interviste
C'era una volta in Messico
intervista a Pino Cacucci di Laura Antonella Carli e Giuditta
Grechi
“Io non faccio lo storico, racconto storie”.
Pino Cacucci, di ritorno dal Messico, parla di letteratura, di memoria, di ribelli e, naturalmente, di America Latina.
Pino Cacucci, prima ancora
che uno scrittore e un traduttore, è un viaggiatore.
Nel suo ultimo libro, La memoria non m'inganna, che raccoglie
scritti di diverso tenore: ricordi, recensioni, piccoli racconti,
dedica un breve testo a Bruce Chatwin, il “viandante impeccabile”:
“Basterebbe quella foto che gli scattò lord Snowdon
nell'82: scarponi appesi al collo, bisaccia in spalla, sguardo
inquieto e momentaneamente distolto dal sentiero per dare un'occhiata
veloce all'obiettivo, sguardo che sembra voler dire: 'Fai pure,
ma io non posso fermarmi'... In quell'immagine Bruce Chatwin
è l'emblema del viandante, e poco importa se stesse posando
da ore o minuti, ciò che resta impresso è il senso
del movimento”.
Anche Pino è un viandante, solo che lui, a differenza
di tanti vagabondi per vocazione, ha trovato una meta: il Messico
è la sua seconda casa, ogni volta che ne parla lo fa
in prima persona, dice “noi in Messico...”.
Anche qui, nella sua Bologna, sembra essere di casa e di passaggio
allo stesso tempo. C'è confidenza e amore per la città,
ma anche l'irrequietezza, il dinamismo di chi ha pur sempre
un piede al di là dell'oceano.
Sei da poco tornato dal Messico, dove hai anche organizzato
il Festival Messico-Italia di Mahahual, quanto tempo passi nel
tuo paese d'adozione?
«Cerco di tornare in Messico ogni volta che posso, perché
credo sia culturalmente uno dei posti più vivaci che
ci siano. E sono in buona compagnia: Harold Pinter diceva che
quando voleva respirare cultura, altro che Parigi o New York,
andava a Città del Messico.
La prima volta che mi sono spinto fino a Mahahual, l'ultimo
lembo del Messico prima del Belize, ho ritrovato Luciano, una
vecchio amico, ed è nata un'idea folle: un festival Italia-Messico
in un paese di mille abitanti. Contro ogni previsione, anche
con il sostegno delle amministrazioni locali, il progetto prende
piede. Alla fine abbiamo radunato 100 invitati, 51 messicani
e 49 italiani. Certo, l'affluenza di pubblico, trattandosi di
un paesino così piccolo, non poteva che essere limitata.
Abbiamo però avuto un'enorme attenzione da parte della
stampa e soprattutto ci siamo divertiti tantissimo. Lo scopo
principale – l'abbiamo chiamato apposta cruzando fronteras
(attraversando le frontiere) – era quello di far vivere
assieme persone, artisti, provenienti anche da realtà,
non solo da paesi diversi. In questo siamo riusciti: si è
creata una sorta di simbiosi, soprattutto la sera, quando i
musicisti italiani e messicani suonavano insieme, si creava
una vera e propria comunità anche con la gente del posto.»
È già in cantiere la prossima edizione?
«La volontà c'è, speriamo di riuscire a
realizzarla. Sarebbe un peccato se finisse tutto adesso, ci
abbiamo investito molto, facendo anche dei sacrifici, e speriamo
che chi ci ha fatto delle promesse – sponsor, istituzioni,
eccetera – le mantenga.»
A proposito di rapporto Messico-Italia, tu non cerchi
solo di portare, come in questo caso, l'Italia in Messico, ma
anche il Messico in Italia, ad esempio attraverso la tua rassegna
stampa settimanale che ha sempre un occhio di riguardo nei confronti
dell'America Latina.
«Sono ormai 25 anni che faccio la rassegna stampa, o “Stampa
rassegnata” per Radio Città del Capo, qui a Bologna,
in cui ogni tanto cito anche “A” Rivista Anarchica,
e forse sono l'unico a farlo. Sicuramente sono uno dei pochi
che parla di America Latina. Di certo non lo fa la stampa italiana,
tutta accartocciata su se stessa, concentrata sull'Europa –
che ormai non conta più niente nel mondo. È che
se non vai tu su internet a cercarti la notizia e compri solo
i quotidiani italiani in edicola, sembra che l'America Latina
non esista.»
Adesso, con l'elezione di papa Bergoglio, sembra che esista
almeno l'Argentina.
«Il caso dell'elezione del papa è emblematico:
io mi trovavo in Messico in quel periodo, e quando sono tornato
mi sono reso conto che qui l'avevano già fatto santo.
A Città del Messico guardavo i telegiornali, anche i
più conservatori: lo hanno massacrato, hanno parlato
del suo passato, gli hanno fatto un processo pubblico chiedendosi
fino a che punto era stato complice della dittatura o soltanto
codardo. C'è una discrepanza assoluta nella visione del
mondo quando sei là e quando sei qua. Qui muore Andreotti
e subito diventa quasi un sant'uomo. A Londra muore la Tatcher
e i minatori fanno festa.»
Come è stata accolta invece la morte di Videla?
«Ieri dall'Argentina mi hanno mandato una cosa molto dura
e toccante, una sorta di saluto a Videla, anzi ai suoi familiari,
in cui si dice: ecco, voi almeno il corpo l'avete, noi non l'abbiamo
mai avuto.»
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Pino
Cacucci |
Tra storia e memoria
Come mai secondo te in Italia c'è invece questa
tendenza all'immediata santificazione post mortem?
«Credo che la maggior parte di responsabilità ce
l'abbia l'informazione. L'informazione italiana è strutturalmente
ossequiosa. C'è stato un periodo in cui sembrava che
lo sport preferito degli italiani fosse andare ai funerali,
come quando è morto Agnelli. Nessuno che abbia detto
“senza i soldi pubblici non avrebbe fatto niente, la Fiat
è nata come fabbrica bellica, scoria avvelenata della
grande guerra”. La colpa è della stampa, e naturalmente
anche dell'ignavia di tutti noi.
Alla morte della Tatcher invece Ken Loach ha detto: “Privatizzate
il funerale, lei ha privatizzato tutto, ci manca che paghiamo
il suo funerale con i soldi pubblici”.»
Invece in Italia cosa manca?
«Forse è l'indole italiana: noi tendiamo a perdere
la memoria. Prendi la seconda guerra mondiale: siamo l'unico
paese che ha compiuto genocidi, per esempio in Africa, e che
ha fatto finta che non fosse successo niente. In Germania ancora
oggi i bambini alle elementari devono imparare cosa ha fatto
il proprio paese. Da noi a parte Del Boca, che è rimasto
inascoltato, non ci sono neanche testi che dicono che in Jugoslavia
c'erano campi di sterminio italiani gestiti dall'esercito, che
ha sterminato persone solo perché erano slave, non perché
erano partigiani. È stato tutto cancellato in nome del
cambio di sponda di Badoglio, che fino al giorno prima era un
criminale di guerra – gli inglesi avevano il mandato di
impiccarlo – e il giorno dopo è diventato il padre
della patria. È codardia storica. Non siamo in grado
di fare i conti con noi stessi, con la nostra storia. Pensiamo
a come viene insegnata a scuola la prima guerra mondiale. Io
credo che non sia mai esistito Enrico Toti: è un'invenzione,
non è possibile che un uomo senza una gamba venga rimandato
in trincea.
Io ho vissuto una sorta di schizofrenia fin da bambino. Mio
nonno era uno dei famosi ragazzi del '99, che a 16-17 anni vennero
mandati in trincea nel Carso, poi in Africa, e mi ha raccontato
delle cose che mi hanno colpito profondamente. Che so, di un
alpino a cui il generale ha sparato in testa perché non
si è tolto la pipa e non l'ha salutato in maniera deferente.
Oppure di un compagno di trincea che, avendone passate di ogni,
ha aspettato un assalto e la prima fucilata l'ha sparata nella
schiena del capitano. La sua guerra mondiale era così.
Nella sua campagna d'Africa i soldati che guidavano gli autocarri
tiravano sotto i passanti per divertimento.
Poi a scuola: Enrico Toti, Cadorna... erano tutti eroi. E io
pensavo: mio nonno non è un bugiardo. E quando in prima
media dovetti fare il tema “I ricordi di tuo nonno della
prima guerra mondiale” scoppiò un casino: venni
esposto al pubblico ludibrio della classe da parte del professore
che mi tacciò di antipatriottismo.
Ecco, io ho sempre avuto questa schizofrenia fra la realtà
che mi veniva raccontata e quella che leggevo sui libri.»
Molti dei tuoi personaggi sono figure dimenticate dalla
storia. Questa scelta si lega al discorso che hai appena fatto?
Dare memoria alle figure dimenticate, guardare la storia da
un punto di vista laterale, meno istituzionale?
«Certo, la spinta che ho per scrivere è soprattutto
questa, una sorta di spirito di rivalsa, scavare e ritirare
fuori cose dimenticate o bistrattate. Fa parte del discorso
sulla memoria intesa come coltivazione del dubbio, non assuefazione
alle certezze che vengono propinate. Poi, più approfondisci,
più scavi e più ti accorgi che la storia non è
affatto una scienza esatta: ognuno la racconta come gli pare,
e non può essere obiettiva.
E in quest'ottica sono molte le persone che meritano di riavere
voce, a cui la voce è stata soffocata perché non
faceva comodo quello che dicevano e facevano. Quindi ovviamente
in tutta la storia dell'anarchismo trovo spunti all'infinito.
Lo stimolo è riportare in vita queste esistenze dimenticate,
sempre con la consapevolezza che non è possibile contrabbandare
la verità assoluta. Io non a caso scrivo in una maniera
narrativa, racconti e romanzi.
Qualcuno mi critica dicendo che sono apologie, che scelgo il
meglio di personaggi che sicuramente potevano avere lati oscuri.
Alla presentazione presso il Germinal di Trieste del mio libro
Nessuno può portarti un fiore, c'è stato
un compagno – non del Germinal, lo chiarisco per correttezza
– che mi ha rimproverato di fare una sorta di “buonismo”,
perché secondo lui Fantazzini era molto più duro
di come l'ho descritto io. E in questo caso, essendo l'unico
dei personaggi citati nel libro che ho conosciuto personalmente,
ho risposto che questo è il modo in cui l'ho conosciuto
io. L'ho conosciuto dopo che si era fatto 33 anni di galera
e mi è parsa una persona sensibile, che trasmetteva una
certa bontà d'animo. Ma ribadisco: ogni critica e dibattito
sono proficui.
In ogni caso è ovvio che l'atteggiamento da cui parto
è di condivisione: io non faccio lo storico, racconto
storie. E alla base c'è sempre un trasporto, un'empatia
nei confronti delle vicende che scelgo di raccontare.»
La condivisione è sempre così totale? Ti
è mai capitato di avere dubbi su alcune vicende?
«In alcune storie che ho raccontato ci sono lati che io
stesso non condivido, non sono sempre in totale simbiosi. Con
il libro su Tina Modotti mi sono dovuto confrontare con dubbi
continui. Ho scritto un libro di dubbi, anche contro altre pubblicazioni
che hanno preferito l'immagine dell'eroina della rivoluzione,
l'apostola del comunismo. Io invece ho tirato fuori dettagli
della sua vita che dispiacevano a me per primo, perché
da parte mia c'era l'innamoramento verso la persona, ma non
potevo tacere ad esempio certe implicazioni con lo stalinismo
o i dubbi sul suo livello di complicità in certi eventi.»
Forse è solo in questo modo che si rende giustizia
a un personaggio: raccontandolo in tutta la sua complessità,
anche scomoda.
«Dal mio punto di vista sicuramente. Prima di scrivere
questo libro su Tina Modotti ne avevo scritto un altro, che
ormai non è più in circolazione, in cui raccontavo
me stesso alla ricerca di queste notizie, e man mano che procedo
con le ricerche vedo sgretolarsi l'ideale che avevo di lei e
sono costretto a fare i conti con i lati oscuri della sua vicenda,
con aspetti della sua vita che, in altri libri che raccontano
la sua vita, sono rimasti del tutto taciuti.»
È interessante il rapporto che si crea tra scrittore
e personaggio, è una sorta di dialogo attraverso il tempo.
«È prima di tutto una specie di innamoramento.
E poi naturalmente c'è il dialogo con il fantasma del
personaggio. Ogni tanto ti fermi e chiedi al fantasma: “Ma
hai davvero fatto questa cosa?”. Molte vicende resteranno
sempre controverse. Tutte le volte che rivedo Paco Taibo (lo
scrittore Paco Ignacio Taibo II) discutiamo a proposito dell'omicidio
di Julio Antonio Mella, compagno della Modotti. Secondo Paco
è stato fatto uccidere dal governo messicano in combutta
con il dittatore di Cuba, mentre nulla c'entravano le dispute
interne tra stalinisti e trotskisti. Io sono d'altro avviso,
nel mio libro infatti ho riportato alcune testimonianze che
ho letto sui giornali dell'epoca e che contrastano con la versione
fornita da Tina. Recentemente Paco è tornato alla carica,
convinto di aver trovato nuovi documenti a favore della sua
tesi. Insomma, la storia non finisce mai, non è fatta
di certezze: puoi continuare a scavare tutta la vita e poi ognuno
magari rimane delle sue convinzioni, l'essenziale però
è continuare a discutere e non fare finta di nulla.»
Del tuo modo di narrare incuriosisce molto la ricostruzione
di dettagli e stati d'animo profondamente personali, per cui
il lavoro di ricerca e di ricostruzione storica può aiutare
fino a un certo punto. Qualche volta non hai paura di interpretare
troppo liberamente?
«È una questione che mi sono posto, però
ho fatto questa scelta: mi interessa raccontare gli stati d'animo.
È la possibilità in più che ha il narratore
rispetto allo storico, quella di riuscire a ridare vita alla
persona anziché al personaggio. E quindi ci vogliono
gli stati d'animo, ci vogliono i dialoghi, i sentimenti. Certo,
io mi illudo che il mio modo di scrivere sia il risultato di
ricerche, attraverso testimonianze di varia natura, che io poi
trasformo in una scena in cui le persone si dicono delle cose
e provano delle emozioni. E questo per forza sconfina nel romanzo.
D'altra parte senza questi aspetti i personaggi sarebbero icone
fredde, come nei libri di scuola.
Ad esempio per il libro su Nahui Olin ho fatto anni di ricerche,
ho letto testi, intervistato persone e visitato luoghi: da tutto
questo magma decido di tirare fuori un romanzo, non una ricostruzione
storica. E allora aggiungo delle parti in corsivo in cui lei,
ormai vecchia, riflette sulle vicende. E, presentandolo in giro,
mi è capitato più di una volta che dal pubblico
mi chiedessero “Ma, quelle lettere di Nahui, dove le hai
recuperate?” “Non sono lettere”, rispondevo,
“le ho inventate io”. Da un lato è indubbiamente
lusinghiero: il bravo narratore deve riuscire a calarsi nei
panni degli altri, o in questo caso delle altre.»
Avendo raccontato anche di persone che conosci, che sono
ancora in vita, ti è mai capitato che qualcuno abbia
avuto delle rimostranze per come l'hai tratteggiato? Forse non
Sepúlveda: ne fai un ritratto così bello che ha
poco da lamentarsi...
«Di Sepúlveda ho scritto cose che mi aveva raccontato
lui stesso. Oltretutto lui mi ha detto: “Maledetto Pino,
sei il mio dottor Freud!” perché quei fatti, la
sua prigionia, non li aveva mai raccontati a nessuno in modo
così dettagliato. Erano una ferita aperta che in parte
resterà aperta per sempre.
Rimostranze direi di no, piuttosto ho dei piccoli rimpianti.
Faccio un esempio: in Ribelli c'è un capitolo
su Silvio Corbari e Iris Versari. Era da tempo che volevo scrivere
questa vicenda, quindi avevo già tutti i miei dati, non
avevo però ancora conosciuto la famiglia di Corbari,
cioè i due figli – e in particolare Giancarlo e
sua moglie Iole – e Lina, la vedova, che allora era ancora
viva. In quel capitolo ho dato molto spazio a Iris (compagna,
amante di Silvio? Poco importa). Di fatto però ho quasi
tralasciato la figura di Lina, che avendo già un figlio
piccolo non poteva andare in montagna: era una di quelle donne
che rischiavano la pelle per aiutare i partigiani, anche se
non erano loro stesse in prima linea a combattere. E dopo averla
conosciuta e apprezzata moltissimo, mi è nato il rimpianto
di non averle dato il giusto rilievo a vantaggio di Iris, che
a posteriori avrei ridimensionato.
Quando hanno ucciso Silvio Corbari Lina era incinta, e lei diceva:
“Meno male che mio figlio è sputato al padre, se
no avrebbero detto che ero stata con qualcun altro, e invece
mio figlio è la prova che Silvio stava ancora con me
quando l'hanno ammazzato”.
È sempre delicatissimo quando si parla dei vivi, anche
se io sono stato fortunato, perché la famiglia Corbari
poteva benissimo disconoscere il mio racconto. Ma hanno capito
che l'ho fatto in buona fede, per restituire dignità
e memoria alla storia di Silvio. Lina mi diceva spesso “Ah,
i partigiani i partigiani: io però sono sempre stata
trattata come la moglie di un bandito, non di un partigiano.
Per campare ho dovuto fare i lavori più umili, perché
non mi assumevano da nessuna parte, eravamo considerate mogli
di ladri e banditi. Oggi si fa presto a parlare di Resistenza,
ma il dopoguerra per noi è stato davvero duro. Col cavolo
che ci consideravano vedove di eroi”.
In ogni caso, sia con i vivi che con i morti, è necessaria
un'etica del narratore, un rigore morale di cui è responsabile
lui solo. Poi chi legge è libero di fare le proprie critiche.»
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Oaxaca (Messico), manifestazione popolare |
L'epica del malfattore
Con figure così iconiche: il bandito, il rivoluzionario,
il fuorilegge un rischio forte può essere quello di cadere
in una letteratura troppo romantica o apologetica.
«Certo, il rischio c'è e lo corro, ma al tempo
stesso sono figure che mi attraggono proprio per questi motivi.
Quando ho cominciato a scrivere della banda Bonnot, e quindi
dell'altra faccia della Belle époque, non ero spinto
soltanto dal desiderio di riesumare fatti e persone che avevano
una loro dignità, c'era anche un'altra forza che mi spingeva,
anche se non dichiarata: raccontare quella storia era un po'
come raccontare tante altre storie simili degli anni '70, che
io ho vissuto. Volevo dire: “Attenzione, quelli che impugnano
le armi non sono tutti fanatici, ci sono i fanatici, ma anche
quelli che, in diverse maniere, sono stati sbattuti dalla vita
con le spalle al muro”.
Raccontando la storia di Bonnot ho voluto dire che tu puoi anche
essere una persona sensibile, animata da buoni propositi, ma
se ti va tutto storto, ti perseguitano fin da piccolo, cresci
in una fonderia, tuo padre è un povero disgraziato...
provi a riscattarti e tutte le volte ti risbattono nel buco,
alla fine ti incazzi e dici basta, meglio una fine spaventosa
di questo spavento senza fine.
E allora perché devo condannare Bonnot in nome di un
principio – anche di un certo anarchismo – non violento,
pacifista? Il mondo nasce e vive nella violenza, puoi solo limitarla.
L'ideale non violento è bellissimo, ma non applicabile
in assoluto: ci sono fasi della storia in cui la gente si ribella
e fa un atto di violenza. E quando non trovi una rivoluzione
a disposizione fai come Bonnot, che si fa ammazzare, ma perché
animato da un eccesso di sensibilità, non di crudeltà.
A me interessava provare a raccontare questo punto di vista,
quello di chi non solo è rimasto nella storia come un
criminale, ma che mentre faceva quelle cose aveva contro quasi
tutto il movimento anarchico che lo considerava un provocatore
o uno che – magari in buona fede – faceva dei danni
politici enormi.
E anche in questo caso, come scrittore, mi sono messo su una
china pericolosa, perché la critica può essere:
della figura di Bonnot parli, cerchi di riscattarla, ma appartiene
a inizio '900, uno che fa queste cose adesso cosa fai, non lo
condanni? Io no, non lo condanno, ma neanche lo esalto. Non
si tratta di proporre dei modelli, ma di raccontare cose che
succedono e sono successe. Il confine è labile: non sto
dicendo: “Prendete una pistola e fate come Bonnot”,
anzi, raccontandovi com'è finita cerco semmai di dissuadere.
Però vi dico anche che non era una carogna.»
Quindi ben venga anche un po' di romanticismo...
«Io rivendico il romanticismo e l'epica. E sono in buona
compagnia. Altri miei amici scrittori, come Paco Taibo, come
Sepúlveda dicono spesso: “Romantici? Sì,
cosa c'è di male? Siamo romantici perché abbiamo
bisogno di sentimenti”. E io stesso non considero l'aggettivo
“romantico” in maniera negativa.
Allo stesso modo rivendico l'epica: da lettore mi piace sentire
il coinvolgimento di una narrazione epica degli eventi, quindi
cerco di perseguirla. È logico che scegliendo questa
modalità narrativa, il lettore, se coinvolto, sta dalla
parte per cui parteggio anch'io. Comunque dubito fortemente
di essere un cattivo maestro.»
I più criticati saranno i ritratti di personaggi
non animati da ideali politici, che pure tu inserisci nelle
tue rassegne di ribelli.
«Chiaro, Casaroli ad esempio, di cui ho parlato in Camminando,
non era animato da ideali, era un “ribelle senza causa”,
e c'è chi critica il fatto che io l'abbia inserito insieme
a ritratti di partigiani, di persone fortemente connotate a
livello etico e politico. A me però interessava il lato
umano di un giovane che, nel dopoguerra, si ritrova come tanti
altri a essere uno sbandato, senza più nulla in cui credere
e la sua reazione è: “Be', non cambia niente, io
non credo più in niente: mi metto a rapinare le banche”.
E allora si mette insieme ad altri due, uno che da giovane era
stato fascista e uno che era stato partigiano, e ne viene fuori
un terzetto grottesco che, unito da questo patto di morte, comincia
a rapinare per fare la bella vita. Erano gli anni '50 e in qualche
modo anche loro si sono ribellati a un'Italia di buffoni.»
Be', tra i Ribelli hai messo anche
Jim Morrison...
«Certo, e mi chiedono cosa c'entri con in partigiani...
c'entra: più ribelle di lui!
A parte i miei gusti personali, mi interessava la vita, brevissima
ma intensa, di un musicista che viene ricordato solo per le
canzoni ma che è anche finito in galera perché
incitava a disertare la guerra del Vietnam, a bruciare le cartoline
precetto quando arrivavano. Nel suo caso non c'era solo l'autodistruzione
come forma di ribellione, c'era anche il tentativo di fare qualcosa
di incisivo. Il suo eccesso di sensibilità l'ha poi evidentemente
portato all'autodistruzione. Anche in questo caso la critica
è facile: una signora a Milano mi ha detto: “Ma
era un drogato”. E io: “Be', signora, è un
po' riduttivo...”.»
È molto forte la tendenza, sia nei confronti di
persone con problemi di dipendenza sia verso chi ha commesso
qualche forma di reato, a identificare totalmente l'individuo
con l'azione commessa. Per questo forse è invece importante
recuperare un po' di fascinazione nei confronti dell'illegalismo,
come c'era ad esempio nella letteratura ottocentesca o prima
ancora all'epoca dei supplizi pubblici: una sorta di “epica
del malfattore”. Soprattutto ora che domina ovunque, anche
a sinistra, un legalitarismo benpensante.
«Il mio stimolo per continuare a scrivere è proprio
andare contro questo appiattimento, fare un po' il bastian contrario.
A me interessano le ragioni per cui si finisce a fare il bandito,
il malfattore, eccetera.
Può anche capitare che comincio a ricercare, a scandagliare
e mi accorgo che il personaggio che mi interessava era proprio
uno stronzo, e allora lascio stare. Anche perché in quel
caso non scatta la condivisione, che è indispensabile,
quindi saluto il personaggio e dico: “La tua storia la
racconterà qualcun altro”.»
Nello scegliere di raccontare determinate storie, quanto
c'è di politico e quanto di viscerale?
«Credo che la mia passione politica sia viscerale. Io
però preferisco parlare di passione sociale, visto che
in troppi si sono prodigati per trasformare la parola “politica”
in una parolaccia. Tutto in fondo è politica. Bisognerebbe
riportare la politica alla sua accezione originaria di preoccupazione
per l'altro, condivisione comunitaria di un problema, farsene
carico anche per altruismo e generosità e non per interesse
personale... insomma, l'esatto contrario di quello a cui assistiamo
oggi, per cui la politica è essenzialmente una carriera.
Io vorrei invecchiare un po' anche nello spirito, non solo nel
corpo: vorrei incazzarmi di meno, dare una tregua al fegato.
Certo, molte cose non le vedo più con lo sturm und
drang dei 18 anni, l'età ti insegna a stare più
zitto e ascoltare di più. Però c'è sempre
una brace che si rinfiamma.»
Tornando a Sepúlveda, a proposito di reazioni viscerali,
alla Fiera del libro di Torino... (scoppia a ridere
e finisce la frase: “Quando ha detto che il Cile è
un paese di merda!”) «Ecco, questo è uno
dei motivi per cui siamo così amici...»
Dopo la sua dichiarazione Oscar Godoy, l'ambasciatore
cileno in Italia, gli ha rimproverato di essere troppo concentrato
sul passato del paese, di non riuscire ad accorgersi dei cambiamenti
in atto.
«Non si può pensare di passare attraverso l'inferno
e rimanerne indenni. Ciò non vuol dire che sia legato
al passato: ha sì scritto libri di memoria, ma tanti
dei suoi testi sono scritti per l'attualità e per il
futuro, ad esempio quando dice che essenzialmente la differenza
tra destra e sinistra è che la destra tende a semplificare
tutto, e da qui il razzismo, mentre essere di sinistra vuol
dire faticosissimamente accettare l'estrema complessità
del mondo e farsene carico e non pensare alle scorciatoie, perché
non esistono.»
Una volta, proprio sulle
pagine di “A” hai scritto: “il mondo è
troppo complesso per non essere anarchici”.
«Il concetto è esattamente quello! Le scorciatoie
sono facili e così si va avanti per certezze assolute,
che fanno i danni che sappiamo.
Insomma, Lucho (Luis Sepúlveda) prende la vita in maniera
sanguigna, ma è una delle persone di maggior bontà
d'animo che io conosca. A volte è proprio chi è
più generoso nei confronti degli altri che sente l'affronto
e si incazza di più. Lui, proprio perché sempre
animato dal bisogno di accettare la complessità del mondo,
non è un estremista: è sempre disposto ad approfondire
le situazioni cogliendo anche le ragioni degli altri.
Poi, dopo tutto quello che ha passato, ora in Cile è
tornata la destra al governo: è ovvio che sia furibondo.
E lì, come in Italia in fondo, è anche colpa di
una sinistra che non si fa votare, che delude talmente tanto,
che poi a votare ci vanno solamente gli altri.»
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Pino Cacucci sul vulcano Paricutín, nello stato messicano
di Michoacán |
Le vene aperte dell'America Latina
Ricordavi che in Cile è tornata al governo la
destra, ma in molti altri paesi latinoamericani non è
così, anzi, in alcuni casi – Argentina, Venezuela,
Bolivia – la sinistra, magari non sempre limpidamente,
vince le elezioni da dieci, quindici, vent'anni.
«Be', negli ultimi anni abbiamo assistito a fenomeni interessantissimi,
che hanno fatto dell'America Latina anche una sorta di fucina
per nuove maniere di intendere la sinistra al governo. Certo,
a conti fatti l'esperienza di Lula in Brasile ricorda un po'
quella di Mandela. Però non ne nascono tanti di personaggi
che dal carcere e dalle lotte, in alcuni casi dalla guerriglia
– come il presidente dell'Uruguay – arrivano al
governo. Il neoliberismo devasta ogni società, però
il Brasile dimostra che da un lato si può progredire
secondo i canoni imposti dall'esterno, con le quotazioni in
borsa, la finanza e tutto l'orrore che sappiamo, ma al tempo
stesso riducendo sempre più la povertà. Poi non
bisogna dimenticare che queste situazioni sono sempre i risultati
di grandi movimenti, non di un uomo della provvidenza. Nel caso
di Chavéz, è criticabile l'uomo, con il suo modo
di fare troppo istrionico, facilone, superficiale in certe scelte
– gli piaceva farsi vedere con Ahmadinejad – ma
il Venezuela ora ha una coscienza di sé che prima non
aveva, non è più solo il paese da cui si estrae
petrolio, con la corruzione dilagante, la fame, la povertà.
Quindi forse questo tentativo ha gettato le basi per costruire
qualcosa anche senza di lui... chissà.
Però tutta l'America Latina in questi anni ha dimostrato
come si possa attraversare un passato di dittature, di situazioni
estreme e nonostante tutto risollevarsi. D'altra parte in America
Latina le dittature sono state in larga misura imposte dall'esterno,
da minoranze, da oligarchie sostenute da un capitale e da un
certo sistema economico. Per esempio, ?Pinochet ha fatto da
apripista per il neoliberismo: tutti i chicago boys che
hanno partorito quello che stiamo vivendo, l'hanno partorito
a Chicago, ma il campo di prova è stato il Cile di Pinochet.
In America Latina ci sono situazioni che meriterebbero sicuramente
più attenzione, non il silenzio assoluto dei nostri mezzi
di informazione. Dovrebbe essere il nostro referente principale:
non possiamo avere come referente la Cina, che in sostanza ha
realizzato il capitalismo perfetto, dove c'è una dittatura
che schiavizza il lavoro.»
Qual è invece la situazione del Messico?
«Il Messico è ancora un altro discorso, tant'è
che geograficamente è ancora in Nord America, ma al tempo
stesso è un paese latino, che si ritrova a difendere
la latinità. Con tutte queste ventate di sinistra al
governo, si è sperato che anche il Messico cambiasse,
ma alla fine anche López Obrador non ce l'ha fatta.
Poi naturalmente in Messico la questione principale è
la guerra al narcotraffico: un'assurdità, perché
non puoi dichiarare una guerra sapendo di averla persa in partenza.
Ce lo insegna il mercato: finché c'è domanda,
c'è anche l'offerta. Finché ci sono gli Stati
Uniti che consumano la cocaina, ci sarà qualcuno che
la produce – Colombia, Perù – e qualcun altro,
il Messico, che la commercializza. Questa è una realtà
che non si può cancellare con l'esercito, men che meno
con la corruttibilissima polizia. In questi giorni sto leggendo
il libro di Saviano, che è un personaggio su cui ho molte
riserve, ma che sulla questione sembra essersi documentato e
di cui condivido l'idea, perché la penso da tempo, che
oggi la cocaina regoli i destini dell'umanità. Ha anche
sostituito il petrolio come principale stimolo economico.
È stato Bush (padre) – e prima Reagan – a
suggerire al Messico di dichiarare guerra al narcotraffico,
ma nella maniera più falsa che si possa immaginare, perché
contemporaneamente – prima per diventare capo della Cia,
poi per la presidenza – si è fatto finanziare dai
narcotrafficanti dell'eroina del Sudest asiatico. Bush è
un uomo dei narcotrafficanti: allora la guerra non è
contro il narcotraffico, ma solo contro alcuni narcotrafficanti.
Per giunta, una volta dichiarata la guerra, gli Stati Uniti
hanno lasciato il Messico da solo a combatterla: non ci sono
mai campagne di arresti o scontri a fuoco di là della
frontiera. “Non è la nostra guerra ma sono nostri
i morti” dicono gli striscioni nelle manifestazioni messicane.
Il Messico non ha problemi così ingenti di consumo di
droga come gli Stati Uniti. Per sconfiggere il narcotraffico
bisognerebbe arrivare alle banche, perché è lì
che il denaro si ferma, ma gli Stati Uniti, che si sono appena
ripresi dal tracollo, non andrebbero mai a toccare le banche.
Poi se giri per il Messico non hai la sensazione di girare in
un paese in guerra civile, anche se qui arrivano solo le notizie
dei morti ammazzati. I problemi stanno soprattutto nella zona
frontaliera.
E forse è proprio questa la ragione del mancato cambiamento:
in fondo, se al governo andasse un partito disposto a trattare
con i narcos, magari la carneficina finirebbe. È chiaro
che sembra un discorso un po' cinico, ma anche molto materialista:
hanno scelto il male minore.
Anche i narcotrafficanti non sono tutti uguali: i gruppi più
recenti, gli Zeta, sono di una ferocia mai vista. Sono tutti
ex militari, corpi speciali dell'esercito messicano mandati
negli Usa ad addestrarsi. Sono delle macchine da guerra, e hanno
assoldato anche i kaibiles, i corpi speciali guatemaltechi
responsabili del genocidio dei maya in Guatemala, specializzati
in torture. Il vecchio narcotraffico, quello alla Chapo Guzmán,
era diverso. Non dico si possa parlare di etica, ma per loro
era impensabile ammazzare un bambino o una donna.
Alla fine sembra che il Messico abbia perso l'ultimo autobus
per il rinnovamento, ma essendo anche così variegato,
avendo al suo interno così tante realtà, ha una
coscienza di sé molto forte, che è sempre stata
più sviluppata rispetto al resto dell'America Latina.
Non a caso ha fatto la prima rivoluzione sociale del '900.
È un paese pieno di paradossi: Città del Messico
è una delle città più tranquille del mondo.
Pur tenendo conto che ha 25 milioni di abitanti, ogni anno calano
i dati su criminalità e microcriminalità. Qualche
anno fa era facile essere rapinati in taxi, magari con la compiacenza
del tassista. Ma sono ormai tre mandati che Città del
Messico, prima con Obrador e poi con i successori, ha amministratori
fondamentalmente onesti, non corrotti, che hanno a cuore la
cosa pubblica. E ci sono state delle conquiste sociali e di
laicità impensabili per il resto del Messico e per buona
parte dell'America Latina. A Città del Messico l'aborto
è assistito, le coppie di fatto hanno delle garanzie,
si celebrano matrimoni gay già da anni. Sembra di fare
il confronto con la Scandinavia e l'Olanda. E a me piace pensare
che queste conquiste siano anche l'eredità di quelle
donne straordinarie che tanto hanno lottato, da Frida a Nahui
a Tina, e tutte le altre.
Sono un po' di ore che chiacchieriamo... quale argomento abbiamo
dimenticato?»
La traduzione!
«Certo, la mia attività principale! Passo più
tempo a tradurre che a scrivere i miei libri. E sono fortunato
ad aver fatto di una lingua e una cultura la passione di una
vita. Con la passione puoi anche superare degli ostacoli tecnici,
perché non ho mai studiato accademicamente lo spagnolo,
l'ho imparato per strada. L'essenziale è trasmettere
quello che intuisci nella tua lingua: devi conoscere i meccanismi
della tua lingua, soprattutto per tradurre narrativa, perché
richiede la capacità di trovare il modo di rendere le
stesse emozioni che ha reso l'autore, ma in una lingua diversa.
È qui che tornano i famosi stati d'animo.
Poi, quando traduco, cerco di farmi aiutare anche dall'autore:
cerco di instaurare un rapporto d'amicizia. Finora mi è
andata bene, e ho avuto la fortuna di trovare autori che capivano
l'importanza di avere un rapporto con il proprio traduttore.
Nessuno può avere la presunzione di conoscere un'altra
lingua alla perfezione. E non può neanche esserci una
corrispondenza perfetta tra le lingue. Non so come traducano
Camilleri in spagnolo, ma già è difficile per
un italiano che non sia siciliano capire tutto.»
Quanti titoli hai tradotto?
«Più o meno sono arrivato a 90 titoli e in totale
a una cinquantina di autori, e spero che in ognuno ci sia il
linguaggio degli autori, non il mio. Poi è chiaro che
traducendo un minimo di libertà te la devi prendere,
ma cercando sempre di mantenere questo impalpabile equilibrio
tra la tua libertà e il rispetto per la scrittura dell'altro.»
E tu invece sei mai stato tradotto male?
«In realtà, quando è successo, me l'ha fatto
notare Paco. Ad esempio San Isidro Futból è
stato tradotto tutto nello spagnolo castigliano di Madrid, e
quindi è andato perso quello che io avevo cercato di
costruire, anche con il linguaggio, per rendere l'atmosfera
del Messico. Tant'è vero che Paco adesso lo vuole ripubblicare.
Lui e sua moglie hanno messo in piedi queste brigate per la
lettura (brigadas para leer en libertad), per diffondere
la lettura anche nei posti più sperduti del paese, e
sta avendo un grande successo, a dimostrazione che se alla gente
porti i libri gratis o quasi, legge. Qualche testo, di cui riescono
ad avere gratis i diritti, lo pubblicano loro direttamente ed
è quello che intendono fare con San Isidro Futból,
questa volta rispettandone gli accorgimenti linguistici. Insomma,
alle volte anche una semplice traduzione può diventare
un atto di arroganza coloniale.»
Laura Antonella Carli
Giuditta Grechi
I libri citati in queste pagine
I fuochi le ombre il silenzio: la fragil vida di Tina Modotti
negli anni delle certezze assolute, Agalev, 1988
Tina, Interno giallo 1991, Feltrinelli, 2005
San Isidro Futból, Granata Press, 1991; Feltrinelli,
1996
In ogni caso nessun rimorso, Longanesi, 1994; Feltrinelli,
2001
Caminando. Incontri di un viandante, Feltrinelli, 1996
Ribelli!, Feltrinelli, 2001
Nahui, Feltrinelli, 2005
¡Viva la vida!, Feltrinelli, 2010
Nessuno può portarti un fiore, Feltrinelli, 2012
La memoria non m'inganna, Feltrinelli, 2013. |
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