescere
e conoscere altre forme di sentire la vita, altri modi di mangiare,
di parlare e di conoscere il mondo”. Tra i borsisti boliviani
che lavorarono con lui ci fu anche il gruppo di Mathias Marchiori,
che dopo aver imparato a fare i burattini portò per tanti
anni i suoi, bellissimi, nelle Ville più povere della
Città di Santa Cruz. Infine la sera, dopo cena, terminati
gli impegni quotidiani, il Teatro Runa incontrava tutti
i gruppi di teatro amatoriale che volevano conoscerlo, in una
continua collaborazione in cui gli attori di Chango trasmettevano
le loro conoscenze animati da grande solidarietà: “dal
tardo pomeriggio fino a notte fonda incontravano i gruppi cittadini
che si dedicavano già al teatro. [...] Avevano sempre
problemi tecnici e di repertorio, ma anche di regia e di montaggio
delle scene degli spettacoli. Il lavoro consisteva nell'aiutarli
proprio a costruire lo spettacolo, questo è successo
a Tarija, a Santa Cruz, a La Paz”.
Alfabetizzazione teatrale
Il progetto pedagogico Teatro y Educación, invece,
si rivelò così impegnativo che di fatto allontanò
gli attori dalla parte più propriamente creativa. Lavorarono
nelle scuole urbane e rurali della Bolivia inserendo il teatro
e l'espressione artistica in un percorso didattico che favorisse
l'alfabetizzazione teatrale degli alunni: “rimanevamo
per sei mesi nella casa di Tarija, tra marzo e aprile partivamo
[...] per sei mesi e andavamo a lavorare con le scuole, urbane
e rurali, della Bolivia. Avevamo dieci scuole, lavoravamo con
cinque classi di quaranta alunni per due ore al giorno, per
un totale di dodici ore settimanali [...]”. In un primo
momento gli allievi lavorarono sulle storie scelte dal gruppo
e attinte dalla tradizione locale: “Paulo Freire, educatore
brasiliano, fautore della 'pedagogia della liberazione', sosteneva
che si poteva fortificare la coscienza nazionale attraverso
il recupero della tradizione popolare. Noi ci sentivamo molto
vicini a questa posizione.” Per questo la scelta dei testi
rappresentava sempre un momento molto impegnativo: “proponevamo
una diversa concezione del bene e del male. [...] Cercavamo
di partire sempre da un concetto molto concreto: volevamo cercare
di formare uomini estremamente solidali, immaginativi, aperti
ai problemi della comunità e disposti a fornire soluzioni
a quei problemi. I nostri non erano racconti moralisti, raccoglievano
la storia del nostro paese descrivendo il modo di pensare, di
sentire e di agire della società”. Dopo, però,
cominciarono a trasmettere i punti cardine della costruzione
di una storia: “Fornivamo le tecniche basilari del racconto,
le figure necessarie per costruire una storia, le relazioni
tra il protagonista e l'antagonista” lasciando che i ragazzi
rappresentassero i loro racconti. L'enorme mole di materiale
prodotto divenne un archivio inestimabile, base di scrittura
di una vera e propria letteratura dell'infanzia: nuova perché
inesistente, antica perché basata sulla mitologia nativa;
“volevamo creare una nuova letteratura per l'infanzia
e per i giovani, consideravamo scarsa quella che c'era. Fu questo
il motivo che ci portò a spingere i maestri a rappresentare
i racconti scritti dagli allievi, affinché essi stessi
potessero, in qualche modo, autorappresentarsi. Tu non sai quanti
racconti ho raccolto, tu non sai quante voci continuano a parlare!”
Ecco, quindi, emergere in tutta la sua importanza la figura
del maestro. Era fondamentale trovare un modo per interessare
gli insegnanti e farli partecipare, era necessario trasmettere
loro le capacità e le tecniche per non interrompere ciò
che ogni volta veniva iniziato in un seminario o in un ciclo
di incontri, permettere loro di continuare anche dopo il termine
della collaborazione. Bisognava affiancare alla loro formazione
le tecniche di costruzione di marionette e burattini, per assicurare
la rappresentazione delle storie prodotte in classe all'interno
di un tempo scuola: “Insegnavamo come inserire in un percorso
didattico l'espressione fisica, manuale ed artistica. Fornivamo
le istruzioni per la creazione delle maschere e dei burattini:
come muoverli, come vestirli, come farli parlare. I ragazzi
scrivevano i loro racconti e davano vita, con il burattino che
avevano costruito, alle storie che avevano immaginato. Fornivamo
esercizi pratici e semplici che ogni maestro del ciclo elementare
avrebbe potuto praticare e spiegare ai suoi allievi”.
Per questo la formazione dell'insegnante divenne uno degli obiettivi
principali del progetto: “non parlavamo mai del maestro
come di colui che insegna [...]. Credevamo che nessuno potesse
insegnare e basta, eravamo convinti che tutti dovessero apprendere
da tutti”. Lo scopo era quello di formare “un maestro
sensibile, creativo, solidale, aperto ai problemi della comunità,
disposto ad apprendere dalla comunità stessa, per poter
partecipare alla formulazione e alla realizzazione delle soluzioni
adeguate”, solo così avrebbe collaborato in prima
persona “alla riaffermazione della coscienza nazionale
mediante il riscatto della cultura popolare”2.
Un grande impegno quello del Teatro Runa, ma il destino
è scritto, dice Chango, anche quando noi lo dimentichiamo.
Perse suo figlio nell'82 in un incidente: “Comprai quella
casa per vivere in Bolivia, ma non potetti più farlo.
Mi sono rotto dentro emotivamente con la scomparsa di mio figlio,
avvertii il gruppo che sarei partito, avrei lasciato Tarija
e la Bolivia alla fine del 1983, ma io quella casa l'avevo comprata
per diventare vecchio lì, in quella terra, tra quella
gente”. Così, proprio durante questi quattro anni
di intenso e proficuo lavoro, Darío González partì
portando con sé il suo grande dolore e la pienezza e
l'importanza dell'attività svolta: “Noi abbiamo
fatto un lavoro nella migliore maniera che abbiamo potuto scegliere,
in un determinato momento storico. Consegnammo pienamente al
nostro sogno i nostri soldi, i nostri ricorsi economici, la
nostra gioventù, la forza della nostra energia. Vivemmo
intensamente. Se il mio dolore fosse stato diverso, oggi sarei
ancora lì”.3 Ma
la sua sensazione, quella che egli stesso definisce “un'idea
romantica”, sopravvive al momento della mia intervista,
sia rispetto alla sua vita privata, quando afferma: “senza
quella gente io non avrei niente [...] la Bolivia mi intrappolò
tanto che, anche oggi penso, sarà sicuramente il paese
della mia vecchiaia, tornerò lì...”; sia
rispetto a quella professionale e alla convinzione che, prima
o poi, qualcun altro avrebbe ricominciato da dove egli era arrivato.
Probabilmente César Brie, nel suo saggio Dove finisce
l'esilio, si riferisce proprio a Chango quando dice: “Quell'uomo
aveva lavorato in Bolivia e aveva fatto teatro di burattini
nelle miniere, nelle scuole, tra le comunità indigene.
Il posto da cui scrivo è la Bolivia, ed il suo lavoro
adesso è il mio”4.
Federica Rigliani
Note
- Edgar Darío González, editoriale a Titiricirco,
pubblicazione del Teatro Runa in Bolivia, Qori Llama, Sucre,
Bolivia, s.d. [1982].
- Edgar Darío González, editoriale a El teatro
y los títires en la educación, Pubblicazione
del Teatro Runa, Qori Llama, Sucre, Bolivia, s.d. [1983].
- Intervista a Edgar Darío González. Cit.
- C. Brie, Dove finisce l'esilio, in AA.VV 'Passi Passaggi:
Partecipazione e solitudine nell'arte', Edizioni Sestante,
Ripatransone (AP), 1993, pag.101.
Il
teatro sulle Ande
Con questa terza puntata prosegue la
serie di quattro scritti curati da Federica Rigliani
e dedicati ad alcune significative esperienze teatrali
nella Bolivia della seconda metà del '900. Il
primo contributo, dedicato a Liber Forti e al Conjunto
Teatral Nuevos Horizontes, è stato pubblicato
sul numero 376 di “A” (dicembre
2012-gennaio 2013), mentre il secondo, che racconta l'esperienza del teatro Kollasuyo,
è apparso sullo scorso numero (“A” 377, febbraio
2013). |
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