Orsetta
Bellani
Quando la
fine verrà
La
sicurezza del potere si basa
sulla insicurezza dei cittadini.
Leonardo Sciascia
|
Orsetta
Bellani (La Spezia, 1982),
laureata in scienze della comunicazione a Bologna e in
relazioni internazionali a Genova, vive tra La Spezia
e l'America Latina.
Giornalista free-lance, scrive su varie testate italiane, latinoamericane,
spagnole e statunitensi.
Dal 2011 collabora con la nostra rivista, principalmente con
articoli e reportage fotografici dall'America Latina.
Questo è il suo primo racconto pubblicato. |
1. Oggi
Anche stamattina Anna si è svegliata alle 5.29, un minuto
prima che la sveglia suonasse. Si è fatta una doccia
e si è cosparsa di crema solare. Poi è tornata
in camera e ha indossato una maglietta con su scritto “Incontro
oltreumanista dei cittadini della Libertà”, macchiata
da un alone d'olio più o meno al centro. Si è
infilata i jeans, soffermando lo sguardo sullo strappo che li
attraversa all'altezza delle ginocchia. Da ragazzina, all'inizio
degli anni '90, li portava sempre così: lo faceva per
imitare il cantante dei Nirvana e la sua compagna di banco,
che aveva iniziato a portarli prima di lei. Ora, a più
di quarant'anni, i jeans strappati li usa solo per lavorare.
È scesa in cucina, ha ingoiato una Pillola Blu e messo
a scaldare il caffè di zucca. Non si può più
far arrivare nulla da lontano: niente più caffè,
banane, cacao, cotone. Le navi che per cinquecento anni avevano
attraversato l'Atlantico e il Mediterraneo sono ora ferme nei
porti.
Il caffè di caffè in Italia non cresce, e si beve
caffè di zucca. Anna non ricorda il sapore del caffè
vero, quella bevanda nera e forte che aveva accompagnato i risvegli
di quasi tutta la sua vita, e le pare di non aver mai assaporato
altro caffè che quello di zucca. “Caffè
di zucca Torbellina, per iniziare bene la mattina”, dice
la pubblicità alla tv.
Anna si è sdraiata sul tappetino per fare qualche esercizio
per prolungare la vita. Ne ha imparati molti all'ultimo incontro
oltreumanista e la fanno sentire bene. Poi ha preso Il Giornale
d'Italia e si è seduta sul divano, strappando piccoli
e rumorosi sorsi dalla tazza. Sfoglia sempre tutte le quattro
pagine del quotidiano, e poi decide quale articolo leggere.
“Torino. Piove a dirotto e pioverà anche domani”.
“Padova. Tutti pazzi per lo spritz”.
“Genova. Ottimo pesto se si aggiunge un poco di pecorino”.
“Bologna. Virtus vince ancora campionato di basket”.
Bologna. Anna non è più tornata a Bologna da quando
la Fine è passata: il viaggio sarebbe stato troppo lungo,
e poi ora ha da badare ai campi. È fortunata Anna ad
avere i campi, almeno ha da mangiare.
Con Petra all'università dicevano sempre che avrebbero
lasciato la città per aprire un agriturismo. Anna ci
è andata davvero a vivere in campagna, ma senza Petra,
che chissà dov' è finita, e senza turisti. Nessuno
viaggiava più.
Petra. Bologna. Anna ricorda ancora qualcosa, anche se è
difficile scovare quelle immagini lontane nella sua memoria
sterile. È una delle poche persone che riesce ancora
a ricordare qualcosa, a ripescare alcuni frammenti del suo passato,
e ci riesce grazie ai libri, che non ha venduto come hanno fatto
quasi tutte le persone della sua Posizione. In realtà,
sono anni che non legge più niente, ma non ha dimenticato
l'intreccio di quelle storie, il significato di quelle parole.
E un tempo scriveva Anna, da ragazza scriveva moltissimo. Pensava
che scrivere fosse necessario, le sembrava fosse l'unico modo
per tendere verso qualcosa d'altro. Poi aveva smesso: la Fine
era stato un periodo duro e ora che è passata bisogna
badare ai campi, alla casa, alla vita. Ora non ci trova alcun
senso nello scrivere.
Non ricorda se erano racconti, poesie o lettere quelle che scriveva.
Ricorda solo che negli anni dell'università lo faceva
con speranza e poi, quando aveva iniziato a sentire che la Fine
stava per arrivare, scriveva con angoscia che il Liberismo aveva
i giorni contati.
2. Oggi
Petra chiude il libro sulle ginocchia, imprigionando l'indice
tra le pagine per non perdere il segno. Si appoggia lentamente
allo schienale e chiude gli occhi, riflettendo su ciò
che ha letto:
“L'obiettivo della rivoluzione è dissolvere
le relazioni di potere. Quello che non ha funzionato è
l'idea che la rivoluzione significhi prendere il potere per
abolire il potere. L'unico modo in cui si può immaginare
oggi la rivoluzione è come la dissoluzione del potere,
non come la sua conquista1”.
Si alza e va verso la finestra, fermandosi qualche istante davanti
allo specchio, come fa ogni volta che ci passa davanti. Sistema
i capelli dentro l'elastico che li racchiude, lasciando fuori
qualche ciocca perché le cada sul viso e ne copra le
imperfezioni. Poi si mette a posto la canottiera in modo da
farla aderire al bordo del reggiseno e lo nasconda, senza però
coprire completamente i seni che le piace mostrare. Le sembrano
molto belli e non le dispiace se qualcuno ci fa caso.
A Petra è sempre piaciuto curare il suo aspetto, e non
trova in questa esigenza nessun tipo di incoerenza con le sue
idee politiche. Il femminismo è per lei un progetto politico,
una forma nuova di intendere i rapporti familiari, lavorativi
e amicali. Sa che la serenità nel rapporto con se stessa
passa anche per l'estetica: non è mai stata una persona
appariscente ma le piace mostrare una bellezza che necessita
di una certa cura. A volte, ma questo non lo ha mai detto a
nessuno, le capita di farsi bella non per se stessa, ma perché
un uomo la guardi.
Il suo sguardo lascia lo specchio e si rivolge alla finestra
poco più in là. L'ufficio è collocato nel
seminterrato di una vecchia villa liberty e dalla finestrella
al livello della strada si vedono solo il manto di foglie secche
che copre il suolo, e i tronchi ordinati degli alberi del giardino
trascurato e deserto della villa.
Spesso immagina il mondo oltre il muro fitto di alberi e foglie,
la vita di quelle persone che rinchiudono il proprio grido tra
le costole, nascondendolo in un lavoro massacrante. Li stuzzicheranno
finché impareranno a gridare nuovamente.
«Ti stiamo aspettando di là, Petra. Siamo pronti
per la riunione», dice una ragazza affacciandosi dalla
porta.
«Arrivo.»
3. Oggi
Anna getta a terra le forbici con cui sta potando le viti e
corre in casa per rispondere al telefono. Le sembra strano sentirlo
squillare, non la chiama mai nessuno.
«Pronto.»
«Anna?»
«Sì?»
«Sono Petra, ricordi?»
«Sì, certo» dice Anna stupita.
«Ora non posso parlare. Riesci a venire alle 4 sotto il
monumento al Campione di Piazza Vittorio Mangano?»
«Ok.»
Riattacca. Dopo anni di silenzio Petra, ma cosa vuole? Sente
una sensazione forte all'addome, era tempo che non provava nulla
e si deve sedere. Da qualche parte dentro di sé scova
i ricordi di quel tempo che le pare lontanissimo, immagini che
sembrano far parte della vita di qualcun altro.
Non è possibile che fosse lei la ragazza che girava in
bicicletta nella zona universitaria di Bologna, che distribuiva
volantini in Piazza Verdi. Riesce a dare un volto alla voce
di Petra e un luogo: il 36 di Via Zamboni. Era al 36 che andavano
a studiare, mentre le riunioni le facevano a casa di Aldo. Erano
in pochi ma sicuri di raggiungere il loro scopo. Poi erano nate
delle divergenze: Anna voleva costituire un gruppo armato, voleva
farlo fuori il Mercato, eliminarne tutti gli ingranaggi uno
a uno. Petra e gli altri non erano d'accordo, dicevano che la
lotta armata non aveva più senso, che l'avevano sepolta
le Brigate Rosse con l'omicidio di Guido Rossa. Volevano mettere
in crisi il sistema dall'interno.
Anna aveva deciso di lasciare i suoi amici e dopo la laurea
si era trasferita a Milano, dove ottenne un contratto co.co.pro.
Fu lì che iniziò a leggere la Fine dappertutto:
ogni cosa che la circondava, ogni evento in cui si trovava coinvolta,
la portavano a pensare che la Fine fosse inevitabile. La vedeva
ogni mattina in metropolitana, quando si sedeva sulla panchina
fredda ad aspettare il treno, osservando gli annunci pubblicitari
che si susseguivano sul megaschermo. Leggeva la Fine negli occhi
della prostituta che le si sedeva accanto, nei gesti violenti
con cui i vigili sequestravano le borse di Dior taroccate ai
cinesi nel sottopassaggio. Percepiva la Fine nell'entusiasmo
con cui i suoi colleghi passavano le domeniche al centro commerciale.
Sentiva con chiarezza che il Mercato stava cedendo, che tutto
sarebbe crollato. Usciva di casa la notte per scrivere sui muri
che la catastrofe era inevitabile, che ormai non c'era più
modo per rimediare. Così che tutti lo sapessero, che
si preparassero.
Quando poi la Fine arrivò nessuno era abbastanza preparato
per accoglierla, neanche Anna, che la aspettava da tempo. Si
presentò all'improvviso la Fine: l'ultimo giorno di Liberismo
fu per Anna un giorno come un altro. Il giorno dopo, invece,
lo passò guardando attonita il cadavere del Mercato in
Piazza Duomo, davanti alla Rinascente.
4. Oggi
Anna si fa un'altra doccia per lavarsi via la terra e si cosparge
nuovamente di crema solare. Ha la pelle molto chiara e il sole,
i cui raggi ormai non incontrano più ostacoli tra la
sua orbita e la superficie terrestre, batte fortissimo.
In sala il vecchio televisore a colori trasmette il Messaggio
Giornaliero del Campione:
“Cittadini tutti, sono lieto di annunciarvi che il
progetto di sperimentazione riguardante l'impiego di paraumani
nell'agricoltura sta conducendo ad ottimi risultati: gli Amici
della Libertà sono pienamente soddisfatti del lavoro
che questa nuova tecnologia sta portando avanti nelle loro piantagioni.
Oggi è una grande giornata per la nostra democrazia:
oggi affranchiamo l'uomo dai lavori più pesanti e li
affidiamo ad esseri capaci di lavorare senza sosta. Ancora una
volta siamo stati in grado di migliorare le condizioni dell'uomo:
una nuova tappa per il progresso, un nuovo gradino verso la
libertà. Viva la Democrazia! Viva la Libertà!
Viva il Progresso! Viva il Campione!”.
Anna tiene spesso la tv accesa ma non la guarda quasi mai. Lo
faceva anche sua nonna mentre cucinava, quando Anna era piccola:
la tv passava quiz, telenovelas e talk show, ma sua nonna si
riposava dai lavori domestici solo per guardare il Tg4.
Chiude il recinto che delimita la sua proprietà e s'incammina.
Ci vogliono almeno tre ore per arrivare in città a piedi,
ma l'autobus costa troppo. Nessuno della Posizione Media possiede
auto o moto, la bici gliel'hanno rubata e i trasporti collettivi
arrivano a costare fino a 10 soldi a viaggio.
I trasporti collettivi sono una delle maggiori fonti di guadagno
per quelli della Posizione Alta, gli Amici della Libertà.
Possiedono i veicoli e le immense piantagioni in cui coltivano
astrim per far andare i motori. La grande siccità che
è iniziata prima della Fine s'è inghiottita quasi
tutto il sud, ma l'astrim cresce comunque, e chi possiede terreni
abbastanza grandi da renderne redditizia la coltivazione è
diventato ricchissimo. Sono tutti latifondisti quelli della
Posizione Alta, i primi discepoli delle teorie oltreumaniste
del Campione.
La terra è l'unica fonte di ricchezza che è rimasta.
Le fabbriche hanno chiuso e l'Autarchia ha sostituito il Mercato.
Autarchia e autoproduzione, è stata una scelta obbligata:
non si sente parlare di carburanti fossili da più di
dieci anni, e il prezzo dell'astrim per muovere le fabbriche
è così alto che hanno dovuto tutte chiudere. Non
si importa e non si esporta, non si viaggia.
5. Oggi
Anna passeggia con piacere sul cammino di terra battuta che
difficilmente si trova a percorrere. A fianco del sentiero si
snoda la strada asfaltata, lungo la quale gli scheletri delle
industrie si sciolgono lentamente e rilasciano i loro liquidi
fetidi nel terreno. Un tempo dal paese sulla collina si sentiva
il sibilo continuo delle auto e dei tir che correvano sulla
strada, oggi interamente ricoperta di buche. Grazie a quel ricordo,
Anna è in grado di apprezzare il silenzio e la pace che
ora avvolgono la valle.
Alcune nuvole coprono il cielo terso, creando macchie d'ombra
sui campi di astrim dove lavorano instancabilmente i paraumani.
Originati a partire dall'innesto tra genomi umani ed animali,
i paraumani rappresentano una nuova classe di lavoratori, creata
a seconda delle esigenze dell'impresa che ne fa richiesta. Un'invenzione
che rivoluzionerà il mondo.
A pochi metri dall'entrata della città, un corridoio
di sacchi di sabbia obbliga il passaggio verso una torretta
di cemento. All'interno, due militari con il volto coperto da
una maschera nera seguono la linea dell'orizzonte con armi di
lunga gittata. I colleghi ai piedi della torretta nascondono
la fronte umida sotto gli elmetti verdi, imbracciando i fucili
come fossero semplici protesi delle loro tute mimetiche.
«Polso, prego.»
Anna offre il suo polso al militare, che lo passa attraverso
una fotocellula.
«Scopo della visita in città?.»
«Visita di piacere.»
«Chi deve incontrare?»
«Una vecchia amica.»
Il ragazzo, che giocherella con il dito sul grilletto del fucile,
legge su un monitor i dati contenuti sul cheap impiantato nel
polso di Anna.
«Alla sua Libera Credenziale Elettorale manca un timbro
di presenza.»
«Ero gravemente malata» si giustifica estraendo
un certificato medico dalla tasca. «E come può
leggere dal cheap non mi sono persa un Incontro Oltreumanista.»
«Il coprifuoco inizia alle 22, può passare. Viva
il Campione!» dice il militare più giovane dopo
averla ispezionata con uno scanner.
«Viva!»
Da molto tempo Anna non andava in città e la trova più
vuota e spenta dell'ultima volta. In Piazza Vittorio Mangano
c'è una donna davanti al monumento del Campione: ha un
maglione nero con il collo alto e i capelli castani raccolti
in una coda. Lo sguardo è quello di Petra. Anna contrae
i muscoli della schiena, Petra va verso di lei e quando si trovano
a pochi passi le sorride negli occhi. Anna sente le braccia
dell'amica avvolgersi intorno al suo corpo ossuto e stringerlo
forte. La sente ridere per l'emozione, con il mento appoggiato
alle sue spalle, mentre il corpo di Anna s'irrigidisce sempre
più. Prova un senso di fastidio ed inadeguatezza: si
chiede perché sia corsa fin lì e non trova risposta.
«Andiamo» dice Petra con gravità, sciogliendosi
dall'abbraccio. «Intanto ti spiego.»
6. Oggi
La cantina è umida e buia, ma è evidente lo sforzo
che è stato fatto per renderla accogliente. Al centro
un grande tavolo tondo, circondato da sedie con lo schienale
di paglia, riempie tutto lo spazio disponibile. Su una parete
è appesa una caricatura di Francesco Darini, l'uomo che
ha condotto l'opposizione verso la Fine, che non è stato
in grado di proporre un'alternativa all'avanzata del Campione
e trasformare la crisi in opportunità.
Un ragazzo con la barba incolta e i capelli rasati prende la
parola: «Compagne e compagni, siamo qui chiamati a decidere
del nostro futuro. Decidere se continuare a sopportare passivamente
questa dittatura che ci atrofizza il cervello o organizzarci
per prendere il potere e porlo al servizio del popolo. É
una discussione che affrontiamo da tempo, e mi sembra che sia
per tutti ormai chiaro che è arrivato il momento di imbracciare
le armi, distruggere il sistema attuale e crearne uno nuovo
e giusto» disse battendo rumorosamente la mano sul tavolo.
Un brusio di voci e sguardi riempie la stanza, ma s'interrompe
quando Petra si alza, creando un silenzio pieno di aspettative:
«Compagne e compagni, dicevano che la Crisi economica
sarebbe passata come tutte le altre crisi cicliche del capitalismo,
ma così non è stato. Il Liberismo è finito,
generando panico e riportandoci al sistema feudale. Come in
altri momenti della storia la crisi non ha prodotto rivoluzione,
ma fascismo. Invece che condurre ad una riflessione collettiva,
ha segnato la morte di ogni tipo di dibattito. Basta con questo
regime tecnofascista, con queste teorie oltreumaniste che si
fingono a disposizione del benessere umano. Gli Amici della
Libertà sono i soli a beneficiare del progresso scientifico,
dell'allungamento della vita dell'uomo. Noi siamo sempre più
poveri e povere, costrette a lavorare come mule. Ma oggi la
dignità di cui ci hanno private ritrova la sua rabbia.
Non vogliamo paraumani che lavorino i campi, vogliamo che tutti
abbiano il proprio campo. Vogliamo la riforma agraria. È
questo che faremo quando il potere sarà nelle nostre
mani, nelle mani del popolo: riforma agraria. Uomini e donne,
della Posizione Bassa e di quella Media, è arrivato il
tempo della rivoluzione.»
Tutti i presenti si alzano in piedi applaudendo. Petra urla
a gran voce: “Potere al popolo, morte al Campione”
e l'assemblea le fa eco.
Anna è rimasta seduta. Ha voglia di uscire da quella
cantina. Si domanda cosa faccia lì, in quella stanza
invasa da una retorica che appartiene a generazioni passate,
a chilometri di distanza dalla sua casa, dal suo campo, dalle
sue sicurezze.
La realtà così com' è le va bene: ha il
suo terreno che le permette di mantenersi nella Posizione Media
e del resto non le importa. Si perde nei suoi pensieri: tutto
il lavoro che oggi ha tralasciato e che dovrà fare domani,
i panni da lavare nel cesto del bagno, la puntata di “Sospirando”
che si sta perdendo.
7. Oggi
Fuori sta facendo buio. Il vento s'infila dentro la giacca di
Anna, gonfiandole le maniche. Accende una sigaretta e guarda
le colline dietro la città: erano verdi un tempo, ma
ad Anna sembra siano sempre state aride. Ricorda poco di quando,
da ragazzina, saliva fin lassù per guardare il mare.
Si sedeva sulla panchina davanti alla chiesa di Marinasco verso
l'ora del tramonto e osservava in lontananza i pescherecci che
uscivano in mare, le navi cariche di container entrare nel porto,
le nuvole rosse che il buio assorbiva lentamente.
Le piacevano soprattutto le barche a vela, che segnavano la
loro rotta in silenzio. Ora nessuno ha più il coraggio
di uscire con una barca a vela, vista l'incredibile forza che
il mare è capace di scatenare. Ora il mare, sempre disabitato,
non è più un'entità che divide e unisce
le terre, ma una superficie bagnata che abbellisce il paesaggio
e segna l'infinito.
Anna si avvicina a Petra per salutarla.
«Non te ne andare così» dice Petra. «Vieni,
ti offro una birra nel bar qui a fianco. É di un compagno
e possiamo fare due chiacchiere tranquillamente.»
Anna non ha voglia di chiacchierare, ma non riesce a dire di
no.
Il locale è quasi deserto, come sono sempre tutti i bar.
Scelgono il tavolino più isolato e ordinano una birra
chiara. Anna è tesa e impaziente.
«Come hai fatto a trovarmi?» La domanda le gira
in testa da quando ha riagganciato il telefono.
«Ti ho semplicemente cercata. Dove vivi esattamente?.»
«Sulla collina ovest, nella casa che era dei miei. Quando
ero piccola spesso passavamo lì il fine settimana.»
«Ti sei sposata?»
«Sì, ma ora non la sono più» risponde
Anna leggermente imbarazzata. Non ha certo voglia di trattare
questioni personali.
«Che ne pensi della riunione?» chiede finalmente
Petra accarezzando con l'indice il bordo del bicchiere.
«Senti Petra» risponde gonfiando il petto, «io
non so perché mi hai chiamata dopo tanti anni, dopo tutto
quello che è successo. Io non so come sia la tua vita,
ma ti assicuro che la mia va più che bene com'è.»
Petra abbassa lo sguardo un istante, per poi riportarlo con
affetto su Anna.
«Ti ho chiamata perché malgrado quello che è
successo fra di noi non ce l'ho mai avuta con te. Ti conosco
bene e so quanta rabbia ed indignazione puoi provare. Non ci
credo che tu sia soddisfatta della tua vita, solo agli Amici
della Libertà le cose possono andare bene come stanno.»
«Che ne sai tu della mia vita? Io sono felice.»
«Dì un po', prendi delle pillole, vero? Quelle
blu scommetto.»
«Stai esagerando», dice Anna alzando la voce. Fa
per andarsene ma Petra le immobilizza il braccio al tavolo.
«Aspetta Anna. Non essere impulsiva, aspetta.»
Anna si risiede senza capirne il motivo. Fuori il buio ha avvolto
la piazza, illuminata da un'unica e piccola torcia.
«Non lo vedi come ci hanno ridotti? Ci hanno tolto la
dignità, la vita, la capacità di ricordare. È
una dittatura questa, come quella che hanno vissuto i nostri
nonni.»
«Ma che dici?»
«Sì, Anna, è una dittatura postmoderna quella
che viviamo. Lo era già prima della Fine, ma eravamo
troppo ciechi per rendercene conto. Si sono radicati nel potere
così profondamente da diventare essi stessi il potere:
il Campione ha televisioni, giornali, catene di negozi, controlla
le banche. E quelle pillole....»
«Le pillole rappresentano un grande progresso per l'umanità»,
la interrompe.
«Pensaci bene. Stanno modificando l'essenza dell'essere
umano, e a loro vantaggio. L'allungamento della vita riguarda
solo loro, noi non avremo mai abbastanza soldi per intervenire
sul nostro cervello ed aumentarne le potenzialità, anche
se esiste la tecnologia. Moriremo di fatica lavorando i campi
e prendendo pillole colorate che ci stabilizzano l'umore e ci
inibiscono il cervello. E questa novità dei paraumani.
Lo chiamano progresso dell'umanità, ma è solo
un modo per sottometterla.»
«A me non interessa, Petra. Anzi, sono contenta che il
Campione si sia fatto Oltreuomo, mi da sicurezza saperlo. È
ora che me ne vada.»
Anna si alza, raccoglie la giacca ed usce senza voltarsi. La
radio passa una vecchia canzone dei Baustelle che dice “Vivere
per sempre, ci vuole coraggio”. Ora sembra una frase
ironica.
8. Oggi
Gabriele ha paura. Ne ha da quando all'ospedale pubblico gli
hanno diagnosticato la malattia, ed è cresciuta con l'inizio
dei vuoti di memoria.
Si siede davanti alla scrivania e accavalla le gambe. L'ambiente
asettico del laboratorio lo mette a disagio e gli sembra strano
vedere un laboratorio così moderno nel seminterrato di
una villa liberty diroccata. È già stato un paio
di volte nel quartier generale, ma non conosce quell'ala dell'edificio.
«Io sono Antonio Parodi. Il mio collega dottor Cozzani
oggi non è potuto venire, è molto dispiaciuto.»
«Sì, mi ha avvisato.» Gabriele è stupito:
Cozzani gli aveva detto che il collega era molto giovane, ma
quel ragazzo avrà avuto sì e no vent'anni.
«Come si sente, compagno?» chiede Antonio Parodi.
«Confuso. Non credo a questa storia dell'influenza che
raccontano, secondo me è una bufala, ma vivo in un stato
di tensione costante. A volte ho dolori fisici insopportabili
che non so a cosa imputare, e quei vuoti di memoria.»
«Mi può spiegare cosa intende con vuoti di memoria?»
«Mi riferisco al passato più recente. Mi mancano
dei giorni.»
«In che senso? Mi può spiegare cosa le è
successo?»
«A fine luglio sono stato in un ospedale pubblico a causa
di una forte bronchite e mi hanno diagnosticato un'influenza
di tipo ovino. Io non gli ho creduto, sono loro le pecore! Lo
so che lo fanno solo per intimorirmi. Sa, io sono stato prigioniero
politico, loro sanno come la penso.»
«Senza dubbio» dice Antonio Parodi annuendo.
«Da agosto in poi iniziano i vuoti di memoria. Mi capita
di non poter ricordare neanche un solo minuto del giorno precedente,
come se non fosse esistito. Questo sì, mi turba molto.
E nello stesso periodo ho pure iniziato a perdere l'appetito,
e tanti chili.»
Antonio Parodi lo guarda attentamente. Ha gli zigomi sporgenti,
e due occhi azzurri e spenti incavati profondamente nel cranio.
La pelle ha il colore del legno di ulivo.
«Non deve temere. Procederemo alle analisi nel modo più
accurato possibile e scopriremo cosa sta succedendo. A lei come
a tutti noi.»
9. Oggi
Appena uscita dalla porta del bar, Anna sente il sollievo dell'aria
fresca pungerle il viso. S'incammina nella sera, che è
riuscita a infilarsi in ogni angolo della città: si è
stesa lentamente sui palazzi, coprendo di buio tutto ciò
che tocca. Poi compaiono le stelle, disordinate come delle briciole
cadute su una tovaglia.
L'illuminazione pubblica da anni è quasi inesistente
e le torce che puntellano le strade sono poche e deboli. Per
un decreto del Campione del 2016, le case devono spegnere le
luci a partire dalle nove di sera. Ora, vista da lontano, la
città di notte non sembra più una campagna piena
di lucciole.
Si può però indovinare ancora il profilo delle
colline che circondano la città e il contorno delle case
vicino al molo, dalla parte opposta. Anna ricorda di quando,
da ragazzina, passava le sere d'estate con le amiche sul lungomare:
si spostavano da una panchina all'altra, cercando di attirare
l'attenzione dei gruppetti di ragazzi che passeggiavano.
Non c'era ancora Petra allora. Era arrivata molto dopo, quando
in Anna la rabbia era talmente forte che durante la lezione
di storia contemporanea le tremavano le mani. Petra, seduta
due file più avanti nell'aula IV di Via Zamboni 38, masticava
in continuazione il cappuccio di una Trattopen.
Anna iniziò una nuova vita con Petra e i suoi amici,
scoprì un mondo dove poter sfogare quel tremolio che
le intrappolava le mani. Ma ora le mani non le tremano più:
il lavoro nei campi le ha rese forti e ruvide.
Anna decide che quel bar sarebbe stato l'ultimo ricordo di Petra.
Si lascia invadere dalla pace della notte deserta, e sente di
lasciare poco a poco dietro sé il pesante ricordo della
discussione. Il nocciolo duro che si ancora creato sotto il
suo sterno si va piano piano sciogliendo.
10. Oggi
Anna riempie la tazza di caffè di zucca ed usce nel cortile
per bagnarsi del tepore del primo mattino. Il sole spunta da
dietro la montagna mangiata dalle cave, e sparpaglia i suoi
raggi in mare. È rimasta solo la cima della Pania a ricordare
di quando la montagna, coi suoi picchi striati di marmo, riempiva
l'orizzonte. Pietra per pietra, lastra di marmo per lastra di
marmo, la montagna ancora andata pian piano assottigliandosi,
e la sua anima bianca e dura si ancora sparsa nei bagni dei
ricchi di tutto il mondo, negli atri, nelle colonne che sorreggono
le loro case.
Anna raccoglie il Giornale d'Italia che trova ogni mattina
davanti al cancello. C'era ancora un unico titolo quella mattina,
a caratteri più grandi del solito:
“Scoperto focolaio di nuova febbre mortale: sarà
presto pandemia”.
L'articolo, che copre tutte le quattro pagine, racconta che
nella provincia di Campobasso una decina di persone sono state
colte da un'improvvisa influenza ed erano morte nel giro di
un paio di giorni. La febbre, spiega l'articolo, sembra essere
di origine ovina e si trasmette con la facilità di una
normale influenza.
Anna chiude il giornale sulle ginocchia e sospira abbandonandosi
contro lo schienale della poltrona. Accende la tv sperando di
essere in tempo per ascoltare il Messaggio Giornaliero del Campione.
“Cittadini tutti, oggi la Nazione si è svegliata
con una terribile notizia. Una notizia che ci riempie di angoscia
e timore: un nuovo e sconosciuto morbo si sta propagando fra
le nostre case.
Gli incredibili progressi a cui la scienza ci ha condotti
negli ultimi anni ci permettono di assicurare una risoluzione
del problema, ma fino a quel giorno è necessario, Cittadini
tutti, che collaboriate con il vostro comportamento al benessere
della Nazione. La rapidità con cui questo virus si propaga
ci ha costretti ad adottare misure drastiche, ma necessarie:
1. Vietato salutare dandosi la mano.
2. Vietato salutare baciandosi, e baciarsi in generale.
3. Obbligo di indossare la mascherina copribocca per strada
e coprirsi il più possibile.
4. Obbligo di lavare le mani ogni mezz'ora.
5. Vietato parlarsi ad una distanza inferiore al metro e
mezzo.
6. Vietato parlare o riunirsi con più di tre persone
alla volta.
Seguiranno specifiche misure per i locali pubblici, riguardanti
la distanza minima a cui sistemare i tavoli, l'orario anticipato
di chiusura e il divieto di trasmettere musica ed organizzare
eventi culturali.
Mantenete la calma Cittadini: il Campione sta lavorando per
la Nazione. Viva la Democrazia! Viva la Libertà! Viva
il Progresso! Viva il Campione!”
Forse un'altra Fine sta arrivando, forse questa malattia porterà
a una vera conclusione, al termine di tutto ciò che di
umano è ancora presente nel mondo.
Anna ha paura: e se la febbre fosse già arrivata in paese,
avesse già contagiato i suoi vicini? Si alza e chiude
la porta con il catenaccio. Così che i muri della sua
casa la proteggano, e non entri neanche un sospiro di quell'aria
infetta.
11. Oggi
È una settimana che Anna non usciva di casa e non ha
nessuna voglia di farlo, ma deve pagare la bolletta dell'acqua
per non rischiare che le taglino il servizio di fornitura. Da
quando luce, gas e acqua sono stati “nazionalizzati nelle
mani degli Amici della Libertà”, i prezzi sono
parecchio aumentati. Ma Anna non si lamenta: la luce c'è
quasi sempre, l'acqua è spesso calda e si sente in un
certo senso parte delle compagnie di gestione dei servizi. “Quello
che è nelle mani degli Amici della Libertà è
anche nelle tue”, dice il manifesto negli uffici pubblici.
Anna passa gli elastici della mascherina dietro le orecchie
per fissarla bene al viso, e isolarsi il più possibile
dall'aria malsana che si respira al di fuori della sua proprietà.
Chiude il cancello, percorre il sentiero di terra battuta e
si avventura nei vicoli del paese, che da quando è stato
proclamato lo stato di pandemia sono quasi deserti. Le ronde
civili picchiettano i manganelli sul palmo della mano, annoiate
per la mancanza di lavoro.
Anna apre la pesante porta dell'ufficio postale e inspira profondamente,
come se si potesse mantenere in apnea per tutto il tempo che
avrebbe passato lì dentro. Non appena rilassa i polmoni
e il suo respiro riprende un ritmo normale, si sente invadere
dell'aria viziata di quel luogo. Le sembra di poter ascoltare
il rumore dei batteri che si muovono, invisibili e minacciosi,
nello spazio che la circonda. Le pare di sentirli penetrare
le strette maglie della mascherina che le copre naso e bocca,
e depositarsi sulle pareti dei suoi organi interni.
Si mette in fila davanti allo sportello e guarda le persone
al suo fianco: non hanno una semplice mascherina copribocca
come la sua, ma maschere che lasciano scoperti solo gli occhi,
e guanti di lattice trasparente che arrivano fino al gomito.
Avverte che ciascuna coppia di occhi che spunta da quelle maschere
di plastica dura e nera la sta osservando con severità.
Un dubbio la colse: e se fosse proprio lei la portatrice di
quel male incurabile? Se quel virus mortale si fosse già
impadronito del suo corpo?
Proprio Anna, che si crede tanto cauta, è in realtà
la meno rispettosa delle misure straordinarie disposte dal Campione.
Pensa che quell'inutile copribocca non impedirà ai germi
presenti nel suo sangue di spargersi nell'ambiente sterilizzato
dell'ufficio postale, ed uccidere tutti con la rapidità
di una fucilata.
Si gira verso il fondo della stanza per scappare dagli sguardi
accusatori. È lì che vede Gabriele, chinato sul
tavolino nel tentativo di compilare un bollettino postale. Esibisce
con arroganza il viso scoperto: gli era sempre piaciuto comportarsi
in modo anticonformista per farsi notare, mostrarsi diverso
dagli altri per urlare al mondo la sua esistenza.
Anna paga velocemente il bollettino e si dirige decisa verso
l'uscita, per tuffarsi finalmente nell'aria aperta che circonda
l'edificio. Spera che Gabriele non si accorga di lei e si possa
così sottrarre ad una conversazione noiosa ed inutile.
Quando muove il primo passo verso la salvezza, sente una mano
grande e calda appoggiarsi sulla sua spalla, e una voce familiare
pronunciare il suo nome.
«Ti vedo proprio bene», le dice Gabriele non appena
Anna si gira verso di lui.
Indossa una camicia di flanella a quadri bianchi e blu. Dalle
maniche rimboccate escono le braccia forti e sicure che tante
volte l'hanno raccolta. Gabriele studia il viso di Anna con
interesse e tenerezza.
«Anche tu mi sembri in forma. Sei dimagrito se non sbaglio.»
«Già. A lavorare tutto il giorno nel campo si fa
una gran fatica. Ora abito nella casa qui a fianco, vieni su
che ti preparo un tè?.»
12. Oggi
«E così sei venuto a vivere in paese», dice
Anna guardandosi attorno.
Gabriele è in piedi al suo fianco, appoggiato al bordo
del tavolo della cucina. «Preferisco non vivere isolato,
mi piace stare in mezzo alla gente. Certo, la mattina per arrivare
fino al campo mi devo svegliare prestissimo.»
«E il lavoro come va?», chiede Anna senza interesse.
«Ora bene, ma ho passato un periodaccio», risponde
Gabriele assumendo improvvisamente un'espressione seria. «Un
giorno mi arriva una lettera degli Amici della Libertà,
con tanto di timbro e tutto il resto: volevano espropriare il
mio terreno per costruire un centro benessere per la Posizione
Alta. Dicevano che si trattava di un esproprio per motivi di
“interesse collettivo”, e la collettività
mi avrebbe indennizzato con mille Soldi. Cosa ci faccio io con
mille Soldi? Ci compro dieci chili di caffè di zucca,
e poi?».
Gabriele si siede davanti ad Anna, dalla parte opposta del tavolo.
Accende una sigaretta ed inizia a molestare la punta incandescente
contro il posacenere. «Mi sono unito agli altri contadini
che avevano ricevuto l'ordine di esproprio: abbiamo manifestato,
bloccato strade, sabotato i camion dell'impresa di costruzione.
É stato duro, Anna: la repressione è stata tagliente
come immaginavamo. Una settimana chiuso in una caserma, torture,
umiliazioni, ma non sono riusciti a togliermi la dignità.
Ogni scarica di energia elettrica che mi ha attraversato il
corpo è servita solo a far crescere la mia rabbia. Quando
mi hanno liberato sono tornato dai miei compagni e ho continuato
a lottare. Alla fine abbiamo vinto.»
Anna lo guarda con compassione. Gabriele le prende le mani fra
le sue: «Ti ho pensato tanto mentre ero in isolamento.
Il pensiero di te mi dava forza.» Si alza dalla sedia
e si china verso di lei. Anna si gira di scatto non appena avverte
i peli della barba incolta di Gabriele pungerle la pelle.
«Che fai? Ci abbiamo messo due anni per lasciarci. Che
senso avrebbe baciarci ora? Non ti voglio più, Gabriele,
non ti amo e non ti desidero» lo pugnala con tono finale.
«Io non so che t'è successo» dice Gabriele
lasciandosi andare sconfitto sulla sedia. «Quando ti ho
conosciuta eri così impulsiva, così passionale.
E non solo a letto: vivevi tutto con passione.»
«Mi è successo che mi sono accorta che non ha senso
vivere la vita sognando di averne un'altra. Si può essere
felici solo accettando ed approfittando di ciò che si
ha di bello.»
«Pillole Blu, vero?» la provoca Gabriele.
«Smettila, per favore. Sembri Petra.»
«Hai visto Petra?»
«Sì, ma non è stato un incontro piacevole.
Ha perso completamente la testa.»
«Petra è una persona lucidissima. É forte
e carismatica, è la persona adatta ad essere il nostro
leader», dice Gabriele alzandosi in piedi.
«E sei sicuro che il tuo leader quando avrà il
potere si comporterà in modo diverso dal Campione? Che
forma di governo avete intenzione d'imporre dopo la vostra rivoluzione?
La dittatura della Posizione Media?»
«Il potere non sarà suo, sarà del popolo.
Petra sarà solo il tramite che permetterà al popolo
di governare. La Posizione Alta non avrà più latifondi
dove incarcerare la Posizione Bassa, l'estensione della proprietà
sarà limitata a quella coltivabile da una persona, non
esisteranno più braccianti, salariati e paraumani. La
terra sarà di chi la lavora.»
«Questa l'ho già sentita più di una volta»,
dice Anna senza più nascondere il nervosismo. «Non
avete studiato la storia tu e i tuoi compagni? Continuate a
pensare che tanto potere nelle mani di una persona possa portare
alla giustizia? Siete degli illusi, sei un illuso Gabriele»,
urla fissandolo negli occhi, con aria di sfida. «E perché
non usi la mascherina? Pensi che la tua ideologia ti possa difendere
dal virus?»
«Non c'è nessun virus, Anna. È un'invenzione
degli Amici della Libertà per creare il panico. Già
hanno fatto passare leggi contro il diritto di riunione ed altre
libertà civili: hanno fiutato la nostra presenza, la
presenza di un'opposizione che si sta organizzando.»
«Ti rendi conto che ti ostini a negare l'esistenza di
una cosa che ha già ucciso centinaia di persone? Sei
sempre stato pieno di te ma ora...» dice Anna prima di
chiudere la porta dietro di sé e scomparire tra i caruggi
del paese.
13. Oggi
Anna apre le cassette delle verdure ed inizia a sistemare le
zucchine sul banco. Le piaceva disporle parallele fra loro,
facendo in modo che i grandi fiori gialli e arancioni siano
ben visibili ai passanti. I pomodori invece li impila a piramide,
preoccupandosi di nascondere le ammaccature.
Un boato rompe il silenzio che invade il mercato, svuotato dalla
paura dell'influenza ovina. Anna si affaccia dalla colonna che
impedisce la vista della strada: in lontananza si scorge un
mucchio di persone che si avvicina urlando minacciosamente,
sventolando bandiere e impugnando pali di legno. Un carroarmato
passa davanti al banco di Anna, diretto verso il corteo.
In pochi istanti, una nebbia densa e lacrimogena riempie l'aria.
Anna sa di non poter lasciare il suo banco incustodito: quei
pazzi estremisti lo saccheggerebbero. Rimette velocemente la
verdura nelle cassette di legno e le carica sul carretto. Copre
tutto con un telo e inizia a spingere il suo carico, che le
sembra pesantissimo, verso casa. Parcheggia il carretto dentro
la sua proprietà, scosta un poco il telo che lo copre
e trova due occhi grandi e neri che la fissano impauriti.
14. Oggi
Il vento che soffia sul molo è gelido. Dopo una serie
di giornate soffocanti è finalmente piovuto, abbassando
la temperatura ai livelli stagionali.
Petra sorride guardando il berretto di lana blu che Paolo tiene
calato fino agli occhi: sembra un vecchio lupo di mare. È
abituata a vederlo in calzoncini corti, come sa che lo rivedrà
presto: malgrado sia autunno, la temperatura non regge sotto
i venti gradi per più di due giorni consecutivi.
Il sole si sta posando dietro le colline alle loro spalle, striando
di rosa le nuvole setose. I lampioni che costeggiano il molo
sono ancora lì, malgrado non funzionino da decenni. In
pochi minuti arriverà il buio.
C'è silenzio sulla banchina, e tutto sembra essersi fermato
a prima della Fine, quando era un via vai di pescherecci, containers
e pilotine. I containers, svuotati dalle razzie nel periodo
del Caos, macchiano di ruggine buona parte del golfo, nella
zona dove una volta c'era il porto mercantile. Ora era fermo
il porto, fermi i containers, fermi i pescherecci attraccati
alla banchina. Ma sono ancora lì, disposti in fila uno
accanto all'altro, con le boe e i palloni per pescare i tonni
appesi ai lati, e le reti marce accatastate sul pontile.
Petra e Paolo si fermano di fronte al peschereccio Michelangelo,
guardandosi attorno per assicurarsi di non essere stati seguiti.
Non c'è nessuno sulla banchina del molo, attraversata
solo dal sibilo del vento.
Paolo salta sul ponte di Michelangelo e tende una mano a Petra
per aiutarla a salire. La accompagna sotto coperta, dove l'odore
nauseante della nafta si mischia con un forte tanfo di pesce.
Sul fondo della cabina Paolo scosta un telo che copre un cumulo:
«Con questo arsenale facciamo bum.»
Petra sorride soddisfatta.
15. Oggi
Il camino ci mette un po' ad accendersi: non viene utilizzato
da mesi e la legna della cantina è molto umida. Anna
offre una tisana calda al ragazzo che continua a tremare.
«Non penso che ci sia bisogno di chiederti cosa ci facessi
nascosto nel mio carretto.»
Il ragazzo la guardò di sottecchi mentre beveva dalla
tazza, e accennò un sorriso.
«Come ti chiami?» continuò Anna, studiando
l'imbarazzo che lui cercava di camuffare. Doveva avere poco
più di venti anni.
«Antonio.»
«Sei stato fortunato, ho visto uno dei tuoi compagni con
la testa spaccata in due.»
«Mi denuncerai?», chiese.
«Non preoccuparti. Non vedo il motivo di quello che state
facendo, ma non sono una spia.»
«Puoi accendere la tv? Probabilmente il Campione sta lanciando
uno dei suoi messaggi.»
«Infatti, eccolo», disse Anna fissando lo schermo
con un interesse che non la muoveva da tempo.
“Cittadini tutti, è con profonda preoccupazione
che vi informo dei fatti avvenuti quest'oggi. Un gruppo di fanatici
ha assaltato i nostri militari, mentre svolgevano pacificamente
il loro lavoro di routine. Gli estremisti si sono serviti di
metodi violenti, e devono essere considerati come individui
altamente pericolosi. Non costituiscono un pericolo per la solidità
della nostra Democrazia, ma invito ad ogni modo tutta la Nazione
a prendere le dovute precauzioni nei confronti di questi gruppi
terroristi, e ad informare tempestivamente le autorità
nel caso in cui veniate a conoscenza di particolari utili all'identificazione
dei facinorosi. La nostra sicurezza, già minacciata dalla
terribile influenza ovina, è sempre più in pericolo.
Invito quindi la Nazione tutta a mantenersi all'erta e al
sicuro nelle proprie case, fino a quando l'emergenza non sarà
rientrata. Viva la Democrazia! Viva la Libertà! Viva
il Progresso! Viva il Campione!”
Anna, normalmente molto sensibile ai messaggi allarmisti del
Campione, si sentì per la prima volta in dubbio: che
quel ragazzo dallo sguardo triste fosse un terrorista le pareva
davvero strano.
Antonio si alzò ed iniziò a camminare per la stanza.
«Gli credi?»
Anna tacque imbarazzata.
16. Oggi
Anna apre delicatamente la porta della sala, va verso l'angolo
cottura e mette il caffè di zucca sul fuoco, cercando
di non fare rumore. Riempie la tazza e si avvicina al divano,
il cui pensiero dalla sera precedente esercita su di lei un'attrazione
incontenibile. L'idea di quel divano l'ha tenuta sveglia a lungo
la sera precedente, e l'ha tirata giù dal letto appena
mattino: l'inquietudine che causa in lei quel corpo snello ed
abbronzato è un pizzicorio che non la stuzzica da tempo.
S'incanta guardando Antonio dormire supino. Osserva la linea
del taglio dei capelli, che forma un triangolo sulla nuca liscia,
e si sofferma sulle braccia asciutte che avvolgono il cuscino.
Cerca poi di indovinare la forma delle natiche del ragazzo,
nascoste dal lenzuolo che Anna gli ha disteso addosso.
Antonio apre gli occhi, guarda Anna, le sorride e rituffa la
testa nel cuscino. Anna pensa a Petra, che spesso faceva quello
stesso gesto. Ricorda il corpo nudo dell'amica disteso sul letto
di casa sua, a Bologna: Anna aveva dimenticato quello che ora,
improvvisamente, le torna alla memoria con tanta nitidezza.
Le sembra di poter sentire il profumo della pelle di lei, il
calore di quell'intimità. Petra che le parlava a pochi
millimetri di distanza, accarezzandole il viso, prima di scoppiare
a ridere nascondendo la faccia nel cuscino.
Anna accarezza timidamente i capelli di Antonio, che si volta
per guardarla. Si riempie improvvisamente di una gioia che aveva
dimenticato, le ginocchia le tremano e le cosce si bagnano di
un calore insopportabile. Si alza di scatto e stringe la tazza
che tiene tra le mani.
«Vuoi un caffè?» chiede Anna allontanandosi
verso i fornelli.
«Sì, grazie. Dopo me ne andrò.»
«Dove pensi di andare?.»
«Non lo so.»
«Mi sembra troppo pericoloso andartene di qui.»
«Sì, ma non voglio metterti in mezzo. Non sei neanche
nella resistenza», dice Antonio sorseggiando il caffè.
«Sai che succede a chi nasconde dissidenti politici?»
«Puoi fermarti fin che vuoi, qui sei al sicuro.»
17. Ieri
Milano accolse Anna in un giorno nebbioso.
“Alla fine il cielo non è peggiore di quello di
Bologna”, pensò scendendo dal treno. Si diresse
lentamente verso la metropolitana, scavalcata dalla gente che
le correva affianco, caricandola d'ansia.
Il manifesto pubblicitario di una compagnia telefonica assicurava
che i suoi cellulari sarebbero resistiti all'imminente fine
del mondo, che la profezia maya collocava il 12 dicembre 2012.
Il manifesto mostrava un telefono mobile che s'innalzava in
volo sulla piramide maya di Chichen Itzá, ed Anna sorrise
pensando ad Aldo, che davvero credeva in quella profezia.
Salì sulla metro gialla e poi sulla rossa, che la portò
fino a Bande Nere. Uscì dalla stazione della metropolitana
e si avviò lungo il viale, per raggiungere la casa che
le aveva lasciato Margherita.
Entrò in un supermercato e cercò il banco frigo.
Vide i petti di pollo: erano grassi e lisci, disossati, sciacquati
e confezionati quasi sottovuoto, schiacciati tra un vassoio
di polistirolo e un velo di plastica. Lasciò il pollo
nel frigo e comprò un pacco di pasta, una birra e una
cucchiaiata di pesto al banco gastronomia. Pagò la spesa
e cercò l'appartamento di Margherita. Era stata davvero
gentile, una buona compagna: con i suoi risparmi Anna non avrebbe
mai potuto pagarsi un affitto. Doveva trovarsi un lavoro al
più presto.
Appoggiò le borse sul tavolo e si sedette sul divano,
ma non riusciva a liberarsi dall'inquietudine che aveva trovato
in metropolitana. Si alzò e andò verso la finestra
del salotto: giù in strada la gente correva sul marciapiede
e le macchine s'impilavano una dietro l'altra davanti al semaforo.
Cercò un senso a quello che vedeva, mentre la sua inquietudine
continuava a crescere.
Aprì la birra e mise su l'acqua per la pasta. Qualcosa
dentro la logorava e le toglieva l'aria.
18. Oggi
«Quanta frutta! Che c'è, hai ospiti?»
La signora Bonanni guarda Anna dal balcone della casa affianco.
A differenza della maggior parte della gente che fa delle vite
altrui il principale argomento di conversazione, la signora
Bonanni non ama abbellire i suoi racconti con episodi o particolari
di fantasia, e si attiene ai fatti nudi e crudi. Anna non l'ha
mai potuta sopportare: non regge i suoi commenti e i doppi sensi.
Quella donna maligna adora sottolineare, appena ne ha l'occasione,
la solitudine che copre la vita di Anna. Non sa che in realtà
Anna non si sente per niente sola: ci si sente soli quando si
avverte la necessità di stare con gli altri, cosa che
a lei non succede mai.
Anna gela con lo sguardo la vecchia che la provoca dal balcone,
tira le cassette della frutta dentro la sua Proprietà
ed entra in casa. Sceglie le arance più grandi e rosse
e ne schiaccia la polpa sullo spremiagrumi, mentre Antonio sistema
la legna nella cesta vicino al camino.
«Conosci Gabriele?», chiede Anna mentre versa il
succo d'arancia nei bicchieri.
«Il compagno alto con la barbetta?»
«Sì.»
«Lo conosco. È morto la settimana scorsa: influenza
ovina, dicono.»
«Santo cielo», dice Anna lasciandosi andare sulla
poltrona. Un dolore tagliente la colma, un dito premuto forte
la bocca dello stomaco. Da quando ha rincontrato Gabriele non
riesce, per quanto ci provi, a liberarsi del suo pensiero. Molti
ricordi assopiti si sono fatti vivi, a volte le sembra di poter
ricordare nitidamente intere giornate e le sensazioni che le
avevano accompagnate.
«Lo conoscevi bene?», chiede Antonio dando l'ultima
sorsata al succo d'arancia.
«Siamo stati sposati.»
«Ah, davvero?», esclama stupito. Si fa improvvisamente
serio.
«Non stavamo più insieme da molto tempo. E così
l'ha ucciso l'influenza ovina: e pensare che sosteneva che fosse
una menzogna degli Amici della Libertà.»
«E aveva ragione», esclama Antonio con rabbia. «Non
è stato ucciso dall'influenza, ma dagli Amici della Libertà.
Ho documenti che dimostrano cose che neanche ti immagini.»
«Cose di che tipo?», chiede Anna perplessa.
«Lascia perdere.»
«Stai parlando del mio ex marito e della vita di tutti.
Non puoi fare un'affermazione del genere e poi lasciarla cadere.»
«Ne parleremo un'altra volta», dice Antonio chiudendo.
19. Oggi
Anna sfila i vestiti e si mette davanti allo specchio, spazzolandosi
i capelli. È un'abitudine che le ha lasciato sua nonna,
che lo faceva tutte le sere in estate, quando Anna era bambina.
Prima di andare a dormire si sedeva davanti alla specchiera,
sorseggiando una tazza di camomilla e miele, mentre la nonna
le spazzolava lentamente i capelli.
Non ricorda sua nonna, ha dimenticato la sua infanzia. Come
si può ricordare qualcosa successo quarant'anni prima?
Esistono in realtà nella sua testa frammenti d'immagini
lontane, ma non sa a quale epoca appartengano, e non è
neppure in grado di capire se erano ricordi veri o ricostruzioni
mentali di episodi che i suoi le hanno raccontato.
Ad Anna piace guardarsi allo specchio, malgrado non sia per
nulla vanitosa: non trova alcuna bellezza nelle sue forme e
non le interessa sentirsi attraente o esserlo per qualcun altro.
Si diverte però a giocare con le espressioni del viso:
allarga le labbra, spalanca gli occhi, gonfia le guance.
A volte si avvicina a pochi centimetri dal vetro e, individuata
una ruga, ne segue il percorso fino alla fine. La prima volta
che ne ha scoperta una, pochi anni prima, l'ha accolta con gioia.
Le piacciono le rughe: senza quei piccoli solchi che le attraversano
il viso potrebbe sembrare una quindicenne. D'estate, quando
il lavoro nei campi le annerisce la pelle fino a renderla ardente,
le rughe si trasformano in sottili sentieri bianchi che le corrono
sulla fronte.
Anna si mette sotto le coperte e spenge la candela. Dopo pochi
istanti sente dei passi leggeri attraversare la stanza, e il
letto abbassarsi sotto un nuovo peso. Una mano afferrare la
sua e delle labbra umide baciarle il collo. L'odore di Antonio
le riempie le narici e le sembra abbracciare tutta la stanza.
Le sfila la maglia e dopo pochi istanti è dentro di lei.
20. Ieri
«Anche tu qui.»
Anna si voltò e si accorse di un tipo biondiccio seduto
di fianco a lei.
«Già», disse guardandolo con aria interrogativa.
«Non hai capito chi sono, vero? Abito davanti al tuo palazzo,
ti ho vista un paio di volte al supermercato. Ma è la
prima volta che ti vedo all'ufficio del lavoro», disse
il ragazzo, sfoggiando un sorriso simpatico e due occhi di un
azzurro intenso.
«È che vivo a Milano da poco tempo.»
«Benvenuta in lista d'attesa allora! Io sono Gabriele:
ingegnere, baby sitter, lavapiatti, volantinatore e imbianchino.»
Anna sorrise.
«C'è poco da ridere!», l'ammonì lui
ridendo.
«Io sono Anna: architetta disposta a qualsiasi lavoro
per tirare su due soldi.»
«Stai tranquilla, arriveranno tempi migliori», disse
Gabriele afferrando saldamente la mano che Anna gli stava porgendo,
scrollandola un poco.
«Magari no. Questa crisi potrebbe essere l'inizio della
catastrofe, non ci avevi mai pensato?»
«No, non ci avevo mai pensato, cerco di essere ottimista.
Se penso che le cose possano andare ancora peggio entro in depressione,
e già ora ci sono vicino. Sai che? Una birra potrebbe
risollevarmi di morale. Che dici se te ne offro una quando usciamo
di qui?»
21. Oggi
Il ciliegio è già carico di frutti. “E siamo
solo in ottobre”, pensa Anna chiedendosi se potrebbe iniziare
a coltivare manghi.
La notte con Antonio le ruba i pensieri e la porta lontano.
Mentre lavora, con la schiena curva sui campi, spostando sacchi
o cassette, la mente è sempre altrove. Non ha bisogno
che stia dove il suo corpo, che s'impegni sul lavoro. Può
vagare liberamente sulle colline a volo d'uccello, immaginando
la forma del mondo oltre la sua Proprietà, o cercare
di infilarsi nelle sue viscere, tentando di dipanare la matassa
dei suoi pensieri, quando sono confusi e densi. A volte cerca,
soprattutto quando fa il lavoro con piacere, godendo della bellezza
della campagna che la circonda, di ripercorrere il passato,
strappando dei frammenti di ricordi che la aiutino a ricostruire
la sua storia. Ma è un'operazione molto faticosa, e presto
abbandona il tentativo.
È sicura che ad ogni modo, per quanto il suo lavoro sia
pesante, è sicuramente migliore di quello di suo padre:
i campi che Anna coltiva sono suoi, e può decidere cosa
coltivare e come farlo. È lei a preparare la terra, lei
a seminare e raccogliere, senza schiavi della Posizione Bassa
o paraumani.
Suo papà aveva trascorso la maggior parte della sua vita
infilando, per otto ore al giorno, una rondella attorno ad un
tubo di alluminio. Costruivano macchine che venivano utilizzate
per costruire automobili, anche se negli ultimi anni suo padre
aveva iniziato a dire che forse in realtà con quelle
macchine ci facevano le gru del porto.
Anna getta l'ultimo sacco di mais sul mucchio, si asciuga il
sudore con la manica e un sorriso le si apre sul viso quando
pensa ad Antonio, che la aspetta a casa. Ha paura che sia già
riuscito a rintracciare i suoi compagni e che se ne vada per
raggiungerli, è sicura che la lascerà.
Si pulisce rumorosamente gli stivali sporchi di fango sullo
zerbino, apre la porta di casa e rimane pietrificata. Il corpo
di Antonio giace a terra in una pozza di sangue. La pelle del
viso, strappata dalla faccia, è al suo fianco adagiata
sul tavolino di un microscopio. Anna esce dalla stanza, appoggia
la testa al muro e vomita. Fa pochi passi e si lascia cadere
a terra, dove rimane un lunghissimo istante. Si rialza ed entra
nella sala dove c'è il telefono.
«Pronto»
«Sono Anna, ho bisogno di vederti subito.»
22. Oggi
Il cielo torbido minaccia di esplodere da un momento all'altro
le gocce che si nascondono nelle nuvole. Ma è un'illusione:
per quanto si possa gonfiare, la pioggia resta intrappolata
in cielo e di rado cade sulla terra rossa e bruciata dal sole.
L'autunno porta pomeriggi afosi, in cui il calore rimane chiuso
sotto la coperta di nubi, cristallizzandosi in un'umidità
appiccicosa che copre tutto ciò che tocca. La mascherina
antinfluenza imprigiona il fiato caldo intorno alla bocca di
Anna, e il sudore che cola dalla fronte le appesantisce le ciglia
e annebbia la vista.
Il paesaggio è era un monotono susseguirsi di campi aridi,
in cui il sole ha creato lunghe ferite tra le zolle di terra,
prive di vita e speranza. Un tempo, prima che l'utilizzo dei
prodotti chimici e dei semi transgenici rendessero la terra
incoltivabile, la regione era macchiata da rettangoli geometrici
e colorati: grano, mais, pomodori, viti ed uliveti. Adesso solo
più lontano, verso nord, si scorgono terreni coltivati,
sopravvissuti alla terza rivoluzione verde e ancora produttivi.
Anna cammina lenta e piena di pensieri, apprezzando lo spirito
ecologista del padre che, non avendo mai utilizzato prodotti
chimici per coltivare le terre della sua Proprietà, le
ha lasciato una speranza di futuro.
Scorge in lontananza una camionetta verde e l'elmetto di un
militare: si sente arrivare il cuore fino in gola, ma le chidono
solo la Libera Credenziale Elettorale senza fare domande. Ricorda
che da ragazza aveva spesso provato quella sensazione, quando
faceva delle azioni con i suoi compagni. Le viene in mente una
volta in cui, dopo uno scontro con la polizia, nascosta sotto
una macchina parcheggiata, sentiva i poliziotti girarle accanto
e picchiettare con i manganelli i palmi delle mani. Ricorda
la sensazione del passamontagna di lana che il sudore le appiccicava
al viso: a quei tempi quello che sta facendo ora non le avrebbe
causato alcun brivido.
23. Ieri
Anastasia galleggiava flaccida guardando Portofino. Le piaceva
ondeggiare al largo del molo del paese, mostrando le sue forme
rotonde e sensuali. Tutti la guardavano, la ammiravano, la desideravano.
I ricchi radical chic, scesi dalle loro barche a vela per fare
shopping nel piccolo centro abitato, per abbuffarsi di pesce
o prendere un aperitivo nei localini disposti a semicerchio
attorno al porticciolo, la guardavano pieni d'invidia. Anastasia
era bella, sapeva di esserlo, e tutti la volevano.
Anna salì sull'interregionale 511 per Santa Margherita
Ligure alle 7.50. Il viaggio sarebbe durato circa un'ora, e
ne approfittò per leggere:
“In principio è il grido. Noi gridiamo. Il punto
di partenza della riflessione teorica è l'opposizione,
la negatività, la lotta. Il pensiero nasce dalla rabbia,
non dalla calma della ragione2.”
A volte allontanava lo sguardo dal libro e scrutava il paesaggio
oltre il vetro sporco del treno: gallerie che scoprivano borghi
di colori, case in bilico sulle scogliere da cui s'affacciavano
i pini marittimi. Anna guardava la sua terra e pensava a quanto
fosse bella e radiosa.
Arrivata alla stazione di Santa Margherita Ligure, scese la
scalinata e si trovò nella piazzetta del paese. Ferrari,
Porche, Maserati, Bmw coupé d'epoca: il parcheggio ne
era pieno. Pensò alla vecchia Punto dei suoi, che la
immaginavano a Bologna, impegnata a preparare la discussione
della tesi. Non potevano certo sospettare che Anna stesse preparando
ben altro.
Imboccò la strada per Portofino che costeggiava la scogliera:
in un'ora circa sarebbe arrivata. Decise di godersi la bella
passeggiata, rinfrescata dal vento che portava il mare, cercando
di scacciare la tensione che passo dopo passo cresceva sempre
più. Osservava la gente andare in spiaggia, con la borsa
di paglia e le scarpe da scoglio in plastica, e si chiedeva
come facessero a convivere con la ricchezza e l'ostentazione
che si respiravano dappertutto, con quelle macchine, quelle
barche, quelle ville di lusso. Come facessero a non gridare.
Paolo la stava aspettando un centinaio di metri prima di Portofino.
Era abbronzato ed aveva un sorriso irresistibile stampato sul
volto. Era attraente e ad Anna era sempre piaciuto: la intrigava
il modo in cui scherzava per sedurla e si divertiva a flirtare
con lui. Le piaceva giocare con gli uomini, anche se in realtà
era piuttosto selettiva nella scelta dei suoi partner sessuali.
Ad ogni modo, Paolo l'avrebbe senz'altro selezionato. Petra
non sarebbe stata contenta, ma non ne avrebbe nemmeno fatto
un dramma; quello che Anna stava per fare - quello sì
- avrebbe sicuramente causato lunghe discussioni con Petra.
Paolo accompagnò Anna attraverso una scalinata intagliata
tra le case del paese, fino ad un piccolo molo nascosto dalla
vegetazione.
«Ecco qui il mio piccolo gioiellino», le disse soddisfatto.
«Non devi far altro che spostare questa levetta.»
Anna si mise muta, maschera e pinne. Si chiuse la cintura con
la zavorra attorno alla vita e Paolo l'aiutò a sistemarsi
il giubbetto equilibratore con appesa la bombola. Prese tra
i denti l'erogatore e si lasciò andare giù dal
bordo del moletto: in pochi istanti si trovò sul fondale
limpido di Portofino, sorvolò la posidonia e si fece
spazio tra i saraghi e le donzelle di mare. Sott'acqua, dove
il mondo appare fermo e muto, il suo respiro che usciva pesante
dall'erogatore sembrava essere l'unico suono.
Dopo pochi minuti, Anna si trovò sotto la pancia grassa
di Anastasia. Varata alle Isole Cayman, era uno yacht privato
di settantacinque metri di opulenza: suite di lusso, jacuzzi,
palestre e una discoteca. Anna s'infilò nel ventre cavo
e aperto di Anastasia, nascondendosi tra gli aquascooter, i
windsurf e i motoscafi che ospitava. Fece tutto ciò che
Paolo le aveva detto e lo raggiunse poi sul moletto, dove l'aiutò
a sfilarsi velocemente l'attrezzatura.
Salutò il compagno e s'incamminò verso la stazione
di Santa Margherita. A metà strada, mentre osservava
l'acqua cristallina della baia di Paraggi, sentì il botto:
era Anastasia che esplodeva la sua grassa ingordigia. Un'esplosione
compatta segnò la sua morte, sminuzzando il suo ricco
corpo in migliaia di piccoli ed inutili pezzi.
Le auto si fermarono, i passanti si affacciarono dal corrimano
guardando verso Portofino, cercando di capire cosa avesse causato
quel rombo e quella nube grigia che si stava alzando dal mare.
Anna proseguiva la sua passeggiata tranquilla, gridando dentro
di sé tutta la sua soddisfazione: nessuno avrebbe più
desiderato quell'inutile yacht. Guardò il castelletto
che aveva davanti, sul promontorio della baia di Paraggi, con
la stessa rabbia che le aveva causato la vista di Anastasia.
Non sapeva che era una delle tante tenute estive dell'uomo che
decenni dopo si sarebbe fatto chiamare Campione.
24. Oggi
Un centinaio di metri prima del secondo posto di blocco militare,
Anna imbocca un sentiero: è malmesso ed accompagnato
da un tratto di ferrovia a cui è stata rubata una fila
di binari. Cammina per circa un chilometro e trova il grande
pioppo, sotto il quale un uomo con un fucile a tracolla le fa
un cenno con la testa, indicando un cavallo.
«Mi spiace ma dovrà portare questo per tutto il
tragitto, motivi di sicurezza», le dice l'uomo estraendo
un cappuccio nero da una borsa. Anna ci suda dentro e, mentre
il cavallo si avvia al trotto, ripensa alla sensazione del passamontagna.
Dopo un tempo che le pare infinito il cavallo si ferma, l'uomo
l'aiuta a scendere e la libera dal cappuccio.
Si trova di fronte ad una villa in stile liberty, evidentemente
abbandonata da tempo: i rovi hanno inghiottito completamente
l'ala destra e l'intonaco cade a pezzi. L'uomo la conduce fino
a una piccola entrata sul lato sinistro della villa.
«Ti stavo aspettando», dice Petra aprendo la porta
di legno. Indossa una canottiera viola e una gonna lunga indiana,
di quelle che portavano da ragazze. Una pinza arancione le fissa
i capelli, che le cadono sulle spalle in piccole ciocche. “Non
ha certo l'aria di una guerrigliera”, pensa Anna.
Camminano attraverso un breve corridoio umido ed arrivano in
quella che doveva essere stata la cantina della villa. Attraversano
velocemente la stanza, dove un gruppetto di persone discute
animatamente, e ad Anna cadono gli occhi sul tavolo centrale
pieno di armi.
Arrivano finalmente in una piccola stanza, dove è stato
installato l'ufficio di Petra. Il muro è tappezzato di
mappe piene di segni e la stanza arredata con un tavolo, una
sedia, alcuni sgabelli e – cosa che Anna non vedeva da
molto tempo – un computer. “Come è potuto
sopravvivere alla Fine?”, si chiede Anna mentre si siede
al tavolo di fronte all'amica.
«Che è successo? Mi sei sembrata molto spaventata
al telefono», dice Petra rompendo il ghiaccio.
Anna prende il coraggio ed inizia: «Mi rendo conto che
nella posizione in cui siamo può sembrare strano che
ti cerchi per questioni personali. Ma davvero mi trovo in una
situazione... non sapevo a chi rivolgermi.»
«Non ti preoccupare, hai fatto bene a chiamarmi. Cosa
credi, che farei venire chiunque nel nostro quartier generale?»,
dice Petra, immaginando che Anna non abbia molte persone da
chiamare in caso di bisogno.
Guarda Anna senza espressione, posa i gomiti sul tavolo e appoggia
una mano sull'altra: «Quello che voglio dire è
che puoi parlare liberamente, non m'importa se l'ultima volta
che ci siamo viste c'è stata tensione fra noi. Se vuoi
che ti aiuti non puoi far altro che fidarti di me, rilassati
e raccontami cosa ti è successo: dall'espressione che
hai sembri averne bisogno.»
Anna si alza e si mette a camminare per la stanza: le tremano
le gambe e ha bisogno di muoverle. Sa che Petra ha ragione.
«Quando vi siete scontrati con i militari al mercato ero
lì col mio banco. Arrivata a casa, trovo un ragazzo nascosto
sotto il telo che copriva il carretto: si chiamava Antonio,
non so se lo conosci, uno studente di biologia.»
Petra assente con un lieve cenno della testa, mentre Anna cammina
per la stanza con più sicurezza: «Antonio si è
nascosto in casa mia per qualche giorno. Ieri sono entrata in
casa e l'ho trovato morto ammazzato: gli hanno fatto lo scalpo
e hanno lasciato la pelle del viso sul tavolino di un microscopio.»
«Dio, è orribile», dice Petra facendo una
smorfia di disgusto.
«Già. Mi chiedo perché l'abbiano ammazzato.»
«Benvenuta nel mondo al di fuori della tua Proprietà.
Sono tanti i compagni uccisi o che sono stati fatti sparire»,
dice Petra accavallando le gambe.
«Era così giovane, perché uccidere proprio
lui?», chiede Anna con la voce rotta.
«Antonio non era un ragazzino: stava conducendo una ricerca
sull'influenza ovina molto importante.»
«L'influenza ovina ha ucciso il mio ex marito.»
«Mi spiace», dice Petra, guardandola per la prima
volta con comprensione. «Credo che gli assassini di Antonio
siano gli stessi di tuo marito.»
«Che significa?»
«Che ciò che ha ucciso tuo marito è stato
creato da qualcuno che ha poi fatto in modo che Antonio non
continuasse le sue ricerche. Le cartelle che contenevano le
conclusioni di Antonio sono sparite dal laboratorio.»
«Ma chi?», urla Anna con rabbia.
«Lascia perdere, sarebbe un suicidio. È gente della
Posizione Alta, non ti puoi mettere contro di loro.»
«Come non mi posso mettere contro di loro? Non sei tu
a parlare di rivoluzione?»
«Sì, ma la rivoluzione non si fa da soli. Ti vedo
proprio cambiata», dice Petra dopo una breve pausa, con
tono calmo e soddisfatto. «Vieni fin qui per cercare spiegazioni,
l'ultima volta che ti ho vista non avevi certo tutta questa
curiosità. E nascondi in casa dissidenti politici. Che
c'è? Hai iniziato a ricordare?»
«Che intendi?», chiede Anna bruscamente.
«Ultimamente ti capita più spesso di ricordare
episodi del passato? È così che succede: s'inizia
a ricordare il passato e piano piano si raggiunge coscienza
della propria condizione.»
«No», risponde Anna mentendo. Ora che ci pensa Petra
ha ragione: molti ricordi del passato le sono affiorati alla
memoria nell'ultimo periodo.
«Stai mentendo, vero? Non riesco proprio a capire perché
sei così ostile nei miei confronti. Non sarà ancora
per il fatto di Sandra?», scherza Petra.
Anna abbassa gli occhi e aggrotta le ciglia pensosa.
«Non ricordi?», chiede Petra stupita.
«No, non ricordo», dice Anna a bassa voce.
«Almeno ricordi di noi due?»
«Solo alcuni fatti, ma è tutto molto confuso.»
«Dovresti proprio smetterla con quelle Pillole Blu»,
dice Petra avvicinandosi ad Anna. Le bacia leggermente le labbra,
facendola trasalire. Improvvisamente Anna ricorda tutto: il
corpo nudo di Petra contro il suo, i litigi a casa di Aldo prima
di trasferirsi a Milano, le braccia di Petra che l'avvolgevano
mentre piangeva.
Quando il suo pensiero torna nella stanza in cui si trova, Petra
è già uscita.
25. Ieri
A quell'ora, quando il sole era già tramontato, l'asfalto
non sprigionava più afa e l'aria si faceva fresca. Ad
Anna piaceva Bologna in quel periodo: l'autunno piano piano
si risvegliava e gli studenti tornavano a popolare la città.
Superate le due torri imboccò i portici di Via S. Vitale,
arrivò in Piazza Aldrovandi e girò a sinistra
per Via Petroni. Comprò un paio di Moretti da 66 da un
pakistano e citofonò. Non rispose nessuno: tenevano sempre
la musica troppo alta. Si attaccò al citofono una seconda
volta.
«Chi è?»
«Io, Anna.»
Spinse il portone con la schiena e salì fino al secondo
piano. Aprì la porta della casa di Aldo e sentì
un forte odore di chiuso e marijuana.
«Dio, si muore qui dentro. Aprite un po' la finestra.»
«Ma fa freddo», reclamò Giulia dalla poltrona
su cui era spaparanzata.
«Che dici? Non fa freddo per niente», disse Anna
spalancando la finestra della sala. «Di che stavate parlando,
rivoluzione?»
«No, tutt'altro, si spettegolava un po'», disse
Marco divertito. «Sai che Claudia è incinta?»
«Claudia? Ma dai. Che bella notizia! E che dicono, sono
contenti?»
«Un po' in paranoia ma contenti. Federico è messo
male con il lavoro e Claudia non ne ha mai trovato uno.»
Aldo spuntò da dietro il muro e guardò Anna con
gravità: «Puoi venire di là? Io e Petra
ti vogliamo parlare.»
Anna seguì Aldo ed entrò nel suo studio: trovò
Petra in piedi al centro della stanza, inespressiva e gelida.
Sembrava furiosa.
«Sei stata tu, vero?» disse Petra sbattendo La Repubblica
sulla scrivania.
Anna prese il quotidiano e lesse il titolo:
Attentato a Portofino: esplode yacht di lusso. La Marchesa
Von Robbalt tra i quattro feriti.
«Se lo meritavano, no?», disse riappoggiando con
calma il giornale sulla scrivania.
«No, Anna. Nessuno si merita di esplodere in aria»,
l'ammonì Petra. «Ti avrà aiutata Paolo,
immagino: a quello gli piace giocare con le armi e gli esplosivi.»
«Quello che hai fatto è contrario ai nostri principi»,
esordì Aldo. «Non ci resta che allontanarti dal
gruppo.»
«Lo so che è contrario ai vostri principi, ma è
perfettamente in linea con i miei», disse Anna cercando
di non surriscaldarsi troppo. «Me ne vado volentieri dal
vostro gruppetto. Continuate pure a fare la rivoluzione appiccicando
manifesti ai muri.»
Raccolse lo zaino che aveva lasciato a terra: «Me ne andrò
a Milano dopo la laurea, non mi mancherai», disse guardando
intensamente Petra. «Neanch'io ti mancherò: a te
importa solo di te stessa. E di Sandra, forse.»
26. Oggi
Anna arriva nella sua Proprietà stanca e con un mal di
testa insopportabile. Entra in cucina e getta la mascherina
antinfluenza sul tavolo, si versa un bicchiere d'acqua ed ingoia
una Pillola Blu, sperando la calmi.
Prende un broccolo dal cesto della verdura, lo sciacqua e separa
i fiori dal gambo: li mette a soffriggere con olio e aglio,
mentre il gambo lo mette da parte per la conserva sottaceto.
Taglia a fettine il formaggio che ha scambiato al mercato con
un chilo di patate e scalda le tortillas di mais preparate il
giorno prima. Anna è molto orgogliosa del suo mais: non
ha solo quello giallo, che gli europei hanno preso agli indigeni
messicani, ma ha pannocchie blu, rosse e nere. La varietà
che la natura ha regalato alle popolazioni centramericane si
ritrova intatta nei suoi campi.
Si siede a tavola e, malgrado la Pillola Blu, non riesce a smettere
di pensare. Finita la cena decide di coricarsi nel letto ma
Gabriele, Petra e il corpo senza vita di Antonio non le danno
tregua: è ossessionata dalla stanza in cui lo ha trovato,
immerso nella pozza di sangue scuro e pulsante.
Verso le due del mattino, quando si è ormai arresa all'insonnia
e ai fantasmi che popolano l'oscurità della sua camera,
scende dal letto e va nel ripostiglio. Sposta le cose che si
trovano su un vecchio baule e cerca di togliere la polvere che
lo ricopre. Trova alcuni album di fotografie e li porta in camera,
sedendosi sul letto per sfogliarli: centinaia di immagini si
susseguono una dietro l'altra, ripercorrendo un passato dimenticato
che ora torna attraverso quelle foto: un luogo, un viso, il
richiamo all'odore di una stanza, al sapore di una cena tra
amici. È tutto lì: i suoi genitori e sua nonna,
Gabriele, Petra, Aldo, Paolo e Margherita, la sua casa di Bologna,
quella di Aldo, le domeniche con la famiglia in campagna, nella
casa dove ora vive. È la prima volta che sente l'esigenza
di riappropriarsi del suo passato, della sua storia. Non le
è mai interessato, ha sempre preferito non sapere da
dove viene e dove ha sperato di poter arrivare.
Ora le immagini dimenticate sono tutte lì, una dietro
l'altra. Il dolore che le brucia il petto la scalda sempre più,
ora che sembra tutto più chiaro, ora che il suo passato
le regala una capacità analitica, le impone una coscienza.
Tra le pagine di un album trova un ritaglio di giornale ripiegato
con cura, datato ottobre 2014:
L'idea che sta alla base dell'oltreumanesimo è che
le scoperte scientifiche e tecnologiche possano aumentare le
capacità fisiche e cognitive degli esseri umani, migliorando
gli aspetti della vita umana che sono considerati indesiderabili,
come la malattia e l'invecchiamento, anche in vista di una trasformazione
postumana. Il concetto di oltre-uomo, di chiara ascendenza nietszchiana,
può condurre a separazioni e discriminazioni di natura
sociale fra i migliorati/modificati (in quanto detentori delle
risorse economiche necessarie) e chi non lo è, rischiando
di sfociare in un contrasto tra “superiori” ed “inferiori”.
L'oltreumanesimo è quindi una dottrina pericolosa,
e la sua diffusione va contrastata con tutti i mezzi possibili.
Anna appoggia la testa al cuscino e finalmente piange. Non lo
faceva da mesi, forse anni. Piange finché i visi dei
suoi defunti vengono inghiottiti dalla stanza e crolla addormentata,
sfinita.
27. Oggi
Nicola si passa la mano sulla guancia: è ora di farsi
la barba. Guarda oltre la finestra la moglie mentre innaffia
le piante in cortile, incrociano gli sguardi e si scambiano
un sorriso. Cerca di non farsi vedere preoccupato per non sentirsi
costretto a raccontarle tutto, deve proteggere Marta dalla paura
che gli ha preso la gola e che sta in tutti i modi cercando
di dominare.
Bagna la saponetta preparata dalla figlia e se la sfrega fra
le mani, fino a creare una schiuma che cosparge sulle guance
con movimenti lenti e circolari. Prende il rasoio e lo guida
lungo il collo. Lo batte poi sul bordo del lavandino per liberarlo
dai peli che si sono infilati tra le lamette, e si rasa anche
le guance. Si passa un asciugamano sulla faccia ed entra nella
doccia: il getto di acqua fresca gli sembra capace di sciacquare
anche i pensieri.
Esce dal bagno e va verso la camera da letto, punto dal freddo
che gli intirizzisce la pelle nuda. Infila un paio di pantaloni
blu e si guarda riflesso allo specchio mentre abbottona lentamente
la camicia. Liscia i pochi capelli che gli sono rimasti, indossa
un impermeabile e prende la sua valigetta in pelle, infilando
nel doppio fondo il fascicolo che ha nascosto sotto il mucchio
di biancheria sporca. Esce in giardino e si avvicina a Marta,
intenta a curare i suoi fiori.
«Io esco, ci vediamo più tardi.»
«Ok. Dove vai?»
«Devo vedermi con una persona.»
«Come sei misterioso in questi giorni. Che c'è,
hai un'amante?»
Nicola le sorride e la bacia sulla fronte, prima di allontanarsi
con il cuore stretto nel petto.
28. Ieri
«Consegna cataloghi Mobilifelici, mi può aprire
il portone per cortesia?»
«No, non apro agli sconosciuti.»
“Ma va a quel paese”, pensò Anna pigiando
un altro tasto del citofono. «Consegna cataloghi Mobilifelici,
mi può aprire per cortesia?»
«Sì, ma si ricordi di chiudere bene il portone
quando esce che Milano è piena di zingari.»
Anna prese tre pacchi di cataloghi dal carretto ed entrò
nell'androne del palazzo. Strappò l'involucro che li
conteneva e li inserì velocemente in ciascuna buca delle
lettere. Uscì dal portone preoccupandosi di non farlo
chiudere, per permettere a qualsiasi “zingaro” di
entrare per rubare, e continuò a spingere con fatica
e controvoglia il suo pesante carretto. Iniziava a piovere una
pioggia che si fece sempre più fitta, il cielo tuonava
e la sua giacchetta non avrebbe retto più di tanto. Una
macchina entrò in una pozzanghera a grande velocità,
svuotandogliela addosso.
Anna si fermò sul marciapiede, sola tra i passanti e
completamente bagnata. Non poteva credere che le stava succedendo
davvero, dopo tanti anni di università passati inseguendo
il suo sogno d'architetta, com'era possibile trovarsi con un
lavoro del genere per cinque euro l'ora?
Non capiva come fosse possibile che la gente non si ribellasse.
Quelle persone che le correvano attorno, massa di precari plurilaureati,
erano consapevoli dell'ingiustizia che vivevano ogni giorno?
Sapevano di guadagnare così poco perché qualcuno
sopra di loro guadagnava troppo?
Prese il carretto e lo scaraventò contro il muro. Si
diresse di corsa verso la metropolitana, sotto lo sguardo stupito
di un cameriere che si trovava fuori dal bar. L'unico in quella
moltitudine che aveva fatto caso al suo gesto.
29. Oggi
Anna ingoia una Pillola Blu, scende con fatica dal letto e va
lentamente verso il bagno. Si mette sotto la doccia, dove rimane
una decina di minuti guardando il getto d'acqua che le si rompe
sul naso. Si asciuga con un asciugamano pulito e si guarda allo
specchio: le lacrime della notte precedente le hanno gonfiato
gli occhi fino a renderli una piccola fessura che lascia intravedere
solo il suo iride nero. Si cosparge di crema solare e indossa
gli abiti da lavoro.
Scende in cucina e mette il caffè di zucca sul fuoco,
taglia due fette di pane e le cosparge di burro e marmellata
di fichi. Si siede sulla poltrona, sorseggiando il caffè
e mangiando controvoglia il pane: si sente apatica e non ha
voglia di far niente, solo continuare a dormire per evitare
di pensare. Il sonno getterà nell'inconscio ciò
che in stato di veglia non è in grado di sopportare.
Guarda la sua Proprietà che si estende fino al termine
della collina e decide di non lavorare. Il cielo si è
improvvisamente trasformato in una coperta grigia da cui cade
una pioggia sottile ed insistente, che batte sulla campagna
bagnandola di tristezza. Sente l'angoscia premerle lo stomaco:
ha bisogno di riposarsi, mangiare e trovare un modo per sciogliere
quel peso che la opprime.
Sente bussare alla porta, trasale: possono essere la polizia
o i militari. Forse qualcuno ha scoperto che nascondeva Antonio
in casa sua, che è stata sposata con Gabriele o che si
è incontrata con Petra.
Appoggia le spalle al muro e guarda di sbieco oltre la finestra,
facendo in modo che da fuori non s'intraveda la sua figura.
Davanti alla porta vede un uomo ritto sotto la pioggia, con
i capelli radi e brizzolati. Non porta la mascherina antinfluenza
e regge una valigetta di pelle.
30. Ieri
Qualcuno suonò il campanello. Tutti nella stanza si zittirono,
mentre i battiti del cuore acceleravano rumorosamente.
Anna raccolse il respiro e andò verso la porta. Attraverso
lo spioncino vide un ragazzo la cui figura era ingigantita dalla
lente, con un cartellino del Comune di Milano appeso alla camicia:
doveva essere del censimento. Si assicurò che ridiscendesse
le scale e si girò verso i ragazzi seduti nel salotto:
«Tranquilli, nessun pericolo».
Entrò in cucina e spense la moka che stava bollendo,
versò il caffè nelle tazzine e le dispose su un
vassoio.
«Grazie Anna», disse Edoardo quando la vide entrare
con il caffè. «Quindi siamo d'accordo. Anna si
occupa di gestire le relazioni con Paolo: lo chiama, gli spiega
esattamente di che cosa abbiamo bisogno e tiene in casa sua
l'esplosivo che Paolo porterà con sé. Martina
e Gabriele passeranno la settimana sorvegliando la zona dell'azione,
informandoci su tutto ciò che noteranno. Io e Marilena
ci occuperemo di piazzare l'esplosivo sotto il traliccio dell'ENEL.
L'azione si svolgerà nella settimana del 15 maggio, i
dettagli li decideremo durante la prossima riunione».
Tutti i presenti espressero il loro accordo, mentre Anna se
ne stava pensierosa e muta sulla sua poltrona.
«Che c'è Anna, ti sembra che qualcosa non vada
nell'operazione?», chiese Edoardo preoccupato.
«No, compagni, non c'è nulla che non va nel modo
in cui stiamo organizzando l'operazione. È che non ne
vedo lo scopo in un momento come questo, non mi sembra certo
prioritaria.»
«In che senso?», chiese Martina.
«Ve l'ho già detto, io sento che sta per succedere
qualcosa di grosso, qualcosa che ci fotterà molto più
di quanto non faccia ENEL. Penso che dovremmo prepararci ad
affrontare la situazione piuttosto che piazzare bombette qua
e là.»
Gabriele sospirò, guardandola negli occhi.
«Ne abbiamo già parlato, Anna», intervenne
Edoardo, spazientito. «Questa tua sensazione è
condivisibile, ma è una sensazione. Non possiamo mobilitarci
contro qualcosa che non sappiamo cos'è, e che forse neanche
esiste.»
31. Oggi
«Buongiorno signora, mi chiamo Nicola, Nicola Rocchi.
Sono venuto per portarle notizie di Antonio Parodi.»
Anna ascolta dall'altra parte della porta, con la mano tremante
afferrata alla maniglia.
«La prego, mi faccia entrare», prosegue Nicola.
«Entri, non è sicuro stare là fuori»,
dice Anna aprendo la porta, dopo aver controllato che non ci
sia nessuno intorno alla casa.
Nicola struscia con energia le scarpe infangate sul tappettino
ed entra. Sfila l'impermeabile gocciolante e lo porge ad Anna,
tenendolo davanti a sé con la punta delle dita come un
lenzuolo da ripiegare. Anna lo mette sull'appendiabiti, si asciuga
le mani nel grembiule che indossa e guarda Nicola da capo a
piedi.
«È davvero zuppo», constata. «Venga,
si accomodi.»
Raccoglie un po' di legna dal mucchio e cerca di accendere il
camino. «Così almeno si asciuga. Questa stanza
è così umida...»
Nicola la osserva imbarazzato dalla poltrona. Tiene la valigetta
sulle ginocchia, stringendola come un bambino un peluche. Anna
dà un'occhiata alla valigetta e si chiede cosa possa
contenere di tanto importante, mentre con la pinza muove la
legna che inizia ad incendiarsi. Tira un sospiro per prendere
coraggio: «Che genere di notizie ha su Antonio?».
Nicola si morde le labbra e per un istante guarda a terra: «Faccio
parte della resistenza, o per meglio dire, appoggio i compagni
ribelli. Spesso do una mano al quartiere generale per quanto
riguarda le questioni logistiche. Qualche giorno fa, mentre
ordinavo il ripostiglio in cui teniamo vecchi documenti, ho
trovato questo.» Nicola apre la valigetta e dal doppio
fondo estrae un fascicolo. «Sono i risultati della ricerca
di Antonio Parodi sull'influenza ovina. Il documento è
stato rubato dal laboratorio in cui lavorava, ma evidentemente
Antonio aveva previsto la possibilità e ne ha nascosta
una copia nell'archivio, sapendo che qualcuno prima o poi l'avrebbe
trovata.»
Anna guarda stupita il fascicolo che Nicola teneva in mano.
«Com'è arrivato a me?», chiede quasi balbettando.
«Quando ho trovato i documenti sono corso dalla compagna
Petra. È stata Petra a dirmi di cercarla, dice che è
importante che ne prenda visione.»
«L'ha letto?» chiede Anna interrompendolo.
«Sì. Quello che c'è scritto è spaventoso,
e ben documentato. Le lascerò il fascicolo e tornerò
fra tre giorni, in modo che abbia il tempo di leggerlo con calma.
Lo nasconda bene e non faccia copie. Lo dico per la sua sicurezza:
se vengono a fare un controllo in casa sua e lo trovano è
spacciata.»
32. Oggi
Anna si trova nuovamente sola nel salone grande e pieno di silenzio.
Non riesce a sopportarlo, cerca un vecchio registratore che
tiene in ripostiglio e libera un sacchetto pieno di audiocassette
dalla montagna di oggetti che lo seppelliscono. Ne inserisce
una a caso nell'apparecchio, preme su PLAY e finalmente archi,
fiati e pianoforte iniziano a mescolarsi al calore emanato dal
camino. È musica classica, Anna non sa cosa sia ma si
addice al suo umore teso e speranzoso.
Prepara una camomilla, si siede sulla poltrona e appoggia il
fascicolo sulle ginocchia. Rimane a guardarlo per qualche minuto,
come si guarda un attrezzo di cui non si capisce l'utilità.
Sono più di 100 pagine, di cui molte scritte in un linguaggio
scientifico difficile da interpretare.
Dopo aver letto l'ultima parola sospira profondamente, appoggia
la testa alla poltrona e chiude gli occhi, lasciando cadere
le lacrime che si sono raccolte sotto le palpebre. Che fare
ora? Chiamare Petra? Aspettare Nicola? Deve stare attenta a
non agire d'impulso. Poi il sonno la vince.
33. Ieri
La luce recise lo strato di nuvole e smog, filtrando nella stanza
attraverso le tende rosse. Anche a Milano a volte c'era il sole.
Anna aprì gli occhi lentamente e vide Gabriele che dormiva
accanto a lei. Le teneva la fronte appoggiata alla schiena e
il braccio a peso morto sul fianco, bloccandola al letto. Lo
guardò e lo trovò bello. Poi affondò di
nuovo la testa nel cuscino, aspettando inutilmente di riprendere
sonno.
Dopo un po' Gabriele spense la sveglia, le diede un bacio sulla
testa e si alzò con energia.
«Sei sveglia? Che fai, non ti alzi?»
«No, non penso che oggi mi alzerò.»
«Che dici? E il lavoro?»
«L'ho lasciato ieri. Mi sono rotta le palle di tirare
un carretto pieno di cataloghi per cinque euro l'ora. Sono architetta
e non capisco perché dovrei fare altro, tutti dovrebbero
fare il lavoro che vogliono fare», disse con tono fiacco,
senza muovere il viso dal cuscino.
«Hai ragione, ma bisogna pur campare in qualche modo»,
rispose Gabriele urlando dalla cucina. Rientrò portando
due tazzine di caffè, ne appoggiò una sul comodino
di Anna e ci annegò dentro il cucchiaino dopo averlo
girato nella sua.
«Ho paura, Gabri. Sento che sta per succedere qualcosa
di catastrofico, che sta crollando tutto e noi passiamo l'ultimo
periodo che abbiamo a disposizione lavorando, invece di godercela.»
«Ancora con questa storia, Anna? Di che ultimo periodo
stai parlando?»
«Sento che sta arrivando la fine.»
«La fine di che?», chiese lui con pazienza.
«Non lo so, del Liberismo forse.»
«Magari!»
«Magari si potrebbe dire se fossimo pronti, ma non lo
siamo affatto. Che sarà se tutto crollerà improvvisamente?
Il caos, e chiunque ne potrà approfittare.»
«Se il liberismo crollasse sarebbe una gran festa, e troveremo
subito un sistema migliore con cui sostituirlo. Non ci vorrà
tanto, voglio dire, peggio di così!»
«Tu non capisci e mi tratti come una pazza.»
«Senti Anna: io ora vado a imbiancare la casa della mia
vicina e stasera mi bevo una birra con Beppe. Tu intanto ti
rilassi e smetti di farti seghe mentali su cose che non stanno
né in cielo né in terra. Il liberismo purtroppo
è vivo e vegeto amore mio, non ci sarà nessuna
catastrofe.»
Indossò velocemente una maglietta macchiata di vernice
bianca e si abbassò sul letto, baciandole le labbra.
«E per favore alzati di lì che non ti posso vedere
in questo stato. Ci vediamo domani», disse prima di chiudersi
dietro la porta.
Anna rimase nel letto, nascose la faccia sotto il piumone e
strizzò con forza gli occhi per non lasciarli piangere.
34. Oggi
«Sono Nicola.»
Anna guarda oltre la finestra per assicurarsi che sia davvero
Nicola e apre la porta. Nicola la saluta con un cenno del capo
e si dirige sicuro verso la poltrona. Porta con sé la
stessa valigetta, che appoggia sulle ginocchia.
«Ha letto, immagino.»
Anna annuisce.
«Mi può restituire il fascicolo, quindi»,
dice Nicola con tono calmo.
«Sì, certo.» Anna porge il fascicolo, che
Nicola mette nel doppiofondo.
«Lei sa perché Petra ha voluto che leggessi la
ricerca?»
«No, sinceramente non so nulla di lei, signora. Petra
m'ha detto di farle avere il fascicolo, e io ho ubbidito agli
ordini. Ciò che vogliamo costruire è una società
di uguali, ma finché non raggiungeremo il potere dobbiamo
rispettare una catena di comando, una gerarchia, come un esercito.
L'ultimo anello della catena - io in questo caso - non è
tenuto a sapere tutto.»
«E siete armati come un esercito?», chiede Anna
maliziosa.
«Io sicuramente no, sono un fifone e non ho mai sparato
in vita mia!», risponde eludendo la domanda.
Anna si alza e inizia a camminare per la stanza, respira profondamente
e trattiene il fiato per qualche secondo. «Sono due giorni
che non faccio che pensare a quello che ho letto. Voglio sapere
i nomi di chi ha ucciso Antonio e il mio ex marito. Lei è
disposto ad aiutarmi?», chiede Anna guardandolo con fermezza.
Nicola alza le sopracciglia stupito. «Io? Lei può
fare quello che vuole, signora, ma io non ho nessuna intenzione
di farmi coinvolgere in questioni pericolose e su faccende che
non mi riguardano. Non sono il tipo di persona adatta a questo
genere di cose: c'è un motivo se ho sempre appoggiato
la resistenza solo per questioni logistiche» dice alzandosi
dalla poltrona. «È stato un piacere conoscerla.»
«Il piacere è stato mio», dice Anna stringendo
la mano che Nicola le porge. «E grazie per essere venuto
fin qui.»
«Ordini, ho solo ubbidito.»
Nicola fa un leggero cenno di saluto, sorride debolmente e se
va.
Anna si abbandona sul divano, stanca e preoccupata. Ha bisogno
dell'aiuto di qualcuno, ma non ha nessuno. Per la prima volta
in vita sua si sente sola.
35. Oggi
I pomodori sono molto maturi: se non li vende li dovrà
buttare. Anna carica la cassetta sul carretto e va a recuperare
le patate e le mele che ha lasciato nel campo. Le trasporta
con fatica: sono pesanti e da tempo, a forza di portare pesi,
è costretta a convivere con il mal di schiena. Ad ogni
modo si sente meglio: dopo giorni passati a letto o alla finestra,
guardando la pioggia cadere, è finalmente riuscita ad
animarsi. La vista del sole e l'idea di potersi bagnare del
suo calore le hanno dato la forza per andare al mercato.
Spinge il carretto fuori dalla sua Proprietà, raccoglie
il Giornale d'Italia che trova davanti alla porta e la
chiude a chiave. La mascherina antinfluenza non la porta più,
ora che sa non avere nessuna utilità, e non le importa
se la gente la guarderà male. Arrivata nella piazza del
mercato, al centro del paese, sistema il banchetto al solito
posto.
«Tutto bene, signora?», le chiede l'uomo che vende
formaggi nel banco a fianco. Anna pensa che da decenni la gente
a malapena si saluta, ma che un tempo era comune parlare con
le persone con cui si condivideva uno spazio.
«Sì tutto bene, grazie. E lei?», replica
Anna guardando il suo vicino ordinare la merce.
Prende il Giornale d'Italia e legge il grande titolo che capeggia
in prima pagina: “Siamo salvi: trovato il vaccino per
l'influenza ovina”. Lo stupore le accelera i battiti
del cuore e prosegue nella lettura:
“Il Campione lo aveva promesso. Il vaccino per l'influenza
ovina è stato trovato in tempo record, e proprio dai
suoi ricercatori: è infatti di proprietà del Campione
la ditta farmaceutica che ha annunciato la grande scoperta.
Il prodotto, che si chiama Nosirveparanada, da domani sarà
reperibile nelle farmacie di tutta la Nazione. Il Campione ha
inoltre annunciato che, per salvare dalla pandemia i bambini
e gli anziani – categorie verso cui ha sempre mostrato
particolare sensibilità -, lo Stato comprerà
ingenti quantitativi di vaccini, che a partire da mercoledì
saranno disponibili in tutti gli ospedali.”
Anna chiude il giornale e tira un sospiro. Il progetto degli
Amici della Libertà è un disegno sempre più
chiaro.
«Mi dà un chilo di zucchine per queste?»,
chiede una signora anziana con i capelli arruffati, mostrandole
delle saponette. «Le ho fatte io, sono molto delicate
per la pelle.»
«Va bene», dice Anna dopo averle annusate.
«Lei già non porta più il copribocca?»,
chiede la signora, il cui viso è quasi interamente tappato
da una mascherina. «Ha già fatto il vaccino forse?»,
dice indicando il quotidiano appoggiato sul banco.
Anna mette le zucchine nel sacchetto di carta e lo porge alla
signora: «No, non l'ho fatto.»
«Finalmente siamo usciti da quest'incubo», dice
l'anziana. «Siamo salvi. Grazie a Dio e al Campione.»
36. Ieri
Anna stava in piedi sul tram, schiacciata tra schiene, borse
e tette, tenendosi al corrimano e con lo sguardo fisso a terra.
Si fece spazio nella calca, sgusciò fuori e guardò
il cielo: grigio e compatto, come sempre. Si strinse nel giubbotto
e camminò velocemente verso casa.
Mentre stava tentando di infilare le chiavi nella serratura,
il portone si aprì scoprendo la signora del terzo piano
che usciva di fretta, con la pelliccia di chissà quale
animale morto legata al collo ed un minuscolo cane glabro al
guinzaglio. Guardò Anna negli occhi, ma non mosse neanche
un muscolo del viso in segno di saluto.
“Stronza”, penso Anna salendo gli scalini due a
due. Entrò in casa sbattendo la porta e si sedette sul
divano, dove rimase immobile guardando davanti a sé per
qualche minuto, con le mani dentro le tasche del giubbotto e
il collo rincalcato nel bavero. Si alzò di scatto, tirò
la giacca sul divano e sfilò le scarpe aiutandosi con
i piedi. Accese il computer, aprì un file openoffice
e iniziò a scrivere: i versi scorrevano uno dopo l'altro
sullo schermo con la stessa facilità con cui li trovava
dentro di sé. Mise un punto e rilesse, rivedendo nelle
sue parole tutta l'angoscia che provava nel sentire la Fine
avvicinarsi. Ne era sempre più certa, anche se nessuno
le credeva e i suoi compagni la deridevano.
Si preparò un piatto di pasta che accompagnò con
una Pedavena fresca. Sedette sul divano e accese la tv per guardare
il notiziario, che non faceva che confermare la sua impressione.
L'Europa era quasi interamente bruciata dagli incendi, il Sud-Est
Asiatico ricoperto d'acqua, in America Latina i colpi di stato
erano all'ordine del giorno, mentre in Afghanistan e Medio Oriente
proseguivano guerre il cui inizio era così lontano che
le cause si erano perse nella memoria degli eserciti. Assassini
vestiti da presidenti, con eleganti giacche italiane e le guance
grasse e rosse, assicuravano che la situazione fosse assolutamente
sotto controllo.
Anna finì la cena, lavò i piatti e si rimise a
scrivere. Sentiva di poter svuotare la sua inquietudine in quei
versi semplici, ma la paura no, quella non la lasciava. Spense
il computer e si avvicinò alla finestra: fuori la città
aveva abbandonato la frenesia diurna e si era arresa al silenzio.
Le strade erano illuminate ma deserte, percorse solo da qualche
ubriaco di ritorno a casa.
Indossò un paio di jeans, una maglietta a maniche lunghe
e una felpa nera. Si tirò su il cappuccio, afferrò
una bomboletta di vernice rossa e uscì, scendendo le
scale velocemente. Camminò dentro la fresca e vuota notte
milanese, fermandosi di tanto in tanto per scrivere sui muri:
“La Fine sta per arrivare”, “Prepariamoci
al peggio”, “La catastrofe è inevitabile”.
Forse qualcuno, leggendole, avrebbe pensato che non erano le
parole di una pazza.
37. Oggi
Anna impila le cassette sul carretto e le copre con un telo
di plastica.
«Arrivederci», dice al signore dei formaggi prima
d'incamminarsi.
«Arrivederci a lei», risponde stupito del saluto
spontaneo.
La giornata di mercato è andata bene e il buon risultato
ha alleggerito il peso del carretto, che Anna inizia a spingere
per il vicolo che esce dal paese. Il borgo è tornato
al suo originario aspetto medievale da quando, dopo la Fine,
le automobili non percorrono più il centro.
Anna raggiunge la fine della discesa, dove il pavimento di sanpietrini
lascia il posto a una strada asfaltata che l'incuria degli ultimi
decenni ha riempito di buche ed avvallamenti. La porterà
fino alla sua Proprietà, un paio di chilometri più
a ovest, costeggiando la collina su cui s'appiglia il borgo
antico. L'intreccio di vicoli stretti, tipico dei paesi della
zona, e la grande chiesa che si affaccia sulla piazza del mercato
sono sopravvissuti alle pestilenze medievali, alla caccia alle
streghe, alle guerre mondiali e alla Fine del capitalismo: il
borgo è ancora intatto e bello, noncurante dei cicli
che sconvolgono la vita umana.
Anna spinge il suo carretto, cercando di evitare le buche che
rallenterebbero il suo cammino, respirando a pieni polmoni il
profumo dei fiori cresciuti sul bordo della strada. La pioggia
dei giorni precedenti ha rinvigorito la natura, martoriata dal
sole che solitamente batte senza sosta.
Guarda la collina scendere dolcemente alla sua sinistra, formando
la valle in cui durante i secoli passati la città ha
preso forma. Si è sviluppata intorno ad un piccolo nucleo
di pescatori e ha poi incorporato i paesi vicini, dormitori
degli operai delle fabbriche sorte nell'entroterra, fino a diventare
la grande città che è oggi. Grande ma disabitata,
svuotata dalla Fine che ha cacciato i suoi abitanti nelle campagne
attorno, alla ricerca di qualcosa da mangiare, di una ragione
per continuare a vivere nonostante la povertà, la fame,
la morte di quegli anni bui.
Ad Anna sembra tanto lontano il periodo del Caos, la paura e
le razzie, ora che ne ha ritrovato la memoria, ora che ricorda
chi era allora e come ha resistito alla Fine del Liberismo,
che per molti era stata la fine della vita, per altri l'inizio
di una nuova speranza.
38. Ieri
I quotidiani gratuiti che distribuivano nella metro erano sempre
pieni di notizie insignificanti. La gente era stata abituata
a dare peso al nulla, a riempirsi la testa di informazioni leggere
e senza nessuna rilevanza per la coscienza, che si svuotava
tanto da far perdere al cervello la capacità di attivarsi.
Anna tirò il giornale dal suo divano, sistemò
la coperta in modo da isolarsi dal freddo e raccolse il libro
da terra:
“La rivoluzione non dev'essere un momento insurrezionale
con cui prendere il potere, situato in alto, e modificare la
società. Rivoluzione dev'essere invece allargare dal
basso le esperienze autogestionarie, contropotere, fino a farle
diventare la “società” tutta, la cui gestione
dall'alto sarà poi svuotata di significato dal cambiamento
strutturale della società stessa.3”
Si appoggiò il libro aperto sulla pancia con la copertina
rivolta verso l'alto, e rimase a riflettere qualche minuto.
Poi cercò il telecomando sul divano, tastando con la
mano lo spazio tra lo schienale e il cuscino su cui era sdraiata,
e si mise a fare zapping in tv. Si fermò su Lost, una
serie statunitense su un gruppo di sopravvissuti a un disastro
aereo, che ai tempi in cui era uscita la teneva incollata allo
schermo. Ricordava che allora il giovedì sera era dedicato
a Lost, niente avrebbe potuto trascinare fuori di casa Anna
e la sua coinquilina.
Le trasmissioni s'interruppero durante una scena che teneva
col fiato sospeso. Anna imprecò mentre partiva la sigla
del notiziario, che lasciò spazio a una giornalista seria
e preoccupata. Si alzò sbuffando e aprì la credenza,
tagliò una fetta di pane e la cosparse di Nutella. Poi
versò un bicchiere di succo d'arancia e si sedette nuovamente
sul divano guardando Tina, che si godeva il cuscino che le faceva
da cuccia a pancia all'aria, come sempre. L'odore della Nutella
animò la cagnetta: si avviò scodinzolando verso
il divano e le appoggiò il muso sulle ginocchia.
«No, Tina, la Nutella non è per te. Guarda lì
la tua ciotola, è ancora piena di crocchette. Che hanno
queste crocchette che non ti piacciono?»
Tina la guardò con occhi compassionevoli.
«Fammi vedere il telegiornale in pace, piccolina»,
disse Anna accarezzando il pelo nero e ruvido della cagnetta.
La giornalista guardò la telecamera con gli occhi spalancati
e lesse il foglio che teneva in mano:
Gentili telespettatori, interrompiamo le trasmissioni per
informarvi che le borse dei valori di tutto il mondo sono crollate
e le banche hanno chiuso gli sportelli. Molti paesi hanno bloccato
le frontiere ed è stata annunciata un'imminente crisi
alimentare. Il panico si sta diffondendo tra la popolazione,
che si sta riversando nelle strade. Il Presidente rassicura:
“Faremo del nostro meglio per contenere...”
Anna rimase a fissare lo schermo per un lunghissimo istante,
senza guardare le immagini che materializzavano la Fine del
Liberismo. Entrò in camera, s'infilò con fatica
un paio di stivaletti e uscì di fretta in strada. Davvero
non sapeva cosa si sarebbe potuta aspettare fuori da quella
porta.
39. Oggi
Anna si lascia distrarre dalle forme che uno stormo di uccelli
compone nel cielo, ma cambiano troppo rapidamente per indovinarne
la figura. Perde il controllo del carretto e lo vede affondare
lentamente in una pozzanghera piena di acqua e fango. Impreca,
afferra il carro con entrambe le mani e lo tira verso di sé
con forza: le ruote escono dal pantano, ma una volta raggiunto
il bordo della buca vengono ringhiottite dal fango. Prova nuovamente,
ma neanche il secondo tentativo riesce.
Si ferma per riprendere fiato, appoggia le mani sulle ginocchia
e respira profondamente, finché il cuore non ritrova
il suo battito regolare. Guarda la città che si estende
sotto la strada, e pensa all'ultima volta che l'ha vista: l'incontro
con Petra, la riunione nella cantina, la chiacchierata in quel
bar che puzzava di crauti e birra annacquata.
Vede un sottile fumo in lontananza alzarsi dal centro della
città e si chiede cosa sia, ma non riesce a capire da
dove provenga. Un rombo riempie la valle, coprendo il silenzio
che sonnecchia dappertutto, e un'altra colonna di fumo denso
e nero s'innalza sulle case. Una raffica di spari, forte e pulita,
percorre l'aria. Dopo pochi istanti un'altra, e un'altra ancora.
Un silenzio preoccupante vince nuovamente lo spazio attorno.
Anna guarda intorno a sé cercando qualcuno con cui condividere
la preoccupazione, ma la strada è deserta. Afferra il
carretto e lo tira con tutta la forza che ha, liberando finalmente
le ruote dal pantano. Circumnaviga la buca e si avvia velocemente
verso casa, dimenticandosi dei profumi, dei colori e dell'aria
che rendevano tanto piacevole la sua passeggiata. Ora sente
solo paura, e sa che in questi casi la cosa migliore è
rinchiudersi il prima possibile al sicuro.
40. Ieri
Il primo suono fu un cucchiaio di metallo contro una pentola.
Era la signora del palazzo di fronte a quello di Anna, che gridava
la sua indignazione dalla finestra di casa. Non era l'unica:
la strada era piena di gente che batteva pentole e coperchi,
fischiando e urlando.
«Signorina», la chiamò la signora alla finestra.
«Faccia qualcosa anche per me, che son qui malata e non
posso uscire di casa.»
«Qualcosa in che senso?», chiese Anna.
«Mandatelo via il Fondo Monetario Internazionale, mandateli
via questi farabutti del governo che c'hanno rovinato la vita,
che c'hanno rubato tutto. Spacchi tutto!»
«Va bene», rispose Anna divertita dallo spirito
della signora.
Percorse il viale che portava in centro, cercando di rubare
frammenti di conversazione alle persone che si stavano riunendo
in strada nel tentativo di spiegare l'incomprensibile, di immaginare
un futuro inimmaginabile.
«Che faremo ora? Le banche hanno chiuso lasciandoci senza
soldi. Il lavoro lo perderemo, che facciamo?»
«Andiamo alla banca!», urlò un signore di
mezz'età agitando il palo che teneva in mano.
Il gruppo si avviò lungo il viale, ingrandendosi nel
cammino che lo portava alla banca, presidiata da tre guardie
armate e terrorizzate. La folla si parò davanti alle
guardie, che puntarono i fucili.
«Abbassate le armi e andatevene, non vi faremo nulla»,
urlò un ragazzo con una fionda in mano.
I tre si guardarono tra loro e, prima che avessero il tempo
di allontanarsi, la folla spinse verso l'entrata della banca,
investendoli. Quelli delle prime file spaccarono il vetro con
le mazze facendo spazio alla moltitudine che, entrando, trovò
il direttore intento a contare i pochi spiccioli rimasti. Appena
vide la folla, l'uomo si riparò il viso con le braccia
e si accasciò su se stesso piagnucolando. Un uomo sulla
cinquantina ben vestito lo afferrò per il collo della
camicia e lo trascinò in strada.
Anna guardò attonita la scena e decise di riprendere
il cammino: voleva raggiungere la piazza centrale, andare di
fronte al Palazzo Presidenziale e finalmente vedere quello che
da tanto aspettava: la caduta del Liberismo. Gruppi di persone
percorrevano il viale nella solita direzione, con il suo stesso
intento, trascinati forse più dalla rabbia che dalla
speranza che muoveva lei. Quasi non poteva credere che, dopo
decenni di assopimento, la gente si fosse ridestata con tale
forza.
Il sole stava scendendo dal suo picco e cercava un monte dietro
cui nascondersi, spalmando lunghe ombre sulla piazza gremita
di gente. Il Palazzo Presidenziale era protetto da esercito
e poliziotti antisommossa, i cui scudi brillavano degli ultimi
raggi di sole.
Si sentì un'esplosione e un intreccio di gas fumogeni
si disegnò in cielo. Anna si trovò schiacciata
dalla folla che cercava di indietreggiare: una serie di cariche
della polizia colpirono il corteo, che si aprì come una
latta di tonno in scatola.
Riuscì a sgusciare tra i corpi che la premevano e si
diresse in direzione contraria alla spinta della folla, fino
ad arrivare a pochi metri dal cordone di militari e poliziotti.
Si coprì il viso con un foulard, afferrò un sasso
che trovò in terra e lo lanciò contro i militari
con tutta la forza che aveva in corpo. Alcuni ragazzi si unirono
al suo sforzo e, quando l'aria dissolse il vapore dei fumogeni,
si accorse che tanti si erano sommati al gruppo.
«Il popolo non se ne va», iniziarono a cantare in
coro. La piazza era loro.
41. Oggi
L'automobile esplode con un rombo assordante e una nuvola di
fumo scura, spessa e maleodorante si apre orizzontalmente sulla
città.
Paolo si copre la bocca con il paliacate comprato durante un
viaggio in Chiapas, per isolarsi dal fumo che esce dallo scheletro
dell'auto e dai gas lanciati dall'esercito. È soddisfatto:
l'operazione sembra filare liscia. Guarda oltre il muretto e
incrocia gli occhi di Aldo, affacciato dall'aiuola che gli fa
da riparo. Ha un passamontagna nero calato sul viso e tiene
la mitraglietta premuta contro il petto.
Da quando è iniziata l'azione le strade si sono svuotate:
i venditori ambulanti hanno chiuso le loro attività in
tutta fretta e i pochi passanti sono corsi via. A Paolo l'atmosfera
ricorda una foto della città nell'800 che ha visto in
un café del centro, dove gli unici soggetti, una coppia
con una carrozzina, sembravano inchiodati allo sfondo fisso.
Aldo invece, guardando il viale deserto che corre fino al Palazzo
Presidenziale, pensa a quella stessa strada nei giorni della
Fine e in quelli successivi del Caos. Ricorda la speranza che
lo animava al tempo, quando credeva che la caduta del Liberismo
avrebbe portato giustizia, e la rabbia che lo aveva vinto quando
vide la sfilata di carri armati scortare il Campione al Palazzo
Presidenziale.
Aldo fa segno con la mitraglietta indicando davanti a sé,
e un gruppo di persone armate e con i volti coperti sbuca da
dietro l'angolo, correndo verso il Palazzo. Fa poi un cenno
a Paolo e iniziano entrambi a correre nella stessa direzione,
seguiti da un altro gruppo di compagni.
L'elicottero militare continua a sorvolare la città,
ma ha smesso di fare fuoco contro di loro: evidentemente gli
alti comandi hanno già ordinato di smettere di sparare,
di non proteggere più il Campione. Petra sa che la riuscita
di un golpe dipende dell'appoggio dell'esercito, e ha preso
provvedimenti. Ad ogni modo, sicuramente una parte dei militari
rimarrà fedele al Campione.
Durante la corsa una raffica di spari li investe: Federica cade
a terra.
«Continuate a correre», grida Aldo a Paolo e Mina,
che si erano accasciati su di lei. Paolo tira per un braccio
Mina, che non riesce ad abbandonare il cadavere dell'amica sull'asfalto
caldo, in cui il sangue scuro e denso sembra ribollire.
42. Oggi
Il sole cuoce l'asfalto, che fuma catrame e polvere. La piazza
del Palazzo Presidenziale, il suo palazzo, è deserta
come sempre da quando ha preso il potere con un colpo di stato.
Guarda fuori dalla finestra e vede quel rassicurante silenzio,
quell'ubbidienza assoluta che la città, con la sua inettitudine,
sembra volergli dimostrare. Percorre con lo sguardo il viale
che dal Palazzo si allunga fino all'arco di trionfo, costruito
da un governante egocentrico intenzionato a lasciare, come lui,
i segni del suo glorioso passaggio nel mondo. Lui non ha eretto
un arco di trionfo, ma una sua grande statua al centro della
città e un'altra in omaggio a Vittorio Mangano, l'uomo
che ha permesso la sua fortuna nei primi anni di carriera.
Guarda il viale e ricorda il giorno in cui lo ha attraversato
a bordo del carrarmato, accompagnato da una silenziosa sfilata
di veicoli dell'esercito che lo hanno scortato fino al Palazzo
Presidenziale. È stato semplice entrarvi: il Caos aveva
invaso la città e le sue anime, e nessuno in quello stato
di panico, confusione e fame avrebbe fatto qualcosa per fermarlo.
Era riuscito a cogliere il momento migliore per mettere a punto
il suo golpe; o meglio, era stato fortunato ad essere stato
scelto. Ricordava perfettamente quella mattina di novembre,
quando suonò il telefono del suo ufficio elettorale,
in quell'epoca lontana in cui esistevano ancora le elezioni.
«Signore, è per lei», disse la segretaria
con voce emozionata. Non succedeva tutti i giorni di trovarsi
al telefono con una persona così importante.
«Si tenga pronto», gli avevano ordinato dall'altra
parte del filo. «Tutto crollerà e lei ne dovrà
approfittare.»
«Tutto cosa?»
«Il sistema e di conseguenza la vita quotidiana così
come la conosciamo. Crollerà e sarà il Caos, e
a quel punto lei entrerà in azione: farà un colpo
di stato, sarà facile e avrà tutto il nostro appoggio.
Denaro, donne, avrà tutto quello che vuole. Ma si ricordi
che saremo noi a decidere per lei, non avrà autonomia
politica e dovrà rispettare le nostre decisioni. Sarà
un nostro burattino e il suo paese al nostro completo servizio.»
Accettò con gioia la proposta, ma ancora non aveva capito
quello che sarebbe successo: non poteva immaginare che stessero
preparando un Governo Mondiale, che la caduta del capitalismo
- contemporanea in tutti i paesi - avrebbe portato alla nascita
di governi fantoccio in tutto il mondo, manovrati dalla stessa
e occulta regia.
Si guardò di lato allo specchio e misurò l'ampiezza
della pancia, passandoci una mano sopra. Forse era ingrassato
un po' ma non gli importava, e non sarebbe importato neanche
alle ragazze. Diede un'occhiata all'orologio e pensò
che stavano per arrivare. Sentì un rumore di freni e
vide le sue automobili sotto il Palazzo, ne scesero una quindicina
di poliziotti che aprirono le porte a quegli splendori sui tacchi,
che sempre più spesso lo andavano a trovare.
43. Oggi
Il caldo aveva pietrificato la città muta. Sulle scale
del Palazzo giacevano i cadaveri di alcuni compagni: quelli
che si erano offerti volontari per accompagnare Petra, i primi
che avevano affrontato le guardie del Campione.
Aldo, Paolo e quelli rimasti erano riusciti a riunirsi nel parco
antistante il Palazzo, dove muretti ed alberi offrivano un riparo
ai colpi che gli ultimi soldati fedeli al Campione sparavano
dalle finestre. Le raffiche partivano costanti e taglienti,
ricevendo risposta continua. Si potevano ascoltare, durante
i brevi silenzi tra una e l'altra, gli spari e le grida di chi
stava combattendo all'interno.
Aldo si chiese cosa stesse facendo il Campione quando Petra
e gli altri erano entrati di sorpresa nel palazzo. Poi decise
che il momento era arrivato: «Voi venite con me»
- ordinò a un gruppo - «voialtri copriteci.»
Afferrò la mitraglietta e, seguito dai compagni, corse
verso l'entrata del Palazzo senza smettere di premere il grilletto,
sovrastato dalla cortina di pallottole che i suoi sparavano
per proteggere la corsa. Si appoggiò a una colonna del
porticato, controllò che Paolo e gli altri fossero riusciti
ad attraversare la piazza indenni, ed entrarono prudentemente
nell'edificio. Non sapeva cosa avrebbero potuto trovare.
Il cortile centrale, circondato da tre piani di portici in marmo
bianco apuano, era un silenzio pesante di cadaveri e sangue.
Non si sentivano più né urla né spari.
Aldo cercava di dare un ritmo regolare al respiro in modo da
decelerare i battiti del cuore, che sentiva pulsare in gola.
Si girò di scatto: una porta si aprì improvvisamente
scoprendo due guardie che si misero a correre verso l'uscita
del palazzo, sparando alla cieca nella loro direzione.
Aldo avvicinò l'occhio destro al mirino del fucile e
chiuse il sinistro, ma un dolore caldo e fulminante gli impedì
di premere il grilletto. Vacillò, guardò il petto
che gli doleva tanto da schiacciargli il fiato e si accorse
che stava perdendo molto sangue. Cadde in ginocchio, abbondonò
il fucile e si lasciò andare a terra. Il cuore faceva
sempre più fatica a trovare il respiro, e in pochi secondi
smise di cercarlo.
Paolo vide Aldo accasciarsi e morire. Sentì la rabbia
esplodergli dentro: si affacciò dalla colonna, puntò
la mitraglietta contro le guardie in fuga e le colpì
con due soli e precisi colpi.
Si appoggiò nuovamente alla colonna di marmo e guardò
i compagni rimasti, anche loro ansimanti e tesi. Indicò
con la mitraglietta la porta socchiusa da cui erano uscite le
guardie e con la testa fece segno di procedere in quella direzione.
Spalancò la porta con un calcio e puntò la mitraglietta
dritta davanti a sé: cinque soldati s'inginocchiarono
nella penombra della stanza gridando di non sparare. Paolo sentiva
dietro le spalle il respiro caldo dei fucili dei compagni, puntati
contro i militari per proteggerlo.
«Gettate le vostre armi verso di me», ordinò
ai soldati.
«Ragazzi, siamo quassù, venite che il campo è
sgombro.»
Paolo riconobbe la voce di Lucia, che urlava dal porticato del
piano superiore. «Fuori tutti», ordinò ai
prigionieri. «Mina e Giulio: rimanete qui nel cortile
e teneteli d'occhio. Gli altri, con me.»
Paolo raccolse i compagni e salirono di corsa le scale.
«Ce l'abbiamo fatta!», disse Lucia appena li vide.
«Non vi potete neanche immaginare come abbiamo trovato
il Campione.»
44. Oggi
Il Campione scese nell'atrio per accogliere le ragazze. Le baciò
tutte, una ad una, accarezzando le schiene velate dalle sete
giapponesi che aveva regalato loro, annusando i profumi sensuali
con cui innaffiavano le giovani pelli.
Le accompagnò fino alla sala da pranzo e le fece accomodare
alla tavola ricca di cibo e piante fiorite, vini e acqua di
frutta. Mangiarono, scherzarono e cantarono con Piricella, l'amico
fedele che sempre lo accompagnava nei festini. Regalò
fiori e pietre preziose a tutte le ragazze.
«E ora alla Sala Grande!», annunciò quando
l'alcool e i doni avevano intorpidito a sufficienza le remore.
Accompagnò le ragazze nel patio centrale del Palazzo,
attraversarono un grande portone in legno e percorsero un corridoio
che sembrava non avere fine, carico di tappeti persiani, piante
esotiche e quadri imponenti. Le ragazze sorridevano, lo adulavano,
si avvicinavano a lui nel tentativo di farsi contaminare dall'aurea
di potere e denaro che la sua persona emanava. Il Campione approfittava
degli sguardi e di quei giovani corpi, accarezzandoli mentre
si dipanavano nel lungo corridoio, sfiorando braccia, spalle
e natiche. Erano nient'altro che corpi, solo corpi di donna,
non donne. Donna era stata solo Barbara, che l'aveva lasciato
perché non amava i suoi rituali, perché riteneva
che il bunga bunga fosse una cosa da “vecchio porco pervertito
e maschilista”. Non capiva che era un gioco, che niente
aveva a che vedere con la stima e il rispetto nei suoi confronti.
Entrarono nella grande sala del bunga bunga, di cui aveva personalmente
seguito i lavori di costruzione. Piricella si sistemò
sul piccolo palco nel fondo e iniziò a suonare la chitarra.
Intonò una vecchia ballata popolare, una canzone d'amore.
Il Campione si accomodò nella sua poltrona-trono, appoggiò
i gomiti sui braccioli e sorrise soddisfatto, guardando le ragazze
che iniziavano a sfilarsi i vestiti, liberando corpi di cui
nascondevano solo le parti intime con mutandine di pallettes
e disegni di felini.
Si sedettero sul bordo della piscina, al centro della quale
il Campione aveva fatto sistemare una ceiba, un imponente albero
arrivato appositamente dalla selva del Messico meridionale.
La vegetazione tropicale cresceva rigogliosa in tutto l'ambiente,
intrecciandosi sinuosamente con quei corpi femminili.
Le guardava bagnarsi, tuffarsi, parlare tra loro. Le guardava
guardarlo: nessuna distoglieva gli occhi da lui, l'uomo che,
seduto in disparte, riempiva tutta la stanza con l'imponenza
della sua persona, con il suo potere.
Un gruppetto di ragazze si alzò dal bordo della piscina
e camminò con passi ricercati verso di lui, che le osservava
camminare, muovere ritmicamente le gambe sottili e lunghe come
fili di lana, mentre i seni fermi e duri ondeggiavano leggermente.
Una ragazza si mise alle sue spalle e iniziò a massaggiarlo.
Un'altra lo fissò con aria di sfida e gli afferrò
la camicia per slacciarla. La terza gli alzò il viso
con un dito e gli sussurrò nell'orecchio qualcosa che
non riuscì a capire, visto il volume della musica che
copriva qualsiasi suono. Poi gli baciò le labbra e gli
affondò con decisione la lingua dentro la bocca, ancora
presentabile grazie alla dentiera nuova di zecca.
Così si trovava il Campione quando Petra aprì
con un calcio il magnifico portone in legno. Le ragazze si alzarono
dal bordo della piscina e iniziarono ad urlare: fu solo allora
che il Campione capì che, in quella stanza di lusso e
piacere, stava succedendo qualcosa che non entrava nei suoi
piani, qualcosa che non faceva parte del suo solito rituale.
Tutte scapparono lasciandolo lì, nella sua poltrona-trono,
con la camicia strappata e il rossetto sbavato sul viso. Due
uomini gli puntarono il fucile contro, mentre Petra gli si parò
davanti e lo guardò con disprezzo e soddisfazione: «In
nome del popolo italiano, in nome di tutti quelli che a causa
tua hanno sofferto, in nome di tutte le persone a cui hai sottratto
la dignità, in nome delle donne che hai umiliato, io
ti dichiaro in arresto, grandissimo porco schifoso.»
45. Ieri
Da tre giorni la città puzzava di bruciato. Auto, copertoni,
banche, uffici del governo e negozi: le fiamme avevano pulito
tutto. Alimentari e supermercati erano stati saccheggiati ed
era difficile trovare cibo.
Anna si svegliò con un forte mal di testa causato da
una manganellata con cui, il giorno prima, un poliziotto aveva
rotto il casco che indossava durante i tafferugli. Alzò
la mano di Gabriele addormentata su di lei, si liberò
dal suo abbraccio e andò verso la finestra. Guardò
un albero incendiato che si consumava lentamente ritirandosi
nel suo tronco, e pensò all'odore che il crepitio della
legna bruciata lascia sulla pelle e i vestiti. Sorrise pensando
alle sere passate davanti al caminetto con gli amici, nella
casa in campagna dei suoi.
Gabriele si alzò dal letto e andò ad appoggiarle
la pancia contro la schiena, le mise le mani sui fianchi e le
baciò i capelli. Rimase anche lui in silenzio a osservare
la città che si allontanava dalla finestra, riempiendo
di edifici tutto lo spazio visivo. Guardò attraverso
la ferita di un vetro che scomponeva il paesaggio come un quadro
cubista e vide cadere una neve leggera e corposa, che si appoggiava
su superfici troppo calde per non sciogliersi come un gelato
sulla lingua di un bambino.
«Pensavo ai compagni che sono rimasti sulle barricate,
chissà che freddo hanno», disse Anna preoccupata.
«Già. Possiamo preparare del tè caldo e
portarlo quando andiamo a dargli il cambio.»
Anna sospirò senza distogliere lo sguardo dall'estensione
grigia che le si parava innanzi: la città che aveva odiato,
le persone che aveva snobbato e che ora l'affiancavano in piazza
e sulle barricate. La fame, la disperazione, la scoperta dell'inganno
a cui erano stati sottoposti avevano improvvisamente destato
tutti, come una campana che suona appena fuori dalla stanza
da letto.
«Hai paura?», chiese Gabriele sottovoce.
«Sì, un po'. L'esercito ha riconquistato la piazza,
il Presidente e il governo sono riusciti a non perdere il Palazzo.
Possiamo resistere e impedire ai militari di entrare nel quartiere,
il popolo è tutto con noi. Ma non so se abbiamo abbastanza
forza per cacciare i governanti.»
«Il problema è che non siamo ben organizzati e
troppo affamati.»
«Se mi aveste ascoltato avremmo potuto organizzarci per
affrontare la Fine del Liberismo. Ora invece non sappiamo che
fare, né cosa ci aspetterà, volevamo l'anarchia
e invece abbiamo avuto il Caos. Quello che sta succedendo non
è altro che Caos: tutta questa violenza, i saccheggi,
la fame. E non abbiamo un piano politico né di vita,
come faremo a vivere quando il cibo finirà per davvero?»
«Non lo so. Tutti hanno perso il lavoro e allo stesso
tempo sembra non avere più senso guadagnare soldi, se
tanto quasi non c'è più cibo da comprare»,
disse Gabriele seguendo con gli occhi la lenta caduta di un
fiocco di neve.
Pensò a quando, da bambino, amava l'immobilismo della
città durante le nevicate, il tappeto bianco e poroso
che impediva ad auto e persone di correre, rilegando il mondo
in una dimensione sospesa. Spesso il primo giorno di neve sua
mamma gli permetteva di rimanere a casa da scuola e passare
la mattina nascosto sotto il piumone, o con la schiena contro
il termosifone, guardando il cielo giallo e soffuso. I pupazzi
di neve, quelli con la scopa in mano e la sciarpa, li aveva
sempre considerati una cosa da film e non da bambini veri.
«Non riesco a immaginare cosa potrà succedere.
Da sempre critichiamo il capitalismo ma allo stesso tempo lo
abbiamo così introiettato da non poter immaginare una
vita differente», disse Anna senza tono. Tirò il
collo indietro fino a trovare il petto di Gabriele, che le nascose
il viso nell'incavo tra l'orecchio e la clavicola.
«Forse dovremmo trasferirci in campagna, se non è
più possibile comprare il cibo bisognerà trovare
il modo per produrlo. Potremmo anche sposarci», disse
stringendola forte.
46. Ieri
Da un paio di giorni una pioggerellina fine e insistente aveva
sostituito la lieve nevicata del mercoledì, e il cielo
era tornato ad essere un lenzuolo grigio e teso sulla città
infreddolita.
Anna osservava la fitta cascata d'acqua offuscare le forme che
si indovinavano in trasparenza, mentre Cinzia guardava la pioggia
creare dei piccoli vortici sulla strada bagnata. Rimasero in
silenzio per lungo tempo, aspettando che gli ultimi raggi di
sole si chiudessero completamente nel buio. Cinzia aggiunse
un ceppo al falò che si consumava sull'asfalto, scomponendo
l'architettura della legna ormai completamente bruciata. Anna
allungò le mani verso il fuoco, rivolgendogli le palme
come se dovesse fermarne l'avanzata.
«Quand'era più piccolo mio figlio passava ore davanti
al camino guardando la legna bruciare. Diceva che gli piaceva
seguire il movimento della fiamma che cambia continuamente forma»,
disse Cinzia prima di girare la sedia e rivolgere la schiena
al fuoco.
Anna sorrise affettuosamente, osservando quella compagna bella
e forte che stimava tanto. Guardò il suo viso maturo
e per la prima volta notò che era inciso da alcune rughe,
e che sotto gli occhi il tempo stava creando dei leggeri rigonfiamenti.
Quello che stava succedendo sembrava aver catapultato Cinzia
dieci anni più avanti, a causa della preoccupazione o
della fame. O di tutt'e due.
«Tu non hai bambini, vero?»
«No», rispose Anna, e pensò che ne avrebbe
voluti fare con Gabriele. A lui non l'aveva mai detto, ma per
la prima volta in vita sua stava uscendo con uomo che riusciva
ad immaginare come padre.
«Non è certo il momento migliore per farne»,
continuò Cinzia senza distogliere lo sguardo dal fuoco,
che le illuminava solo la metà destra del viso. «Che
vita avranno questi ragazzi? Cosa stiamo lasciando loro? Non
faccio che pensarci.»
«Non dobbiamo sentirci in colpa. Stiamo facendo del nostro
meglio e sono sicura che le cose andranno bene, che riusciremo
a superare questo momento di Caos. Sono già cinque giorni
che resistiamo qui sulle barricate, proteggendo le nostre strade
dalla violenza e dai furti di ladri, polizia ed esercito. Continueremo
finché la città non sarà nostra.»
«Non so Anna, a me risulta difficile essere ottimista»,
disse Cinzia scrollando la testa. «La gente ruba tutto
quello che si può trovare nei negozi e poi li brucia.
E la polizia fa paura: loro hanno le armi, le sanno usare e
gli piace farlo, mentre noi siamo praticamente disarmati. Una
volta che la fame ci avrà vinti non sarà difficile
rompere la nostra resistenza.»
Una lacrima s'allungò lenta sul viso di Cinzia. Anna
osservò l'amica con attenzione: la fronte corrugata sotto
il cappello di lana, il naso leggermente schiacciato, la bocca
chiusa e sottile su cui si stava andando a posare la lacrima.
Le prese la mano aperta e la chiuse fra le sue: era dura e fredda,
malgrado la vicinanza al fuoco.
Passarono la notte parlando del loro passato e di quello che
si aspettavano dal futuro, commentando libri e rivelandosi l'un
l'altra dubbi, paure e aspetti poco conosciuti delle loro vite.
Era facile farlo davanti al fuoco, sotto il cielo stellato che
le nuvole rivelavano qua e là. Non volevano trovarsi
a riflettere sul buio che si parava loro dinnanzi, sulla strada
scura che dovevano controllare non venisse presa dai militari
o dalle bande che si stavano approfittando del Caos.
«Chissà che sta succedendo all'estero», disse
Anna quando il sole, pur non avendo ancora fatto capolino dai
palazzi, iniziava a illuminare il cielo.
«Già, quei porci trasmettono solo programmi d'intrattenimento
e hanno tagliato l'accesso ad Internet. Gino dice che sta creando
un sistema radio per poter comunicare con la Francia, allearsi
con i compagni all'estero potrebbe essere la nostra unica possibilità.»
Anna si stava lasciando vincere dal sonno quando sentì
in lontananza una raffica di spari seguita da grida sguaiate.
Alzò la testa appesantita dal sonno e si mise in ascolto:
un rumore meccanico, sempre più vicino, iniziò
a fare da sottofondo alle urla e agli spari.
«Aspettami qui, vado all'angolo a vedere che succede»,
disse Anna a Cinzia. La corsa le accelerò la respirazione
e per un attimo, prima di svoltare l'angolo, sorrise guardando
una piccola nuvola vaporosa che macchiava di bianco il cielo
di un azzurro intenso e pulito. Sorrise dentro di sé
finché il suo sguardo non trovò la fine della
strada, e le si gelò il sangue così improvvisamente
da darle un brivido.
Una sfilata di carrarmati e veicoli dell'esercito stava attraversando
il viale che portava al Palazzo Presidenziale. I militari, impettiti
e fieri, lanciavano urla e pallottole al cielo. La testa di
un uomo calvo, tozzo e molto basso spuntava dall'oblò
che bucava la pancia di un carrarmato: aveva l'aria sicura di
un capo, lo sguardo fisso di un vincitore, l'atteggiamento sprezzante
di un potente. Anna lo riconobbe come un politicante di destra
che aveva visto qualche volta in televisione.
La parata era accompagnata da un tombale silenzio degli spettatori,
che andavano piano piano riempiendo i marciapiedi del viale,
stipandosi uno dietro l'altro, allungando il collo per osservare
meglio. Il silenzio di chi non sa cosa succederà, ma
teme di intuirlo.
47. Oggi
L'agitazione impediva ad Anna di aprire il portone della sua
Proprietà: dovette fare almeno tre tentativi prima di
riuscirci. Rimase qualche secondo in ascolto, con la mano sulle
chiavi già dentro la serratura, prima di entrare nella
sicurezza di ciò che era suo. Gli spari della città
continuavano a rompere il silenzio spettrale che assorbiva la
valle.
Entrò nella Proprietà e chiuse il portone con
il catenaccio. Era preoccupata e non riusciva a calmarsi. Cosa
stava succedendo? Petra stava bene? Era una follia mettersi
contro l'esercito e le guardie del Campione, li avrebbero massacrati.
Accese la televisione, sperando di trovare notizie su quanto
stava accadendo, ma stava trasmettendo un varietà. Lo
seguì per qualche minuto, poi si alzò dalla poltrona
e scolò le lenticchie che aveva messo a mollo la sera
precedente. Le sciacquò e le versò in un recipiente,
tagliò un paio di carote in piccoli pezzi e li mise a
soffriggere con aglio, olio, peperoncino e patate in una pentola
di terracotta. Versò le lenticchie, aggiunse l'acqua
e chiuse la pentola con un coperchio. In una mezz'ora sarebbero
state pronte, ma aveva molta fame e sapeva che non avrebbe resistito
tutto quel tempo: tagliò una fetta di pane e la bagnò
con olio e un pizzico di sale. Diede un morso soddisfatto al
suo antipasto e sentì che il groviglio che aveva dentro
si andava sfilando poco a poco.
Si sedette sulla poltrona per guardare il varietà. Sfilavano
cantanti, ballerine e comici. Le piaceva in particolare un tipo
con un accento meridionale che imitava perfettamente Michael
Jackson.
Improvvisamente la trasmissione s'interruppe, lo schermo diventò
grigio e un fruscio sostituì i suoni allegri del varietà.
Il collegamento riprese e lo schermo si riempì del viso
stanco e fermo di Petra:
Cittadini italiani, compagne e compagni, con grande piacere
vi annuncio il crollo del regime del Campione. Il dittatore
che per decenni ha oppresso le nostre vite e la nostra libertà
è stato oggi arrestato dall'Esercito del Popolo, sotto
mio comando, e si trova ora in attesa di giusto processo.
Il Partito Rivoluzionario ristabilirà libertà
e democrazia per la nostra gente, derubata da un'oligarchia
che perderà tutti i privilegi di cui ha goduto finora:
una nuova società ci aspetta, un paese senza classi dove
il potere apparterrà al popolo sovrano, a ciascun cittadino,
che mai più sarà suddito di un governo mafioso
e corrotto.
48. Ieri
Scese dal carrarmato facendo attenzione a non perdere l'equilibrio.
Una fila di militari disposti di fronte al Palazzo si mise sull'attenti.
Il Campione inspirò profondamente, gonfiò il petto,
irrigidì la mascella e rispose al saluto.
Chi l'avrebbe mai detto che sarebbe arrivato tanto in alto!
La vita gli aveva riservato molte sorprese, ma questo era un
vero e proprio miracolo. Ripensò ai compagni di scuola
che lo prendevano in giro per l'altezza, a quelli dell'università
che si burlavano della calvizie, problema che negli anni successivi
sarebbe diventato un vero e proprio dilemma. Ricordò
tutte le donne che lo avevano rifiutato perché grasso,
antipatico, alcune addirittura perché stupido. E i professori
che lo bocciavano ripetutamente agli esami, i colleghi di partito
che gli davano dell'opportunista, del debole, del babbeo.
Tutto il paese, forse tutto il mondo, lo stava osservando mentre
saliva le scale del Palazzo e andava incontro alla sua gloria,
verso il tempo in cui tutti lo avrebbero riverito e amato. Attraversò
il grande portone con la testa alta e le spalle avvolte in un
mantello che lo faceva sentire un Napoleone. Percorse il cortile
centrale osservando i marmi e le ricchezze che presto sarebbero
state sue, dirigendosi verso la sala predisposta per il suo
discorso d'insediamento, scritto in un fax ricevuto qualche
giorno prima da un paese lontano.
Salì sulla pedana e guardò il pubblico: i suoi
ministri, i sottosegretari, i portaborse e qualche giornalista.
Una leggera tachicardia lo vinse una volta che si trovò
pressato dagli sguardi ruffiani e vuoti dei presenti. Guardò
la telecamera, inspirò profondamente, sfoderò
il suo sorriso migliore e iniziò a leggere:
Cittadini italiani, è con grande piacere che vi annuncio
la fine del periodo del Caos, che lascerà posto a una
nuova era di ordine e progresso. Ristabiliremo libertà
e democrazia per il nostro popolo, derubato dalle razzie e dalla
violenza degli ultimi giorni, grazie al Piano di Rinascita Nazionale
ideato dal Nuovo Partito Oltreumanista. Grazie alle nuove scoperte
scientifiche, il Partito permetterà a ogni cittadino
di allungare la propria vita ed intervenire sul proprio cervello
per aumentarne le capacità. Un lungo periodo di benessere,
prosperità e democrazia è alle porte.
Rialzati Italia! E che Dio mi benedica!
Anna e Cinzia ascoltavano la radio con sguardo assente. Sapevano
di non aver più forza per resistere sulle barricate,
sapevano di aver perso.
49. Oggi
«Spero capirai che in questo momento non ho molto tempo
libero», dice Petra versando un cucchiaio di fruttosio
nel caffè di zucca.
«Sì, sinceramente pensavo non mi avresti neanche
ricevuta.»
«Cosa non si farebbe per una vecchia amica!», esclama
con un sorriso amaro.
«La vostra nuova sede sembra molto più accogliente
del vecchio quartier generale. Il tuo ufficio soprattutto»,
nota Anna, guardando Petra sprofondata nella sedia in pelle
dell'ex studio del Campione, nel Palazzo Presidenziale.
«Già, ma immagino non sarai venuta fin qui per
complimentarti della nostra nuova sede. Dimmi tutto.»,
l'incoraggia Petra.
«Sono venuta per parlarti del fascicolo con i risultati
delle ricerche di Antonio. Innanzitutto, ti volevo ringraziare
per avermelo mandato.»
«Figuriamoci, hai tutto il diritto di sapere com'è
morto tuo marito.»
«Davvero quello che c'è scritto sembra impossibile»,
dice Anna e subito dopo tacere, in attesa di un commento dell'amica
che facilitasse la conversazione.
Petra si alza e si dirige verso una cassettiera, da cui estrae
un plico di fogli che porta fino alla sua scrivania. Indossa
una camicia bianca molto semplice, ma la scollatura e i jeans
attillati le conferiscono un'aria elegante. Si siede di fronte
ad Anna, facendosi incorniciare dalla scrivania imponente, afferra
una penna e inizia a firmare rapidamente i fogli che ha portato
con sé, senza leggerne il contenuto.
«Arriva al dunque Anna, scusami ma proprio non ho tempo.»
«Vorrei che mi aiutassi a identificare chi fra gli Amici
della Libertà è coinvolto nella storia dell'influenza.
Chi ha permesso l'utilizzo di cavie umane, chi ha inventato
il virus, chi il vaccino e chi è il mandante dell'omicidio
di Antonio.»
Petra interrompe la firma dei documenti e le tira un'occhiata
gelida: «E una volta che li avrai indentificati, che farai?»
«Non lo so, ma in qualche modo sarà possibile punirli,
no?»
«Ti ho già detto che ti vai a mettere in una situazione
più grande di te.»
«Sì, ma ora le cose sono cambiate, avete preso
il potere. Creerete un tribunale per punire gli Amici della
Libertà, immagino. Il Ministro della Sanità, per
lo meno, non la può certo passare liscia. E poi non si
tratta solo di mio marito e di Antonio, chissà quante
centinaia di persone sono morte per colpa di questi criminali.
E tutti noi siamo stati ingannati», dice Anna concitata.
Inizia a sentirsi come una bambina che supplica la madre di
soddisfare un suo capriccio.
Petra continua a guardarla, calma e ferma: «Capisco quello
che vuoi dire, ma non è davvero possibile. Io e i miei
collaboratori abbiamo mille cose da fare e non possiamo concentrarci
su una tua vendetta personale.»
«Non è una mia vendetta personale! Riguarda tutti,
dobbiamo scovare questi porci e dare loro la giusta punizione.»
«Mi spiace, Anna, ma non se ne parla proprio. Ora, per
favore, se ti vuoi accomodare fuori; io ho molto lavoro da fare.»
Anna rimane a fissarla per qualche secondo. Non può credere
che la fame di giustizia di quella donna coraggiosa e determinata
si fermi di fronte a qualche scartoffia burocratica. Petra sostiene
lo sguardo accusatore di Anna e segue: «Sono cose su cui
lavoreremo a tempo debito. Ora abbiamo altre priorità.»
Anna si alza e raccoglie la giacca che ha appoggiato allo schienale
della sedia. «Me ne vado, quindi. Grazie per avermi ricevuta,
presidentessa».
Un militare apre la grande porta dell'ufficio di Petra, Anna
l'attraversa e si trova nel portico superiore del patio centrale
del palazzo, dove le tozze colonne in marmo e la rigogliosa
vegetazione tropicale impediscono una vista d'insieme. Scende
per la larga scalinata bianca, puntellata da guardie in divisa
con le armi in pugno, aumentando l'andatura a ogni gradino,
per trovarsi il prima possibile fuori da quell'edificio che
puzza di vecchio e violenza.
50. Oggi
Il sacco oscilla come un pendolo impazzito. Paolo lo blocca
facendosi schermo coi guantoni, poi li sfila e li getta sulla
panca. Prende l'asciugamano e se lo passa sul viso, sulla testa
quasi completamente rasata e sul petto, che il sudore ha reso
brillante come la superficie del mare al tramonto.
«Ciao», dice una voce lontana, rotta dal rumore
della porta antipanico che le si chiude alle spalle.
Si volta e vede una donna entrare dal fondo della palestra,
minuscola in quell'ambiente tanto ampio. Il rumore dei passi
rimbalza da una parete all'altra, rimbombando ritmicamente nel
silenzio. La figura all'avvicinarsi s'ingrandisce e i suoi contorni
si fanno sempre più delineati. Si ferma a una decina
di passi da Paolo, dove lo spazio che li separa rivela già
i dettagli del viso.
«Che c'è? Non mi riconosci?»
Paolo la guarda con occhi attenti, studiandone i lineamenti
familiari, cercando dentro di sé un ricordo che lo aiuti
a ritrovarne il nome.
«Anna?» dice spalancando gli occhi.
«Già», risponde lei sorridendo e allontanando
lo sguardo per un istante. Anna ha vent'anni in più dal
loro ultimo incontro, ma sembra ne siano passati almeno trenta.
Indossa abiti semplici e tiene i capelli raccolti in una coda
di cavallo. Il viso stanco conserva i tratti puliti di un tempo,
ma la pelle sembra riuscire con fatica a resistere all'attrazione
terrestre. Anche lo sguardo è cambiato, malgrado conservi
l'atteggiamento determinato che Paolo ricorda.
«Che ci fai qui?», chiede lui infilando una maglietta
a mezze maniche.
«Avevo bisogno di vederti e sono riuscita a scoprire dove
trovarti. Mi spiace se ti disturbo, ma...»
«No, non preoccuparti», la interrompe. «È
un piacere vederti. È solo che davvero non me lo aspettavo»,
dice tentennando. «Dimmi tutto.»
«Ho bisogno di parlarti di una questione molto importante.»
«Senz'altro. Mi puoi aspettare fuori che mi faccio una
doccia e ti raggiungo?»
«Ok.»
Anna sparisce nuovamente dietro la porta antipanico, mentre
Paolo si avvia verso lo spogliatoio. Si fa una doccia tiepida,
pensando a come risolvere la situazione. Non si aspettava che
Anna lo avrebbe cercato. Petra gli aveva detto di averla trascinata
a una riunione molti mesi prima e che Anna era diventata una
donna completamente spenta.
Chiude il rubinetto della doccia e indossa gli abiti puliti,
infila quelli sporchi nel borsone e si appoggia la cinghia sulle
spalle, facendolo penzolare dalla schiena. Esce dallo spogliatoio
e fa un cenno di saluto al guardiano, seduto in un gabbiotto
di fianco alla porta.
«Arrivederci signor Ministro», dice il guardiano
portandosi l'indice e il medio della mano destra alla fronte,
facendo il saluto militare.
51. Oggi
Anna guarda Paolo rovistare nel borsone che tiene appeso alla
spalla. Studia con attenzione i tratti del viso dell'amico,
che rispetto al loro ultimo incontro, più di vent'anni
prima, si sono solo un po' induriti. Paolo tira fuori il berretto
di lana blu che indossa sempre nei giorni freddi, e l'abbassa
fino a coprire le orecchie.
«Che dici, ci andiamo a fare un the caldo nel bar qui
vicino?»
Anna assente e afferra con entrambe le mani il bavero del cappotto,
che si stringe sulla gola. Il vento taglia il silenzio della
città addormentata e il buio del tardo pomeriggio pare
il colore naturale di quella periferia solitaria, dove il cemento
è interrotto solo da pochi alberi intirizziti.
Quando si trovano seduti uno davanti all'altra, Paolo osserva
nuovamente Anna, cercando di scoprire nei suoi gesti una tensione
o un imbarazzo che ne tradisca le intenzioni; ma il suo viso
non svela nessuna emozione, se non la serenità di una
donna ormai lontana dalla gioventù nel gesto di colmare
le tazze di the.
«È passato davvero tanto tempo», dice Paolo
mostrando il suo migliore sorriso.
Sa che Anna da ragazza era attratta da lui e che gli anni trascorsi
non gli hanno certo rubato fascino: a quasi cinquant'anni ha
ancora un fisico decisamente atletico e il nero dei suoi occhi
profondi e meridionali conserva la vivacità di un tempo.
Anna, che non sa che a Paolo non piacciono le donne, lo fulmina
con lo sguardo fermo di chi non è disponibile a cedere
a un gioco seduttivo.
«Sono venuta per chiederti aiuto. Ho già parlato
con Petra, ma è immersa in mille cose e dice che la mia
questione non è prioritaria. Per me invece lo è.»
«Innanzitutto dimmi di che si tratta», dice Paolo
fingendo interesse. Afferra la tazza con entrambe le mani e
dà una breve sorsata al the, ancora troppo caldo.
«Sai la verità sull'influenza ovina? Conosci i
risultati delle ricerche di Antonio?», chiede Anna abbassando
la voce.
«No», mente lui.
Anna fruga nella borsa ed estrae un pacchetto di sigarette.
Ne ha sempre uno con sé, anche se non fuma quasi mai,
e sente che il quel momento una sigaretta l'avrebbe aiutata
a distendere i nervi e raccogliere i pensieri.
«Sono entrata in possesso dei risultati della ricerca
sull'influenza ovina di Antonio, uno studente di biologia che
lavorava con voi», esordisce Anna prima di sbuffare fuori
il fumo. «Antonio è stato ucciso.»
«Sì, lo sapevo. Non conoscevo bene Antonio, ma
so cosa gli è successo.»
«L'hanno ammazzato in casa mia.»
«Questo invece non lo sapevo», dice Paolo guardandola
negli occhi per camuffare la menzogna.
«È stato ucciso a causa di quello che aveva scoperto.»
«Cioè?», chiede Paolo picchiettando l'accendino
sul tavolo. Percepisce una determinazione nella voce di Anna
che cozza con la descrizione che ne aveva dato Petra tempo prima.
«L'influenza ovina non viene dalle pecore, come ci hanno
fatto credere. È stata creata in laboratorio dagli Amici
della Libertà, e sperimentata su delle cavie umane senza
il loro consenso: sono stati rapiti alcuni dissidenti politici
e poi, grazie ad un macchinario oltreumanista, hanno cancellato
nella loro memoria il ricordo di quello che era successo. La
cavia n°34 era Gabriele, mio marito, che a seguito della
cancellazione del ricordo soffriva di vuoti di memoria.»
Paolo inscena un sorriso amaro, ruba una sigaretta dal pacchetto
di Anna e la accende. Vorrebbe che si zittisse per non sentirsi
costretto a segnalare la vecchia compagna.
«Perché gli Amici della Libertà avrebbero
dovuto diffondere un virus?»
«Per seminare il terrore: il popolo impaurito è
più debole e meglio disposto ad accettare leggi liberticide,
che infatti proprio in quei giorni sono state approvate»,
dice Anna stupita dell'ingenuità di Paolo. «Le
analisi di Antonio dimostrano che alcune delle iniezioni subite
dalle cavie erano molto pericolose per l'organismo. Gabriele
è morto a causa delle iniezioni, non dell'influenza ovina,
che è una grandissima menzogna: è una normale
influenza, creata dagli Amici della Libertà per seminare
il panico nella popolazione e vendergli poi il vaccino, creato
da loro stessi. Un grande affare per gli Amici della Libertà
dal punto di vista politico, ma anche economico, visto che lo
Stato ha comprato alla ditta del Campione milioni di vaccini
contro una malattia che non esiste.»
Paolo la ascolta con il gomito sinistro appoggiato al tavolo
e l'indice sulle labbra. La mano destra avvolge fiaccamente
la tazza di the, ormai freddo. Scuote leggermente la testa e
aggrotta la fronte fino a far incontrare le sopracciglia.
«Sei sicura di quello che dici?», chiede per prendere
tempo.
«Assolutamente sì.»
«E perché sei venuta a cercarmi?»
«Per chiederti di aiutarmi a trovare i colpevoli.»
«Come ti ha detto Petra, abbiamo altre priorità
in questo momento. E anche volendo, non posso prendere iniziative
senza il suo consenso.»
«Allora ti chiedo di insistere con Petra affinché
questa faccenda diventi una priorità. Non capisco come
possa non esserlo.»
«Ci proverò Anna, ma non ti posso assicurare niente.»
«Non mi darò per vinta, se non mi appoggerete cercherò
l'aiuto di qualcun altro, o farò da sola. Basterà
diffondere la notizia: l'indignazione nell'opinione pubblica
sarà così forte che tutti vorranno giustizia.»
Paolo la guarda muto. La vita di Anna è nelle sue mani,
che non si rende conto di quello che sta rischiando.
52. Oggi
Paolo batte con decisione il tacco e fa il saluto militare.
Non ha mai indossato un'uniforme, quando da ragazzo ha ricevuto
la chiamata alla leva ha fatto obiezione di coscienza. Il tessuto
della divisa è spesso e non cede ai movimenti che il
corpo cerca di imporgli, costringendolo in una posizione rigida
che lo fa sentire forte e importante.
«Siediti pure», dice Petra indicando la sedia davanti
a sé.
Paolo la scosta dal tavolo, toglie il cappello che gli opprime
la fronte e si siede, appoggiandolo sulle ginocchia.
«Come stai?»
«Bene, l'assenza del Campione mi ha alleggerito la vita»,
risponde Petra sprofondando nella poltrona di pelle.
«Già, questa volta è davvero finita. E il
popolo è con noi: stiamo trionfando!»
«Ti posso offrire un caffè? Ho caffè di
caffè», dice Petra andando verso il tavolino dove
si trova il bollitore.
«Certo, come rifiutare un caffè di caffè.»
Petra riempie due tazze, ne posa una di fronte a Paolo e si
risiede.
«Al telefono hai detto che avevi bisogno di parlarmi urgentemente.»
«Non so come uscire da una situazione in cui mi trovo.
Ho pensato che avresti saputo consigliarmi», dice Paolo
con gravità.
«Dimmi tutto.»
«Anna mi ha trovato. È spuntata all'improvviso,
non so da dove, davvero non me l'aspettavo. Vuole che la aiuti
a cercare i responsabili dell'influenza ovina.»
«Uf, non si perde d'animo», nota Petra stupita.
«Non capisco perché le hai permesso di leggere
il fascicolo di Antonio.»
«Lo so, ho sbagliato, mi sono fatta intenerire dai vecchi
ricordi. Suo marito è morto perché era stato utilizzato
come cavia, ho pensato fosse giusto lo sapesse, è una
vecchia amica. E non mi sembrava certo il tipo che avrebbe sollevato
un polverone», spiega atona come chi confessa un errore.
«Mi ha detto che se non l'aiuterò a scoprire i
colpevoli renderà pubblica la faccenda.»
«Certamente non possiamo dirle chi sono i reali responsabili.
Anche a me non piace molto questa gente, ma avevamo bisogno
dell'appoggio di una parte degli Amici della Libertà
perché la nostra operazione riuscisse. Ora sono con noi,
evidentemente Anna non se n'è accorta ma gli abbiamo
dato posti chiave nel Ministero, in politica bisogna saper fare
dei compromessi», dice Petra aprendo le mani come a recitare
il Padre Nostro. «Non ci restano che due opzioni: trovare
dei capri espiatori da mandare in carcere al posto degli Amici
della Libertà, o segnalare Anna alla polizia. Scegli
tu.»
53. Oggi
Anna apre la porta scricchiolante del ripostiglio, dove sempre
più spesso cerca il suo passato. Sposta alcuni scatoloni
e scosta un lenzuolo che fa da sipario a un mobile. La sua vecchia
libreria è rimasta lì tutti quegli anni, a custodire
il tesoro di cui non è stata capace di disfarsi. Guarda
emozionata i volumi disposti uno di fianco all'altro e prende
un tomo spesso e compatto, con una copertina verde consumata
dall'umidità. Un ovale racchiude la foto in bianco e
nero del viso ottocentesco dell'autore: un giovane dai tratti
scarni attraversato da un paio di baffi sottili. Passa le dita
sul bordo e annusa le pagine, poi si mette a scorrerle lentamente
facendole cadere dal pollice con cui le tiene. Si ferma su di
una che ha segnato a matita, traboccante dell'amore del giovane
Proust per Gilberte, e legge:
Senza dubbio, le varie ragioni che mi rendevano così
impaziente di vederla sarebbero state meno imperiose per un
adulto. Più tardi, divenuti abili nella coltivazione
dei nostri piaceri, ci capita di accontentarci di quello che
proviamo pensando a una donna come io pensavo a Gilberte, senza
preoccuparci di sapere se questa immagine corrisponda alla realtà,
e anche di quello che deriva dall'amarla senza avere la certezza
che lei ci ami; o, ancora, di rinunciare al piacere di confessarle
il nostro sentimento per mantenere più vivo quello che
lei prova per noi, imitando quei giardinieri giapponesi che,
per ottenere un fiore più bello, ne sacrificano parecchi
altri. Ma quando amavo Gilberte, io credevo ancora che l'Amore
esistesse al di fuori di noi; che, consentendoci tutt'al più
di rimuovere gli ostacoli, ci offrisse le proprie gioie in un
ordine nel quale non eravamo liberi di introdurre alcun cambiamento;
mi sembrava che se, di testa mia, avessi sostituito alla dolcezza
della confessione la simulazione dell'indifferenza, non solo
mi sarei privato di una delle gioie più vagheggiate,
ma mi sarei costruito a modo mio un amore artificioso e privo
di valore, di rapporto col vero, del quale avrei rinunciato
a seguire i misteriosi e già tracciati sentieri4.
Legge lentamente, assaporando ogni lettera, godendo del suono
che le parole cantano nella sua testa e della verità
che il loro intreccio scopre. Legge fin quando le lacrime le
annebbiano la vista, e sorride felice come non si sentiva da
molto tempo.
54. Oggi
L'auto frena bruscamente nell'aia, sollevando la polvere che
copre il ghiaino. Il maggiore Cesare Ulivi scende, appoggia
la mano destra sul fianco e inarca la schiena all'indietro per
scioglierla. Poi scrocchia rumorosamente le falangi di entrambe
le mani e infila i guanti di pelle nera.
La luna quasi piena illumina la notte intiepidita dal sole,
che durante il giorno non lascia tregua. Il fitto silenzio notturno
è coperto dalle televisioni delle case attorno all'aia:
il giovedì sera alla tv passano Sospirando e nessuno
mette il naso fuori casa.
Ulivi è stanco di quella routine e avrebbe passato volentieri
più tempo a casa con la famiglia. La moglie, le due figlie,
i cani di razza e l'immenso giardino sono ormai momenti di passaggio
nella sua vita: da anni la sua quotidianità è
fatta di case povere, spoglie di arredamento e profumi, di piatti
rotti e urla di madri che gli si aggrappano all'uniforme, nell'ultimo
ed inutile tentativo di salvare i propri figli.
All'inizio Ulivi amava quel lavoro, che gli permette di pulire
ciò che di più immondo produce la società,
ma da tempo ha iniziato a contare i mesi che lo separano dalla
pensione.
«Maggiore, secondo i dati catastali la casa presenta un'uscita
nel fondo attraverso la quale la ricercata potrebbe scappare»,
lo avvisa Marcelli.
«Bene, voglio due uomini davanti a quella porta»,
ordina.
Con una rapida occhiata Cesare Ulivi controlla la posizione
dei suoi, bussa all'uscio e chiude le mani in un pugno, che
nasconde dietro la schiena.
«Apra, esercito», dice dopo qualche secondo di silenzio.
«Apra, esercito», ripete battendo con forza il palmo
contro la porta.
Anna apre lentamente e punta gli occhi nei suoi.
«La dichiaro in arresto per cospirazione contro la democrazia»,
dice il maggiore spingendo l'uscio fino a farlo spalancare.
Anna non si muove e tiene lo sguardo fisso sul viso di Ulivi,
che lo getterà dove ha dimenticato tutti gli occhi disperati
incrociati in quegli anni. Ma Anna non è disperata, e
tiene la testa ben alta quando le manette si chiudono intorno
ai suoi polsi, mentre la casa viene sconvolta alla ricerca di
qualcosa che non c'è.
55. Oggi
L'aria puzza di asfalto bruciato dal sole. Anna sente la corda
stringerle i polsi ogni volta che il prigioniero davanti a lei
si dimena. Il ragazzo piange, chiede pietà e urla che
non ha fatto nulla contro il regime. La schiena è percorsa
da ferite profonde e continua a perdere sangue dalla testa.
Anna guarda la ragazza alle sue spalle, legata alla solita corda
che tiene tutta la fila di prigionieri: ha i piedi tumefatti
e fa fatica a stare in piedi, ma non piange né parla.
Alza la testa e mostra un paio di occhi azzurri e silenziosi,
incavati in un viso violentato. La riconosce come la sua compagna
di cella, una napoletana che fa da assistente a un professore
di sociologia.
Quando abbassano la pedana dell'aereo militare, il calore ha
immobilizzato l'aria e i prigionieri vengono fatti salire lentamente.
«Viva l'anarchia!», urla qualcuno nel silenzio insopportabile.
Uno dei militari spara una raffica, colpendolo alle gambe per
non permettergli di alleviare la paura con la morte.
Anna s'incammina serena verso la pancia dell'aereo. Non le importa
di morire, per lei la vita non ha molto senso: il mondo non
le piace, ma non ha abbastanza fiducia negli altri per immaginarne
uno differente.
L'aereo decolla e nel buio molti iniziano a piangere, alcuni
a pregare. Quando il portellone sotto i loro piedi si apre,
Anna pensa a sua madre. Poi chiude gli occhi e si lascia tirare
dal peso che la lega agli altri: si sgranano nel cielo come
una collana di perle quando si rompe il filo, nell'aria carica
del mezzogiorno, verso la profondità di un mare che sarà
la loro quiete.
EPILOGO
56. Domani
Itzae cammina sul bagnasciuga. La risacca lascia una lunga impronta,
una sottile pellicola di mare che si fa assorbire dalla sabbia,
ritirandosi fino all'oceano. I granchi corrono velocemente sull'arena
compatta e i pellicani attraversano il cielo a piccoli stormi,
pescando il becco in mare. Alcuni bambini con l'acqua alle ginocchia
tirano le reti, raccogliendole dopo pochi istanti piene di pesci.
Itzae guarda l'orizzonte come se possa svelare l'origine della
forza del Pacifico, che s'increspa in onde alte metri e si assottiglia
poi fino alla riva. Si siede all'ombra di una palma, accertandosi
che i cocchi siano ben ancorati alla cima: pochi mesi prima
è morto un francese a cui ne è caduto uno sulla
testa.
Guarda le estremità della spiaggia che si perdono nel
vapore alzato dalle onde, e pensa al suo mare quando si rompe
contro la scogliera. La sua terra è così lontana
che non sa in quale direzione guardare per immaginarla, e il
ricordo tanto confuso che solo certi odori lo possono richiamare.
Si mette a riflettere su quello che sta succedendo nel suo paese,
che la storia continua a martoriare. Pensa a tutto quello che
ha imparato durante il suo lungo viaggio e che i compagni in
Italia, vinti dall'ennesima dittatura, non possono immaginare.
Si chiede se siano tutti vivi, se fra loro ci siano morti o
desaparecidos.
Un cocco cade a un metro da lei, con un tonfo pieno e sordo.
“È il momento di tornare a casa” pensa, seguendo
con lo sguardo uno stormo di uccelli che sorvola la cresta di
un'onda.
57. Domani
È strano vedere i grandi alberghi trasformati in magazzini.
La zona hotelera di Cancún, venti chilometri di costa
caraibica occupati da blocchi di cemento per visitatori a cinque
stelle, dalla Fine del turismo è diventata un immenso
deposito di beni di lusso: caffè, cacao, gas, petrolio.
Tutto ciò che in Europa non si da, o s'incontra con difficoltà,
continua a lasciare i porti delle Americhe a beneficio delle
élite del vecchio mondo che, per evitare disordini, lo
hanno tenuto nascosto.
Itzae guarda la spiaggia di Cancún e sente qualcosa bruciarle
dentro: si trova sulla costa caraibica messicana quando arrivò
la Fine, costringendola a rimanere in quella parte di mondo.
In realtà, fino a quel momento non è mai stata
tentata dalla voglia di tornare nel suo paese.
Ricorda la spiaggia allora, quando era un'infinita estensione
di sabbia bianca tenuta dal mare blu e turchese. Ora il traffico
del porto ha formato grandi macchie di catrame sull'arenile,
trascinate da un mare verde e denso come olio di un frantoio
di campagna. Gli hotel che si estendono alle spalle della spiaggia,
convertiti in depositi, hanno perso la lucentezza di un tempo:
le facciate sono annerite e i giardini trasformati in discariche
di rifiuti.
Raggiunge il pontile e cerca Santiago, che le fa un cenno con
il capo e s'incammina dietro un muro di container, dove Itzae
lo segue.
«Entra in questo container, non chiuderò la porta
ermeticamente. Una volta che la nave è partita, solo
quando sarà partita, puoi uscire e raggiungere il ponte.
Lì lavora gente fidata, ma non andare in nessun'altra
parte della nave che se ti vedono passo dei guai. Sale, güerita?».
«Andale, compañero».
Abbraccia Santiago e lo ringrazia, lui sorride e apre la porta
del container. Itzae entra e si siede su una montagna di chicchi
di cacao, ne afferra una manciata e la illumina con il fascio
di luce che entra da una fessura. Pensa a Shun, quando le raccontava
che i suoi avi maya utilizzavano il cacao come moneta.
Sente un rombo stridente e il container sollevarsi e ondeggiare
in aria, come una giostra del luna park. Quando finalmente tocca
la stiva della nave, Itzae dà una forte testata contro
una delle pareti. Impreca e preme la testa con il palmo della
mano nel punto che duole. Dopo qualche istante sente il motore
della nave e un rumore di catene, probabilmente l'ancora. Itzae
percepisce la leggerezza che accompagna il lasciarsi andare
in mare, allenta la presa della mano sulla testa e aspetta un
tempo prima di uscire.
Quando raggiunge il ponte, i marinai sono così in fermento
che nessuno fa caso alla sua presenza. Un uomo apre la gabbia
di un bellissimo gallo, piumato con colori accesi e limpidi.
Quando lo solleva, afferrandolo come se stesse portando l'acqua
alla bocca, quello inizia ad agitare con furia le ali. Lo lancia
al centro del crocchio di persone che si era formato sul ponte,
dove lo aspetta un altro gallo. Una volta uno di fronte all'altro,
orgogliosi di trovarsi al centro del palenque, i due aprono
le piume del collo come pavoni. Si muovono in circolo, studiandosi
come fanno i boxeurs, per poi saltare al centro del ring e incontrarsi
in aria. Itzae si allontana schifata da quel mucchio di marinai,
che sui galli hanno scommesso buona parte del salario, perdendo
l'istante in cui un volatile conficca la lama che gli hanno
cucito alla zampa nel collo dell'avversario, uccidendolo.
Itzae appoggia i gomiti sul parapetto ruvido di salsedine, si
sporge e osserva il mare inghiottire la terra che per tanto
tempo è stata sua, mentre la luna piena illumina il contorno
sempre più lontano di una collina. Un uomo la guarda
e le sorride: evidentemente sa chi è e che sta tornando
al suo paese. Ma il motivo che la spinge a tornare non può
davvero immaginarlo.
58. Domani
Genova vista dal mare è diversa che da dentro. A bordo
di un'imbarcazione si può penetrare lentamente scoprendo
i moli del suo porto, le tante insenature che il mare ruba alla
città. Vista dal mare quasi non sembra Genova, ma una
montagna brulla appoggiata sull'acqua, su cui le case colorate
s'impilano fino al Righi. Da laggiù solo s'intuiscono
il campanile di San Lorenzo e la cupola di Carignano, il Matitone
e la Lanterna che spuntano tra le gru del porto. La città
vecchia dal mare non si vede: sa nascondere bene le sue chiese
e i suoi vicoli, per non farsi trovare da chi non la capirebbe.
Itzae non ha bisogno di vedere Genova per ricordarla, sa perfettamente
il delinearsi confuso dei suoi vicoli, l'odore di piscio, farinata
e kebab. Conosce le storie della Maddalena e della Croce Bianca,
di sguardi nascosti dietro un bicchiere di asinello o una canzone
di De Andrè, ma non per questo crede di averla capita.
Genova è un mistero che non ha mai pensato di svelare.
Scende dalla nave, si fa spazio tra le banchine del porto e
s'incammina per via Gramsci. Ricorda il traffico di una volta,
le macchine e i camion in uscita dai moli. Ora il viale è
una striscia di cemento malmesso su cui si è sdraiata
la sopraelevata.
Arrivata alla Commenda s'infila in via Prè, cercando
un poco del suo passato nel vicolo, ma non può ritrovare
il suo tempo in quella desolazione, nel nulla in cui è
caduto il caruggio, un tempo brulicante di voci mediterranee,
nani che comprano madri e schiene per troppo tempo appoggiate
alla stesso muro. In quel silenzio carico di umidità
e salsedine Itzae non trova nessun ricordo.
Attraversa la strada e imbocca Via del Campo, guidata da una
luce che filtra da un cancello sulla cima del vicolo. Si affaccia
alla grata e scopre un piccolo cortile, illuminato da una lampadina
nuda.
«È qui per il comizio?», chiede una signora
anziana, rivolgendole lo sguardo muto con cui i liguri osservano
i forestieri.
«Sì.»
«Allora prenda questo», dice sollevando uno straccio
che copre il tavolo. Taglia una fetta di focaccia e gliela porge.
«Viva Petra! Viva la Rivoluzione!»
«Viva!», risponde Itzae raccogliendo la focaccia.
Raggiunge Piazza Fossatello e scende ai portici di Sottoripa,
affollati di suoni cavi che rimbombano nella volta. Dopo il
silenzio chiuso dei vicoli, Itzae si trova improvvisamente inghiottita
nella folla che la spinge in Piazza Caricamento, dove si stanno
assiepando migliaia di teste rivolte nella stessa direzione.
59. Domani
Petra parla dal palco allestito sotto Palazzo San Giorgio. Ha
la voce e il viso appuntiti e indossa un'uniforme grigia. Itzae
non ascolta quello che dice, solo tenta di studiare l'organizzazione
dello spazio in cui si trova.
Terminato il discorso, Petra s'incammina lungo il corridoio
tracciato dalle guardie disposte a cordone. Itzae riesce a infilarsi
sotto il braccio di uno dei militari che lo compongono, si para
di fronte a Petra, afferra il coltello che tiene nella borsa
e glielo conficca con forza nel petto, all'altezza del cuore.
Avverte la durezza dello scheletro e il muscolo molle che sta
per interrompere il suo incessante pulsare. Pensa a Gaetano
Bresci, come lei partito dalle Americhe per uccidere re Umberto
I, per dimostrare che l'iniziativa di un solo individuo può
cambiare il corso degli eventi e un gesto deviare la storia
verso un cammino inaspettato.
Petra la fissa negli occhi per un istante, l'ultimo. Itzae estrae
il coltello e il corpo uniformato cade in ginocchio, per poi
accasciarsi al suolo.
Itzae sente la pesantezza del silenzio in cui è caduta
la piazza e, subito dopo, un frastuono di urla, mani e manganelli.
Ma non importa, già non sta ascoltando. L'unica cosa
che le importa è aver dimostrato che i potenti sono mortali
e vincibili come tutti gli esseri umani.
Testo dell'interrogatorio a Gaetano Bresci, tessitore ed
anarchico (29 agosto 1900):
Presidente: «L'imputato ha qualcosa da aggiungere alla
sua deposizione testé letta?»
Bresci: «Il fatto l'ho compiuto da me, senza complici.
Il pensiero mi venne vedendo tante miserie e tanti perseguitati.
Bisogna andare all'estero per vedere come sono considerati gli
italiani, ci hanno soprannominati maiali!»
Presidente: «Non divaghi.»
Bresci: «Se non mi fa parlare mi siedo.»
Presidente: «Resti nel tema.»
Bresci: «Ebbene, dirò che la condanna mi lascia
indifferente, che non mi interessa punto e che sono certo di
non essermi sbagliato a fare ciò che ho fatto. Non intendo
neppure presentare ricorso. Io mi appello soltanto alla prossima
rivoluzione.»
Presidente: «Ammettete di avere ucciso il re?»
Bresci: «Non ammazzai Umberto; ammazzai il Re, ammazzai
un principio!»
Note:
1 John Holloway, Cambiare il mondo senza prendere il potere.
Il significato della rivoluzione oggi.
2 John Holloway, Cambiare il mondo senza prendere il potere.
Il significato della rivoluzione oggi.
3 Colin Ward, Anarchia come Organizzazione
4 Marcel Proust, Dalla parte di Swann
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