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Viaggio in Italia, nell'ottocento
di Lorenzo Pezzica
Nelle sue vorticose peregrinazioni, ora per partecipare a un'insurrezione ora
per sfuggire a un arresto, Michail Bakunin soggiornò spesso in Italia,
soprattutto negli anni sessanta dell'ottocento.
Un libro da poco edito da Elèuthera ne riporta le acute descrizioni e
osservazioni. Ecco la prefazione del curatore.
Se era un pazzo, era uno dei pazzi di Blake, che persistendo
nella follia attingono la saggezza.
George Woodcock
In questo periodo l'Italia si trova in una condizione triste
e pericolosa. Tutti sono spaventati
dalle funeste certezze dell'oggi e dalle ancor
più temibili incertezze del domani.
Michail Bakunin
La valanga scende fatale e onnipotente, e voi
ne sapete il nome: Rivoluzione sociale.
Michail Bakunin
L'Italia, come è noto,
è stata per lungo tempo una tappa obbligata del “Grand
Tour” che spingeva l'intellighenzia europea a visitare
i luoghi della classicità. Ogni uomo di cultura europeo
che si rispettasse doveva aver compiuto almeno un viaggio in
Italia. Anche l'aristocratico russo Bakunin decideva di intraprendere
nel 1864 un “viaggio in Italia”, ma i suoi interessi
erano tutt'altro che classici. Non c'è alcun dubbio che
Bakunin, uno dei padri fondatori dell'anarchismo, fosse non
solo un grande pensatore e un indomito rivoluzionario, ma era
anche un acuto osservatore dei mali italiani, di un paese sì
unificato ma già afflitto da quei problemi (e vizi) con
cui ancora oggi facciamo i conti: un meccanismo di prelievo
fiscale non solo vessatorio ma oltretutto inefficace, una disinvolta
gestione personale del potere da parte di chi era preposto all'amministrazione
della cosa pubblica, una “questione morale” che
già investiva la classe politica e i ceti dirigenti,
una scarsa attenzione alle aree arretrate del paese coniugata
alla scelta di risolvere come problema di ordine pubblico la
nascente “questione meridionale”, uno strapotere
della burocrazia e delle varie consorterie, una presenza invasiva
della chiesa e altro ancora. Insomma, lo sguardo a volte ironico
e a volte indignato del filosofo russo mette a nudo un'Italia
che non facciamo affatto fatica a riconoscere. Sembra quasi
che lo stato unitario si sia ripetuto eguale a se stesso nel
corso dei decenni, riproponendo nel tempo i tanti vizi e le
scarse virtù che già Bakunin coglieva lucidamente
centocinquant'anni fa.
Non è cambiato molto, da allora
Nell'Italia del passato c'è dunque il racconto del
suo oggi? Non si vuole certo ridurre l'intera storia italiana
a un eterno presente. È stato giustamente sottolineato
che “gli italiani di oggi sono divisi da sette-otto generazioni
dai protagonisti del moto risorgimentale”. Il paese si
è trasformato radicalmente. Anche il Mezzogiorno è
profondamente cambiato. Eppure si continua a parlare, come allora,
del Mezzogiorno come di un'area complessivamente arretrata,
sottosviluppata, dipendente da un nord ricco, industriale ecc.
La questione meridionale periodicamente risorge dalle ceneri,
come un'araba fenice, ponendosi al centro del dibattito nazionale.
Sempre presente e sempre irrisolta. Nei momenti di crisi, le
riflessioni sull'identità del paese si intensificano
e si fanno acute, nel vivo di lacerazioni o di mutamenti inattesi.
E sono riflessioni estreme. Si pongono domande sull'identità
italiana nell'oggi, pensando a risposte da cercarsi in un passato
che porta dritto dritto al 1861.
Detto questo, anche se molto, moltissimo, è cambiato
in Italia da quando Bakunin scriveva questi brani, è
un fatto incontestabile che le caratteristiche messe in evidenza
dal rivoluzionario russo, nonostante le radicali trasformazioni
sociali ed economiche intervenute nel frattempo, risultino essere
ancora largamente diffuse, sia pure in modo non omogeneo, nelle
diverse classi della società e nelle diverse regioni
del paese. Stupisce quanto uno straniero abbia capito l'Italia
post-risorgimentale nel profondo.
Una delle principali caratteristiche e attitudini di uno scrittore
è senz'altro la capacità di osservazione, cioè
quella particolare sensibilità (oggi si direbbe empatia)
che gli consente non solo di interessarsi della vita altrui,
ma anche, in certo senso, di confondersi con essa. E Bakunin
dimostra ampiamente questa caratteristica di entrare in empatia
con l'ambiente e con le persone che incontra, insieme a una
capacità di analisi che, avulsa dagli stereotipi e dai
pregiudizi sul “carattere nazionale”, si rivolge
piuttosto a considerare le possibili “configurazioni”
della politica e della società italiana dell'epoca. Ne
sono un esempio le lettere che scrive a Giorgio Asproni, Agostino
Bertani e Carlo Gambuzzi, dove il ragionamento relativo alle
possibili configurazioni “altre”, che invita i suoi
interlocutori a prendere in considerazione per agire di conseguenza,
dimostra una conoscenza della politica italiana tutt'altro che
superficiale. Sono aspetti della personalità di Bakunin
che superano in un balzo quell'immagine stereotipata, divulgata
dai suoi avversari politici, del rivoluzionario barricadiero
avulso dalla realtà storica.
Consorteria, casta disonestà, immoralità
Al di là della classica lettura in chiave politica
dei suoi scritti, è ormai possibile leggere Bakunin come
filosofo politico, storico, osservatore e interprete della realtà,
qui in particolare di quella italiana. Liberati dalle motivazioni
storico-contingenti che li videro sorgere, i testi bakuniniani
possono così tornare nuovi ed essere letti quali frammenti
di un'analisi lucida di cui si coglie facilmente la stupefacente
attualità. La loro lettura è un'occasione per
riconsiderare non solo la condizione dell'Italia al momento
dell'unità, ma anche per comprendere come un osservatore
non banale e per di più straniero sia stato in grado
di andare oltre ciò che era visibile nell'immediato,
di cogliere il malessere profondo dell'Italia post-risorgimentale,
in particolare del Mezzogiorno. Anzi, più che malessere,
si tratta di una vera e propria “disperazione”.
Una differenza che a molti sembrò sfuggire e che Bakunin
invece sottolinea con forza: “E tuttavia anche la miseria
più atroce, pur colpendo milioni di proletari, non è
ancora una motivazione sufficiente per far scoppiare la rivoluzione.
L'uomo è infatti dotato dalla natura di una pazienza
straordinaria, che a dire il vero talvolta sfocia nella disperazione.
[...] Ma quando si arriva alla disperazione, la sua ribellione
diventa allora più probabile. [...] In conclusione, nessuno
può restare indefinitamente in preda alla disperazione”.
Le parole sono importanti e incidono sul senso delle cose. E
negli scritti, come nelle lettere, di Bakunin sono presenti
molte parole: consorteria, casta, disonestà, moralità
e immoralità, nullità, praticismo politico (poi
definito, dal 1876, trasformismo), privilegi, bancarotta, pazienza,
miseria, disperazione, contadini, giustizia, eguaglianza, felicità,
libertà, rivoluzione, e molte altre ancora. Sì,
in Bakunin ricorre spesso la parola rivoluzione, un concetto
che oggi non è molto in auge tra gli storici, e non solo.
Non è certo una novità. E lo fa anche per indicare
il periodo risorgimentale. Infatti, come è stato recentemente
osservato, il termine risorgimento “rischia di imporci
un'idea nazionale di 'ferrea compattezza', mentre la parola
occulta le contraddizioni ben presenti in quel periodo e rischia
di far comprendere poco di quegli eventi. Va dunque richiamato
in servizio il termine rivoluzione, che divide anziché
accomunare. Esso fu altrettanto centrale nel lessico dei protagonisti”.
Bakunin trascorre in Italia tre anni della sua esistenza, dal
1864 al 1867, visitandola in lungo e in largo, a piedi, sui
piroscafi, in carrozza e in treno. Sono gli anni in cui si gettano
le fondamenta dello stato unitario ed è tutto un fermento
di nuove idee, di istanze e di rivendicazioni laiche, emancipatrici
e umanitarie. Bakunin familiarizza molto rapidamente con la
società italiana. Capisce subito che la piccola e media
borghesia, gli operai e gli artigiani, sono influenzati dal
mazzinianesimo. È consapevole dell'importanza ma anche
dei limiti del risorgimento. Individua una sorta di religione
politica del processo risorgimentale che poggia su due pilastri:
da un lato il partito costituzionale, con la sua lenta e progressiva
adesione a Casa Savoia, dall'altro l'idea di un'Italia diversa,
rappresentata dal garibaldinismo e dal partito d'azione.
Egemonia dei moderati
Nei suo scritti Bakunin avverte, e non solo sul terreno politico,
il distacco tra “paese legale” e “paese reale”.
E infatti parla di cinque nazioni: “In Italia vi sono
almeno 'cinque nazioni': 1. I clericali, dal papa all'ultima
beghina. 2. La consorteria, ovvero la grande borghesia, compresa
la nobiltà. 3. La media e la piccola borghesia. 4. Gli
operai delle fabbriche e delle città. 5. I contadini.
Ora, io vi domando, come è possibile affermare che queste
cinque nazioni – e volendo potrei annoverarne anche di
più, cioè: a) la corte, b) la casta militare,
c) la casta burocratica – possano avere una medesima fede
e aspirazioni comuni?”.
Si
rende ben conto che l'Italia, uscita dal risorgimento nel segno
dell'egemonia dei moderati, affronta i primi decenni della sua
vita unitaria non come un organismo omogeneo e solido, ma come
una realtà percorsa da linee di frattura. In questi anni,
mentre si definisce il potere dei moderati, prende avvio un'Italia
dissidente, antagonista e contestatrice che interpreta stati
d'animo diffusi nelle masse popolari, anche del Mezzogiorno,
che ha le sue roccaforti in un gran numero di circoli e periodici
locali sparsi per la penisola, e che segnerà con una
lunga scia di proteste, di scontri violenti e spesso di moti
i decenni successivi all'unità. Un'Italia dissidente
che si configura come fortemente anticlericale, antimilitarista,
antiautoritaria.
È in queste linee di frattura che Bakunin scorge la possibilità
di una rivoluzione sociale capace di cambiare la realtà
delle cose. E si rivolge ai cosiddetti “sconfitti”
del risorgimento che “all'indomani della proclamata unità,
anziché alzare le mani in segno di resa, consegnarsi
prigionieri ai vincitori, adattarsi al regime monarchico, insomma
capitolare, iniziano con accresciuto vigore la loro battaglia
per un'Italia diversa, più avanzata, più civile
e libera, cominciando dove gli altri avevano finito”.
Sono gli eretici del risorgimento, spesso scomodi, irregolari
e refrattari alla logica di ogni partito.
La presenza di Bakunin in Italia ha certamente significato il
confronto e il conflitto con l'ideologia mazziniana, ma anche
la definizione iniziale della fisionomia del movimento operaio
e socialista, attraverso la diffusione dell'Internazionale in
Italia, soprattutto occupandosi, per primo, delle “masse
agricole del Mezzogiorno, senza considerarle strumenti di reazione
e non deplorando l'avvenuta unificazione nazionale”. A
Bakunin spetta un posto di primo piano nella storia delle origini
del movimento socialista italiano e internazionale. Chi voglia
penetrare quel movimento non può astrarre da lui.
Giunge nel “Bel Paese”, assieme alla moglie Antonia
Kwiatkowska, nel gennaio del 1864 dopo una fuga rocambolesca
dalla Siberia dove era stato confinato dal governo russo. Il
1864 segna una svolta decisiva nel pensiero politico di Bakunin.
A partire da quell'anno, infatti, si dedica completamente alla
causa del socialismo rivoluzionario. Da quel momento la questione
sociale costituisce la sua principale preoccupazione.
La fredda Torino è la sua prima tappa. Poi raggiunge
Genova e da lì si imbarca per Caprera a far visita a
Garibaldi. Di quei tre giorni di visita, delle persone e dell'ambiente
dell'isola, abbiamo un'importante fonte di informazione: la
testimonianza diretta di Bakunin. In una lettera alla contessa
Elizaveta Vasil'evna Salias-de-Tournemire il russo, infatti,
descrive dettagliatamente la sua permanenza sull'isola, tratteggiando
la figura politica e umana di Garibaldi.
Dopo Caprera, Firenze, dove, fra una riunione e l'altra, ha
anche la possibilità di visitare la città e di
conoscere le sue opere d'arte. Conosce molti esponenti dell'ambiente
democratico e massonico toscano. Nell'estate del 1865 si trasferisce
a Napoli, città che amerà profondamente e dove
resterà fino al 1867.
Il ruolo dei contadini
Quando Bakunin parla dei contadini riesce a offrirne una lettura
penetrante, quasi da etnografo o antropologo culturale, attenta
in particolare al rapporto che passa tra mentalità e
aspetti della vita collettiva e quotidiana. In particolare sottolinea
la presenza pervasiva della chiesa nelle campagne e la colpevole
assenza di un dialogo tra città e campagna, tra le energie
democratiche ed emancipatrici del paese e un mondo contadino
di cui si ha un'immagine preconcetta; o meglio, che non si vuole
affatto conoscere: “I contadini sono l'immensa maggioranza
della popolazione italiana, rimasta quasi completamente vergine
perché non ha avuto ancora una sua storia, dato che tutta
la storia del vostro paese, come ho già osservato e come
voi sapete meglio di me, si è finora esclusivamente concentrata
nelle città, ben più che negli altri paesi europei.
I vostri contadini non hanno partecipato a questa storia, e
non la conoscono se non per i contraccolpi che hanno ricevuto
a ogni nuova fase del suo svolgimento, per la miseria, la schiavitù
e le sofferenze innumerevoli che essa ha loro imposto. A causa
di tutte queste sventure che sono piovute loro addosso dalla
città, i contadini naturalmente non amano le città
né i loro abitanti, compresi gli stessi operai, i quali
li hanno sempre trattati con una certa supponenza, cosa che
ora pagano con la diffidenza. Ed è questo rapporto storicamente
negativo dei contadini italiani con la politica della città
quello che nelle campagne conferisce potere ai vostri preti,
e non la religione. I vostri contadini sono superstiziosi, ma
niente affatto religiosi; amano la chiesa per la sua messinscena
scenografica, per le sue cerimonie recitate e cantate che interrompono
la monotonia della vita rurale. La chiesa è per essi
come un raggio di sole in una vita di stenti e di lavoro omicida,
di dolori e di miseria [...].
La massa dei contadini italiani rappresenta già di per
sé un esercito immenso e onnipotente per la vostra rivoluzione
sociale. Guidato dal proletariato urbano e organizzato dalla
gioventù socialista rivoluzionaria, questo esercito sarà
invincibile. Di conseguenza, cari amici, quello che dovete fare,
nel momento stesso in cui organizzate gli operai urbani, è
trovare i mezzi per rompere il ghiaccio che separa il proletariato
delle città dal popolo delle campagne, e così
unire questi due popoli in un popolo unico. Sta qui la salvezza
dell'Italia”.
Al momento dell'unità l'Italia, popolata da circa 25
milioni di abitanti in larga parte analfabeti, è un paese
essenzialmente agricolo, e prevalentemente agricola l'Italia
sarebbe rimasta ancora a lungo, fino alle soglie della seconda
guerra mondiale. È noto che al processo di unificazione,
che come quasi tutti i grandi eventi storici non era ineluttabile,
restano estranei i contadini, che costituiscono la stragrande
maggioranza della popolazione, con atteggiamenti che vanno dall'indifferenza
all'aperta ostilità. Il distacco delle masse rurali dalla
causa risorgimentale è stato spiegato dagli storici sia
attraverso motivazioni complesse che affondano le radici nella
storia del paese (la subalternità della campagna rispetto
alla città, la funzione di conservazione sociale svolta
dalla chiesa, la tradizionale diffidenza del contadino nei confronti
delle novità), sia, sul piano più immediato di
quegli eventi, dalla miopia politica del movimento democratico
che non capisce quanto sia centrale il coinvolgimento delle
masse contadine per il tentativo rivoluzionario di trasformazione
del paese.
Carattere strutturale dell'arretratezza
Bakunin pone la questione sociale, in particolare nel Mezzogiorno,
al centro della sua riflessione storico-politica per la trasformazione
socialista anarchica della società italiana. La questione
sociale è una questione di miserie per le grandi masse
della popolazione, di analfabetismo, di fame, di malattie da
denutrizione o cattiva alimentazione, di disoccupazione e bassi
salari, di sfruttamento e di forzata emigrazione, in Val Padana
come nel Mezzogiorno; una questione aggravata in quel periodo
da una situazione ambientale drammatica: l'epidemia di colera
che, scoppiata nel luglio 1865 ad Ancona, si propagherà
soprattutto nel Meridione d'Italia e a Napoli in particolare,
causando più di 160.000 morti.
Bakunin mette in evidenza il carattere strutturale dell'arretratezza
delle masse contadine e incita a non sottovalutare i movimenti
di protesta e di rivolta, a non leggerli solo come una reazione
al cambiamento. In questo senso, sul piano politico sottolinea
l'incapacità dei democratici, che fanno capo a Mazzini,
di scorgere la centralità che nell'Italia di quei decenni
riveste la questione contadina, cosa che impedisce di elaborare
un programma capace di scuotere le popolazioni rurali, di prospettare
una trasformazione dell'assetto sociale tale da eliminare gli
squilibri e le ingiustizie, a partire dal brutale sfruttamento
di milioni di contadini.
Due sono le manifestazioni più clamorose delle tensioni
sociali di quel periodo: il brigantaggio, che sconvolge la vita
del Mezzogiorno tra il 1861 e il 1865, stendendo le sue ultime
propaggini fino al 1870, e i moti del “macinato”,
entrambe risolte come un problema di ordine pubblico, attraverso
l'applicazione di una legislazione speciale. È questa
la prima preoccupazione delle classi dirigenti liberali, oltretutto
allarmate dalla presa che avrebbero potuto avere le idee socialiste
in un tale contesto di disperazione. La lotta sarà lunga
e sanguinosa, e lo stato potrà portarla a termine con
successo soltanto con un massiccio spiegamento di forze (più
di 100.000 uomini), con il ricorso a leggi eccezionali e con
l'invio su larga scala dei sospetti al domicilio coatto. Tuttavia,
questa linea di intervento non farà altro che aggravare
ulteriormente il divario Nord-Sud e confermare l'ingovernabilità
politica del Mezzogiorno, diffondendo la percezione di un'alterità
antropologica delle regioni del Sud Italia. Stereotipo e pregiudizio
cui contribuirà anche quella branca della scienza positivista
connessa all'antropologia criminale di Lombroso che, teorizzando
una particolare conformazione anatomica dei crani dei briganti,
identificati come “delinquenti-nati”, alimenta l'idea
di una “diversità” connaturata ai meridionali
che si colora di motivazioni razziali.
L'importanza di un'organizzazione politica
Il brigantaggio, al di là dei tentativi di strumentalizzazione
operati da borbonici e clericali e degli episodi di criminalità
comune, appare nel suo complesso a Bakunin come una grande occasione
di lotta popolare, intuendo le radici sociali del fenomeno così
come le ha intuite anche Garibaldi. Al di là della mitizzazione
(attribuita a Bakunin) della figura del brigante come eroe positivo,
il rivoluzionario russo coglie con acutezza come il brigante
non sia solo un bandito, ma un attore sociale che rispecchia
i profondi malesseri della società.
Due anni prima dell'arrivo di Bakunin a Napoli, un altro famoso
personaggio, Alexandre Dumas, lascia la città partenopea
dopo un soggiorno di due anni. In un gran numero di articoli
lo scrittore francese descrive e denuncia la miseria del Mezzogiorno
e la cancrena della camorra, invocando un'iniziativa di riforme
dall'alto che possa rispondere alla disperazione che porta alla
scelta del brigante. Bakunin tradurrà questa analisi
in un progetto politico che riassume soprattutto in Stato
e Anarchia, dove sottolinea l'importanza di un'organizzazione
politica, di un preciso progetto per un attore sociale (i contadini
e gli operai uniti), e di una lotta per l'affermazione della
sua autonomia. La miseria del Mezzogiorno e la disperazione
delle plebi meridionali su cui Bakunin si dilunga accantonano
definitivamente l'atteggiamento paternalistico nei confronti
della questione e segnano un passaggio di testimone, come Nello
Rosselli nel suo Mazzini e Bakunin non manca di rilevare.
Quelle pagine nascono proprio dalle molte note che Bakunin scrive
durante il suo periodo italiano.
Le raccolte antologiche contengono in sé un carattere
necessariamente limitato dei brani proposti. Per questo motivo
la selezione dei brani, tra i tanti possibili, ne ha verosimilmente
escluso altri egualmente importanti. Nonostante ciò,
la scelta di questa breve antologia non dovrebbe aver intaccato
gli intenti informativi e critici che si proponeva. I brani
presentati abbracciano un arco cronologico che va dal 1864 al
1873. A ognuno di essi è stato attribuito un titolo.
Questo ha permesso di dar conto di un legame argomentativo tra
i diversi brani. L'antologia comprende anche un'Appendice di
lettere, presentate in ordine cronologico, scritte da Bakunin
durante il suo soggiorno italiano.
I testi sono accompagnati da alcune immagini, tra cui spiccano
tre disegni, fino a questo momento inediti, ripresi dall'“album
italiano” di Natalya Bakunina, cognata di Michail, che
lo ritraggono durante il suo soggiorno partenopeo. Nel primo
di questi Bakunin è ritratto, come nota l'appunto manoscritto
della cognata, mentre assiste all'esecuzione dell'inno garibaldino
da parte di alcuni scugnizzi napoletani.
Lorenzo Pezzica
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