“rivoluzioni arabe”
Nel mezzo del cammin...
di Antonio Senta
A due anni dallo scoppio della “primavera
araba” i problemi all'origine dei movimenti, dalla disoccupazione
giovanile alle diseguaglianze sociali, si sono addirittura aggravati.
Sono passati più di due
anni dall'inizio delle cosiddette rivoluzioni arabe. Un insieme
eterogeneo di agitazioni e rivolte, iniziate tra la fine del
2010 e i primi mesi del 2011 e in parte ancora in corso, che
hanno scosso vaste zone del Medio e vicino Oriente e del Nord
Africa, con particolare intensità in Tunisia, Egitto,
Yemen, Algeria, Giordania, Bahrein, Libia, Siria e Gibuti.
Si è molto discusso sulla giustezza del termine “rivoluzione”
per descrivere i fatti avvenuti: se la si intende come “movimento
organizzato e violento col quale si instaura un nuovo ordine
sociale o politico” (Devoto-Oli) essa c'è stata
solo in alcuni casi. Ma rivoluzione significa anche “ogni
processo storico, anche graduale, che finisca per determinare
il mutamento di un assetto sociale o politico” (Idem);
ancora, e in maniera più fruttuosa, con il termine rivoluzione
si può indicare un cambiamento di paradigma, ovvero una
sovversione della tradizione esistente. Secondo la teoria elaborata
dal filosofo Thomas Khun, nella scienza l'assimilazione di una
nuova teoria richiede il rigetto della vecchia; così
nella società, entità dinamica e non statica,
la rivoluzione è la sostituzione di una certa immagine
del mondo, fino a quel momento preponderante, con un'altra.
È proprio quello che è successo ovunque con le
rivoluzioni arabe, anche se solo in alcuni paesi ci sono state
le barricate e la cacciata del “re”.
Se, accettando queste premesse, la parola “rivoluzioni”
sembra più che legittima, lo stesso si può dire
per il termine “arabe”, ma, anche qui, un chiarimento
è necessario. Spesso quando si parla o si scrive di arabi
si usa il termine come un sinonimo di musulmani; in realtà
la maggior parte dei musulmani non sono arabi, poiché
vivono in paesi quali l'Indonesia, il Pakistan, il Bangladesh,
la Turchia, l'Iran ecc. e viceversa non tutti gli arabi sono
musulmani. Quindi rivoluzioni arabe, ma non rivoluzioni musulmane.
Le cause di questi movimenti sono varie e fanno leva su motivazioni
principalmente sociali, politiche e culturali, ma quel che è
certo è che esse non sono religiose. Così come
religiosi non sono i protagonisti. I movimenti di protesta,
composti per lo più da giovani scolarizzati e precari
e in alcuni casi da operai di fabbrica, movimenti di massa,
tendenzialmente orizzontali e senza leader ben definiti, non
hanno portato avanti rivendicazioni religiose. I gruppi legati
più o meno direttamente a qualche autorità religiosa
sono stati ben nascosti quando è scoppiato il movimento,
salvo utilizzarlo strumentalmente per prendere il potere e provare
a orientare la società in senso conservatore e oscurantista.
È il caso dei Fratelli musulmani in Egitto e di Ennahda,
Movimento della rinascita, in Tunisia.
Le cause delle rivoluzioni arabe, si diceva, sono molteplici.
La crescita demografica ha certo il suo peso, ma non è
la ragione principale. Molti dei paesi arabi hanno un numero
medio di figli per donna non troppo diverso dai paesi europei:
nelle città marocchine e tunisine c'è una media
di 1,84 figli per donna e tassi simili ci sono tra l'altro in
Libano, Turchia e Iran.
Alcuni commentatori hanno cercato le cause dei movimenti nel
mondo della comunicazione e in particolare in internet, nei
social network e nella telefonia mobile. Tutti fattori importanti,
ai quali se ne aggiunge un altro, che è stato forse il
vero veicolo di contagio “virale” di quelle informazioni
sulle proteste di piazza che hanno dato il via all'effetto domino:
la televisione e in particolare quel fenomeno politico che è
il canale Al Jazeera. Esso ha abbattuto i confini nazionali
tra i paesi arabi, veicolando una stessa lingua (il modern standard
arabic) dal Mediterraneo all'Oceano Indiano, e una certa concezione
di modernità, come mostra il fatto che i giornalisti
che appaiono sullo schermo sono in realtà spesso giornaliste
donne, solo a volte con il velo.
C'è poi chi ha individuato nei giovani i veri protagonisti
delle rivolte. E questo è indubbiamente vero: giovani
scolarizzati, spesso con una formazione universitaria, che non
riescono a trovare sbocchi lavorativi degni della loro formazione.
Questo ci porta a un'altra ragione delle rivolte che ha avuto
grande peso: la questione sociale. Negli ultimi anni i prezzi
dei beni di prima necessità sono aumentati a dismisura,
arrivando a raddoppiare come nel caso del grano, mentre la disuguaglianza
sociale non è più parsa sopportabile a larghi
strati della popolazione. Non a caso in Tunisia l'agitazione
sociale era già forte quando il 17 dicembre 2010 il venditore
ambulante Mohamed Bouazizi si è dato fuoco come gesto
disperato di protesta dopo che i poliziotti avevano rovesciato
il suo carretto di frutta e verdura. La scintilla della rivolta
di avenue Barghiba che ha messo in fuga Ben Ali aveva insomma
ossigeno da bruciare: due anni prima i minatori del bacino di
Gafsa avevano suonato la carica, dando il via a un crescendo
di mobilitazioni che ha visto protagonisti larghi strati di
lavoratori, giovani precari, donne. Così in Egitto, dove
il movimento operaio ha spinto la rivoluzione con scioperi e
agitazioni di fabbrica fin dal 2005. Nel 2008, ad esempio, sono
stati gli operai del tessile di Mahalla al-Kobra a incrociare
le braccia in settantamila per ottenere aumenti di salario e
il ribasso del prezzo dei beni di prima necessità: nei
mesi successivi le proteste di lavoratori e disoccupati sono
giunte fin davanti ai palazzi del potere e da allora non si
sono più fermate, dando vita alle innumerevoli giornate
di rivolta in piazza Tahrir e agli scontri davanti ai palazzi
governativi.
A fronte di una situazione di grande squilibrio sociale le ruberie
di politici e padroni hanno destato particolare scandalo nella
popolazione, e hanno aiutato a loro volta a far eruttare un
magma già in ebollizione.
Visioni divergenti
Se queste sono le cause, oggi la presa del potere da parte
dei partiti musulmani apre una contesa di non poco conto. Lo
scontro tra le tendenze religiose e quelle laiche (laico è
un termine che gli oscurantisti al potere associano tout-court
ad ateo) coinvolge tutti gli aspetti della società. I
Fratelli musulmani, spinti in questo dai salafiti, ad esempio,
rigettano il concetto stesso di giustizia sociale. La questione
della povertà, dicono, non si deve affrontare con la
protesta sociale, ma solo con la pratica dell'elemosina, che
è uno dei cinque comandamenti del buon musulmano. La
lotta di classe è quanto di peggio si possa immaginare,
poiché porta la disgregazione in una società,
quella musulmana, da loro pensata come una e indivisibile. Non
deve stupire quindi che i sindacati siano visti come qualcosa
di demoniaco, né che i governi de Il Cairo o di Tunisi
siano nuovamente proni ai prestiti, e ai relativi diktat economici,
del Fondo monetario internazionale.
Ci sono quindi nelle società arabe visioni divergenti
tanto in campo sociale e politico, quanto in quello culturale,
basti pensare al ruolo che le donne hanno avuto nelle rivoluzioni,
in particolare in Tunisia, e la necessità da parte dei
religiosi di farle tornare nei ranghi familiari.
È significativo che la mobilitazione popolare e le proteste
continuino in Egitto, dove i cortei dei laici prendono di mira
il governo di Morsi e dei Fratelli musulmani.
In Tunisia l'assassinio del 6 febbraio 2013 di Shukri Belaid,
leader di El Watad (Movimento dei patrioti democratici), un
partito laico e progressista, probabilmente a opera dell'estremismo
religioso, ha provocato una reazione di massa: una folla di
un milione di persone ha partecipato ai funerali, è stato
indetto uno sciopero generale che ha letteralmente bloccato
il paese, mentre si sono accesi nuovi focolari di rivolta.
Queste risposte popolari mostrano che dal punto di vista sociale
nulla è cambiato per la gran parte della popolazione,
che è disposta a mobilitarsi contro i nuovi padroni e
contro la progressiva islamizzazione. Le cause alla base dei
movimenti iniziati alla fine del 2010, la disoccupazione giovanile
e le diseguaglianze sociali, sono ancora lì e anzi si
sono aggravate, ecco perché le strade di Tunisi, de Il
Cairo o di Porto Said si continuano a riempire.
Le rivoluzioni non sono quasi mai questione di un attimo, anche
se apparentemente repentine sono processi complessi; il cambio
di paradigma non è lineare e il vecchio, opportunamente
trasformato, può ritornare. La strada da percorrere dai
settori più avanzati della società è lunga
e difficile, però è tracciata ed è ormai
ben visibile. Non c'è che da andare avanti: la rivoluzione
continua.
Antonio Senta
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