violenza
Lo stupro, un triplo crimine
intervista a Bruna Bianchi di Gianni Sartori
Un crimine contro l'umanità, un crimine di genere, un crimine contro l'infanzia.
Ne parliamo con Bruna Bianchi, docente di storia contemporanea all'Università Ca' Foscari di Venezia.
Recentemente l'alto
commissariato forniva dati inquietanti sugli stupri nei campi
dei rifugiati somali (si parla del 60 per cento delle donne)
mentre alcune ong denunciavano l'esercito congolese per le violenze
nel nord-est della Repubblica Democratica del Congo (sfatando
l'idea che le violenze fossero opera solo delle milizie). Situazione
sempre più drammatica anche per le donne siriane, vittime
sia dei soldati governativi che dei combattenti ribelli. Stando
alle dichiarazioni dei medici, sono in continuo aumento quelle
che arrivano negli ospedali libanesi. Ma soltanto se incinte,
altrimenti lo stupro subito rimane una “vergogna”
privata.
A quasi 40 anni dalla pubblicazione di Against our
will di Susan Brownmiller che denunciava lo stupro come “arma
repressiva” nei confronti delle donne, le cose non sembrano
essere cambiate. Un suo parere...
Lo stupro è onnipresente, non solo nelle situazioni citate,
tanto in pace quanto in guerra. Le donne migranti che dal Messico
cercano di attraversare illegalmente la frontiera con gli Stati
Uniti, prima di partire prendono anticoncezionali sapendo che
quasi certamente verranno violentate. Rientra nella loro condizione
in quanto donne sole o comunque in una situazione di debolezza,
come quelle nei campi profughi. In tutte le guerre civili contemporanee,
il cui scopo è quello di distruggere un'organizzazione
sociale, sradicare o annientare una comunità, gli stupri
hanno raggiunto un'ampiezza e una ferocia estrema.
Le donne, soprattutto in tempo di guerra, mantengono i legami
della famiglia e della comunità e quindi occupano un
posto particolare in questa logica della distruzione. Ucciderle
e degradarle si è rivelata una strategia militare efficace
per diffondere il terrore, costringerle alla fuga, rendere impossibile
il ritorno.
Cosa ha rappresentato, anche simbolicamente, lo stupro
in situazioni di conflitto come i Balcani, il Ruanda o la Repubblica
Democratica del Congo?
Violentare, occupare il corpo della donna significa conquistare
simbolicamente un territorio (quindi lo stupro conquista, degrada,
ripulisce lo spazio). Nei Balcani, negli anni '90, tutti i gruppi
etnici se ne sono resi colpevoli. L'opinione pubblica è
rimasta particolarmente colpita dall'orrore dei “campi
di stupro” organizzati dai serbi con lo scopo di far nascere
“piccoli cetnici” da donne bosniache musulmane in
base al pregiudizio che solo gli uomini possono trasmettere
l'etnia. Si contava sul fatto che le donne, considerate “contaminate”,
sarebbero state rifiutate dalla loro comunità e i figli
abbandonati a un destino di marginalità. In Ruanda invece
molti bambini nati da stupro sono stati arruolati nell'esercito.
Per queste ragioni oggi si parla di stupro come crimine contro
l'umanità, crimine di genere e contro l'infanzia.
In Congo il fattore determinante è il controllo delle
risorse minerarie e quindi, ancora una volta, sfruttamento del
territorio. Gli stupri esprimono volontà di terrorizzare,
umiliare, imporre il senso dell'inesorabilità di un destino
di sottomissione totale e renderlo manifesto attraverso l'umiliazione
della donna, la sua disumanizzazione. Lo stupro inoltre rafforza
lo spirito di complicità maschile, esalta il potere e
l'autorità come valori inscritti nella virilità.
Nella cultura dominante il corpo femminile è una risorsa
da sfruttare. Pensiamo al lavoro agricolo, svolto nel mondo
in gran parte dalle donne, al traffico di ragazze a scopo matrimoniale,
al turismo sessuale o alla prostituzione.
Sulla prostituzione, anche in ambito femminista, non c'è
sempre pieno accordo, o sbaglio?
La prostituzione è una forma estrema di sfruttamento
e oppressione, un turpe mercato alimentato da povertà
e discriminazione che riduce ogni anno in schiavitù sessuale
cinque milioni di donne, di cui un milione di bambine. Esse
sono inviate per lo più nei paesi occidentali dove l'accesso
a prestazioni sessuali a pagamento ha avuto una crescita esponenziale.
È considerata una servitù irrinunciabile, socialmente
accettata e coperta dai media che riducono la questione alle
“donne sfruttate” da un lato e a “pochi sfruttatori”
(quelli che gestiscono i traffici) dall'altro. Una parte significativa
della giurisprudenza femminista considera la prostituzione come
tortura in quanto l'uso del corpo delle donne a fini di piacere
rientra nei “trattamenti disumani e degradanti”.
Esistono poi altre correnti di pensiero femminista che invece
parlano di sex work, forse pensando di sottrarre le donne alla
svalorizzazione.
A suo avviso è possibile tracciare una linea di
demarcazione tra i metodi adottati dagli eserciti o dalle milizie
comunque legate al potere (gruppi etnici dominanti o strumento
di interessi economici) e quelli dei “movimenti di liberazione”?
Ho in mente i gruppi guerriglieri latino-americani del secolo
scorso o le milizie libertarie nella guerra civile di Spagna
che semplicemente fucilavano gli stupratori (soprattutto quando
provenivano dai loro ranghi)?
Ritengo che quando si prendono le armi sia difficile sfuggire
allo spirito del militarismo. In Guatemala, ad esempio, sia
l'esercito che i gruppi paramilitari e i guerriglieri che si
resero colpevoli di stupro condividevano la stessa immagine
della donna, simbolo della terra e oggetto di appropriazione
e anche di protezione. Le donne riproducono la nazione fisicamente
e simbolicamente, incarnano la moralità di una comunità,
mentre gli uomini la proteggono, la difendono e la vendicano.
Il corpo femminile è il luogo simbolico del territorio
della nazione, sia per lo stato che per i movimenti identitari,
oggetto della protezione o dell'esecrazione maschile. La concezione
maschile della vergogna e dell'onore è un nodo cruciale
per comprendere le dinamiche degli stupri di massa. Si pensi
alla partizione dell'India quando tra 75mila e centomila donne
furono violentate e rapite e molte altre furono uccise o spinte
a togliersi la vita dai propri familiari per non essere stuprate
dagli uomini dell'altro gruppo religioso.
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India, manifestazione contro la violenza sulle donne |
Natura e cultura: inseparabili
Esiste poi un'altra faccia della medaglia. La sua opinione
sulle donne addestrate e arruolate nell'esercito afgano e presentate
all'opinione pubblica come esempio di “emancipazione”?
Vedo il rischio di un uso disonesto e retorico delle donne-soldato
in Afghanistan non solo da parte di chi le arruola, ma anche
di chi dice “in fondo ora ci sono le donne-soldato, anche
le donne possono essere militariste, violente...”.
In tutte le società l'ordine simbolico dominante è
quello maschile. Pensiamo all'enfasi su concetti come autonomia,
indipendenza, competizione. Tutto ciò che è legato
agli affetti, al quotidiano, alla responsabilità per
la vita, alla cura è svalutato. Non esiste più
l'ordine simbolico della madre e il lavoro domestico e di cura
delle donne è invisibile, non pagato, svalorizzato. In
un certo senso le donne costituiscono una casta, destinate per
nascita a un lavoro senza valore. Non vedo quindi come ci si
possa stupire se alcune accolgono i valori dominanti.
Volendo individuare i fattori economici all'origine dell'oppressione
subita dalle donne, contro chi punterebbe il dito?
Tra le opere che hanno dato un contributo decisivo alla conoscenza
della posizione delle donne nella società antica non
si può non menzionare The living goddesses dell'archeologa
e linguista lituana Marija Gimbutas. Il volume dimostra che
nell'Europa antica nell'arco di alcuni millenni (dal 7000 al
3000 a.c.) si erano sviluppate diverse società matrifocali
nelle quali la donna, associata in quanto madre alla natura,
portatrice di vita e di morte, aveva un ruolo fondamentale a
livello simbolico e religioso, così come nella pratica
sociale. La studiosa descrive queste culture, poi quasi completamente
distrutte con le invasioni delle popolazioni indoeuropee, come
pacifiche, prive di gerarchie e di forti differenze di classe.
Altri studi hanno disegnato un quadro che in parte rientra nelle
linee tracciate da Engels. L'egualitarismo originario e la condizione
delle donne iniziarono a declinare quando esse persero la loro
autonomia economica, quando il lavoro delle donne, inizialmente
pubblico nel contesto delle comunità o dei villaggi,
fu trasformato in un servizio privato nei confini della famiglia.
Tale trasformazione è da considerare più
un frutto della natura umana o della cultura?
Come femminista rifiuto la dicotomia tra natura e cultura. Il
femminismo, e in particolare l'eco-femminismo, hanno criticato
il pensiero oppositivo. È impossibile separare la natura
dalla cultura; si pensi alle prime relazioni delle donne con
l'ambiente naturale. Spinte dalla volontà di nutrire
e proteggere i figli, le donne svilupparono la prima vera relazione
produttiva con la natura; in questo processo acquisirono una
conoscenza profonda delle forze generative delle piante, degli
animali, della terra e la tramandarono, ovvero crearono la società
e la storia.
Questo per la cultura. Diversa invece la posizione dell'eco-femminismo
nei confronti della tecnologia, estranea se non ostile alla
natura. Un atteggiamento in cui colgo alcune affinità
con il pacifismo e l'ecologismo radicale; in parte anche con
l'antispecismo...
A partire dal dilemma ambientale contemporaneo e dalle sue connessioni
con la scienza e la tecnologia, l'ecofemminismo ha ricostruito
il processo di formazione di una visione del mondo e di una
scienza che, riconcettualizzando la natura come una macchina
anziché come organismo vivente, sanzionarono il dominio
dell'uomo sulla natura e sulla donna.
La percezione della natura come materia inerte si rese necessaria
per eliminare ogni remora morale allo sfruttamento accelerato
e indiscriminato delle risorse naturali e umane. Riducendo gli
esseri viventi a macchine da studiare, su cui sperimentare,
separando ragione ed emozione e stabilendo la supriorità
della razionalità astratta, il pensiero scientifico dissocia
l'uomo dalla donna, gli animali, la natura; femminilizza la
natura e naturalizza le donne. La natura e le donne esistono
per i bisogni degli uomini. Storicamente il mondo degli uomini
è stato costruito in opposizione al mondo della natura
e a quello delle donne. Essere uomini significa dissociarsi
dal femminile e da quello che rappresenta: vulnerabilità,
cura, inclusione. La mascolinità può essere raggiunta
attraverso l'opposizione al mondo concreto della vita quotidiana,
fuggendo dal contatto con il mondo femminile della casa verso
il mondo maschile della politica o della vita pubblica. Questa
esperienza di due mondi giace al cuore dei dualismi oppositivi.
E per il futuro? Vede qualche possibile alternativa allo
stato di cose presente?
Il futuro di una comunità veramente umana richiede che
gli uomini, per preservare la loro stessa umanità e dignità,
vogliano e sappiano riconoscere e far propri i valori della
produzione e del sostegno della vita, cambiare il modo di pensare,
di essere nel mondo e nella relazione con le donne, rifiutino
la violenza. Per quanto riguarda i movimenti, al momento attuale
tra femministe, pacifisti, ambientalisti, antispecisti (ma penso
anche a chi si batte per i diritti dell'infanzia, contro lo
sfruttamento minorile, in difesa delle minoranze, degli indigeni...)
manca la connessione.
Da questo punto di vista il caso del Congo – da cui eravamo
partiti – appare emblematico: di fronte alla violenza
sugli inermi, donne e bambini, alla distruzione delle foreste,
all'estinzione degli animali, alla tragedia dei profughi non
è più consentito avere sguardi parziali, occorre
connetterli, sia a livello teorico che pratico.
Gianni Sartori
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