vita sociale
Decomposizione politica all'ombra della finanza
di Andrea Papi
La nostra vita è piena di condizioni in cui non solo siamo obbligati, ma a nostra insaputa veniamo sfruttati, dilapidati, raggirati, usati e, se reticenti, repressi, frastornati, puniti, vituperati. E la finanza non sfugge a questa realtà. Anzi...
Le elezioni di febbraio hanno
messo a nudo la crisi endemica della politica istituzionale
italiana. Ciò che è successo dopo è emblematico
e sintomatico ed evidenzia in modo parossistico i sintomi di
un malessere di sostanza non più rinnegabile.
La “spettacolarizzazione” ormai non è solo
una metafora discorsiva. L'aggiornamento informativo continuo,
proprio per come è fatto e concepito attraverso televisioni
e internet, trasforma ciò che avviene in un paradosso:
una vera e propria rappresentazione teatrale che crea l'illusione
di essere “fruitori/protagonisti”. Ci fa partecipare
mostrandoci in diretta i professionisti della politica rappresentanti
eletti, interpreti accreditati che si muovono politicamente,
mentre tentano di accordarsi, litigano, si prevaricano a vicenda,
alla fin fine inseguendo, in un modo o nell'altro, il raggiungimento
dell'egemonia nelle diverse situazioni che affrontano.
Ciò che si è determinato sembra veramente rappresentativo
dell'impasse che da qualche tempo attanaglia le possibilità
di movimento della politica del palazzo. Big e comparse delle
forze in campo, sia residue sia nuove, si trovano immobilizzati
vicendevolmente dentro un gioco senza scampo. Non riescono a
governare come vorrebbero perché il governo non riesce
a essere espressione della vera gestione del potere. Non riescono
neppure ad essere rappresentativi se non del proprio fallimento,
perché l'istituto della rappresentanza sta perdendo progressivamente
senso ed efficacia. Così fanno una tremenda fatica a
trovare accordi e mediazioni d'intesa necessari per dare un
senso alla delega avuta dagli elettori, mentre le collocazioni
che contano sono sempre più confuse e la centralità
dello stato è momentaneamente inerte.
Lo scenario complessivo che si prospetta, ogni giorno più
smaccato ed evidente, è quello di una società
che si sta decomponendo. Gli strumenti e le modalità
di gestione che si erano affinati nei decenni funzionano sempre
meno. I dirigenti non riescono a dirigere con funzionalità
e i comandanti a comandare con la dovuta efficacia. Tutto si
trascina in un costante aumento progressivo d'inefficienza in
ogni ambito. L'unico aspetto buono e interessante, almeno dal
punto di vista della libertà, è che lo stesso
stato di cose sta dimostrando con efficace spontaneità
quanto centralizzazioni e verticalità di gestione siano
ingombranti, costose e, data la manifesta imperizia, dannose.
Dimensioni catastrofiche
Già tutto il “sistema mondo” sta mostrando
criticità endemiche superabili solo con uno stravolgimento
generale dell'impalcatura su cui si regge, a partire dalla “visione
del mondo” dominante, impregnata com'è di cesarismi,
volontà di accentramento e ansia di accaparramento, oltre
ad essere intrisa di un diffusissimo antropocentrismo. Questi
aspetti globali, già di per sé terribili, assumono
dimensioni catastrofiche nella specificità del nostro
sempre più invivibile “belpaese”.
Complessivamente l'insieme sociale italiano vive da decenni
una condizione abnorme di endemica inettitudine a gestirsi,
compromesso e corrotto a svariati livelli e intrinsecamente
incapace di liberarsi di tutta la zavorra accumulata in decenni
d'inerzia politica economica e sociale. Ci si è cullati
nella fase di travolgente benessere postbellico senza mai volersi
aggiornare, senza mai guardarsi con un sano spirito critico
autocorrettivo, condannandosi nel tempo a diventare incapaci
a rendersi agili quel tanto necessario a rimettersi in moto.
Le complicazioni si sono talmente incancrenite che è
sempre meno possibile identificare come risolverle.
Il fatto è che la politica è sempre più
impreparata a trovare soluzioni soddisfacenti perché
i problemi di fondo, quelli che condizionano tutto il resto,
non sono specifici locali ma incombono su ogni singolo territorio
come una cappa plumbea soffocante e annichilente. Lo stato,
sempre meno luogo del potere sovrastante ogni cosa, è
ormai sempre più un amministratore territoriale per conto
di management sopranazionali e sovrastatali. Ha sempre meno
capacità di audeterminazione gestionale “in patria”,
mentre è sempre più alla ricerca di accomodamenti
in grado di riportare le congiunture locali in linea con le
dimensioni del dominio globale. Siccome tutto ciò che
riguarda la politica nazionale per decenni è stato impostato
secondo la logica di un inesistente stato autosufficiente e
tendenzialmente autocratico, oggi gli strumenti a disposizione
sono del tutto inadeguati e insufficienti.
I cittadini che votano, invece, sono convinti di contribuire
a mettere in moto una macchina efficiente che sappia governarli,
nella speranza che l'essere governati possa risolvere i loro
problemi. Nessuno sta spiegando loro in modo chiaro che questa
logica e queste aspettative non corrispondono più allo
stato delle cose, perché il governo nazionale è
sempre meno adatto a svolgere i compiti che l'immaginario collettivo,
ingenuamente, continua ad assegnargli. Le soluzioni che le genti
si aspettano, quelle vere che fanno sentire fuori dai problemi
che attanagliano, da tempo non sono più circoscrivibili
nell'ambito dello stato nazionale, il quale invece può
al massimo dare dritte e direttive che permettano di non precipitare
completamente e di sollevarsi.
Clima e condizioni che trasmettono un senso diffuso d'inettitudine
e impotenza. Ci sentiamo attanagliati all'interno di una situazione
paradossale, dove vige un climax generalizzato in cui si ha
la sensazione che nessuno riesca a fare qualcosa di utile, in
grado di dare avvio a una modificazione delle cose che abbia
senso. Non si ha il coraggio di rifiutare il sistema che ci
soprintende e nello stesso tempo si perde la fiducia in coloro
cui sono state date le redini in mano. Un attendismo carico
d'inquietudine e rabbia, d'impotenza e sfiducia, di attesa e
pessimismo radicato. Si aspetta che qualcosa o qualcuno ci salvi.
Per questo di volta in volta si continuano ad affidare i propri
destini a uomini che siano convincenti, che in realtà
ci imboniscono perché suadenti. Per questo ingenuamente
si delega a dei leader il compito di salvarci. Anche se la comparazione
è possibile solo in senso emblematico, perché
sono troppe le differenze tra l'allora e l'oggi, non dobbiamo
dimenticarci che anche Mussolini a suo tempo rappresentò
qualcosa di simile.
Intanto il panorama della dimensione politica nostrana è
desolante. Mentre l'economia nazionale sta procedendo a velocità
incontrollata verso lo sfacelo (lo testimoniano i dati ufficiali),
con conseguente aumento quotidiano di disoccupazione disperazione
e povertà, le forze politiche elette (nessuna esclusa),
cui è dato il compito di prendere le decisioni utili
alla conduzione delle cose che tutti ci riguardano, si immobilizzano
a vicenda incastrate nella “necessità” di
approntare ruoli e cariche, senza la cui assegnazione, è
scritto, non può funzionare il parlamento, unico luogo
deputato ufficialmente a prendere le decisioni che possono diventare
esecutive.
Liberiamoci dai vecchi schemi interpretativi
I fatti stanno dimostrando che le istituzioni si sono dotate
di dispositivi procedurali pesantissimi, inefficienti e annichilenti.
Eppure “lor signori” non possono che passare di
lì e soltanto “loro”, è sempre scritto,
possono modificarli e renderli confacenti alla bisogna, nonostante
che ogni giorno di più si dimostrino inabili a intervenire.
Non ce la fanno sia perché invischiati in una miriade
di normative e procedure istituzionali, sia soprattutto per
le lotte all'ultimo sangue per conquistare fette del misero
potere a disposizione, paradossalmente sempre più privo
di potere reale. Mi sembra sempre più evidente che i
luoghi del cambiamento cui tutti auspichiamo non riescono ad
essere il parlamento e le istituzioni vigenti.
L'inarrestabile declino cui stiamo assistendo porta a suggerire
un'altra visione delle cose ed altre prospettive. Innanzitutto
una prima spontanea considerazione che viene dal profondo del
cuore: se gli “eletti” sono così inefficienti
perché amalgamati in un devastante magma burocratico,
assorbente e invadente, perché non si affida ai cittadini
la soluzione dei propri problemi? Avrebbero senz'altro più
possibilità di riuscirci, se non altro perché
non si sentirebbero schiacciati dai vizi e dalle lentezze burocratico/giuridiche
tipiche del politicantismo. Non si sentirebbero obbligati a
dover sottostare ai molti sovrastanti condizionamenti, che ci
sono a priori e a prescindere, che oggettivamente limitano l'operato
dei professionisti della politica. Soprattutto prenderebbero
direttamente decisioni autonome per ciò che riguarda
il locale, smettendo di dover dipendere dal centro per ogni
cosa.
Al di là della nostra volontà e della nostra consapevolezza
veniamo costantemente inseriti in percorsi obbliganti che ci
sfruttano e ci spolpano. Esempio eclatante il gioco sovranazionale
dell'alta finanza, continuamente imposto senza averlo scelto
e senza riuscire a comprenderlo. Nella prospettiva che sto proponendo,
per affrontarlo dovremmo liberarci degli schemi interpretativi
che ci hanno inculcato. In linea di principio, infatti, non
è vero che non si possa prescindere dalle gabbie che
ci vengono costruite attorno. Siamo coattivamente inchiodati
ad esse soltanto se ci rassegniamo e accettiamo di esserlo.
Con uno slancio d'immaginazione utopica potremmo predisporci
per condizioni completamente diverse da quelle che stiamo subendo.
Il denaro che siamo obbligati ad usare serve per comprare beni
di consumo e gestire la propria quotidianità. Il mondo
della finanza però non lo concepisce per questo e non
lo usa affatto per comprare cose, perché la sua prerogativa
è di accumulare soldi attraverso i soldi. Non tanto per
aumentare il capitale, ma per speculare e accumulare in continuazione
ricchezze monetarie iperboliche, destinate a loro volta ad esercitare
potere. A noi tutto ciò non serve, anzi ci danneggia,
perché queste operazioni vengono fatte a nostra insaputa
sulle nostre teste, investendo in modo virtuale (derivati) sul
denaro reale, che al contrario viene conseguito attraverso l'economia
produttiva e che ci siamo guadagnati lavorando con grande fatica.
Ciò che si consuma sulle nostre teste è perciò
una truffa colossale, di cui non siamo responsabili, che non
vorremmo, che non possiamo governare, ma che si consuma sfruttandoci
fino all'osso.
Lo slancio d'immaginazione utopica potrebbe pensare di sottrarsi
a questa influenza che ci sovrasta e ci costringe a dipendere,
che si muove in modo virtuale, ma che nel concreto ci sfrutta
e ci massacra. Immaginiamo allora di organizzare una finanza
nostra, gestita da noi per le cose che ci servono e che possiamo
controllare direttamente, sganciata dall'alta finanza speculativa
e non convergente con essa. Potrebbe voler dire una moneta nostra,
ovviamente priva di funzione speculativa, oppure scambio di
buoni, che in fondo sono sempre un tipo di moneta, oppure altra
soluzione funzionale. Non è importante la forma che quest'immaginario
può assumere. Il problema è la sostanza, cioè
un modo controllato e gestito direttamente da noi, perché
vogliamo difenderci dal gioco delle oligarchie finanziarie sottraendoci
alla loro influenza nefasta, nella speranza di riuscire prima
o poi a renderle inoperanti. Che continuino pure a muoversi
con operazioni virtuali computerizzate, a noi interessa non
servire più da loro supporto.
Spero che questo suggerimento divenga spunto per compagni e
persone di buona volontà che hanno conoscenza approfondita
in materia, per progettare qualcosa di fattibile e sensato che
abbia però le caratteristiche sopra dette. Il problema
finanziario è solo un esempio. Ma la nostra vita è
piena di condizioni in cui non solo siamo obbligati, ma a nostra
insaputa veniamo sfruttati, dilapidati, raggirati, usati e,
se reticenti, repressi, frastornati, puniti, vituperati. Guardiamo
per esempio all'uso criminale del denaro pubblico, sull'impiego
del quale non abbiamo alcun diritto d'intervenire. Potremmo
ripensarlo collettivamente in una prospettiva di distribuzione
solidale della ricchezza. Eppure in linea teorica, da un punto
di vista liberale fra l'altro, ognuno di noi avrebbe pienamente
il diritto di partecipare alle decisioni che ci riguardano.
Ciò che so con certezza è che questo immaginario,
che vorrebbe trovare soluzioni che mettono in discussione le
fondamenta del vigente sistema di dominio, per sua natura non
può passare attraverso le istituzioni che subiamo, proprio
perché al contrario sono state impostate per salvaguardarlo.
Andrea Papi
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