cinema
L'eco del Sessantotto
Intervista a Olivier Assayas di Luca Barnabé
Il regista di Après mai, vincitore del premio per
la miglior sceneggiatura a Venezia 2012, ci racconta i giovani
dei primi anni '70 e la loro fiducia nel futuro. E i giovani di
oggi, ossessionati dal presente.
Abbiamo incontrato il francese
Olivier Assayas, uno dei più grandi registi e intellettuali
libertari contemporanei, autore, oltre che di Après
mai (distribuito in Italia con titolo Qualcosa nell'aria),
di Clean, Boarding Gate e della serie tv sul terrorista
venezuelano Carlos.
Il suo nuovo film - prima ancora di essere visto in concorso
a Venezia - era stato definito come “il film sul '68”.
In realtà parte dal dopo '68 (si svolge nei primi anni
settanta, nda), fin dal titolo originale francese: Après
mai, “dopo maggio”.
Io ero bambino nel '68, capivo quello che accadeva, ma lo capivo
attraverso la radio, la televisione, i racconti dei miei parenti.
Non vivevo a Parigi allora, ma come Gilles, il protagonista
di Après mai, abitavo vicino a Parigi, in campagna.
Con questo film ho scelto di raccontare gli anni successivi
al maggio francese, anni in cui era forte e diffusa la sensazione
di un mondo in movimento, un mondo che stava cambiando profondamente,
perché era il risultato, l'eco del Sessantotto. Un mondo
che era rimesso totalmente in discussione, in cui non c'era
nessun valore che non fosse completamente da reinventare. Racconto
tutto questo ancora una volta dal punto di vista dei ragazzi,
anche con una certa dimensione di naïveté
che sicuramente non è il punto di vista degli studenti
che hanno “fatto” il Sessantotto, che erano invece
più “maturi”, forse più colti e articolavano
pensieri molto complessi.
Con Après mai, film che pare
immergerci in un'epoca e in un sentire lontani e difformi dalla
contemporaneità, sembra quasi che lei cerchi di fare
dialogare idealmente l'oggi con gli anni settanta, passato e
presente.
In quegli anni non c'era struttura sociale che non venisse rimessa
costantemente in discussione e io ho avuto in sorte di diventare
adulto proprio in quegli anni. In quel periodo storico si percepiva
che la rivoluzione era qualcosa d'ineluttabile e imminente e
solo con lo “sfiorire” di quegli anni è venuta
a scomparire questa idea. Quel che mi affascina di più
dei primi anni settanta è che i giovani avevano una grande
e incrollabile fede nel futuro e, allo stesso tempo, sentivano
la necessità di rivolgersi al passato, vivevano nell'idea
secondo cui la Storia avesse le chiavi di lettura del XX secolo.
Oggi purtroppo importa solo il presente con un senso di fatalità
diffuso e trasversale. Non si guarda al passato, ma nemmeno
al futuro.
A volte i giovani contemporanei vengono definiti “giovani
vecchi”, spesso integrati e imbrigliati nel sistema “vecchio”.
Perfino i ragazzi dei riots di Londra di
due estati fa sembravano scimmiottare o simulare una piccola
rivoluzione che celava in realtà banale teppismo quotidiano:
i ragazzi rubavano oggetti tipicamente borghesi come il televisore
al plasma o lo stereo. È anche per questo che ha scelto
di raccontare i giovani di allora?
È molto difficile giudicare la gioventù di oggi,
perché danno l'impressione del fallimento dell'ideale
rivoluzionario. Sono cresciuti con l'idea del fallimento della
rivoluzione e con un'idea della vittoria dei valori materialisti.
Dunque, a volte, provano a loro modo di ricostruire qualcosa
di politico, ma è molto naïf, anche perché
la società mediatizzata non può dare un punto
di appoggio per questo idealismo. Questo modo di circolare dell'informazione
in tempo reale, questa fede ingenua anche nella costante comunicazione
crea un'ulteriore ossessione per il tempo presente, l'unico
tempo ritenuto “vero” e da tenere in considerazione.
Per credere nel futuro non si possono dimenticare i dibattiti,
il pensiero e i fatti storici del passato. È necessario
ripartire anche dagli errori, ma almeno averne coscienza, conoscerli
per muoversi davvero oltre, verso il futuro. Dalla Scuola di
Francoforte a Debord, tutte le chiavi per capire il capitalismo
moderno esistono e sono accessibili come non mai, eppure uno
finisce per avere l'impressione netta che le “chiavi”
sono là ma nessuno voglia “prenderle”. Oggi
c'è questo amore-odio per il consumo, per i nuovi gadget
della società moderna, il discorso è radicale
ma gli atti non lo sono mai. È venuto meno l'obbligo
di mettere in pratica le idee. La cosa essenziale, anche drammatica,
degli anni settanta è che c'era questo dovere di mettere
in pratica le proprie convinzioni nella vita quotidiana, tradurre
le teorie in atti. È quello che facevano i ragazzi, gli
studenti, gli intellettuali, i rivoluzionari: lasciavano l'università,
rifiutavano i valori imposti dalla società. Ancora una
volta sperimentavano, fino anche all'assurdo, l'idealismo del
post Sessantotto. Per me quello che è diverso tra la
generazione di oggi e quella di ieri, è il fatto che
nessuno sperimenta nella sua vita. Perché nessuno ci
crede abbastanza? Nel passato c'era più fede nel “futuro”
che nel “presente” anche per questa ragione. Non
c'era niente da perdere, oggi sembra che ci sia tutto da perdere
se si prova a cambiare.
Come sono nella realtà i ragazzi che ha scelto
per il film? Quanto sono diversi, nel quotidiano, dalla sua
generazione?
Ogni generazione ha un gruppo di ragazzi che si ribellano allo
status quo. I miei giovani attori non sono troppo conciliati.
Però questa è una generazione che più del
solito ha paura di rimettere in questione la società.
È una generazione che si sente sola. La cosa strana è
che sono tutti ragazzi connessi in Rete ma si sentono fondamentalmente
soli. A differenza degli anni settanta, c'è pochissimo
sentimento di potere collettivo. Anche negli anni settanta si
trattava di minoranze, ma c'era una fede nel potere collettivo
che riuniva ragazzi di tutto il mondo: manifestazioni in Messico,
a San Francisco, Parigi, Milano e Roma. Facevano tutti parte
di un sentire comune. C'era una connessione astratta ma vera
e forte fra quei ragazzi; oggi, salvo eccezioni, sono legati
da una connessione elettronica eppure non c'è legame,
non c'è vicinanza reale. Oggi esistono mezzi straordinari
per comunicare e per avere un senso di “potenza collettiva”,
eppure hanno paura ad usarli in maniera “politica”
o per cambiare davvero le cose. Non sono ancora esattamente
sicuri di quello che si fa o che andrebbe fatto. Sono stati
convinti che certi valori non si possono più mettere
in discussione e per questo la maggior parte di loro accetta
passivamente lo status quo. Perché è troppo pericoloso
ribellarsi. Arrivano a chiedersi: “Cosa si fa se crolla
l'economia?”, “Cosa si fa se non c'è più
lavoro? E se non ci sono più soldi?” “Cosa
si fa con il mondo?”. Non hanno un'idea chiara di come
vorrebbero il mondo. Anche la nostra poteva essere un'idea politica
a volte confusa e utopistica, ma era comunque un'idea. Io non
ho nessuna lezione da dare a questi ragazzi, ma vorrei che tornassero
a ripensare il mondo e superassero questo senso di impotenza
e di solitudine che invece hanno davanti ad esso.
Nella scena iniziale vediamo i manifestanti inseguiti
dai poliziotti in motocicletta. Accadeva davvero a Parigi nel
'71?
Purtroppo sì. Le brigate speciali d'intervento dette
“Crs en moto” erano forze di polizia in motocicletta
armate di manganello che furono istituite davvero, dopo i movimenti
del Sessantotto, proprio a partire dal '71, l'anno in cui si
svolge il mio film. Furono destituite alcuni anni dopo, in seguito
alla morte di un ragazzo liceale picchiato da uno di questi
poliziotti in moto.
Nel film compaiono alcune tavole del grande artista underground
Robert Crumb, definite “oscene e pornografiche”
da un compagno comunista.
Capitava all'epoca che certe opere d'arte e certo spirito ultralibertario
venissero considerati “osceni” anche dai censori
di qualche partito di sinistra. Tutto doveva essere “politico”
nel “contenuto”, un'assurdità perché
anche un nudo di Crumb è “politico”. Oggi
direi che le cose sono persino peggiorate. Il gusto si è
addomesticato ulteriormente.
Ha mai incontrato Crumb di persona?
Crumb purtroppo non l'ho mai incontrato, so che vive isolato
dal mondo da qualche parte nella campagna francese, i diritti
ci sono stati concessi tramite la sua agente.
Luca Barnabé
Qualcosa
nell'aria
(Après mai)
Après
mai, Francia 2012 Regia Olivier Assayas Sceneggiatura
Olivier Assayas Interpreti Clément Métayer,
Lola Créton, Félix Armand, Carole Combes
Produzione Charles Gillibert, Nathanaël Karmitz
Distribuzione Officine Ubu Durata 2h e 2'
Sito: www.mk2pro.com/film-fr/apres-mai/?lang=fr
In sala dal: 17 gennaio
Olivier Assayas racconta il suo alter ego Gilles, giovane
liceale nella Parigi degli anni settanta che, con alcuni
compagni, si divide tra l'impegno politico, gli amori
e la pittura. Vivere anarchici nell'arte, oltre che
nella vita quotidiana. Il regista sembra dirci che la
propria personale rivoluzione e l'autodeterminazione
sono condizione essenziale per trasformare la società
(non a caso uno dei primi graffiti dei giovani ribelli
è dedicato al leader ucraino Nestor Machno).
Assayas evoca potentemente il post '68 attraverso una
ricostruzione d'epoca credibile ed efficace, che non
cede all'agiografia e alla mera mitizzazione celebrativa.
Trascina lo sguardo dello spettatore in un passato di
cui non viene censurato né “ripulito”
niente: dalla brutalità subita ai sassi lanciati,
dall'abuso di droghe all'ottusità dei “compagni”
secondo i quali Robert Crumb è banale oscenità
o la macchina da presa è buona solo per l'agit-prop.
L'anarchia romantica (molto probabilmente vi innamorerete
di Carole Combes) ha oggi un grande cantore per immagini,
così come ha avuto Fabrizio De André nella
musica. La prima rivoluzione, suggerisce Après
mai, è combattere gli imbecilli e ogni genere
di dittatura, politica quanto culturale.
Luca
Barnabé |
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