Sardegna
A sa sardA
Intervista a Su Colletivu S'Ata Areste (“La gatta selvatica”) di Laura Gargiulo
“Alla maniera sarda”. Vita in comune, ecosostenibilità e
legame con il territorio: la storia di un piccolo collettivo dell'entroterra sardo.
Hanno deciso di far
ritorno alla loro terra, di invertire il processo di emigrazione
e vivere nelle comunità colpite dal fenomeno dello spopolamento.
Hanno sperimentato come spesso ci si possa sentire emigrate
anche quando si torna a casa e come il processo di autodeterminazione
individuale passi necessariamente attraverso un percorso collettivo.
Avete
scritto un documento dal titolo “Dalla Sardegna un'alternativa
lesbica e femminista” in cui parlate del vostro progetto:
potete spiegarci come nasce e con quali obiettivi?
«Il progetto è partito dall'esigenza, come emigrate,
di rientrare in Sardegna, si è legato a tanti discorsi
a noi cari e mano a mano ha preso forma, evolvendosi. Abbiamo
messo insieme l'idea di vivere in una piccola comunità
tra lesbiche e persone che avessero voglia di lavorare a un
sistema sostenibile, di solidarietà, scambio e rispetto.
Siamo partite da presupposti anticolonialisti, antisessisti,
antifascisti, antirazzisti, da un'idea di socialità differente,
da un'idea di società diversa da quella eterosessista
e patriarcale in cui viviamo, abbiamo pensato a forme di gestione
orizzontale.
Inizialmente eravamo un gruppetto più numeroso, poi per
una serie di cause siamo partite in tre, circa due anni fa.
Abbiamo scritto la lettera/documento perché ci siamo
rese conto che parlarne non bastava o non soddisfava né
noi né le persone con cui avevamo un confronto.
Come abbiamo scritto, il progetto è rivolto a lesbiche,
compagne/i, altre persone sarde emigrate, artiste/i, ecosardi...
Abbiamo sempre cercato di parlare della cosa persona per persona,
scambiando a piccoli passi».
Nel documento parlate di una prospettiva anticolonialista:
ci potete spiegare cosa intendete e perché è per
voi punto di partenza?
«Quando parliamo di prospettiva anticolonialista ricollochiamo
il discorso sardo in un contesto più ampio, internazionale,
ma ne analizziamo e riconosciamo la specificità.
Contestualizzando quindi il nostro progetto nella realtà
isolana non possiamo prescindere da quelli che sono i problemi
della Sardegna, non avrebbe senso teorizzare in maniera astratta
senza riconoscere le caratteristiche, anche negative, della
realtà in cui viviamo. Parliamo di colonizzazione (l'ultima
da parte dello stato italiano) e di resistenza, della deculturazione
forzata che abbiamo subito, della conseguente folklorizzazione
della cultura, della perdita dell'autostima come popolo e come
individue/i, del tentativo di estirpazione e cancellazione della
nostra lingua, delle nostre identità, della mancanza
di riconoscimento di percorsi politici anche da parte di compagne/i
“continentali” e di altri parti del mondo, dell'alcolismo,
dei suicidi, della costruzione di fabbriche come cattedrali
nel deserto e dell'avvelenamento della terra, della militarizzazione
a tappeto del territorio (sulla nostra isola è presente
più del 60 per cento del territorio militarizzato appartenente
allo stato italiano, siamo soffocati da caserme, carceri, radar,
è un avamposto nel Mediterraneo, un territorio in prestito
per il collaudo e la sperimentazione di nuove armi e proiettili
a livello internazionale e per le esercitazioni di guerra)...e
potremmo continuare...
Nel momento in cui cerchiamo di costruire qualcosa di concreto,
di positivo, di “altro” non possiamo non tenere
in conto tutto questo, dobbiamo riconoscere il problema se vogliamo
cercare di risolverlo, ed è importante trovarsi con chi
si muove in questo senso sul territorio per modificare lo stato
di cose esistente».
Un nuovo viaggio, non un ritorno
“Chi emigra non si trova più nella realtà
di partenza, passa anni a sognare di tornare per poi realizzare
che la migrazione di ritorno è un'altra emigrazione”:
con queste parole descrivete le contraddizioni di un processo
che accomuna tutti i migranti; cosa ha significato per voi questo
processo?
«I motivi dell'emigrazione sono diversi per ciascun@,
quale che sia la motivazione che ci spinge a partire dobbiamo
poi fare i conti con il desiderio di ritornare. Anche chi non
lo farà mai, anche chi non ha nessuna intenzione di farlo,
anche chi sta benissimo dov'è arrivat@. E questo, come
dici tu, è un processo comune a tutte le persone migranti.
Per
noi lo stare fuori dall'isola dove siamo nate è stato
fondamentale per poterci vivere adesso: abbiamo rimesso in discussione
desideri e sogni, criteri di valutazione assodati. Quando abbiamo
finalmente capito che tornare in Sardegna non era solo un ritorno
ma un nuovo viaggio, un'emigrazione al contrario, quando abbiamo
fatto nostro ciò che avevamo studiato per anni, quando
abbiamo elaborato e reinterpretato da emigrate sarde le esperienze
vissute con le compagne, allora abbiamo trovato la chiave. Alcune
di noi sono passate per gli studi antropologici e quelli erboristici
e di apicoltura (nel desiderio di arrivare all'autosufficienza),
siamo passate per i percorsi femministi, lesbici, antirazzisti
e per le letture delle scrittrici italiane emigrate, che abbiamo
sentito vicine mentre cercavamo di capire come mai le italiane
non emigrate non le sentivano tali. (“Io che italiana
non mi sento né mi definisco: al di là del discorso
internazionalista, la mia identità è – anche
– sarda ma non italiana”, ci dice una compagna del
Collettivo).
Abbiamo sì scelto la Sardegna, ma abbiamo imbrogliato
le carte: il posto di ritorno, per ognuna di noi, non era lo
stesso. Abbiamo scelto una situazione neutra, quindi un paese
che fosse “estraneo” a tutte e tre, dove nessuno
ci conosceva (il che ci ha permesso di iniziare in una situazione
di “anonimato” di cui si usufruisce nelle grandi
città), un posto dove dovevamo iniziare da zero in ogni
senso (vedi anche ristrutturazione delle case). Non venivamo
con nessuna aspettativa ma con un grande entusiasmo e comunque
con la consapevolezza che non sarebbe stato facile, anche se
poi effettivamente lo è stato, grazie alla grande accoglienza
del paese che ha ricevuto questi “tre nuovi elementi non
identificati” molto positivamente.»
Avete avuto già dei riscontri al vostro documento?
«Sì, sono arrivati da qua e là soprattutto
messaggi o lettere di incoraggiamento e propositi di venirci
a visitare, e ne siamo felicissime. Per il momento, abbiamo
percepito un grande entusiasmo e qualcun@ è già
intenzionat@ a vedere delle case, con la prospettiva di comprarle
successivamente. Non è un passo facile, né immediato,
dato che significherebbe comunque un cambiamento radicale nel
modo di concepire la propria vita, nonostante questo “cambiamento
radicale” sia più a livello ideale che pratico.
Parlando con la gente, ci sembra, a volte, che le persone credano
che ci siamo isolate dal mondo, che non abbiamo praticamente
contatti se non con la natura e gli anziani di paese (per noi
inestimabile patrimonio). È difficile per noi spiegare,
a chi viene da una dimensione “cittadina”, che facciamo
le stesse cose che facevamo in città, come andare a teatro,
a un concerto, etc., fare insomma la stessa vita di prima e,
per alcune di noi, addirittura avere una maggior attività
sociale di quanto l'avessimo in passato, data la posizione centrale
del paese che permette una mobilità e una maggior possibilità
di scelta.»
Ecologia ed ecosostenibilità
Ci sono sempre più progetti e iniziative di ritorno
alla terra: potete parlarci di alcune situazioni in Sardegna?
«In Sardegna da un paio di anni si muove l'articolata
Rete Ecosardi, che mette in connessione, sia virtuale che fisica,
persone che, con idee e progetti diversi, vogliono vivere in
maniera ecosostenibile. C'è chi ci lavora da anni, chi
si è avvicinat@ di recente. Si va dalla proposta di costituire
un ecovillaggio al cohousing, allo scambio di lavoro nelle attività
agricole, all'autocostruzione, scambio di saperi e sementi,
ripopolamento etc.
In questo discorso noi ci siamo inserite perché, come
diciamo nella lettera, “consideriamo fondamentale muoverci
secondo principi di ecologia ed ecosostenibilità, ci
interessano il discorso di recupero delle terre comunitarie,
l'autosufficienza energetica e alimentare, la coltivazione della
terra e la raccolta di erbe e frutti, l'uso erboristico e alimentare
delle erbe selvatiche, l'autocostruzione di lavatrici ecologiche,
forni solari et similia”, e questo non lo vediamo come
un qualcosa a sé rispetto a ciò che stiamo facendo
in altri ambiti, citiamo sempre dal documento che abbiamo scritto:
“Per noi questi discorsi sono fondamentali e imprescindibili
gli uni dagli altri, vanno di pari passo nei nostri percorsi”.
Fra le prime cose di cui abbiamo tenuto conto sin dal principio
nella scelta del luogo dove vivere c'è stato il discorso
del ripopolamento e la presenza di ecocase tradizionali. Anche
alla Rete abbiamo portato la proposta di non costruire nuove
dimore ecologiche ma rivalorizzare quelle antiche, che sono
ancora moltissime nella nostra isola.
Una cosa importante che ci teniamo a precisare su vari aspetti
del nostro progetto è che non ci siamo poste come “monolite”...
diciamo che abbiamo pensato ad un ritorno in modi vari, tenendo
molto conto dei desideri individuali, per cui in questo stesso
posto ci può essere chi vive per conto proprio e chi
in collettività e così per la gestione della terra:
c'è chi vuole occuparsi di un pezzetto da sé e
chi invece sogna di lavorarlo con altre persone... ben vengano
queste differenze di percorsi se, in ogni caso, vogliono dire
condivisione in forme diverse. E ben venga anche chi sceglie
di non tornare, ma magari vuol darci un apporto, fare scambi,
comunicare.»
Tra le vostre prime iniziative c'è stata quella
di piantare mille alberi nella piana di Ottana, simbolo del
processo devastante dell'industrializzazione in Sardegna che,
nato con l'obiettivo non troppo celato di distruggere il tessuto
agropastorale perché ritenuto fonte dei fenomeni di banditismo,
lascia sul territorio un tasso di disoccupazione tra i più
alti d'Italia e poche prospettive di riconversione.
«In realtà quest'iniziativa non è partita
direttamente da noi, c'è stata una proposta di singole
persone che conosciamo e chi ha dato il là è un
emigrato sardo che ha espresso il suo desiderio di piantare
diecimila alberi nella piana di Ottana.
Abbiamo aderito subito, con entusiasmo, assieme ad altre/i singole/i,
e abbiamo partecipato attivamente ai diversi appuntamenti, prima
nel terreno di un'amica (ex emigrata) e poi in un terreno del
contratto d'area che costeggia quello che chiamiamo “il
plasticone”, uno spazio destinato alla raccolta della
plastica da riciclare, completamente abbandonato, con cumuli
di minuscoli pezzetti di plastica (in sfoglie o palline) che
il vento distribuisce nella pianura.
Piantare alberi è un'azione che consideriamo sempre importante,
perché contribuire al rimboschimento è rimettere
in circolo qualcosa, è prendere parte ai cicli della
terra rimettendo un pezzettino al suo posto. Come dici tu, il
ruolo della fabbrica di Ottana è stato quello di “polo
antibarbage”, la sua presenza è stata devastante
a livello umano e ambientale, e le sue ciminiere sono ancora
là che svettano, col fumo che sale mentre vengono bruciati
gli scarti della raffineria che arrivano dal sud dell'Isola.
La fabbrica è là, funziona ancora, ma noi siamo
qua e ci riprenderemo il posto, lo stiamo cominciando a fare,
e questo è uno dei passi in questa direzione. La fabbrica
ci ha spolpato, ci ha portato depressione, avvelenati, ci ha
regalato anche tanta emigrazione... ma c'è chi resta,
c'è chi prova a tornare. Sicuramente non è un
caso che fra le persone che hanno aderito una grossa parte fossero
ex emigrati, di tutte le età.»
Avete
scelto di andare a vivere in uno dei paesi dell'interno, simbolo
dello spopolamento che negli ultimi anni ha conosciuto una nuova
impennata: ci parlate delle difficoltà e di come vi siete
relazionate al resto della comunità?
«Purtroppo il grande dramma dello spopolamento non riguarda
solamente il paese che abbiamo scelto ma è generalizzato
un po' in tutta l'isola, diventando molto evidente nelle zone
dell'interno dove ci sono forti flussi migratori verso la capitale
e verso l'esterno (penisola e estero in generale).
Fra le difficoltà maggiori per noi ci sono quelle che
riguardano proprio la diffusione del processo inverso: la volontà
di ripopolare un territorio con un patrimonio inestimabile e
volerlo trasmettere alle persone. Censire le case vuote, cercare
di trasmettere il nostro progetto, diffonderlo con tutti i mezzi
possibili, trovano come difficoltà anche la mancanza
di tempo, perché tra ristrutturare la propria casa, lavorare,
seguire le varie attività sociali e l'integrazione il
tempo è veramente molto poco.
Le difficoltà principali in questi contesti sono la chiusura
della mentalità, la mancanza di lavoro, i cattivi collegamenti,
la disillusione che ne consegue, l'appiattimento che ti trascina
verso il bar, o anche fenomeni come il pettegolezzo per cui
tutti sanno tutto di tutti.
Ma la verità è che noi abbiamo scelto questo paese
per una serie di caratteristiche, fra le quali la posizione
centrale, i buoni collegamenti, il fatto che avesse numerose
case in pietra a basso prezzo, che fosse piccolo ma non troppo
piccolo né spopolato e, assolutamente non ultima, per
la calorosa accoglienza della sua popolazione originaria.
Fra i lati positivi: l'inaspettata apertura dimostrataci dagli
abitanti, che probabilmente, essendo per la maggior parte di
mezza età o anziane ci hanno accolte come “nuove”
giovani del paese.
Riguardo l'integrazione con la comunità stessa, diciamo
che è avvenuto tutto molto gradualmente. Ma c'è
voluto un anno intero per avere la conferma di essere considerate
come parte di loro, parte di una contesto comune.»
Avete in progetto l'idea di costruire un archivio con
testi sulle lotte di genere, il femminismo, l'anarchismo e la
storia della Sardegna?
«Sì, abbiamo in realtà già cominciato
a raccogliere dei materiali: testi politici, documenti, romanzi,
saggi, opuscoli, riviste e fanzine, fumetti, film, manifesti,
adesivi, cartoline etc. relativi a lesbismo e lesbofemminismo,
femminismo, movimento lgbtiq, tematiche di genere, arte, anarchia
e movimenti in Sardegna e a livello internazionale.
Il nostro ideale sarebbe avere una casa in paese da adibire
ad archivi@ e spazio di socialità comune.
Cogliamo l'occasione per fare un appello a chiunque volesse
contribuire alla crescita di questa neonata Archivi@ con donazioni
di ogni genere!»
Potreste darci un quadro generale delle realtà
di lesbiche e femministe in Sardegna?
Attualmente le due città più grandi, Sassari e
Cagliari, sono i centri principali per associazionismo e collettivi.
Le associazioni, realtà miste, si muovono da alcuni decenni
(l'Arc da dieci e il Mos da vent'anni) in ambito culturale e
politicizzato, ci sono poi le dimensioni dei collettivi femministi
e lesbici, le associazioni culturali di donne, lesbiche, femministe
(es. La libreria delle donne di Cagliari, la Circola del Cinema
Alice Guy...).
Progetti per il futuro?
Fra i nostri progetti abbiamo prima di tutto quello di finire
di restaurare le nostre casette e avere così anche la
possibilità di ospitare persone per avere un continuo
scambio e nuovi stimoli; abbiamo quello di trovare spazi di
condivisione e socialità, fare rete, promuovere e organizzare
iniziative, estendere e condividere il nostro progetto con altre
persone, lavorare sulla visibilità lesbica e ampliare
l'Arkivi@, sviluppare progetti di permacultura e... tanto altro.
Laura Gargiulo
Arkivi@
È
neonata un'Arkivi@ in centro Sardegna.
Stiamo raccogliendo testi politici, documenti, romanzi,
saggi, opuscoli, riviste e fanzine, fumetti, film, manifesti,
adesivi, cartoline etc. relativi a lesbismo e lesbofemminismo,
anarcofemminismo, femminismo, movimenti lgbtiq, tematiche
di genere, arte, ecologismo e antispecismo, anarchia e
movimento anarchico, movimenti in Sardegna e a livello
internazionale...
Ci appoggiamo in una casa ma cerchiamo una sede!
Chi volesse contribuire alla crescita di questa neonata
Arkivi@ con donazioni di ogni genere può scriverci
qua: mojumanuli@autoproduzioni.net.
Colletivu S'Ata Areste |
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