Rivista Anarchica Online


cultura


Buddhismo zen
fra osterie e bordelli

«Ikkyu non è affare per deboli di spirito. Gli osservanti del politicamente corretto, i rispettosi dei valori costituiti farebbero bene ad astenersi. Meglio che a varcare il limen di questa poesia sia solo chi è disposto a correre il più temibile dei rischi, chi può accettare di finire scaraventato nel malfermo territorio del dubbio». In questa maniera esordisce l'introduzione di Ornella Civardi, eccellente curatrice del volume Nuvole vaganti. La raccolta di un maestro zen di Ikkyu Sojun, (Astrolabio Ubaldini, 2012, pagg. 216, € 18,00) in cui sono antologizzati centocinquanta componimenti poetici del monaco zen giapponese, che, come una sorta di diario intimo, accompagnano l'indagine e la ricerca interiore dell'autore lungo le varie tappe della vita, dall'adolescenza alla vecchiaia.
Ikkyu Sojun! Chi era costui? Vissuto fra la fine del trecento e la prima metà del quattrocento è considerata come una delle figure più significative dello buddhismo zen giapponese. Ad esempio Yasunari Kawabata – premio Nobel per la letteratura nel 1968 – ebbe a definirlo come «il più rigoroso e profondo dei maestri zen». È infatti fuori discussione la sua importanza come innovatore (seppur critico) e divulgatore della pratica zen, per non dire del suo ruolo di animatore di un cenacolo culturale da cui sono scaturite alcune fra le più elevate espressioni artistiche del tempo. Per il lettore di “A” si può a piena ragione aggiungere che Ikkyu trova adeguata collocazione all'interno di quella categoria/non-categoria che va sotto il nome di “anarchismo religioso”; intendendo quest'ultimo non come l'adesione da parte di uomini di religione a un'ideologia politica (l'anarchismo), bensì come l'espressione di una sensibilità religiosa libera da dogmi e imposizioni. Per riprendere alcuni versi di Ikkyu: «Secondo natura è la condotta / più giusta e senza leggi: / La saggezza di ieri / oggi è stupidità». O ancora: «Verità innata / è una grande illusione. / Innata illusione / è la vera accezione». D'altro canto Linji, il fondatore della scuola zen rinzai a cui apparteneva lo stesso Ikkyu così insegnava: «Se incontrate il Buddha, uccidetelo. Se incontrate un maestro uccidetelo». (Ciò ha fatto dire a Hakim Bey: «Il commento di Bakunin su Dio, che se esistesse dovremmo ucciderlo, dopo tutto passerebbe come pura ortodossia all'interno dello zen buddhista»).

Ikkyu Sojun (1394-1481)


Una vita in cammino
Figlio illegittimo dell'imperatore Go Komatsu e di una dama di corte proveniente da un'antica famiglia caduta in disgrazia, andò a vivere sin da piccolo presso il tempio di Ankoku-ji, a Kyoto, per essere iniziato alla vita monastica. Già a quell'epoca il buddhismo zen aveva perso il contenuto delle origini, scegliendo di adagiarsi in una profittevole istituzionalizzazione in perfetta sintonia con l'establishment economico e politico del tempo. I maggiori monasteri, che già si trovavano in possesso di ingenti proprietà fondiarie, si premuravano di accumulare nuove fortune svolgendo l'attività, ampiamente remunerativa, del prestito a interesse. D'altro canto le più alte cariche religiose venivano acquisite o per lignaggio o per intrigo, tramite la complice approvazione del governo. Se per divenire priore di un tempio era necessario esibire un attestato di illuminazione, quest'ultimo si poteva sempre acquisire pagando oppure attraverso particolari favori o appoggi altolocati.
Ben presto Ikkyu insorge contro “i venditori di zen” e contro ogni mercificazione dello spirito. Abbandona l'ambiente raffinato ed estetizzante dell'Ankoku-ji, scegliendosi maestri poveri e marginali. In seguito prediligerà lo stile di vita del monaco itinerante, in contatto con il popolo e la natura, alternando così i ritiri in qualche eremo malandato – raccolto nella pratica meditativa, nella composizione di poesie e nel lavoro della terra – all'immersione nella vita cittadina, frequentando taverne e bordelli, infrangendo, uno dopo l'altro, tutti i precetti della regola monastica, per dare in questo modo forma compiuta a una personalissima accezione dello zen, finalmente libera dai lacci e lacciuoli dei dogmi e delle convenzioni sociali. Lascerà scritto: «A furia di coltivare la testa / abbiamo smarrito il cuore».
Verso i settant'anni incontra una cantante cieca di un tempio, di diversi decenni più giovane di lui, nei confronti della quale nutre, ricambiato, una passione ardente in grado di ridare nuova ricchezza alla sua vita, che volge ormai al tramonto. In verità poteva ben accadere che un monaco, infrangendo i voti, intrecciasse una relazione con una donna; ciò veniva tollerato a condizione che la relazione restasse segreta, salvaguardando così forme e apparenze. Per Ikkyu invece la resa all'amore è assoluta: fuori da ogni ipocrisia curiale e da ogni senso di colpa, egli canta l'amore come dono straordinario lungo il cammino di senso compiuto dall'uomo nella vita. Come in questa poesia: «La mia cieca la notte / viene a sentirmi far poesia. / Sotto le coltri chiocciamo / fitto fitto come due mandarine. / Sorgerà forse un giorno / un'alba di salvezza alle genti, / ma il decrepito dio che ho dentro / già diffonde sul mondo la sua primavera».
Infine, a ottant'anni, un editto imperiale lo nomina priore del Daitoku-ji, uno dei più importanti monasteri zen, all'epoca distrutto a causa delle guerre che imperversavano. Egli riuscirà, prima di morire, nel portare a compimento la faticosa impresa di ricostruzione. Ai discepoli che l'avevano seguito prima di morire lascerà detto: «Dopo che me ne sarò andato, potrete ritirarvi sui monti o in un bosco, oppure mettervi a bazzicare bordelli e osterie. In entrambi i casi avete la mia benedizione. Ma quelli che pretenderanno di possedere lo zen, di sapere la Via, quelli saranno i veri impostori, i nemici della Parola».

Federico Battistutta



Ricordi di
un militante Br (e contadino)

Parlare in un libro di vicende politiche non è facile, soprattutto se il libro in questione è la biografia di un brigatista (Prospero Gallinari, Un contadino nella metropoli, Bompiani, Milano 2006, pagg. 350, € 8,50).
Prospero Gallinari, recentemente scomparso nella sua Reggio Emilia, è stato tra i fondatori delle Brigate Rosse e militante delle stesse fino al fatidico anno 1988 nel quale dichiararono definitivamente concluso il loro percorso politico. Responsabile del sequestro Moro e di molte altre azioni che gli valsero tre ergastoli, pena scontata con 17 anni di prigione e in seguito, con l'aggravarsi delle sue condizioni fisiche, con i domiciliari.
Avevo in mente già da diverso tempo di scrivere del suo libro Un contadino nella metropoli e quando pochi giorni fa ho appreso la notizia della sua scomparsa, questo desiderio è divenuto una necessità. Prospero non lo ho mai conosciuto di persona, e di questo mi rammarico, ma leggendo il suo libro ho avuto modo di conoscere la sua vita, dalle origini contadine rivendicate più volte con sincero orgoglio, alla militanza politica con tutti i suoi retroscena. Certo l'approccio con un libro di questo genere non è facile, quantomno non lo è per me, c'è sempre il timore di trovare falsature o omissioni riportate dall'autore, accompagnate da pentimenti o da un ostinata retorica. Il libro di Prospero non è nulla di tutto questo.
Ho conosciuto la vita di un uomo che ha vissuto come bracciante nelle campagne reggiane, dove il fermento politico era forte e ancora vivo era il ricordo della Resistenza tradita, il suo impegno e la voglia di riscattarsi con la politica e in seguito le delusioni, l'uscita dal Pci e la fondazione delle Brigate Rosse.
La scelta della militanza armata, condivisa o no dal lettore, non viene giustificata con ragionamenti e scuse ipocrite da Gallinari, ma appare come un percorso della sua vita e del suo impegno politico, lascia così che sia la sua storia a giustificare tale scelta.
Interessante è la descrizione dell'organizzazione e della gestione di tutte le “colonne” dislocate nella penisola, l'importanza dell'appoggio esterno di alcuni membri e le vicende che porteranno alla sua prima incarcerazione e in seguito alla sua evasione. Nel libro non mancano alcune sue riflessioni e dettagli descrittivi, che ci trasportano emotivamente nelle vicende narrate, dai momenti più ironici a quelli più tesi e intensi.
In conclusione, trovo questo libro un appassionante testimonianza della vita di un uomo e allo stesso momento dell'Italia quegli anni, lo consiglio a chiunque crede che ogni evento nella storia sia frutto di un percorso e soltanto conoscendolo potremo dire di averlo compreso e aver appreso da esso qualche insegnamento, se dovessi descriverlo in una sola parola lo definirei onesto. Ogni umano ha diritto alla sua Utopia.
Al libro di Prospero Gallinari è ispirata la canzone Martino e il ciliegio del rapper reggiano Murubutu, vi consiglio il suo ascolto.

Giuseppe Di Giulio



Il potere, i miti
noi stessi

Quando fu firmato il Trattato di Maastricht, nel 1992, sapevamo che stavamo consegnando le nostre vite nelle mani di un pugno di banchieri: un vero e proprio colpo di mano consumato nell'inconsapevolezza e nell'indifferenza dei più. Eppure anche i più accorti sono rimasti attoniti e sgomenti quando la troika formata da Fmi, Bce e Ue ha messo letteralmente in ginocchio un'intera nazione, la Grecia, con un'arroganza e una ferocia cui abbiamo assistito con un doloroso e frustrante senso di impotenza. E, nonostante siamo ormai esperti di analisi sul potere, ci siamo chiesti che volto abbia assunto ai giorni nostri: perché, se non lo si conosce e riconosce, diventa anche impossibile combatterlo, o quanto meno difendersene.
È a questa vicenda che si ispira Marco Revelli nel suo ultimo saggio, I demoni del potere (Laterza, Bari-Roma, 2012, pagg. 97, € 14,00), leggendola come una sorta di matricidio compiuto dall'Europa, le cui radici affondano appunto nella antica civiltà greca. E proprio da questa Revelli è voluto partire nella sua indagine sul potere, andando a rileggere due miti fondativi nel cammino dell'uomo verso la civiltà; un gioco, ci avverte, soltanto un gioco, considerato che i miti sono polisemantici e si prestano ad interpretazioni anche contrastanti.
Entrambi i miti scelti da Revelli, “Medusa e Perseo” e “Ulisse e le Sirene”, possono essere letti come archetipi dei conflitti a volte mortali tra uomini e donne.
Vediamo chi sono queste donne. Medusa è una bellissima fanciulla che Poseidone sedusse (o stuprò) nel tempio di Atena, la quale la trasformò in un mostro che pietrificava col proprio sguardo chiunque la guardasse. Questo in tempi molto remoti. Per Ovidio e Pindaro, invece, continua ad essere una fanciulla così bella che gli uomini, affascinati, guardandola restano pietrificati. Medusa è una delle Gorgoni: le sue sorelle, Euriale e Steno, che rappresentano rispettivamente la perversione sessuale e quella morale, sono immortali; lei, invece, è mortale, e rappresenta la perversione intellettuale. Il che significa che se gli uomini possono sopportare le perversioni sessuali e morali delle donne, visto il grande diletto che ne traggono, non possono invece accettare il loro modo di pensare, e quindi cosa c'è di meglio che tagliar loro la testa? Ed è esattamente quello che fa Perseo che, dopo averne fatto largo uso per liberarsi dei suoi avversari, la dona ad Atena (che simboleggia anche l'invidia delle donne verso le altre donne). La testa però resta viva, e il suo sguardo mortifero; Atena la fonde nel proprio scudo, così che i nemici, guardandola, restino pietrificati.
Non è difficile riconoscere, in questo mito, la “demonizzazione della donna” che iniziò con la prima moglie di Adamo (vedi Renato Sicuteri: Lilith e la luna nera) e, attraversando allegramente i millenni, si insinuò nel topos della Belle dame sens merci (vedi Mario Praz: La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica), per entrare pimpante ed evergreen nel cinico e sgamato duemila. Mi concedo una pausa autobiografica: non più di un anno fa un amico che da anni cercava inutilmente di infilarsi nel mio letto, una volta, alzandosi di scatto dalla sedia, mi apostrofò: “Ma tu non sei una donna, sei il diavolo!”...
Anche le Sirene, come le Gorgoni, sono delle figure ctonie, anticamente rappresentate con ali e testa di uccello, in seguito con la coda; simboleggiano la sessualità femminile che seduce e uccide. Afrodite, dea dell'amore, viene spesso raffigurata in forma di donna e pesce. Ancora oggi il termine sirena indica la donna fatale.
Revelli, citando tra gli altri J.P. Vernant e Italo Calvino, ci offre una diversa interpretazione della Gorgone e del significato della sua uccisione da parte di Perseo. Medusa, in greco “colei che domina” o “La sovrana”, simboleggia il potere allo stato naturale; fissarla induce a “perdere se stesso, la propria capacità di guardare e di appartenersi: questo è lo sguardo terrifico del potere... in questa caduta in balia dell'altro sta la natura della pietrificazione”.
Perseo è il fondatore di città, l'uccisore di mostri e, soprattutto, colui che usa degli artifici (nella lotta contro Medusa si tratta dello scudo in cui si riflette la sua immagine e che gli consente di tagliarle la testa senza guardarla); è l'eroe che doma le potenze infernali e le passioni in nome dell'ordine razionale istituito dalla polis.
L'episodio di Ulisse e le Sirene si colloca nel canto centrale dell'Odissea, e “segna il passaggio (e il distacco) da un passato emotivamente intenso e l'inizio di un nuovo ciclo di avventure e di lotte”. Prerogativa delle Sirene è il loro irresistibile canto; “la trasposizione poetica di un passato di cui godere, in cui riconoscersi e, nel contempo, arrestarsi. Dunque morire”. Mentre con la Gorgone ci si perdeva guardando, con le Sirene è l'ascolto ciò che annulla, in un duplice senso. Da un lato le Sirene concedono a Ulisse un privilegio: la narrazione delle proprie gesta, e quindi la fama ottenuta da vivo. Ricorrendo come Perseo a un artificio (le corde per legarsi), sicuro del proprio passato e quindi della propria identità, Odisseo potrà presentarsi alla corte di Alcinoo come l'aedo di se stesso. Ma, come suggerisce Peter Sloterdijk, citato da Revelli, è la forma che la narrazione assume, cioè il canto, ciò che affascina e incanta nelle Sirene, cioè “la musica che assorbe le parole e in ragione di ciò riesce a forzare i confini dell'io... il codice comunicativo più efficace per abbassare le barriere di difesa nei confronti dell'altro”.
Entrambi i miti, dunque, raccontano dell'io messo di fronte alla proprio doppio, che annienta. Sia Medusa che le Sirene non esercitano una potenza diretta ma quello che Revelli definisce un soft power, distruttivo quanto l'hard power, ma esercitato “a distanza”, senza spargimento di sangue. Soprattutto (qui Revelli cita Blanchot), il mito di Ulisse e le Sirene segna il passaggio dal mito al racconto, che si separa del proprio oggetto (l'evento narrato) e dal proprio soggetto (narrato), ponendosi come ente autonomo.
Dopo un interessante passaggio dedicato alla storia, Revelli approda di nuovo ai giorni nostri, all'inenarrabile orrore che caratterizzò il '900, che già si era mostrato nella Grande Guerra, e che nel 1917 Kafka anticipò profeticamente in un suo scritto intitolato emblematicamente Il silenzio delle Sirene.
Con la fine dell'800 le grandi narrazioni della letteratura, da Le opere e i giorni a Guerra e pace, che trasmettevano alle nuove generazioni le tradizioni e le esperienze del passato, scompaiono per lasciare il posto allo storytelling, racconto postumo, “che non racconta l'esperienza del passato, ma disegna i comportamenti, orienta i flussi di emozioni, sincronizza la loro circolazione [...] che produce il proprio ordine, creando un vissuto artificiale altro rispetto al soggetto... il mondo raccontato come unico mondo possibile”. Un esempio? La balla spaziale delle armi di distruzione di massa in Iraq, che “crearono” l'evento dei bombardamenti sulle città di quel martoriato paese.
L'ultimo grande narratore che mostrò il volto pietrificante del potere fu Pasolini nel film Salò. Le centoventi giornate di Sodoma, il quale volle indagare “come agisce il potere dissociandosi dall'umanità e trasformandola in oggetto”.
È un saggio impegnativo, I demoni del potere, e molto più di un gioco, ma al termine della lettura ne sapremo un po' di più non solo delle dinamiche del potere, ma anche di noi stessi: e questa è la cosa più importante.

Sandra D'Alessandro



Quel maggio
rampante italiano

Chi, come colui che scrive, vive se stesso proiettato al futuro rischia di prestare meno attenzione di quanto meriti alla narrazione storica sulle recenti vicende e, in particolare, a quella che prende la forma della biografia e/o del romanzo storico.
La rilettura recente di un libro che già decenni addietro avevo letto è stata, da questo punto di vista, decisamente utile a riflettere su quest'ordine di questioni.
La prima edizione di Due di due di Andrea De Carlo (Bompiani, Milano, 2010, € 10,50) è del 1989. Non ricordo bene come mi capitò fra le mani, di regola non acquisto romanzi, se si escludono quelli di Vance et similia, di autori viventi. Sono certo di non averlo comprato né rubato e che non me l'hanno prestato, probabilmente mi è pervenuto in occasione di un trasloco, uno dei tanti che ho fatto o nei quali ho dato mano.
Ammetto che non avevo alcuna notizia sull'autore ma, considerando che egli non ha presumibilmente alcuna notizia su di me, non credo di avergli fatto un gran torto. Era, per di più, di un genere che non amavo molto, un romanzo storico ambientato durante il maggio rampante italiano e avente a oggetto, fra l'altro, un romanzo di denuncia sulla natura mefitica di Milano ai tempi.
Lo lessi insomma ma non lo amai, lo lessi per vedere, come avrebbe detto il Principe Antonio Foca De Curtis, come sarebbe andata a finire.
Solo dopo averlo terminato, mi resi conto delle ragioni del mio fastidio. Mi ricordava singolarmente Il riposo del guerriero di Christiane Rochefort, un libro che avevo letto da fanciullo e che invece mi era piaciuto, forse perché ero meno coinvolto. Per chi non ne ricordasse la trama, basta sapere che tratta di una giovane signora di buona famiglia che rompe, per disgusto e noia, i rapporti con il suo ambiente e diventa l'amante fedele e appassionata di un alcolizzato con tendenze suicide.
Il rapporto fra i due principali personaggi di Due di due, Mario, l'io narrante amico fedele e subalterno e Guido, il maudit, avventuriero, sciupafemmine, tormentato eroe del nostro tempo, è simile, ovviamente se si esclude la relazione erotica fra i due.
Non saprei dire perché De Carlo non abbia reso la vicenda più intrigante introducendo un cotè omosessuale, in fondo Porci con le ali era già uscito.
Il romanzo è diviso in due parti. Nella prima i due ragazzi, entrambi studenti del liceo classico Berchet di Milano, vivono gli altrettanto classici turbamenti adolescenziali, si trovano coinvolti con volenterosa disponibilità negli accadimenti del 1968, vivono diverse tumultuose vicende. Come si diceva, dei due la figura trainante è Guido, che legge, conosce, sperimenta, è un leader sia pur eretico del movimento degli studenti, Mario lo seconda.
De Carlo pone l'accento sulla precoce fine della dimensione libertaria ed innovatrice del movimento degli studenti ad opera degli orridi gruppi marxisti leninisti, in particolare il Movimento Studentesco della Statale divenuto poi Mls. Io, che ero da quelle parti, posso per un verso confermare che tali gruppi tendevano all'orrido ma, soprattutto, rilevare che le dinamiche che si svilupparono anche nei primi anni '70 furono infinitamente più ricche ed interessanti della descrizione riduttiva e caricaturale che ne dà De Carlo.
Guido, e Mario nel ruolo di ombra fedele, diventano anarchici, d'altronde potevano mancare gli anarchici? Dalla lettura del libro parrebbe che i due abbiano frequentato il Circolo Anarchico di via Scaldasole descritto come uno stanzone polveroso, cosa che effettivamente era. A questo punto del romanzo si dà un passaggio che oltre vent'anni addietro mi colpì molto e di cui allora, a differenza di oggi, non mi riuscì di darmi una spiegazione. Ritrovo, a pagina 104 della quindicesima edizione, quella del 2010, un'affermazione che trovai, e trovo, sgradevole: «I piccoli gruppi anarchici si sono dispersi, i loro membri mandati in prigione con accuse false o scappati o anche solo troppo demoralizzati per fare più niente». Andrea De Carlo tratta di quanto avvenne immediatamente dopo la strage di piazza Fontana del 12 dicembre 1969 e visto che il suo eroe, Guido, e l'io narrante, Mario, frequentano un circolo anarchico deve fornire una spiegazione del loro abbandono della “politica” che non contrasti con i caratteri propri dell'eroe e persino con quelli del più modesto io narrante e la fine del movimento anarchico gli pare efficace. Quando però si scrive un – sia pur modesto – romanzo storico una qualche attenzione ai particolari, soprattutto se non irrilevanti, sarebbe opportuna visto che, in realtà, il movimento anarchico, che certo non pretendeva di essere l'Orda d'oro, tenne botta. Visto che Guido viene presentato come uomo di carattere, il suo sparire nel vento nel momento di massimo pericolo sarebbe non coerente con il personaggio e, di conseguenza Andrea De Carlo fa sparire nel vento l'intero movimento anarchico. Una licenza letteraria notevole.
La seconda parte del romanzo è invece dedicata alla trasformazione di Mario da studente svogliato in operoso contadino ecocompatibile nei dintorni di Gubbio, al suo divenire padre amoroso e critico intransigente della civiltà industriale, al suo inserirsi nella deriva che porterà all'attuale sviluppo dell'economia verde.
Naturalmente Guido non scompare, anzi. Viaggia per il mondo, trova e lascia compagne, scrive, come già dicevo, un romanzo di denuncia contro Milano, l'inquinamento, il cemento, il ceto politico, la sua opera viene equivocata e mercificata e, alla fine, muore giovane lasciando, come si diceva ai tempi, un bel cadavere.
Il cuore storico politico del romanzo, quello che più mi ha interessato, emerge da ciò che viene valorizzato e, ancora di più, da ciò che viene occultato. Invano si cercherebbe nell'opera un cenno anche marginale al conflitto di classe che pure qualche peso nel maggio rampante lo ebbe. La questione delle classi appare in qualche misura solo nella forma della relazione problematica fra Guido, figlio di una portinaia, e diverse delle sue socie di volo che, immancabilmente sceglie, chissà come mai?, fra borghesi affette da mal de vivre. Al contrario la partita si gioca sulla dialettica infelice fra tensione distruttiva, incarnata dal saturnino Guido, e tensione all'alternativa positiva, incarnata dallo scialbamente solare, mi si passi l'ossimoro, Mario.
In altri termini, la passione sovversiva viene consegnata, e in questo modo liquidata, alla condizione giovanile e ad una critica estetica dell'orrore della civiltà urbano-industriale e la rivoluzione sociale si riduce ad una sperata rete di cooperative di produzione e consumo eque e solidali. Un triste e, spero, precoce funerale.

Cosimo Scarinzi



Lo scrittore Brassens,
questo sconosciuto

Un libero flusso di pensieri ed emozioni che raccontano del poeta Georges Brassens: ecco G. Brassens 5h40' (Riflessioni e appunti tra un treno, un pullman e una quenelle di quinoa) (Medea, Pavia, 2011, pagg. 300, € 18,00).
L'autrice Daniela Soave Vighesso ripercorre la storia di questo cantautore utilizzandone le canzoni e raccogliendo appunti che ne indagano la personalità, cercando di scovare l'uomo dietro all'artista e dando libero sfogo a quello che appare come il suo intimo fantasticare su una diretta conoscenza con questo affascinante cantore.
Un vero e proprio innamoramento, a tratti un po' celebrativo ma in alcuni casi più lucidamente analitico. Il racconto di un'esperienza assolutamente personale, con interventi e interpretazioni a volte intuitive e interessanti altre più arbitrarie e congetturate.
È onesto il tentativo di riconoscere a Brassens un ruolo di apripista, più che di una personalità da idolatrare (salvo cadere in qualche contraddizione) e di tener conto della possibilità che vi siano stati anche artisti in grado di sviluppare meglio di lui i diversi spunti che egli stesso ha offerto.
Tra una confessione e l'altra l'autrice rivela un'appassionata e intensa conoscenza dell'intera opera del cantautore (ma, forse, una meno puntuale conoscenza di altri artisti citati) e la mette a disposizione di chi legge, offrendo un'occasione per riflettere e per immergersi fra le canzoni di Brassens, anche in assenza di musica, o per immaginare una personalità in fondo sconosciuta.
Probabilmente è un libro scritto più per sé che per chi lo leggerà, ma questo non impedisce di lasciare un prezioso contributo con la parte dedicata a Brassens scrittore, frequentemente liquidata dalla bibliografia già presente in italiano e considerata invece, all'interno di questi appunti, con attenzione e devozione.

Elisa Sciuto



Bela Lugosi nei panni
del Conte Dracula
Letteratura gotica/
Sul concetto di “normalità”

Sfogliando un qualsiasi dizionario della lingua italiana potrebbe facilmente accadere di imbattersi nel termine “normale” e di leggervi accanto una definizione più o meno di questo tipo: “conforme alla consuetudine e alla generalità, regolare, usuale, abituale”. Ciò che ho finora detto non rappresenta una novità per nessuno, ma vale la pena interrogarsi più a fondo su questo termine e sulle ripercussioni che esso genera sulle nostre esistenze.
Innanzitutto sorge spontaneo domandarsi da dove nascano e su quale base siano concepiti tutti quei paradigmi e modelli di normalità a cui ognuno di noi cerca quotidianamente di uniformarsi con lo scopo di garantirsi un ruolo nella comunità umana. Va chiarito il fatto che la normalità, così come noi siamo abituati a concepirla, non è assolutamente un “fatto naturale”, ma soltanto un mero prodotto culturale, un insieme di regole non scritte che quotidianamente la società ci propina e che noi inconsapevolmente introiettiamo e proiettiamo sul nostro corpo: ad aver intercettato tutto questo sono stati vari autori inglesi dell'800 che per primi hanno introdotto i concetti di “artificialità della natura umana” e di “essere umano come prodotto culturale”; il ricorrere nei loro romanzi di un certo tipo di tematiche ha portato, negli anni, a definire l'insieme di queste opere con il nome di letteratura gotica.
Fin dalla sua nascita il gotico si è posto come genere portatore di critica culturale e sociale in grado di mostrare quanto falso fosse il mito del progresso; è un genere che sostanzialmente dà voce alle “alterità” e le esalta a tal punto da rendere visibile a tutti il meccanismo della loro marginalità e la “fabbrica dei criteri” che si cela dietro a tutto questo. Senza nemmeno rendercene conto siamo proprio noi, attraverso i nostri giudizi e le nostre azioni quotidiane, che permettiamo a questi criteri di prosperare, di perpetrare e di radicarsi in maniera sempre più irrimediabile nella società: non facciamo altro che comportarci come ingranaggi e, per citare Michel Foucault, come “cinghie di trasmissione del potere”.
Uno di questi autori è senza dubbio Edgar Allan Poe, che nel suo racconto del 1840 intitolato L'uomo interamente consumato ci descrive un generale John A.B.C. Smith come un modello di perfezione, un uomo che incarna perfettamente la categoria del “consueto”; tuttavia, con l'evolversi del racconto, si scoprirà che quest'emblema della normalità, così come ci è stato descritto, in realtà non è che un ammasso di protesi artificiali. In questo modo Poe ci sta dicendo che un uomo è tanto più “normale” e risponde tanto più alle aspettative del potere quanto più il suo significato di “essere umano” viene meno. Ad aver tracciato il sentiero seguito poi da Poe è stata sicuramente Mary Shelley nell'opera del 1818 intitolata Frankenstein in cui, per la prima volta, si parla di una vita artificiale e di un corpo-macchina.
Altro autore che mira a scardinare le fondamenta su cui poggia il concetto di normalità è senza ombra di dubbio Bram Stoker che nel 1897 con Dracula ci racconta di un vampiro che esercita il suo fascino indistintamente su uomini e donne. Parlandoci della sessualità polimorfa e sregolata del vampiro, l'autore non fa altro che parlarci del terrore dell'epoca (spesso rintracciabile anche ai nostri giorni) nei confronti di quelle sessualità che si discostano rispetto alla “consuetudine” (eterosessuale e finalizzata alla procreazione). Così facendo l'autore sembra voler attaccare anche l'unico modello sociale legittimato dal potere, e cioè quello familiare.
L'ossessione instancabile del potere finalizzata all'affermazione della normalità si è tradotta in passato anche nella creazione di vere e proprie discipline scientifiche che si occupassero di individuare e analizzare le diverse “categorie” di esseri umani: fra queste la fisiognomica, che attraverso i suoi studi mirava proprio a creare modelli “più conformi” rispetto ad altri.
Stabilendo dei modelli di normalità in ogni sfera della vita si genera ghettizzazione, conflitto e odio; si trasforma in questo modo una risorsa così preziosa come la diversità, capace di arricchire tutti coloro che ne sanno cogliere il vero significato, in un qualcosa di negativo, in un qualcosa capace di generare odio tanto più profondo quanto più è ampia la differenza rispetto al modello da imitare.
I criteri di normalità hanno lo scopo di rendere gli uomini dei corpi privi di anima e destinati alla semplice produzione, di imbrigliare la mente e di renderci dei gusci vuoti totalmente impotenti e alienati, proprio come degli zombie.
In questo modo il corpo si devitalizza e diviene cosa: questo è quanto ci dice anche Oscar Wilde nel suo celebre Ritratto di Dorian Gray, con cui vuole rompere il concetto di autenticità, defininendoci “nient'altro che copie”, copie di modelli preesistenti e da cui siamo stati influenzati, dei “prigionieri all'interno di un copione già scritto”.
L'unico modo per essere davvero liberi è rimuovere quel filtro che trattenendo “l'insolito” lascia passare soltanto il “consueto”; una volta conseguito questo nuovo stato di visione del mondo potremo aspirare ad un cambiamento che porti finalmente alla vera eguaglianza sociale!

Alessio Gentili



La fame
è un bel gioco

Per una volta partiamo dalla coda: “Quiz finale” a pagina 113 (vi dirò dopo di che libro si tratta). “Semplici domande” che servirebbero a valutare se lettori-lettrici hanno ben capito le 112 pagine precedenti ma io ve le giro “al buio”. Sarebbero 8 quesiti ma io mi limito ai primi 4. Vediamo quante risposte pensate di sapere. Il criterio però non è il “giusto” ma ciò che accade in questo XXI secolo.

1. La finanza è:

  1. Un mezzo al servizio dell'economia produttiva e dell'insieme della società.
  2. Il mercato dei soldi.
  3. Un fine in sé, per fare soldi dai soldi nel più breve tempo possibile.
  4. Un divertente gioco di società in cui vincono tutti e i soldi si creano dal nulla per magia.
2. L'agricoltura:
  1. Serve a dare un reddito dignitoso ai contadini e alle loro famiglie, e a sfamare le persone tutelando l'ambiente e la biodiversità.
  2. Serve a produrre quelle cose che bisogna aggiungere ai conservanti, pesticidi e coloranti prima di venderli sui banconi dei nostri supermercati.
  3. Serve a produrre cibo, il cui unico scopo è costruirci sopra derivati e altri strumenti finanziari sempre più complicati in modo da poterci guadagnare su.
  4. È una cosa superata, qui pensiamo a far soldi, non certo a perder tempo nel mangiare.
3. Che cosa dovremmo fare?
  1. Regolamentare la finanza, proibire derivati speculativi e scommesse sul cibo, tassare le transazioni finanziarie.
  2. Raggiungere la sovranità alimentare per ogni popolo del pianeta.
  3. Abolire le ultime regole e controlli in vigore nella finanza internazionale.
  4. Giocarci fino all'ultimo euro nei mercati finanziari perché siamo più furbi di tutti.
4. Nel solo 2009 Goldman Sachs ha ottenuto più di un miliardo di dollari e Barclays 340 milioni di sterline grazie agli scambi su materie prime e cibo. Da dove vengono questi profitti?
  1. L'operazione ha creato ricchezza reale. Le banche hanno guadagnato ma hanno tirato l'economia e contribuito al benessere di tutti. Che bello il mondo in cui viviamo.
  2. Sono soldi creati dal nulla. Non fanno nessun danno, anzi è un gioco di prestigio molto divertente.
  3. Se le banche hanno vinto è scommettendo contro qualcuno che evidentemente ha perso, probabilmente tanti piccoli risparmiatori che si sentono molto furbi e comprano Etf e Etc.
  4. Le operazioni che hanno fatto aumentare i prezzi del cibo e il guadagno vengono da lì, a rimetterci sono le persone che testardamente insistono a usare il cibo per mangiare.

Se le domande e soprattutto le possibili risposte vi sconcertano, il mio suggerimento è di andare in una buona libreria o su www.altreconomialibri.it/libri e di acquistare Il grande gioco della fame (Altreconomia, 2011, pagg.128, € 8,00) – sottotitolo: “Scommetti sul cibo e divertiti con la finanza speculativa” – di Andrea Baranes che, fra l'altro, è attivo nella Campagna per la riforma della Banca mondiale (www.crbm.org) e autore di Come depredare il Sud del mondo edito appunto da Altreconomia.
Non so se conoscete Modesta proposta di Jonathan Swift (sì, proprio l'autore de I viaggi di Gulliver che in Italia gira perlopiù in edizione ridotta così che viene spesso scambiato per una favola o un libro d'avventura): questo feroce pamphlet spiega, in modo freddamente scientifico, come risolvere il problema della miseria... mangiando i bambini (irlandesi) poveri. In qualche modo Andrea Baranes espone con la stessa tranquilla ferocia come la finanza internazionale usa il cibo per far soldi: un gioco vero, con milioni di morti veri che corrispondono agli utili.
Crudele. Ma purtroppo vero. Il gioco (orribile ma efficace) è provare a essere come “loro”. Scrive Baranes: «Il ruolo più divertente da scegliere resta probabilmente quello dello speculatore [...] Grazie a queste semplici linee-guida potrete trarre il massimo del divertimento dal gioco e incontrare nuovi amici che – come voi – realizzano enormi profitti e impongono prezzi insostenibili a persone che stanno morendo di fame». Divertente. Da morire.

Daniele Barbieri



L'anarchia
spiegata dal buon Malatesta

La giovane e vivace casa editrice Nova Delphi Libri (info@novadelphi.it / www-novadelphi.it) ripubblica, nella collana Ithaca, due classici scritti dell'anarchico Errico Malatesta: L'anarchia e Il nostro programma, che costituiscono il titolo di questo libretto (pagg. 112, 8,00). Ne ripubblichiamo qui l'introduzione di Paolo Finzi, della redazione di questa rivista.

Errico Malatesta è morto nel 1932, 19 anni prima che io nascessi.
Eppure è stato un mio compagno di vita quotidiana per almeno un ventennio, a partire da quando – nel 1967 – lo incontrai in alcuni articoli sulle pagine del settimanale anarchico Umanità Nova e poi l'anno successivo – il mitico 1968 – negli opuscoli e nei libri che ebbero a suggerirmi, e poi a vendermi o a prestarmi, gli anarchici del Circolo “Ponte della Ghisolfa” e in particolare Pino Pinelli, che del serrvizio-libreria e della biblioteca di quel circolo era l'appassionato responsabile.
In quel periodo di entusiastica adesione al movimento anarchico e ai movimenti di lotta dell'epoca, nell'ambito della preparazione culturale e storica che tanti di noi giovani sentivano come un “dovere” e che comunque ci veniva proposta dai vecchi (e il quarantenne Pinelli, nato 23 anni prima di me, era nella mia percezione assolutamente un vecchio, penso mi sembrasse il nonno che non avevo), mi lessi più o meno tutti i classici dell'anarchismo, da Bakunin a Kropotkin, da Galleani a Gori, da Fabbri a Malatesta. L'età giovanile, con i suoi entusiasmi e l'eccitazione della “scoperta”, mi portavano ad apprezzarli tutti, ognuno con le proprie caratteristiche. Mi riconoscevo allora anche nel linguaggio di un Galleani, che più avanti mi sarebbe sembrato irrimediabilmente “datato”, con quel suo infarcire a volte i propri scritti di citazioni latine o comunque “classiche”, con quella retorica roboante. E anche il Gori del terribile “Al tuo amor fanciulla cara, ben altro amor io preferia, è un'idea l'amante mia...”, che certo non corrispondeva alla situazione ormonale e ai desideri di un ragazzo che aderiva all'anarchismo senza per questo escludere di trovarsi una concreta e carnale “amante mia”: insomma anche quel Galleani e quel Gori mi andavano benissimo. Ora un po' meno, per certi aspetti molto molto meno.
Ma Malatesta era un'altra cosa. Quello fu sì “amore a prima vista”. Uno che era morto quasi 40 anni prima di quando iniziai a leggere i suoi scritti non poteva certo essere considerato un contemporaneo. Ed era morto prima della rivoluzione spagnola, della seconda guerra mondiale (quindi di Auschwitz e Hiroshima, tanto per citare due luoghi-simbolo di un “mai più” etico che fatica anche solo a sopravvivere), della coscienza ecologista, del femminismo, ecc..
Eppure in quegli anni Malatesta si presentava agli occhi di tanta parte dei giovani che si avvicinavano all'anarchismo come un pensatore “attuale”. Uno che intanto scriveva bene, con semplicità (che è tutt'altra cosa dalla superficialità e dalla banalità): senza concessioni al lirismo e alla retorica – anche alla sua epoca tanto in voga – con uno stile al contempo asciutto ed essenziale, ma mai freddo. Mi colpì in tanti suoi scritti l'uso della parola “amore”, come riferimento etico ma non solo. Una parola e un concetto essenziali in Malatesta e che solo per questo uso (mai abuso) già marca la differenza con altri pensatori anche anarchici. E ancora una volta non è tanto la frequenza della parola nei suoi scritti, quanto la sua positività fondante, nella vita dei singoli come della società.
D'altra parte lo slogan degli anni '70 “il personale è politico”, con tutto quello che gli sta dentro, è presente e a tratti visibile negli scritti del rivoluzionario campano. E, credo, lo sia stato in alta misura nella sua stessa vita, per quanto se ne possa sapere. Personalmente mi sono occupato, proprio in quei primi anni '70, di ricostruire sette mesi della vita militante di Malatesta, in particoare del periodo che va dal suo rientro in Italia nel dicembre 1919 fino al congresso dell'Unione Anarchica Italiana a Bologna nel luglio 1920: una lunga sfilza di comizi, articoli, la fondazione del quotidiano Umanità Nova, i rapporti con socialisti, repubblicani, Ordine Nuovo: uno dei periodi in cui maggiormente appare come un personaggio di statura nazionale, un protagonista - assolutamente a suo modo – delle vicende sociali del Paese. Eppure anche in quel periodo così “politico”, se non si riesce a leggere in filigrana la sua prorompente ed equilibrata umanità, la sua concezione concreta della vita e delle relazioni tra le persone, non se ne può cogliere – a mio avviso – la vera cifra: quella di un progetto di vita e di lotte che, anche se pudicamente espresso meno esplicitamente di quanto la mia sensibilità di oggi richiederebbe, si basa sull'etica, sull'etica che non credo improprio definire innanzitutto un'etica fondata sull'amore.
E anche oggi, a più di ottant'anni dalla sua morte, è questo uno dei suoi lasciti più belli.
Per almeno un ventennio gli scritti di Errico Malatesta – in particolare i mitici tre volumi curati da Luigi Fabbri e pubblicati poco dopo la sua morte e quindi ripubblicati “a cura del Movimento Anarchico Italiano” a metà degli anni '70 – hanno fatto bella mostra di sé sul comodino accanto al mio letto. Li leggevo, li rileggevo, e poi articoli su di lui, tante conferenze in giro per l'Italia, i rari incontri con anziane compagne e compagni che l'avevano visto e conosciuto. Un rapporto intenso, quotidiano, che si intrecciava con il diuturno impegno sociale (e redazionale) mio e di tutta una generazione, anzi di più generazioni di militanti anarchici.
D'altra parte, visti dall'interno dell'anarchismo, alcuni temi fondamentali sono da sempre gli stessi: la questione dell'organizzazione, il sindacalismo, la violenza, l'individualismo, ecc.. Su tutti questi temi, Malatesta ha scritto pagine di mirabile chiarezza, che si possono condividere o meno, ma restano un esempio di lucidità di pensiero, trasparenza espositiva e serenità d'animo. A questo proposito, è importante rilevare che non esiste un “pensiero unico” malatestiano, perché il suo pensiero è in continua evoluzione ed esperienze e riflessioni lo portano ad aggiustamenti e anche a cambi di prospettiva. In Malatesta c'è, a mio avviso, una coerenza di fondo che attiene all'etica, alla scelta dei valori e della parte da cui stare e lottare, ma dentro questa coerenza di riferimento ci sono – e guai se non ci fossero – differenze anche grosse.
Malatesta è stato di sicuro la figura storicamente più rilevante dell'anarchismo di lingua italiana e una delle principali a livello mondiale. Ma appartiene non solo al filone di pensiero e al movimento cui ha dedicato tutta la propria esistenza, a costo di sacrifici notevoli e prolungati che sono stati propri di intere generazioni di anarchici.
Era un uomo aperto, attento agli altri, e in lui la convinzione per le proprie idee (accentuata dalle necessità della “propaganda”: lui scriveva articoli per orientare le lotte, non saggi accademici) non diventava mai sottovalutazione o peggio disprezzo per le altre. E anche questa è una piccola lezione, in realtà per niente piccola.
Dicevo all'inizio che Malatesta è stato un mio quotidiano compagno di vita per un ventennio. Proprio leggendolo e rileggendolo, ho maturato a un certo punto un'esigenza di distacco, di approfondimento di altri personaggi e tematiche. Sul mio comodino i tre volumi dei suoi scritti hanno lasciato spazio ad altre letture, anarchiche e spesso non-anarchiche.
Come un figlio che fisiologicamente senta la necessità di “separarsi” da un padre “troppo” (troppo bravo, troppo giusto, comunque ingombrante), ho in qualche modo guardato “altrove”. E ho trovato tanti pensatori, esperienze storiche, riflessioni personali, confronti, dibattiti, tante cose interessanti che in Malatesta non c'erano e non potevano e non possono esserci.
Il mondo, la cultura, tutto scorre, si arricchisce di nuovi capitoli, idee, lotte. E guai a chiudersi in se stessi, in rigide e rassicuranti certezze, che impediscono di “stare sui tempi”, di cogliere il nuovo che sempre c'è anche se spesso non vogliamo coglierlo.
Dopo essermi definito per tanti e tanti anni “malatestiano”, oggi mi rendo conto che gran parte del merito del mio attuale rifiuto di definirmi in relazione a chicchessia (compreso Malatesta) è proprio di quel piccolo grande uomo, che di fronte al vero e proprio coro di consensi, a tratti adulatori, con cui venne salutato al suo rientro in Italia nel dicembre 1919 e nel ciclo di comizi e conferenze che subito intraprese, scrisse poche righe sul quotidiano Umanità Nova di cui era il direttore: e il titolo è già un programma, “Grazie ma basta”.
Quindi, paradossalmente, anche nel rifiutare l'auto-definizione di “malatestiano”, mi ritrovo sulla stessa lunghezza d'onda di Errico Malatesta e del suo rifiuto del culto della personalità.
Mettiamola così: se per un attimo io accettasi di definirmi in relazione ad una persona, l'unica con cui potrei farlo resta Errico Malatesta.
E la lettura dei suoi scritti riproposti in queste pagine, al contempo così datati e così universali, ci rende un Malatesta con cui credo che sempre dovremo fare i conti, nell'affannata e profonda ricerca delle vie migliori e più efficaci per rendere più umano, libero e solidale il mondo che ci circonda. In altre parole, per avvicinarci alla realizzazione di quel sogno anarchico di cui il buon Malatesta è stato uno degli espositori più lucidi e uno dei realizzatori più efficaci.

Paolo Finzi