Zapatisti/Verso
il leninismo? Non è vero
Gentile redazione,
ho letto con attenzione l'articolo “Lettera dal Sud America”
pubblicato sul numero 376 di Arivista, in cui il Laboratorio
libertario di Montevideo (Uruguay) descrive l'attuale situazione
dei movimenti sociali latinoamericani. Nell'articolo si dice
che l'Ezln, partito da posizioni libertarie, si è negli
ultimi anni spostato verso le posizioni leniniste che inizialmente
criticava. Si afferma inoltre che il movimento zapatista continua
“ad avere una categoria vincolata alla forma Stato che
serve alla sua riproduzione”. Da anni seguo il movimento
zapatista e, se ho inteso bene le parole di questi compagni
uruguayani, le trovo decisamente fuorvianti.
L'Ezln è apparso a metà degli anni '90 per rivendicare
i diritti delle comunità indigene messicane. Inizialmente
si è seduto a un tavolo di negoziazione con il governo,
sperando venissero approvate leggi in difesa dei diritti dei
popoli nativi. Nel momento in cui si è sentito tradito
da tutti i partiti messicani, il movimento ne ha preso con chiarezza
le distanze e ha interrotto qualsiasi tipo di dialogo con le
istituzioni, da cui non accetta nessun tipo di aiuto. Sarebbe
un discorso molto lungo, ma credo che sinteticamente si possa
affermare che in questi anni il movimento zapatista ha costruito
autogoverno, autonomia e orizzontalità nelle sue comunità,
e penso che, per chi ha la possibilità di farlo, un viaggio
in Chiapas valga molto la pena, c'è parecchio da imparare.
Secondo me le comunità zapatiste del Chiapas sono un
esempio pratico di applicazione di molte teorie anarchiste.
Le zapatiste e gli zapatisti non si definiscono libertari, ma
sono gli anarchici più coerenti che abbia mai conosciuto.
A questo link potete trovare il testo in italiano della Sesta
dichiarazione della Selva Lacandona, un testo profondo ma anche
ironico che descrive la visione politica del movimento zapatista:
http://www.autistici.org/nodosolidale/zapatismo_det.php?id=6.
Orsetta Bellani
La Spezia
Mercato libertario e agorismo
Condividere ogni virgola di un articolo o proposta di ragionamento
è cosa alquanto rara, ma è quello che mi ha suscitato
la lettura dell'articolo
di Stefano Boni “Autogestione illegale contro la crisi”
(“A” 378, marzo 2013, pag. 9). Boni, riportando
esempi da tutto il globo, ci descrive piccoli e medi commercianti
con stand mobili e una gestione del lavoro che non richiede
la dipendenza né da autorizzazioni statali né
da grandi imprese; barbieri e calzolai che operano nelle piazze
e nei mercati; ristoratori che vivono di chioschi sulle spiagge;
basta un tavolino per gestire una attività di vendita
di chiamate telefoniche; basta un pavimento per vendere giornali;
uno spremiagrumi per vendere bevande all'arancia. Si riproducono
e si vendono film e dischi, senza preoccuparsi del copyright.
Il succo del ragionamento di Stefano Boni è semplice,
ovvero, la gestione statuale è un fallimento continuo,
fatto di burocratizzazione, permessi, controlli e certificati,
“si sono negli ultimi decenni progressivamente allargati
gli ambiti di regolamentazione invasiva attraverso l'aumento
dei controlli burocratici” mentre la “società
ha le risposte migliori per sollevarsi”. Quello che non
viene detto però nell'articolo, ma è evidente
dato che si parla in ogni esempio di attività commerciali,
dal giornale al ristorante, è che si sta discutendo di
“mercato libertario”. Questo articolo ha una sua
considerevole importanza poiché si accetta la proprietà
di tale scambio come fondamento di una probabile alternativa
“situazionista” e libertaria da poter praticare
da oggi, da subito, infatti, già viva ed evidente nelle
varie società del globo terrestre. Emblematico ed efficace
è l'elogio che Stefano Boni fa delle attività
commerciali fuori dal controllo statuale e delle grandi impresi
capitaliste sorrette e sponsorizzate dai vari governi e mass
media.
Tale metodologia di analisi è presente anche in formulazioni
sviluppate negli Usa da svariate correnti libertarie, ovvero
“l'agorismo”. L'agorismo propone come soluzione
ideale per approdare a una società dove tutte le relazioni
tra persone siano scambi volontari, un “libero mercato”
privo dell'imposizione statuale.
Come ha descritto un libertario americano, Brad Spangler: “L'agorismo
è un anarchismo di mercato rivoluzionario. In una società
fondata sul mercato anarchico, diritto e sicurezza saranno forniti
da istituzioni libere di mercato, e non da istituzioni politiche.
Gli agoristi riconoscono dunque che, tali istituzioni, non potranno
svilupparsi attraverso riforme politiche, ma, anzi, attraverso
veri processi di mercato. Quanto il governo sarà più
bandito, tanto forte sarà la repressione contro il governo
da parte del mercato che fornirà maggiore sicurezza e
diritti. Il mercato domanderà tanti servizi di sicurezza
quanto sarà grande la sua emergenza. Lo sviluppo di tale
domanda arriverà da quei settori dell'economia in continua
crescita, ovvero quelli sempre meno sotto il controllo dello
stato (che di conseguenza non permetteranno più allo
stato di avere il monopolio del diritto e della sicurezza).
Questo settore dell'economia è la counter-economics,
ovvero l'insieme dei mercati neri e grigi”.
Insomma, penso anche alla luce di quest'ultimo articolo, che
una riflessione seria vada fatta nel mondo libertario, poiché
una società autenticamente libertaria può svilupparsi
solo dove vi è sincera e concreta libertà di relazioni
e di scambio, lontano dalla coercizione e dagli obblighi burocratici
tipici della regolamentazione dei mercati da parte dei governi
statal-capitalisti.
Domenico Letizia
Maddaloni (Ce)
Ma la moneta è un bene comune
Credo fermamente che l'unico attuale discorso politico che giudico
abbia una reale consistenza e una capacità di accomunare
individui a prescindere dalla loro età, stato sociale,
cultura ecc. sia quello che si occupa dei beni comuni e che,
penso, gli anarchici siano legittimati a trattare. Devo dire,
però, che personalmente non riuscivo a schierarmi totalmente
per due motivi: uno, per la difficoltà di accettare che
si potesse realizzare, attraverso codici e leggi, l'idea di
una civiltà vicina a quella che io ritenevo desiderabile;
l'altro, più complesso, passava attraverso la mancanza
(o io non lo vedevo) di ogni accenno al superamento del mercato
così come si articola oggi. Infatti le obiezioni liberiste
alla realizzazione, anche di quanto gli stessi referendum avevano
deciso, passavano e passano tutti dall'affermazione che “ogni
cosa costa e quindi per realizzarla occorre capire come fare
in termini finanziari”. Questa obiezione (o abiezione)
apparentemente insuperabile, ha fondamento oggi, perchè
hanno convinto tutti, almeno in Europa, che lo stato non ha
mezzi, cioè non ha la disponibilità della moneta.
La moneta, invece, è da sempre mezzo di scambi e di regolazione
del mercato nonché strumento di pagamento e di misurazione
di valori. Inoltre insistono a dirci che la causa di ciò
risieda nell'enorme debito accumulato, ovviamente per colpa
dei poveri in quanto, certamente, non sono i ricchi che hanno
bisogno di prestiti.
Ma fino a poco tempo fa uno stato che rappresentava una società
e traeva legittimità proprio dall'impegno di realizzare
i principi fondamentali che lo definivano, dava il via a investimenti
anche mettendosi a stampare moneta, (ricordate il New Deal?).
Questa moneta messa in circolazione, salvando le regole del
mercato, realizzava i fini che lo stato si proponeva. Ancora
oggi tutti gli stati, Usa e Giappone per primi, stampano allegramente.
Perchè oggi non è più possibile? La risposta
è che l'Europa non lo permette. E questo vuol dire che,
senza che ce ne sia accorti, è accaduto qualcosa di devastante
in cui l'Europa sta giocando il ruolo di apripista. È
accaduto che la moneta è diventata un bene di proprietà
privata. Quella che c'è in circolazione c'è. Chi
la detiene, essendo sua, la utilizza come gli aggrada. L' unità
europea realizza che la moneta circoli liberamente ma non i
diritti dei cittadini. Anche la moneta che non c'è (debito
pubblico) circola liberamente, mentre il lavoro di un polacco
è retribuito in maniera diversa dallo stesso lavoro di
un francese ecc.
Ma la moneta, in quanto strumento di pagamento in un mercato
globale, non è bene privato, è bene comune così
come l'acqua, l'aria ecc. Ecco cosa manca a chi lotta per i
beni comuni. Manca la rivendicazione principale che è
quella della moneta bene comune. Senza questo passaggio (insieme
ad altri che ne impediscano l'accumulazione privata) non si
potrà arrivare a niente.
C'è una obiezione: come può impedirsi l'accumulo
privato se c'è una circolazione materiale di biglietti
di banca.
Una soluzione a questo reale problema c'è e si chiama
moneta elettronica. Ma è un discorso da farsi non nei
termini fino ad ora proposti, che sono termini diretti a realizzare
il drenaggio per fini fiscali della moneta in circolazione,
ma quando si incomincerà ad accettare l'idea che la moneta,
o i mezzi di scambio, siano beni comuni e non proprietà
privata garantita dagli stati e degli statisti che personalmente
ne godono i privilegi.
Come funziona il meccanismo della proprietà privata della
moneta? Semplice: il proprietario immette nel mercato una quota
monetaria (investimento) che insieme al lavoro e alla terra
accresce il suo valore iniziale (i tre fattori della produzione:
terra, lavoro, capitale). Lo stato drena, attraverso le tasse,
parte, più o meno notevole, degli utili monetari prodotti
e parte massiccia delle quote monetarie inizialmente utilizzate
per i salari (della terra non se ne occupa nessuno come la situazione
del pianeta dimostra ampiamente). Quanto drenato viene quindi
utilizzato sia per mantenere e rafforzare se stesso (operazione
importantissima in quanto la sua primaria funzione è
quella di garantire la proprietà privata di ogni cosa
e soprattutto della moneta) e parte per erogare direttamente
interessi sul debito pubblico, che è espressione dinamica
della proprietà privata della moneta.
Angelo Tirrito
Palermo
Un racconto dedicato a Carlo Cafiero
Saluto il direttore e tutta la redazione della rivista anarchica.
Sono Antonello Murer, risiedo a Nocera Inferiore e svolgo la
professione di tecnico radiologo. Ho avuto modo di leggere la
vostra rivista e, nello specifico, gli articoli che riguardano
Carlo Cafiero.
Non avevo mai sentito parlare di Carlo Cafiero, quando un giorno,
il traffico del mattino mi costrinse a rallentare. Il mio sguardo
si soffermò sul nome di una stradina che costeggiava
l'ex manicomio della mia città: via Carlo Cafiero, appunto.
Nella solitudine mattutina di un lavoratore in ritardo, mi chiesi
chi potesse essere stato quell'uomo e cosa avesse mai fatto
di interessante per aver meritato di dare un nome e proprio
a quella strada. Solo qualche tempo più tardi, quella
estemporanea domanda trovò una risposta. In una libreria
del centro dove mi recai per l'acquisto di un libro, per caso
sfilai da uno scaffale ciò che apparteneva proprio a
Carlo Cafiero: il primo compendio in lingua italiana del Capitale.
Quella che interpretai come una felice coincidenza, mi procurò
un certo stupore quando lessi un po' la vita dell'autore: nato
a Barletta da un proprietario terriero, conobbe Marx, Engels,
ecc. Ciò che più mi sconvolse, però, fu
scoprire che il luogo della sua morte non fu Parigi o Londra,
ma il manicomio di Nocera Inferiore. Io adoro la mia città,
precisiamo subito, ma per un personaggio dello spessore intellettuale
di Carlo Cafiero, finire i suoi giorni nel manicomio di Nocera
Inferiore non sarà stato certo il massimo.
Conosco bene quel luogo, purtroppo, e non perché ci sia
stato internato (naturalmente!) ma perché da ragazzo
quando si faceva sega a scuola, spesso percorrevamo un binario
morto della ferrovia che dava dietro al manicomio e, da un punto
sopraelevato rispetto alla struttura, guardavamo i “pazzi”.
Da quando i manicomi sono stati chiusi, o forse è meglio
dire aperti (non crede?) quella enorme struttura è stata
trasformata dalla Asl di appartenenza in uffici amministrativi
e sede di alcuni dipartimenti a essa collegati. Mi è
capitato spesso da dipendente di quella Asl di passeggiare tra
i vecchi padiglioni, prima che tutti fossero ristrutturati.
Ciò che maggiormente mi colpiva erano le scritte lasciate
dai vecchi residenti della struttura e, proprio quelle scritte,
mi hanno ispirato a scrivere un racconto su questo grande personaggio.
L'ho immaginato con un look diverso da quello ritratto nelle
foto dell'epoca: capelli tagliati a spazzola, indumenti uguali
per tutti. Era un intellettuale, uno che amava scrivere e anche
lui, probabilmente, avrà utilizzato come supporto per
reggere le parole le mura del manicomio.
Spero di non aver banalizzato la grandezza intellettuale di
Carlo Cafiero e se questo racconto ritenete possa avere un valore,
certo non intellettuale, ma di ammirazione per il personaggio,
sono lieto di condividerlo con voi e i vostri lettori.
Pazzaria
Lo chiamavano Carbonella.
Si aggirava lungo il perimetro della gabbia di cemento che lo
conteneva e le giornate le passava girovagando per i sentieri
più bui della sua mente. Aveva sempre le mani nere e,
di conseguenza, la faccia nera. Da qui, il soprannome Carbonella.
Le mura di cemento che lo avevano imprigionato sembravano enormi
fogli di carta sui quali scriveva il suo perenne trattato.
Capelli a spazzola, giacca ciancicata, scarpe grosse che strusciava
sull'asfalto perché troppo larghe da poter essere calzate
perfettamente.
Era esile e curvo. Si muoveva a scatti come gli animali selvatici,
attento ad ascoltare i rumori più profondi, quasi impercettibili,
di quelle mura impregnate d'urla e fetore d'anime smarrite.
Di lui nessuno sapeva nulla, tranne quelle scritte che parlavano
di cose che nessuno capiva. Parole senza senso, si diceva, e
se gli chiedevano spiegazioni, le risposte erano incomprensibili,
senza senso, appunto.
Da quanto Carbonella scrivesse sui muri, qualcuno lo sapeva:
fu dalla morte dell'ingordo.
“Te lo ricordi?”.
L'ingordo morì undici/dodici anni fa. Lo cercarono per
ventiquattro ore. Probabilmente prima che si accorgessero della
sua scomparsa erano già passati tre o quattro giorni.
Lo trovarono morto in uno scantinato, si era nascosto per consumare
tutto quello che era riuscito a trafugare dalle cucine.
L'ingordo aveva sempre fame, non aveva il senso della sazietà.
Era tenuto d'occhio per evitare che si strozzasse, ma lui era
furbo: sapeva sempre come eludere la sorveglianza e trovare
nuovi luoghi appartati dove apparecchiare la tavola.
“Sì!”
Poco tempo dopo, arrivò Carbonella. Aveva un nome e cognome,
si chiamava Carlo Cafiero. Era nato a Barletta e d'importante
nella vita aveva scritto il primo compendio in lingua italiana
de Il Capitale, opera filosofica di Karl Marx.
Carbonella morì nel manicomio di Nocera Inferiore mentre
uno scaltro e improvvisato imbianchino copriva con la vernice
le sue scritte, eseguendo alla perfezione gli ordini autorevoli
del direttore di quella gabbia. “Per fare pulizia”
sosteneva, che evidentemente fa rima con pazzia.
Quel pomeriggio il sole tramontò, più lentamente
del solito, su quella gabbia chiamata Pazzaria dalle persone
del posto. Ai loro occhi, troppo spesso, appariva come un luogo
di perdizione a causa delle intemperanze degli ospiti che, lì,
erano stati stoccati e imprigionati in un tempo senza tempo.
Quel pomeriggio, ancora una volta, il sole si sforzò
di allungare il suo raggio migliore su quell'enorme foglio impossibile
da ripiegare, per illuminare l'ultima frase dell'uomo con le
mani e la faccia nera.
Quella volta, però, Carbonella disegnò lettere
acuminate che liberarono urla e ataviche voci senza volto, dissolvendosi
nell'aria come vapore. Con una mano cercò di stendere
il muro; con l'altra estrasse dalla tasca un pezzo di carbone,
ne leccò la punta, lo conficcò nell'intonaco,
come la lama di un coltello che con odio affonda in un ventre
maledetto.
Quel pomeriggio, con una frase di senso compiuto, il sole se
lo portò congedandolo dal mondo.
“La mia mente, il confine ultimo di un pensiero libero,
il vostro mondo, una falsa comoda congettura”.
Antonello Murer
Nocera Inferiore (Sa)
Prosegue il dibattito
su
“Libertà senza Rivoluzione”
Prosegue il dibattito sul volume Libertà senza Rivoluzione
di Giampietro “Nico” Berti (Piero Lacaita Editore,
Bari 2012), di cui abbiamo ripreso qualche
stralcio in “A” 377 (febbraio). Sui numeri
successivi sono intervenuti Franco
Melandri e Domenico
Letizia (“A” 378, marzo), Luciano
Lanza e Andrea
Papi (“A” 379, aprile), Luigi
Corvaglia e Alberto Ciampi
(“A” 380, maggio), Marco
Cossutta e Salvo
Vaccaro (“A” 381, giugno) e ora Persio Tincani
e Fabio Massimo Nicosia.
Il dibattito è naturalmente aperto a chiunque intenda
intervenire, con il limite delle 6.000 battute spazi compresi.
Dibattito
Libertà senza Rivoluzione/9
Persio Tincani/Ok, il capitalismo ha vinto, ma...
La premessa è che Libertà senza Rivoluzione
è un saggio poderoso, sia per il lavoro di ricerca storica
che per il lavoro di ricerca teorica. In questo libro, che analizza
le due principali dottrine politiche che hanno dominato la scena
nell'ultimo secolo e mezzo – il comunismo e il capitalismo
–, Berti sostiene che nello scontro tra le due il capitalismo
(visto in parte come un sottoprodotto di successo del liberalismo
classico) abbia vinto in modo netto e definitivo. Sconfitto
il comunismo, il modello capitalistico ha dilagato senza concorrenti
e ha potuto espandersi ancora di più, anche trasformandosi
in modelli inediti, cambiando i paradigmi della produzione o
addirittura prescindendone facendosi capitalismo finanziario
in un continuo esperimento che, essendo di volta in volta il
modello unico di fatto praticabile, non incontra ostacoli.
In tutto ciò, l'anarchismo ha perso il treno perché
1) non ha colto la portata e l'inappellabilità della
vittoria del capitalismo; 2) è rimasto ancorato a un
antagonista – il capitalismo classico – che non
esiste più, cosicché la critica che presenta è
priva tanto di bersaglio quanto di interlocutori: non c'è
più il padrone della ferriera e non ci sono più
gli operai della ferriera.
Uno dei più gravi difetti del progetto politico marxista,
secondo Berti (e secondo me), è la fiducia nel determinismo
storico in base al quale determinate condizioni produrrebbero
per forza di cose determinate conseguenze, una tesi delusa
ben presto dai fatti: anche se le condizioni sociali dell'Inghilterra
ottocentesca erano “una ricetta per la rivoluzione”
(Richard Sennett), la rivoluzione non scoppia lì ma in
Russia, dove la prevalenza dell'economia preindustriale aveva
fatto vaticinare a Marx che non sarebbe scoppiata tanto presto.
Poco importa che il proletariato urbano inglese fosse consapevole
delle condizioni di sfruttamento o fosse invece obnubilato dalla
falsa coscienza, perché alla fine la rivoluzione non
la fanno i proletari ma le avanguardie, dato che le “masse”,
come sostiene Berti (e ha ragione), “non sono rivoluzionarie”.
Perché il capitalismo ha vinto? In sostanza, Berti risponde
perché non poteva non vincere. Il capitalismo è
intrinsecamente migliore del marxismo, incarnerebbe un modello
di libertà individuale migliore, e chiunque, potendo
scegliere, sceglierebbe di vivere in un regime capitalista e
non in un regime comunista (“nessuno ha mai saltato il
muro di Berlino da ovest a est”). Qui, a mio parere, ci
sono i punti deboli della tesi di Nico. Il primo è che
dopo aver respinto (correttamente) la traduzione marxista del
determinismo scientifico in determinismo storico, Berti la utilizza
per spiegare il successo del capitalismo, che ha vinto perché
non avrebbe potuto non vincere. Berti argomenta diffusamente
questo punto (ma anche Marx argomenta diffusamente la propria
versione del determinismo) tuttavia si tratta di un'argomentazione
che mi pare viziata da una impostazione teleologica della storia.
Inoltre, se il comunismo pare sconfitto, a vincere non è
il capitalismo originario ma una sua versione molto modificata.
Se i padroni delle ferriere non ci sono più non è
perché hanno deciso di togliersi di mezzo, ma perché
sono stati costretti a farlo dalle pressioni di grandi movimenti
politici, in gran parte di ispirazione marxista, che sono riusciti
a ottenere una regolamentazione del mercato del lavoro (che
gli alfieri del capitalismo, come Hayek e Rothbard, hanno spesso
giudicato in modo assai negativo) che ne ha ridimensionato il
potere di fatto. Lo stesso stato non è più quel
“guardiano notturno dell'economia” del modello capitalistico
originario, ma è stato trasformato in un'istituzione
che incorpora elementi di welfare estranei alla logica capitalista
che sono l'esito di uno scontro sociale sul terreno del quale
il socialismo ha vinto sul capitalismo.
Vista così, il modello capitalista della rivoluzione
industriale ha perso quanto il comunismo dei soviet,
perché né l'uno né l'altro esistono più.
Anzi, a guardar bene, quel capitalismo è sparito
ben prima del comunismo. Se questo capitalismo ha vinto,
è prima di tutto perché è stato modificato
rendendolo “meno capitalista” di prima.
L'altro punto debole, a mio parere, è la questione delle
“opzioni”, che Nico presenta nei termini già
accennati: se un tedesco della Ddr avesse potuto scegliere tra
capitalismo e comunismo avrebbe scelto il capitalismo e sarebbe
diventato un tedesco dell'ovest. Fin qui, niente di sbagliato,
almeno secondo me. Tuttavia, da questa scelta di valore relativo,
Nico deriva un giudizio di valore assoluto del modello
capitalista, e questo passaggio non è lecito.
Semplificando un po': suppongo che, potendo scegliere tra essere
picchiati o insultati, la maggior parte delle persone sceglierebbe
gli insulti; ma ciò non significa che alla gente piaccia
essere insultata, anzi, suppongo che alla maggior parte delle
persone non piaccia affatto. In quel caso, si tratta dell'opzione
migliore – “il meno peggio” o, in termini
tecnici, “una preferenza adattiva” –, ma ciò
non significa che sia anche qualcosa di buono di per sé.
Fuori dalla semplificazione: è certo possibile che tra
chi preferisce il capitalismo al comunismo vi sia chi ritiene
anche che il capitalismo sia il modello migliore in assoluto,
ma non lo possiamo desumere dal fatto che il capitalismo è
stato preferito al comunismo se la scelta era tra queste sole
alternative. Si potrebbe obiettare che la costruzione realistica
di alternative ai modelli dominanti non è una cosa semplice,
e secondo me sarebbe un'obiezione ben fondata. Tuttavia, un
conto è dire che il capitalismo è la migliore
delle opzioni possibili tra le due esistenti e che pensare di
costruirne una terza (o una quarta) è un'ipotesi irrealistica,
altro è saltare alla conclusione che il capitalismo è
la migliore tra le opzioni possibili (e punto).
In questa sede non posso fare altro che proporre questi argomenti
per una discussione.
Persio Tincani Pavia
Dibattito
Libertà senza Rivoluzione/10
Fabio Massimo Nicosia/Stringere i rapporti tra anarchici e radicali
È difficile recensire un libro che si condivide, a parte
qualche dettaglio, da cima a fondo.
Il testo di Giampietro Berti si divide in tre parti, più
due appendici sul concetto di libertà.
Nella prima, si discutono i perché del fallimento storico
del movimento comunista internazionale, nella seconda le ragioni
che hanno condotto alla vittoria del capitalismo su scala globale,
nella terza si passano in rassegna le varie posizioni che attualmente
vengono ricondotte, a torto o a ragione, al pensiero anarchico
contemporaneo. Il tutto accompagnato da una radicale critica
a qualunque prospettiva rivoluzionaria.
Secondo Berti, le masse non sono rivoluzionarie, e quindi chi
pretendesse di imbastire un processo rivoluzionario peccherebbe
comunque di avanguardismo e, in ultima analisi, di autoritarismo,
per quanto si autodefinisca “anarchico”. Già
Lenin, in Stato e rivoluzione criticava gli anarchici
per il loro definirsi “antiautoritari” e rivoluzionari
al contempo, ignorando che non vi è nulla di più
autoritario di una rivoluzione.
L'aver mantenuto e il mantenere oggi un legame con la prospettiva
rivoluzionaria da un punto di vista anarchico non ha portato
altro che a una marginalizzazione del movimento anarchico, sicché
oggi questo movimento, come ripete Berti a più riprese,
non rappresenta altro che se stesso.
Per Berti, l'anarchismo deve prendere atto della vittoria della
liberaldemocrazia, non solo, della preferibilità della
liberaldemocrazia rispetto a qualunque altro sistema politico,
e fare i conti con essa. L'obiezione non è nuova. Già
Benjamin Tucker sosteneva che, in un sistema che consente libertà
di parola e di opinione, non ha senso una prospettiva rivoluzionaria,
dovendosi viceversa inserire in quel sistema con la parola e
la discussione.
Come scrivevo a mia volta nel mio Il dittatore libertario
(Giappichelli, 2011), l'ipotesi rivoluzionaria, una volta scartato
il “golpismo” di stampo leninista, “pecca
di ingenuità, perché sembra considerare 'il potere'
come qualcosa di esclusivamente fisico, che si possa sbriciolare
aggredendolo direttamente, trascurando il suo carattere di costruzione
della mente, di 'credenza costitutiva', per usare l'espressione
di Friedrich von Hayek, che trova sì estrinsecazioni
fisiche (l'apparato burocratico-militare e i suoi pretenziosi
'palazzi'), ma che non possono essere demolite, se non una volta
che quelle credenze, fondamento del consenso nei confronti delle
istituzioni del dominio e della ‘legittimità' di
questo, siano state intaccate” (pag. 366).
Quindi, se scartiamo la rivoluzione, e immettiamo il movimento
anarchico nel gioco del potere liberaldemocratico, quel che
resta è l'ipotesi “riformista”, di un riformismo
forte, però, al quale meglio si attaglia il termine,
anche malatestiano, di “gradualismo”.
Si dirà però che, se le masse non sono rivoluzionarie,
men che meno esse sono “anarchiche”, qualunque cosa
ciò significhi, con la conseguenza che il consenso politico-elettorale
di un movimento anarchico è destinato a rimanere modesto.
Manca infatti al movimento anarchico una cultura del “second
best”, quello che Berti chiama male minore o meno peggio,
ma che è qualcosa di più di questo. Gli anarchici
cadono in una grave contraddizione logica allorché pongono
le “leggi” tutte sullo stesso piano, in quanto espressione
di un potere percepito come nemico. Ma le leggi non sono tutte
uguali. Una legge che vieta un comportamento non equivale a
una legge che lo consente, ed è “stupido”
(termine molto utilizzato da Berti) opporsi alla legge permissiva
come se fosse una legge interdittiva.
Il problema è che gli uomini si distinguono, tra le altre
cose, in due tipi psicologici: quelli dotati di “inclinazione
libertaria” (coloro i quali non vogliono né comandare,
né essere comandati), e quelli dotati di “inclinazione
autoritaria” (coloro i quali vorrebbero comandare, ovvero
quelli che, non riuscendovi, si adattano a essere comandati).
Il nostro dramma è che l'inclinazione libertaria è
di pochi, sicché si evidenzia all'orizzonte una prospettiva
elitista e pessimista a un tempo.
Tuttavia, se pure le masse non sono libertarie, o non lo sono
consapevolmente, esse possono dimostrarsi libertarie con riferimento
a singole questioni, quando si toccano i loro interessi e diritti.
Come è avvenuto nel referendum sul divorzio, quello sull'aborto,
o persino su quello della depenalizzazione del consumo individuale
di sostanze stupefacenti.
Ciò che accomuna queste iniziative è di costituire
manifestazioni di “libertà negativa”, di
antiproibizionismo, sicché paradossalmente gli anarchici
potrebbero utilizzare gli strumenti della liberaldemocrazia,
per aggredire dialetticamente l'elemento “democratico”
(cioè quello del potere della maggioranza), in favore
dell'elemento “liberale”, cioè quello della
conquista di crescenti spazi di autonomia per il singolo, sicché
la democrazia sarebbe solo l'ambiente, da erodere progressivamente,
nel quale affermare elementi di liberalismo radicale.
Parlando fuori dai denti, va detto che questo spazio politico
è già occupato dall'area radicale, per quanto
si possa criticare la sua classe dirigente e la sua cultura.
Il radicalismo, del resto, in termini analitici, può
essere definito come la linea immaginaria che conduce dal liberalismo
all'anarchia.
Io vedo nel rapporto tra anarchici e radicali la possibilità
non solo di una convivenza, ma di uno scambio. L'anarchismo
ha infatti un bagaglio storico-culturale assai vasto, che può
rinvigorire una cultura radicale tutta sdraiata sul solo concetto
di “Stato di diritto”, mentre i radicali possono
fornire al movimento anarchico le battaglie di “second
best”, di cui l'anarchico valuterà, alla luce del
malatestiano lume regolatore, la congruità, ossia la
compatibilità con il progetto utopico, che non va comunque
abbandonato almeno a livello di immaginario, pure fondamentale
in una forza politica che voglia mutare lo stato presente delle
cose (quello dei first best).
Fabio Massimo Nicosia Milano
Transgender/Meglio se aggettivo,
e comunque un (non una)
Salve,
in riferimento al dossier
“Leggere l'anarchismo.3”, pubblicato dentro
il numero 379 (aprile 2013), in cui a pag. 34 citate brevemente
il mio libro La società de/generata. Teoria e pratica
anarcoqueer, ci tengo a specificare alcune cose, oltre che
a ringraziarvi per l'apprezzamento rispetto ai contenuti:
– Alex non è uno pseudonimo dietro cui si nasconde
nessuno, è il mio nome, e B. è l'iniziale del
cognome, che ho preferito non pubblicare semplicemente perchè
non sono in buoni rapporti con mio padre da cui purtroppo deriva
quel cognome. Non ho proprio niente da nascondere, ci tengo
alla visibilità di persona trans e nel movimento anarchico
tutti sanno che sono transessuale.
– non sono una transgender, semmai un transgender,
anche se preferirei che transgender venisse usato come aggettivo
anzichè come sostantivo, visto che sono prima di tutto
una persona. Mi dispiace che non abbiate letto il libro abbastanza
attentamente, in particolar modo c'è un capitolo sulle
persone trans che spiega perchè è discriminante
ricondurre le persone trans al loro sesso di nascita anziché
utilizzare pronomi e aggettivi del genere di arrivo, rappresentativi
della loro identità di genere e anche dell'aspetto fisico
dopo l'assunzione di ormoni. Visto quindi che sono un ragazzo
trans, al massimo si può dire che sono un transgender
(o ancora meglio, una persona transgender). Spero possiate fare
tesoro di queste osservazioni.
Saluti
Alex B.
fuckgender@riseup.net
Ricordando don Gallo/1. Il nostro
angelo anarchico
Ero pronto da giorni a ricevere la tremenda notizia. Eppure
quando Fabio della Comunità di San Benedetto al Porto,
uno dei miei amici più cari, mi ha scritto che il Gallo
se n'era andato, non riuscivo a crederci. Sono rimasto senza
parole, confuso, incapace di avere una qualsiasi reazione. Poi
piano piano sono affiorati i ricordi, tantissimi, degli incontri
con il don, dei suoi insegnamenti, della sua straordinaria umanità;
e con i ricordi, un'infinita tristezza per questa perdita devastante.
Don Andrea Gallo, il nostro angelo anarchico, ha sempre lottato
dalla parte giusta, che è quella degli sconfitti,
dei respinti, dei disperati, di chi è stato relegato
ai margini dalle spietate liberaldemocrazie nelle quali ci tocca
(soprav)vivere. Le sue parole, le sue storie, i suoi racconti
di vita vissuta sapevano tratteggiare con un'immediatezza senza
pari un mondo di miserie e di splendori, di solitudine e di
amore. Coinvolgevano tutti. Non escludevano mai nessuno. E sapevano
dare forza e speranza. “Bisogna sempre osare la speranza”,
ripeteva spesso, e non smettere mai di sperare l'impossibile.
Inseguire l'utopia. Citando Edoardo Galeano, il Gallo diceva:
“L'utopia sta all'orizzonte, mi avvicino di due passi,
lei si allontana dieci passi più in là. Per quanto
io cammini, non la raggiungo mai. Quindi, a che serve l'utopia?
Serve a questo: a camminare”. Tantissime persone sono
ancora in cammino, non si rassegnano e attraversano il nostro
tempo adoperandosi, nonostante tutto, per costruire un altro
mondo possibile. Un mondo più libero e più
solidale, senza servi né signori, senza violenza né
coercizione. Un'utopia? Forse. Ma contro un sistema che sacrifica
migliaia di persone ogni giorno e prospera grazie a umilianti
disuguaglianze è assolutamente necessario fare qualcosa.
“So di non essere onnipotente”, scriveva don Gallo,
e tutti noi sappiamo di non esserlo; però egli subito
aggiungeva: “Ma non voglio concedermi la scusa dell'impotenza”.
Non ci si deve rassegnare al pensiero che non si possa cambiare
nulla; occorre invece moltiplicare gli sforzi per dare sempre
più spazio a un'idea di solidarietà liberatrice
in grado di coniugare le libertà, i bisogni e i diritti
di tutti, e vincere ipocrisia ed egoismi. In che modo possiamo
riuscirci? In realtà, non ci sono scorciatoie o modelli
precostituiti. Si trova la via soltanto ricercandola con gli
altri. Ed è proprio ciò che ha sempre fatto
don Gallo, con la sua infaticabile disponibilità a incontrare
tutti e la sua capacità di coinvolgere le persone nel
suo percorso di condivisione, di emancipazione e di lotta all'indifferenza,
che per Andrea era “la summa massima di tutti i peccati”.
Lo avevamo chiamato spesso in Alessandria anche per ricordare
insieme Fabrizio De André, la sua buona novella
libertaria, radicale, umanissima. Determinati a viaggiare nel
mondo sempre in direzione ostinata e contraria. E ora
abbiamo bisogno che Andrea, con Faber, continui a guidare il
nostro cammino. Abbiamo bisogno di stringerci intorno alla sua
Comunità, ai suoi ragazzi, per piangere con loro,
ma anche per costruire un futuro, per proseguire il cammino.
Insieme. Senza mai dimenticare quello che ci ripeteva il don:
“Chi sceglie un'ideologia può anche sbagliare;
chi sceglie i poveracci, i senza voce, i fragili, non sbaglia
mai”.
Giorgio Barberis
Alessandria
Ricordando don Gallo/2. Mai avuto
tanta simpatia per i preti
È da poco calata la sera dentro la mia cella e il blindato
è già chiuso, ho appena saputo dalla televisione
della tua morte. E le ombre dentro questo buco si sono fatte
più fitte.
Ciao don Gallo, oggi sono un uomo ombra ancora più
triste, la tua partenza lascia un altro vuoto nella mia vita
e nel mio cuore.
Non ti ho mai conosciuto di persona e non ho mai avuto tanta
simpatia per i preti dopo tutte le botte che ho preso
da loro in collegio da piccolo, ma tu eri uno di quelli che
da grande mi hanno fatto venire dei dubbi.
Tu, don Gallo, prete di strada, prete degli ultimi, non avevi
esitato a metterti dalla parte dei cattivi e colpevoli per
sempre, degli ergastolani ostativi.
Quando ti ho chiesto di aiutarmi a far conoscere che in Italia
esiste la “Pena di Morte Viva”, l'ergastolo ostativo
ad ogni beneficio, che fa morire in carcere un uomo senza la
compassione di ucciderlo prima, tu sei stato davvero uno dei
primi che ha aderito e il tuo nome è in prima pagina
nella lista dei primi firmatari dell'iniziativa “Firma
contro l'ergastolo” .
Ciao don Gallo, grazie per tutte le volte che hai fatto sentire
la tua voce per noi, che ci hai prestato un po' della tua luce
per dire alla società civile che il male non potrà
mai essere sconfitto con altro male, che non serve a nessuno
la sofferenza di un uomo destinato a morire dentro una cella
che è già la sua tomba.
Ciao don Gallo, ti avevo scritto nella settimana prima di Pasqua
per dirti che nella mia disperazione non volevo festeggiare
la resurrezione, perché io sono un'ombra che cammina,
né vivo né morto, e per me e per tutti i miei
compagni ergastolani non c'è resurrezione e speranza
da festeggiare. Tu non mi hai attaccato e criticato, come hanno
fatto in molti, ma mi hai scritto queste semplici e sostanziali
parole:
“Carissimo do la mia completa solidarietà alla
vs. lotta.
Sempre 'su la testa' nonostante tutto. Ciao, don Gallo”
Ho ancora queste parole attaccate nella mia cella e nel mio
cuore.
Ciao don Gallo, ci mancherai. Ora dovremo fare anche senza di
te e la lotta qui si fa sempre più dura: adesso ci chiedono
anche di dividere la nostra tomba con altri cadaveri, non ci
lasciano neanche più la nostra solitudine nella cella,
come vorrebbe la legge.
Ciao don Gallo, tu vai, io rimango qui a lottare con degli umani
che mi puniscono perché da giovane ho infranto la legge
e dopo 23 anni di carcere devo ancora subire le loro scelte
che vanno contro la legge.
Ciao don Gallo, tu ora che sei libero nell'universo, non dimenticarti
di noi che ancora viviamo murati vivi tra ferro e cemento per
tutti i nostri giorni.
E se incontri il Dio in cui hai creduto, digli per favore se
viene a prendere anche noi: gli uomini non ci vogliono dare
la libertà, anche se dopo tutti questi anni noi non abbiamo
più niente a che fare con l'uomo di 20-30 anni fa che
ha commesso i reati per i quali siamo qui.
Ciao don Gallo, sempre “su la testa” e un sorriso
mesto tra le sbarre, nonostante tutto.
Carmelo Musumeci
Carcere di Padova
carmelomusumeci.com
Ricordando don Gallo/3. L'addio di
Anarchicco
Ricordando don Gallo/4. “Ci
vuol tanto troppo coraggio”
È sabato 25 maggio... una giornata di quelle che in questa
stagione se ne dovrebbero vedere poche.
La pioggia incessante frusta sui vetri del treno, la stazione
di Genova Porta Principe è avvolta nel grigiore, un vento
troppo freddo morde la faccia ed evitare le pozzanghere è
praticamente impossibile. Sono le 9:30 e davanti alla comunità
di San Benedetto al Porto, “sanbe” per gli amici,
c'è già tantissima gente: avvicinarsi alla cassa
di don Andrea è impresa ardua.
La gente si accalca davanti all'ingresso, qualcuno chiede permesso
e tenta di farsi largo per raggiungere l'entrata della piccola
chiesa. Il feretro deve muoversi verso la chiesa del Carmine:
bisogna far spazio altrimenti il don da lì non si sposta.
Dalla testa del corteo funebre sentiamo intonare Bella ciao;
è un attimo e tutti cantiamo all'unisono.
Nel risalire il corteo si incontrano le realtà più
diverse: ci sono i compagni del movimento No Tav, i No DalMolin,
i ragazzi di Libera, quelli della Fossa dei Grifoni del Genoa,
gli operai della Fiom, i camalli di Genova; ci sono le bandiere
delle sezioni dell'Anpi di praticamente tutta Italia listate
a lutto; ci sono le bandiere rosse, quelle rosse e nere della
Fdca e ogni tanto si intravede qualche faccia conosciuta dei
ragazzi dei centri sociali, non solo di Genova.
Poi ci sono loro: “i suoi ragazzi”: quelli della
comunità di San Benedetto, che da anni accoglie persone
in situazione di disagio, con particolare attenzione al mondo
della tossicodipendenza e del disagio psichico. Sfilano con
una maglietta rossa con sopra la scritta: “dimmi chi escludi
e ti dirò chi sei”, frase che spesso recitava Andrea.
Per tutto il tragitto fino alla chiesa del Carmine si intona
Bella ciao.
Tanti i sacerdoti che hanno voluto concelebrare: da don Vitaliano
della Sala, il prete “No global”, salito alle cronache
durante il G8 di Genova, a don Santoro, che in passato pagò
per le sue aperture nei confronti di omosessuali e transgender.
Dagli altoparlanti sistemati fuori dalla chiesa sentiamo parole
in ricordo del don.
Vladimir Luxuria che dal pulpito ha ringraziato don Gallo: “Grazie
per averci aperto le porte della tua chiesa, grazie per averci
aperto le porte del tuo cuore, grazie di averci dimostrato che
una chiesa comprensiva, inclusiva, che non caccia via nessuno
è possibile, grazie di averci accarezzato, grazie di
averci stretto la mano, grazie di averci fatto sentire tutte,
noi creature transgender figlie di Dio, volute da Dio... ci
auguriamo che tanti seguano il tuo esempio e ci auguriamo tanto
che qualcuno ti chieda scusa don Gallo!”.
Poi tocca al fondatore di Libera, don Luigi Ciotti: “Vorrei
dire che Andrea è un sacerdote che ha dato un nome a
chi non lo aveva o se lo era visto negare da qualcuno. Dare
un nome con tenacia e quotidiano impegno e riconoscere la dignità
la libertà della persona, una libertà sui cui
bisogna sempre continuare a scommettere e alla quale non bisogna
mai stancarsi: dare opportunità a tutte le persone”.
Continua parlando dell'atteggiamento della chiesa: “Lui
dice dentro tutti: dentro i gay, dentro le lesbiche, dentro
gli altri, dentro i divorziati”. Infine ricorda il G8
di Genova, la morte di Carlo Giuliani e la “sana rabbia”
davanti alla base Usa DalMolin a Vicenza: “Abbiamo parlato
tante volte e condiviso quel desiderio di verità: il
G8, la morte di Carlo Giuliani, don Andrea ha pianto per lui.
Così come si è indignato davanti alla base americana
di Vicenza: ma cosa ce ne facciamo di quelle cose lì?
Che senso hanno le grandi opere quando non ci sono soldi per
i servizi sociali?”.
Poi un ultimo semplice saluto: “Ciao Andrea”.
La bara esce dal Carmine per raggiungere Campo Ligure. La piazza
esplode nel suo ultimo saluto, non riusciamo a trattenerci:
“Una mattina mi son svegliato, oh bella ciao, bella ciao...”,
i pugni si stringono e si alzano verso il cielo.
Grazie Andrea, perché non hai avuto paura delle gerarchie,
perché hai insegnato che la diversità è
una ricchezza, perché sei sempre stato in mezzo al popolo,
nelle manifestazioni, con i compagni dei centri sociali, perché
hai gridato a testa alta contro le ingiustizie del potere, perché
non hai avuto paura dei benpensanti, perché sei un esempio
di militanza non solo politica, ma anche civile.
La tua Genova piange, piangono i carruggi, che di notte diventano
il limbo, dove l'umanità degli ultimi esce allo scoperto
dell'oscurità, dove tu hai saputo camminare tendendo
la mano. Perché il tuo esempio viva per sempre, perché
le nuove generazioni che non ti hanno conosciuto possano sentir
parlare di te, conoscere la tua forza, il tuo coraggio... perché
a “crepare di maggio ci vuole tanto troppo coraggio”.
Camilla Galbiati
Robecco sul Naviglio (Mi)
Ricordando don Gallo/5. Aspetti
apparentemente contraddittori
Ricorda, Signore,
questi servi disobbedienti
alle leggi del branco
Fabrizio De André
Si è spento fra i suoi ragazzi, nella comunità
che aveva fondato quando parlare di droga era ancora un tabù.
Lì sono stati accolti tossicodipendenti, prostitute salvate
dai loro sfruttatori, immigrati senza un tetto, emarginati,
persone comunque bisognose di aiuto. Don Andrea non aveva mai
paura, chi sta dalla parte degli ultimi, diceva, non sbaglia
mai. Frequentava gli anarchici e i centri sociali, citava Gramsci,
Savonarola e don Milani, era amico di Fabrizio De André
e di Dario Fo, era contro ogni forma di sfruttamento; ma era,
soprattutto, profondamente e autenticamente prete, anzi, come
amava dire lui, prete da marciapiede.
Tutti questi aspetti apparentemente contraddittori si fondevano
in un perfetto equilibrio nella sua straordinaria personalità.
I veri credenti hanno visto in lui una autentica adesione nella
parola del Vangelo; i non credenti avranno apprezzato la coerenza
di un uomo che ha sempre vissuto in conformità con i
suoi valori. A non gradirlo erano soprattutto gli ipocriti,
i prevaricatori, i sostenitori delle ingiustizie. Di fronte
al loro astio si è limitato a scuotere la polvere dai
suoi calzari.
Nel suo libro Angelicamente anarchico ha scritto “Di
me, se possibile, preferirei non lasciare alcun ricordo”.
Ma lui era uno che sapeva apprezzare la difficile virtù
della disobbedienza. Disubbidiamogli, dunque, e portiamo nei
nostri cuori la memoria della sua testimonianza.
Saluti fraterni
Enrico Torriano
Bologna
I
nostri fondi neri
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Sottoscrizioni. Medardo Accomando (Manocalzati
– Av) 30,00; Serena Zanzu (Capoterra –
Ca) 10,00; Salvo Vaccaro (Palermo) 10,00; Antonio
Pedone (Ponte Felicino – Pg) 5,00; Alberto Ciampi
(San Casciano Val di Pesa – Fi) 20,00; Piero
Torelli (Sermoneta – Lt) 10,00; Marco Morelli
(Pomezia – Rm) 10,00; Daniele Caravaggio (San
Vito Chietino – Ch) 10,00; Giancarlo Zilio (Selvazzano
– Vi) 15,00; Aurora e Paolo (Milano) ricordando
Amelia Pastorello e Alfonso Failla, 500,00; Davide
Andrusiani (Castelverde – Cr) 10,00; Andrea
Cassol (Cesio Maggiore – Bl) 30,00; Antonio
Cecchi (Pisa) 15,00; Libreria San Benedetto (Genova)
21,90; Giovanna Ciorciolini (Roma) 50,00; Roberto
Nanetti (Settimo Torinese – To) 10,00; Claudio
Rampazzo (Lumellogno – No) 10,00; Laura Gargiulo
(Sassari) 30,00; Bastiano Sias (Barrali – Ca)
presso la Comunità anarchica di solidarietà,
ricordando Tommaso Serra, 50,00; Carlo Capuano (Roma)
50,00; Gianni Pasqualotto (Crespano del Grappa –
Tv) 70,00; Raimondo Aleddu Salaris (San Vero Milis
– Or) 10,00; Antonio Cardella (Palermo) 40,00;
Adriano Paolella e Linda Carloni (Roma) 500,00; Pietro
Steffenoni (Lodi) 20,00. Totale € 1.536,90.
Abbonamenti sostenitori. (quando non altrimenti
specificato, trattasi di euro 100,00). Paolo
Trezzi (Lecco); Filippo Trasatti (Cesate – Mi);
Davide Radice (Monticello Brianza – Lc) 200,00;
Marco Tullio Valiante (Utikon-Waldegg – Svizzera)
300,00; Ragnaar Brasta Myklebust (Oslo – Norvegia);
Marco Cagnotti (Gordola – Svizzera) 500,00;
Eros Bonfiglioli (Bologna); Renato Girometta (Vicobarone
– Pc) “ricordando Aldo Rossi e Anna Pietroni”;
Valeria Nonni (Ravenna); Pietro Steffenoni (Lodi).
Totale € 1.700,00.
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