anarchismo queer
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“Crea tu il tuo genere” |
La “a” e la “q”
di Samuele Grassi
L'introduzione – che qui proponiamo – al recente volume Anarchismo
queer ci pare un buon approccio alle tematiche a esso legate:
dai nuovi movimenti di contestazione dopo Seattle alla messa in discussione
delle culture “di genere”, dall'analisi critica del patrimonio teorico
e pratico dell'anarchismo alla ricerca di nuove chiavi di interpretazione sociale e di lotta al potere.
Con la proposta di incrociare
etica anarchica e resistenza queer, questo volume lambisce lo
scarto tra i discorsi su autonomia e autogestione in Italia
e in ambito internazionale, in particolare in Inghilterra e
negli Stati Uniti. Un presupposto di questo studio è
che il postanarchismo e le teorie queer condividono spazi, promesse
e ancor più spaccature e passaggi imprevedibili.
Il termine “queer” evoca il superamento delle politiche
identitarie gay, lesbiche, bi- e trans del trentennio che va
dagli anni sessanta alla fine degli ottanta1.
Nella sua accezione di termine-ombrello per racchiudere esperienze
e movimenti di liberazione sessuale esso rischia, però,
di congelarsi intorno alle politiche integrazioniste incapaci
di rapportarsi al pluralismo di differenze costitutivo del termine
stesso; in altre parole, rischia di restare un elemento dell'acronimo
Lgbtiq, per quanto questo sia insufficiente a contenerlo. Nell'ultimo
decennio fenomeni di trasformazione del “queer”
(tra virgolette) in un'etichetta facilmente spendibile sul mercato,
come prodotto-immagine della cultura globale e globalizzata,
hanno rivelato il rovescio del progressismo sessuale riconosciuto
all'Occidente: il carrello di Ikea, per citare solo l'esempio
di una pubblicità recentemente apparsa in Italia che
discuterò in seguito, è la riprova mediatica che
i gay (le lesbiche forse ancora no) hanno finalmente raggiunto
il potere, non solo d'acquisto2.
Ma il queer non è limitato né alla soggettività
gay, né al rapporto dei movimenti di liberazione sessuale
con il mercato; piuttosto, esso rappresenta le promesse disattese
di quello che rimane un ampio progetto politico anti-essenzialista
e anti- (o post-) identitario. Di conseguenza, sondare il terreno
di critica al processo di omologazione queer è parte
di una critica estesa alla normatività oltre i confini
nazionali.
Dalle proteste contro l'Organizzazione mondiale del commercio
a Seattle (Wto, 1999) al May Day di Londra (2000) e alle manifestazioni
contro i summit del G8 in Europa (Praga 2000 e Genova 2001),
Giappone e Stati Uniti, fino al momento presente con il movimento
Occupy!, lo hacking di Anonymous, il caso wikileaks e
la rivolta degli indignados spagnoli, il terreno per
riflettere sulla stanchezza nei confronti del potere sembra
essere conseguenza inevitabile del progresso di un terzo del
mondo a spese dei restanti due terzi; su questo scenario si
è aperto il terzo millennio. Da un lato il desiderio
di abbattere il potere, dall'altro quello di partecipare alla
costituzione democratica del nuovo; cioè il ritorno dell'anti-politica
e dell'utopia – che vedremo al centro della definizione,
di per sé “im-possibile”, del postanarchismo
– avviene nell'ambito di sperimentazioni collettive spesso
offuscate dall'attenzione rivolta a fenomeni di violenza episodica,
dai media come dalla politica istituzionale. Entrambe adoperano
questa strumentalizzazione per reprimere il dissenso e istigare
reazioni di pubblica condanna.
Dalla fine degli anni sessanta, il discorso sull'autonomia si
è concentrato da noi sulle fasi del movimento operaista,
seguendo un tipo di indagine teorico-politica che privilegiava
il modello marxista della lotta di classe: movimenti come Avanguardia
operaia, Lotta continua e Potere operaio, in cui militavano,
tra gli altri, Toni Negri e Primo Moroni dai quali poi prese
forma Autonomia operaia (v. Balestrini, Moroni [1988] 1997).
Dal sessantotto e per tutto il decennio successivo queste realtà
della sinistra extra-parlamentare si sono diffuse su tutto il
territorio italiano parallelamente alla nascita dei centri sociali
autogestiti. Col tempo, la radicalizzazione economista (anti-capitalista)
del movimento autonomo italiano ha rallentato, se non proprio
impedito, che si creassero zone di contatto e contaminazioni
tra il pensiero dell'autonomia e altre categorie sociali tra
cui genere, razza e sessualità. Solo recentemente il
modello autonomista italiano di lotta contro l'egemonia si è
aperto a queste categorie di oppressione. Ne è esempio
UniNomade 2.0 (Napoli), un collettivo di teorici, accademici
e non, studenti e attivisti che hanno creato “un laboratorio
in cui mettere continuamente in tensione e in discussione la
separatezza tra pratiche teoriche e pratiche politiche”
(UniNomade 2.0.), usando quindi la “conricerca”
per osservare la crisi neoliberista da angolazioni molteplici
attente a forme complesse di differenza e oppressione3.
Le esperienze di autorganizzazione delle donne sono un caso
a sé stante rispetto a questo quadro di riferimento,
a dimostrazione che nei regimi capitalisti oppressione economica
e oppressione di genere sono inseparabili. Riprendendo il modello
autonomista/marxista e intrecciandolo con la lotta all'(etero)sessismo,
fin dagli anni settanta le donne hanno interrogato le categorie
di reddito, lavoro, sessualità e riproduzione per denunciare
l'immobilismo del patriarcato e la morale cattolica. Così
possiamo citare per la situazione odierna l'esempio del Movimento
femminista proletario rivoluzionario e del collettivo Facciamobreccia,
riconoscendoli storicamente come frutto di reti de-centralizzate
che hanno combattuto la violenza e lo sfruttamento anche sessuale
con il fine di autodeterminarsi. E forse non è troppo
eccentrico supporre che questo femminismo radicale italiano
abbia tratto ispirazione dal modello di autonomia e autogestione
delle femministe libertarie spagnole Mujeres Libres, che in
soli tre anni durante la Guerra Civile (dal 1936 al 1939) aggregarono
20.000 donne contro l'oppressione sistematica, anche quella
interna al movimento anarchico spagnolo, per rivendicare l'auto-determinazione
economico-politica, socio-culturale e sessuale (v. Ackelsberg
1991; Nash 1975; trad. it. 1991).
La nascita del cosiddetto “movimento dei movimenti”
durante le manifestazioni no-global a Seattle ha rappresentato
una vera e propria apertura al cambiamento. Riprendendo le esperienze
del Social Forum Mondiale di Porto Alegre nel 2002, realtà
autonome dei centri sociali, dell'associazionismo e organizzazioni
non governative sono entrate in contatto con l'attivismo Lgbt
anche in Italia, aprendosi alla contaminazione e allo scambio
e condividendo le proprie esperienze a livello locale. Al Social
Forum Europeo di Firenze dello stesso anno, ad esempio, il gruppo
bolognese Antagonismogay (oggi con il laboratorio Smaschieramenti)
proponeva di indagare la coppia vivibilità-visibilità
dei soggetti non eterosessuali in rapporto alla dicotomia normalizzazione/controllo,
cioè di esaminare le ricadute di strategie politiche
Lgbt assimilazioniste nel quadro della deriva neoliberista delle
società occidentali. Su questo paradigma, insieme con
altre realtà Lgbt/queer e trans italiane e gruppi dalla
Grecia e dal Portogallo, gli attivisti bolognesi combattevano
il patriarcato etero-sessista, benestante, bianco e omofobo
su cui si fondano le società neoliberiste. Allo stesso
tempo, però, interrogavano anche l'altra faccia del modello
integrazionista Lgbt, cioè il paradigma del progressismo
sessuale in quanto strategia a sostegno delle missioni civilizzatrici
e guerrafondaie condotte dalle potenze occidentali (v. Azione
gay e lesbica 2004)4.
Queste
dicotomie strutturano i modelli di gestione della lotta al terrorismo
da parte delle “democrazie sessuali” – espressione
riferita a “'regim[i] di giustificazione' dove convivono
e si intrecciano i discorsi che riconoscono cittadinanze sessuali
come marchio distintivo della superiorità dell'occidente
e i discorsi nazionalisti e imperialisti legittimati da questa
presunta superiorità”5.
Esiste oggi un rapporto diretto tra l'assetto delle società
occidentali e le politiche coloniali e imperialiste, come afferma
Barbara de Vivo a proposito della campagna del governo di Nicolas
Sarkozy in Francia (2010) sul divieto di indossare il velo integrale
in pubblico:
“Le popolazioni immigrate di origine musulmana (e non
solo) sono specularmente costruite come un corpo estraneo rispetto
alla società civile europea poiché portatrici
di valori tradizionali che contrastano e mettono a rischio l'avanzamento
dei diritti in Europa. Questo uso strumentale dei diritti è
indirizzato verso una vera e propria concorrenza tra le donne,
i soggetti Lgbtq e gli immigrati, e tra i sistemi di dominio
quali il sessismo, l'omofobia e il razzismo [...] l'unico margine
di 'emancipazione' per le donne, i gay e le lesbiche musulmane
è quello di allontanarsi dalle 'culture di origine' e
dalle proprie famiglie 'tradizionali' per metterle sotto accusa
dopo aver abbracciato il discorso emancipazionista su base concorrenziale
in Occidente” (2011: 158-159).
Alle donne e agli uomini musulmani in particolare, e più
in generale ai soggetti etnici, eterosessuali e non, si richiede
di sottoporsi a vere e proprie forme di amnesia che riguardano
il senso di appartenenza e il modo di vivere la propria cultura
(v. Puar 2007: 27; Butler 2009). Solo così è loro
possibile ottenere il riconoscimento delle società ospitanti
in qualità di “soggetti civilizzati” in diritto
di cittadinanza: costruzione egemonica volta all'assimilazione
agli ideali nazionalisti degli Stati che accolgono. La reificazione
del mondo musulmano è avvenuta secondo una scelta tra
due termini: il terrorismo (i musulmani sono da combattere)
o il multiculturalismo (i musulmani sono da assimilare, da inglobare),
accomunati dalla “retorica della modernità sessuale
che costruisce il centro imperialista come 'tollerante' e al
contempo giudica l'altro arretrato come 'omofobo' e 'perverso'”
(Eng, Halberstam, Muñoz 2005: 8). Ricordare gli interventi
di giornalisti come l'egiziano Magdi Allam, frequenti sulle
reti televisive italiane durante la guerra in Iraq e strumentalizzati
per facilitare la circolazione della figura del musulmano-terrorista
facendo appello alla necessità di “sanare”
una cultura retrograda e pre-moderna, è utile per capire
quanto questi discorsi ci interpellino direttamente, ma soprattutto
come rimettano la questione della “responsabilità”
al centro del dibattito filosofico-politico radicale6.
A posteriori, i governi delle cosiddette superpotenze occidentali
hanno dimostrato la loro incapacità di gestire l'alterità
e le forme del dissenso, se non ricorrendo alla costruzione
di barriere di paura e di odio, o all'uso della violenza militare.
L'Italia, per citare solo i casi più evidenti, si trova
a fare i conti sia con il peso dei fatti accaduti alla scuola
Diaz e l'uccisione di Carlo Giuliani, sia con gli effetti di
una politica dell'immigrazione basata sul rafforzamento dei
confini e delle divisioni tra il medesimo (occidentale) e l'Altro
(non-occidentale), tra “noi” e “loro”,
tra civiltà e pre-modernità.
Nel caso dell'Italia, ciò riguarda sia il ruolo degli
Stati Uniti nell'assetto delle potenze mondiali sia quello dell'Europa,
dove perdurano le volontà di implementare una Unione
di entità sovranazionali come soggetto politico-economico
autonomo (v. Anim-Addo, Covi, Karavanta, 2010a, a cura di).
Esse sono in conflitto con il rafforzamento dei confini con
cui i vari Stati intendono difendersi dai nemici esterni e interni,
che si tratti dell'Islam come entità univoca o di popolazioni
immigrate e/o richiedenti asilo che cercano di raggiungere le
coste mediterranee settentrionali, pagando (a) qualunque costo,
spesso con la vita. Creare nuove forme di pluralismo democratico
che operino ai e sui limiti di società
liberaliste sul modello di quella statunitense permette di sottrarsi
a quelle realtà cooptate nel progetto nazionalista degli
stati-nazione su base eurocentrista: un compito necessario per
chi è impegnat* in progetti teorico-politici di critica
non solo all'eterosessualità normativa.
Relazioni
Dai primi anni novanta, la filosofia politica sollecitata
dal termine “postanarchismo” si è interrogata
sul bisogno di rileggere le origini della teoria e della prassi
anarchiche per sviluppare nuove pratiche etiche della responsabilità.
Così come il queer rischia di essere ridotto a un termine
ombrello con cui rinunciare alla differenza in cambio di visibilità
e assimilazione, il postanarchismo rischia di diventare slogan
di una politica difficilmente spendibile in termini di rapporti
tra l'individuo e il sociale, rischio in parte connesso all'uso
del prefisso “post-” (v. capitolo I). Nell'obiettivo
di precisare la scelta terminologica tra anarchismo e postanarchismo,
in questo libro adotterò il secondo riferendomi a tesi
e testi che operano nell'ottica di espandere i limiti di una
visione (l'anarchismo “classico”) ritenuta obsoleta,
rileggendo o dialogando con altre filosofie radicali del novecento
come il poststrutturalismo francese, il femminismo, gli studi
sul genere e la sessualità, le teorie queer. “Anarchismo”,
invece, indicherà la filosofia politica radicale propositiva
di un'etica anti-autoritaria, storicamente collocata nel XIX
secolo ma sempre e ancora internazionalmente attiva; un insieme
eterogeneo che ricondurrei a tre questioni principali: la critica
al potere, la relazionalità e l'utopia come parametri
per la ricerca di forme non-gerarchiche del vivere (v. Daring
et al. 2013a, a cura di; Gurrieri 2010).
Le teorie queer hanno radicalizzato il discorso sul genere e
la sessualità muovendo da un'articolazione fluida dei
due concetti, e attivando una serie di pratiche discorsive non-egemoniche
che sembrano incrociarsi produttivamente con il discorso postanarchico.
Il modello della performatività queer presuppone una
corrispondenza univoca tra “dire” e “fare”
qualcosa, quindi è breve il passo verso la concezione
di un mondo che si fa teatro e di un teatro che è già
mondo (Frabetti 2011a: 33, 30). La performatività queer
ha attraversato la filosofia del linguaggio di John L. Austin,
il decostruzionismo di Jaques Derrida, le teorie sul genere
di Judith Butler (1990, 1993 e 2004) e Eve Sedgwick (1990).
In particolare, Derrida ha contribuito presupponendo che qualunque
cosa accada in situazioni ordinarie del sociale è inclusa
in un catalogo di convenzioni normative che la rendono accettabile;
si tratta, appunto, di citazioni senza matrice7.
In questo modo, il queer ha sovvertito la concezione essenzialista
delle lotte identitarie (lesbo, gay, bi-, trans) come un caos
rivoluzionario dalle forti connotazioni anarchiche, che tuttavia
sono sempre state parte di un'etica della liberazione sessuale
(v. Daring et al. 2013a, a cura di; Heckert, Cleminson,
2010 e 2011a, a cura di; Kissack 2008).
Il caos anarchico continua oggi a essere associato, spesso per
comodità, a un'etica della violenza che le idee proposte
in questo volume rifiutano. Inserendosi nell'ambito di teorizzazione
offerto da un numero ancora esiguo di testi circolati in Italia
di recente, così come da un numero maggiore di siti internet
e blog, questo saggio intende piuttosto mettere l'accento su
quelle forme di resistenza che, sfruttando la rete (anche nel
senso di Internet) per la circolazione di resoconti di esperienze
e materiali di vario tipo (audio, video, scritti ecc.), rappresentano
esempi documentari importanti di interventi autogestiti di grande
impatto.
Penso, ad esempio, alle pratiche di azione diretta del Clandestine
Insurgent Rebel Clown Army (Circa), vere e proprie performance
collettive ispirate ai movimenti di teatro di strada come l'agit-prop
e altre avanguardie degli anni sessanta e settanta. Nato nel
Regno Unito nell'ambito delle proteste contro la guerra in Iraq
e poi diffuso in altri paesi europei, il Circa propone l'uso
del linguaggio del corpo per inscenare proteste dalla teatralità
giocosa e ironica, partecipate da attiviste/i in tuta mimetica,
trucco e parrucche da clown. Penso alla mobilitazione in occasione
del G8 a Gleneagles, in Scozia (2005), una delle tante costruite
dal gruppo, durante la quale i militari-clown stringevano in
un abbraccio i membri delle forze dell'ordine, mimando pianti
e risate di gruppo, schioccando baci col rossetto rosso sugli
scudi anti-sommossa della polizia. Sono immagini straordinarie
e dirompenti per la sincerità con cui queste pratiche
de-codificano e ri-codificano il corpo per riprendere spazi
che ci sono stati sottratti e ristabilire “legami di comprensione
infiniti” (Maddog 2009) oltre ogni confine, barriera e
differenza con cui il neoliberismo ha reciso l'essenziale socialità
umana.
Nonostante i tentativi coatti di repressione, screditamento
e marginalizzazione, l'ondata di dissenso a livello mondiale
ha dimostrato il bisogno di negoziare alternative sostenibili
al capitalismo e al suo collasso. Essa ha ripensato la rivoluzione
come negoziato continuo e come esplorazione di forme di resistenza
collettiva, agite abbattendo confini e superando barriere in
nome di una giustizia universale ben diversa da quella predicata
dalle istituzioni senza effettiva ricaduta sul sociale:
“Le forme di protesta e di opposizione che stanno evolvendosi
in mezzo mondo, puntano i piedi sull'estrema necessità
di ripensare le forme della comunicazione, una conquista. Collettivi
molto radicati propongono tattiche inesplorate nelle strade
durante cortei anti-capitalisti con una passione differente
e veramente coinvolgente, magari anche con riferimenti più
pungenti e sotterranei” (Maddog 2009).
In questo tipo di mobilitazioni vi è la stessa teatralità,
la stessa propensione all'aspetto ludico della resistenza e
alla sovversione di linguaggi attraverso il corpo che ha contraddistinto
l'attivismo dei movimenti di liberazione sessuale dal Gay Liberation
Front a Stonewall fino ad Act Up, prima negli Stati Uniti poi
in Inghilterra nell'attivismo di OutRage! dei primi anni novanta.
Le pratiche di azione diretta di questi movimenti rappresentavano
forme “esperienziali” di teatro per valutare “non
soltanto un futuro alternativo, possibile, ma anche quali identità
potessero costruirsi al suo interno” (Greer 2012: 134,
136). Seguono e hanno seguito questi esempi le reti internazionali
anarcoqueer, tra cui Bash Back!, Gay Shame, Ladyfest, Queers
Without Borders, Queeruption e Queer Mutiny. Con una storia
relativamente recente e in parte giù documentata in ambito
anglofono e in altri paesi in Europa, esse sovrappongono discorsi
ed etiche antagoniste queer, femministe, anticapitaliste e antirazziste,
partecipando in azioni di massa transitorie e incontenibili.
Ognuna di queste reti costituisce una micro-politica dell'effimero,
che corrisponde alla definizione di T.A.Z. – zona temporaneamente
autonoma di Hakim Bey: “una sommossa che non si scontri
direttamente con lo Stato, un'operazione di guerriglia che libera
un'area (di tempo, di terra, di immaginazione) e poi si dissolve
per riformarsi in un altro dove, in un altro tempo, prima che
lo Stato la possa schiacciare” (1991; trad. it. 2007:
15)8. Ancora in questo ambito
è da collocare il movimento pink, un insieme disperso
di pratiche libertarie del desiderio e del piacere anche sessuale,
di etiche hacker “black, pirate”, le cui radici
affondano nelle sottoculture punk dagli anni settanta in poi:
“La chiave di volta del Pink è costituita da forme
di convergenza fra tendenze e forme d'espressione pink queer
e attivismo noglobal, secondo una progressione/commistione di
significati che possiamo sintetizzare come pink, punk, no global
[...] Pink vuol dire femminista, queer, strano, libertario,
vuol dire dissenziente, deviante, vuol dire aggressività
gioiosa. Tutte qualità intrinsecamente eretiche e noglobal”
(Foti 2009: 46, 47).
È interessante notare come, per i motivi esplicitati
in apertura a questa introduzione, in Italia spesso attivismo
pink, antagonismo queer, teorie e pratiche anti-autoritarie
convergano, senza necessariamente auto-definirsi anarcoqueer
come invece avviene in altri Paesi: con l'eccezione delle mailing-list
“Deviazioni” (http://www.ecn.org/deviazioni/)
sul sito Ecn (Isole nella rete) e il blog “anarcoqueer.wordpress.com”
di recente formazione, si tratta perlopiù di collaborazioni
internazionali e di attività – dalla circolazione
di materiali in Rete all'organizzazione di raduni, convegni,
gruppi di discussione e interventi – da parte di movimenti
attivi in varie zone sul territorio nazionale. Basandomi su
scritti che trattano di networking, antagonismo radicale e sottoculture
queer (A/I 2012; Bazzichelli 2006; Foti 2009; Ilardi, 2009,
a cura di; Warbear 2009a, 2009b) e su informazioni tracciabili
in Internet fino al passaparola di contatti negli ultimi due
anni, in questo studio discuterò dei gruppi Antagonismogay/Smaschieramenti,
FrangettEstreme, Mujeres_Libres, Sexyshock di Bologna; A/Matrix,
OrgogliosamenteLGBTIQ, Phag Off! e il collettivo Facciamobreccia
di Roma; Pornflakes queer crew di Milano e la Torino Samba Band.
Al momento, il recente libro La società de/generata
di Alex B. (2012)9 risulta
inoltre essere il primo e finora unico studio a trattare sul
piano teorico l'evoluzione di un anarchismo queer, dimostrando
lo stato ancora tutto “in-divenire” di queste istanze
di critica anti-normativa.
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“Quest'anno va di moda il rosa su fondo nero” |
Utopie
In contesti anglofoni, l'espressione queer(ing) anarchism
si riferisce alle connessioni possibili tra i modi di fare esperienza
del mondo attraverso la lente della sessualità, caratteristici
del queer, e i principi anti-autoritari dell'anarchismo10.
Secondo Deric Shannon e Abbey Willis questo incrocio è
anzitutto capace di sovvertire ogni criterio di oggettività
poiché rifiuta l'autorevolezza di un unico punto di vista
proponendo al suo posto un pluralismo di prospettive: “un
collasso dell'anarchismo per accogliere una anti-identità
politica allo stesso modo in cui il queer doveva rispondere
(o, forse, estendere la domanda?) alle questioni di identità
sessuale e di genere” (2010: 440); e suggeriscono di perseguire
un “poliamorismo teorico” che adotti posizionamenti,
sviluppi discorsi e prospettive eterogenee e anche apparentemente
contraddittorie, nel privato come nel pubblico-politico: “una
discussione per stabilire connessioni tra i modi di amare e
di pensare, e abbattere le barriere del pensare/agire/amare
e così via accettate in un mondo di principi gerarchici,
di coercizione e di controllo. Un controllo in parte svelato
se si dimostra il processo di naturalizzazione di queste distinzioni
categoriche e si inizia a mettere in discussione la necessità
di operare distinzioni tra modalità differenti di interessarsi
alla vita e alle idee” (2010: 440).
Sempre seguendo Shannon e Willis, nella seconda parte di questo
volume incrocerò teorie e posizionamenti non sempre facilmente
intersecabili al fine di dimostrare la loro rilevanza per una
critica anti-essenzialista alla normatività. Da tali
processi di sovrapposizione e contaminazione emergeranno quelle
che definisco “etiche della responsabilità”11.
Nel tentativo di attribuire una riflessione teorico-filosofica
e un soggetto politico alle connessioni in oggetto, Benjamin
Shepard individua una serie di affinità tra prassi postanarchiche
e queer: entrambi scelgono “il piacere e la democrazia
diretta piuttosto che le logiche del profitto”, e promuovono
un concetto di libertà basata sull'auto-determinazione
che comprenda anche “esperienze eclettiche, dinamicità
e sperimentazione” e critichi ogni forma di normatività.
Infine, nel rivendicare “il rispetto del piacere”
contro il proibizionismo sessuale, postanarchismo e queer condividono
“una cultura della resistenza” sottoforma
di T.A.Z. (nell'anarchismo) e controculture (nel queer) (v.
2010: 515-18). A queste linee, che condivido, aggiungerò
a fine volume un altro importante termine di confronto ripreso
dal femminismo deleuziano di Rosi Braidotti e dalla critica
alla violenza etica di Judith Butler: il concetto di “responsabilità”.
Il sé è sempre vulnerabile all'Altro e viceversa,
dice Butler; nel momento in cui il soggetto si rende umilmente
consapevole della propria vulnerabilità, l'etica si apre
all'incontro con e tra differenze (2005; trad.
it. 2006). L'anarchismo queer, così come è mio
obiettivo presentarlo, rappresenta il tentativo di contaminare
i confini tra teoria e pratica, di radicalizzarli attraverso
letture anti-autoritarie delle differenze seguendo i percorsi
inevitabilmente affini del (post-)anarchismo e del queer, per
riflettere su quali nuove dimensioni di libertà consentono
e, soprattutto, quali vietano: un discorso dedicato al confronto
con alcuni principi, su tutti quelli di democrazia, pluralismo,
singolarità, etica, sostenibilità e responsabilità12.
Red Emma
Il volume è organizzato come segue. Nel capitolo I
riassumo i tratti significativi delle teorie di Lewis Call,
Todd May e Saul Newman attraverso una lettura dettagliata di
alcuni loro scritti, concentrando l'analisi su tre questioni:
la localizzazione del post-anarchismo nell'ambito delle filosofie
politiche radicali contemporanee, la critica al potere e le
figure della resistenza da loro proposte. In questo capitolo
è importante il concetto di genealogia ripreso dagli
studi di Michel Foucault: un metodo d'indagine a cavallo tra
storia, filosofia e sociologia che interroghi le condizioni
di emergenza di un fenomeno anziché limitarsi a posizionarlo
su un asse puramente cronologico. Essa “serve a sovvertire
l'apparente inevitabilità del presente. Dirompente, sovversiva,
la genealogia sottolinea l'alterità del passato mostrando
la propria immagine multipla nel presente, un'immagine soggetta
a un'alienazione costitutiva” (Love 2007: 44). L'anarchismo
“della soggettività” con cui Newman, leggendo
Max Stirner e Foucault, propone un soggetto (post)anarchico
anti-essenzialista, plurale e democratico, è un concetto
rilevante per l'etica, sul quale torno più volte nel
corso del volume. Introdotto in vari scritti il postanarchismo
come nuova filosofia politica in Italia, Salvo Vaccaro sostiene
infatti che: “quando il post-anarchismo riflette intorno
alla soggettività, intende anche offrire come spunto
di riflessione l'interrogativo sull'unità del soggetto
storico incarnato nei corpi degli individui, contrapponendo
a tale categoria la nozione più sfumata di singolarità,
al plurale, che convivono entro la cornice identitaria di uno
stesso individuo” (2008: 8).
Prendo dunque in esame la questione di una soggettività
anarchica queer, se questa sia in grado di prefigurare mappature
sostenibili del radicalismo politico o se addirittura essa non
sia già parte integrante dei rispettivi progetti –
il postanarchismo e il queer – che compongono l'analisi
di questo saggio.
Il capitolo II, seguendo Foucault e Butler discute il principio
di opacità del soggetto come presupposto di un'etica
relazionale della vulnerabilità; verso questo tipo di
etica anti-fondazionalista si orienta la discussione del rapporto
tra femminismo e anarchia da Mary Wollstonecraft a Emma Goldman,
per poi arrivare alle tracce di soggettività anti-autoritarie
negli scritti di femministe non-essenzialiste della fine del
secolo scorso. Gli scritti di Goldman sono fondamentali per
la costruzione di una genealogia del femminismo anti-autoritario;
come sostiene Bruna Bianchi, “attraverso la sua vita e
la sua elaborazione teorica [Goldman] ha contribuito a dare
una dimensione femminista all'anarchismo e una dimensione libertaria
al femminismo” (in Goldman 1910; trad. it. 2009: 21)13.
Goldman si concentrava su questioni molteplici, dalla necessità
per ogni donna di emanciparsi dalla doppia tirannia subita sia
a livello personale/intimo sia come soggetto politico, alla
“tragedia” del suffragio che, in quanto movimento
borghese, non poteva né affrontare radicalmente né
tantomeno risolvere l'oppressione femminile nel sociale (v.
Bettini 1999). Ma intanto qualcosa si poteva fare, perché
“la vera emancipazione non inizia dai seggi elettorali
né dai tribunali. Ha inizio nell'animo della donna”
(Goldman 1910; trad. it. 2009: 114).
Goldman credeva nella pratica dell'amore libero come alternativa
radicale al matrimonio e si schierava apertamente contro la
“tratta”, un subdolo meccanismo patriarcale che
costringeva le donne, specie quelle non sposate, a prostituirsi
(v. Jose 2005); e combatteva affinché le donne si liberassero
dai “tiranni interiori” effetto del sessismo in
ogni relazione sociale disponibile (v. Jose 2005), che impedivano
lo sviluppo autonomo di individui liberi capaci di condividere
forme di socialità alternative alla “bancarotta
morale” dello Stato. Intrecciando femminismo e anarchia
nella teoria e nella pratica, la resistenza allo Stato proposta
da Goldman era una “combinazione strategica di individualismo
e sessualità per destabilizzare le definizioni patriarcali
di genere” (Borghi 2002: 6).
Le variazioni del e sul genere in Goldman possono
essere lette dal punto di vista di una “androginia intellettuale”
rintracciabile anche nell'appello di Wollstonecraft alla maschilizzazione
delle donne in un passo interessante di A Vindication of
the Rights of Woman[Rivendicazione dei diritti delle
donne]: “se è contro l'imitazione delle virtù
maschili, o più propriamente, il raggiungimento di quelle
capacità e virtù il cui esercizio nobilita il
carattere e innalza le femmine nella scala degli esseri animali,
quando le si include entro il termine comune di umanità,
credo che tutti coloro che le osservano con occhio filosofico
si augurino con me che esse diventino sempre più mascoline”
(1792; trad. it. 2008: 29).
Wollstonecraft continua qui una discussione precedente, nella
quale ha discusso l'ostracismo sociale subito dalle donne che
mostrano abbigliamento, abitudini o comportamenti non conformi
agli stereotipi di femminilità della morale borghese,
e osserva che “se una donna di intelletto tenta di dare
un'inclinazione più razionale alla conversazione, la
fonte comune di consolazione è che questa donna difficilmente
troverà marito” (1792; trad. it. 2008: 123).
Appropriandosi di questi stereotipi e ribaltandone gli esiti,
il suo obiettivo non è sostituire il potere femminile
a quello maschile, poiché questo comporterebbe solo un
temporaneo spostamento di confini, ma lavorare in un'ottica
di ri-significazione del genere. Un'ottica che attraversi il
maschile e il femminile verso articolazioni mobili, fluide,
antitetiche al potere repressivo della società e della
cultura messa sotto accusa attraverso la sua disamina del sistema
educativo nell'Inghilterra di fine settecento.
Il femminismo nord-americano non-bianco
Il femminismo ha condotto battaglie da una pluralità
di prospettive, partecipando a teorie e pratiche in costante
ridefinizione. Così come è avvenuto per alcune
teorie queer, il femminismo identifica il luogo di “un
movimento (un queering)” tra posizionamenti diversamente
situati e localizzabili all'interno di un progetto ampio di
liberazione dalle oppressioni, su tutte la lotta al sessismo
(Busarello 2010: 57). Nella gestione di queste lotte, il femminismo
ha posto almeno due ordini di problemi, il primo dei quali riguarda
la natura dell'oppressione. In particolare, esso ha stabilito
“che le forme di oppressione non sono tutte identiche,
ma anzi diversamente strutturate, e che si intersecano
in incarnazioni complesse. Il confronto tra i differenti assi
d'oppressione sarebbe dunque un lavoro cruciale, non perché
consentirebbe di gerarchizzare le oppressioni, ma, al contrario,
perché la relazione che ciascuna oppressione intrattiene
con altre particolari articolazioni del sistema culturale potrebbe
essere singolarmente rivelatrice” (Sedgwick 1990; trad.
it. 2011: 66).
Il secondo ordine di problemi riguarda il confronto con la creazione
di soggetti e figure della resistenza che non corrano il rischio
di replicare strutture e meccanismi autoritari – un ambito
in cui rimane vitale, almeno fino dagli anni ottanta, il contributo
del femminismo nord-americano non-bianco, al quale guardo, in
parte, per discutere la prospettiva di alcune soggettivazioni
femministe a conclusione del capitolo II: il cyborg di Donna
Haraway, il soggetto intersezionale di Kimberlé Crenshaw
e la mestiza di Gloria Anzaldúa14.
Con la scelta di tesi e testi di una genealogia come la mia
intendo sostenere che le zone di contatto tra femminismo e anarchia
non si concentrano sull'archivio anarco-femminista “canonico”,
che dovrebbe necessariamente includere anche Voltairine de Cleyre,
Angela Heywood, Louise Michel, Etta Palm e Lois Waisbrooker,
e, dagli anni settanta, le zines, i testi di Martha Ackelsberg,
Carol Ehrlich, Peggy Kornegger così come lo SCUM Manifesto
di Valerie Solanas (1967) fino alla raccolta di testi del
gruppo Dark Star Collective (2002) e, in Italia, all'etica cyber
di Helena Velena, indubbiamente importanti. Apro però
la sezione sulle radici del femminismo anti-autoritario dall'incontro
tra Wollstonecraft e William Godwin, per poi arrivare a dialogare
con tesi e testi anche di femministe che non si definiscono
anarchiche, ma che presentano affinità più o meno
marcate con discorsi che intreccerò, tra queste Donna
Haraway e Rosi Braidotti. Come sostiene Alix Kates Shulman,
infatti, l'etica femminista e una politica antiautoritaria come
l'anarchismo sono entrambi “sostanzialmente e fortemente
anti-gerarchici e anti-autoritari. Entrambi operano in forme
di organizzazione sociale consensuali dal basso, si affidano
all'impegno collettivo di gruppi esigui, come ad esempio i centri
di assistenza domiciliari, centri di accoglienza per donne maltrattate,
squadre anti-stupro, gruppi per la presa di coscienza, anziché
grandi coalizioni di partito; entrambi poi scelgono il cambiamento
attraverso l'azione diretta” (2007: 252).
Nel capitolo III indago alcuni aspetti dei presupposti etico-politici
del discorso antirelazionale/antisociale di alcun* teoriche
e teorici queer. In risposta alla capitalizzazione (in parte
anche mediatica) delle identità sessuali, costoro rifiutano
la felicità imposta dai modi di vivere out and proud
proponendo politiche del fallimento, delle passioni tristi,
di sessualità anti-normative con le spalle volte al futuro;
e mostrano l'ubiquità di relazioni con il potere definite
il fondamento di un progresso continuamente riattivabile e riattivato,
dietro al quale r-esistono soggetti e articolazioni effimeri
e rivoluzionari. Queste riflessioni formano il contesto per
discutere l'omonormatività e l'omonazionalismo prendendo
spunto anche dalla lettura di testi culturali di massa (pubblicità
e fotografia), ognuno dei quali diventa una “scena strutturante
dell'interpretazione” (Butler 2009: 85), cioè compie
di per sé l'atto di interpretare l'oggetto/il soggetto
rappresentato. Nella teoria e nella pratica, il queer abita
gli spazi dell'utopia poiché comprende una parte politica
di contestazione di ciò che esiste, segnando il limite
di ciò che esiste e di ciò che “potrebbe
essere” (v. Muñoz 2009: 38). Se la molteplicità
di punti di vista adottata per confrontarsi con i discorsi sulle
differenze e la loro diversa realizzazione sovverte il binarismo
“dentro/fuori”: dentro/fuori la “teoria, dentro/fuori
la ”resistenza“, dentro/fuori la “politica”,
ci si interroga su ciò che comporti in termini di costi,
di sostenibilità e responsabilità [accountability]
per il soggetto; e su come si giustificano questi costi nell'ambito
di una critica alla normatività del potere e al potere
della normatività.
Lo sforzo necessario per abbandonare le strutture invisibili
del sé, quelle che Wollstonecraft riconduceva all'ideale
borghese di sensibilità nell'Inghilterra del Settecento
e che Goldman definiva “tiranni interiori”, è
un passo importante, se non il più urgente. Promuovere
iniziative che prevedano un certo distacco dai fondamenti del
consenso democratico è altrettanto necessario; questo
spostamento può aiutare a differenziare tatticamente
– nel senso che ricorre in questo volume (cfr. May 1994;
trad. it. 1998) – il “noi” collettivo da un
“io” impuro, anti-fondazionalista in ricerca di
sostenibilità etiche che includano la relazionalità
con l'Altro. Si tratta quindi anche di coltivare “alleanze
non violente” (Frabetti 2011b: 85) alternative alla comunità,
la quale è inevitabilmente costruita in base alla logica
binaria inclusione/esclusione e quindi a un meccanismo gerarchico
costretto a ripetersi.
A proposito di anarchia
Sull'onda di questo ragionamento Newman sostiene che, nelle
loro tesi, Foucault, Gilles Deleuze e Félix Guattari
hanno finito col replicare, almeno in parte, la logica binaria
del potere: hanno investito di una certa autorità una
serie di figure anti-essenzialiste (i corpi e i piaceri per
Foucault, il corpo-senza-organi e il rizoma per Deleuze e Guattari)
che, per quanto efficaci, non riescono a portare a termine la
creazione di un soggetto, aggiungerei “incarnato”,
della resistenza. Diversamente, la decostruzione di Derrida
“permette di aprire il dominio dell'etica alla re-interpretazione
e alla differenza, e quest'apertura è di per sé
etica. È un'etica dell'impurità. Se la moralità
è sempre contaminata dal suo altro – se non è
mai pura – allora ogni giudizio morale, ogni decisione
è per necessità indecidibile. Il giudizio morale
deve sempre essere auto-inquisitore e cauto, perché privo
di fondamenti assoluti” (Newman 2001: 127).
Un'entità etica consapevole della propria impurità
serve a Newman come veicolo per confutare il presupposto morale
della legge. L'ideale di giustizia derridiano non si sedimenta,
continua Newman, si modifica di volta in volta a seconda delle
contingenze; il suo unico legame di dipendenza è con
un'etica della responsabilità che ne contraddistingue
e ne caratterizza la costituzione15.
La giustizia “conserva la legge poiché opera in
nome della legge; ma allo stesso tempo sospende la legge nel
processo di reinterpretazione continua”. Se ad “anarchia”
si sostituisce il termine “an-archia”, cioè
un tipo di azione “costretta a rendere conto di se stessa,
proprio come questa costringe l'autorità a fare altrettanto”,
è possibile aprire l'esterno all'interno, costituire
resistenza dall'interno del potere verso un fuori in
continuo movimento: “Derrida allude alla possibilità
di un fuori generato dall'interno [...] Rivela questa 'linea'
dell'indecidibilità esistente tra interno e esterno,
e opera ai limiti dell'interno per trovare un esterno, proprio
come opera ai limiti della tesi poststrutturalista per trovare
un 'oltre'” (Newman 2001: 128, 130-131).
L'an-archia, per Newman, allude in effetti all'impossibilità
di affidarsi a principi morali e/o linee guida come forme di
prassi politica e etica. Il poststrutturalismo ha dimostrato
che i concetti di moralità e razionalità su cui
si è impostata gran parte della filosofia politica, se
essenzializzati, sono in realtà strumenti normativi per
“giustificare il dominio” di soggetti non conformi
(2001: 161-164). Per questo motivo, un'etica senza fondamento
(v. anche May 1994), che attraverso la significazione vuota
[empty signification] della semiotica rompa il legame
significante-significato per aprire al divenire e al pluralismo,
potrebbe performare il ruolo di un “tendere a” che
ritengo abbia affinità profonde con le teorie queer.
Occorre tuttavia precisare che, più che di una rottura,
si tratta, come si vedrà, di una tensione tra significante-significato
e un'etica del divenire in cui il soggetto si (ri)crea ogni
volta in maniera diversa. In altre parole, la contraddizione
diventa il presupposto dell'etica, anziché un ostacolo
alla sua affermazione, poiché genera possibilità
e alternative inaspettate (Newman 2001: 165, 167).
A questo proposito, Federica Frabetti, parlando del suo rapporto
con il queer, fa riferimento alla “possibilità
di pensare a un futuro possibile come promessa non messianica,
come l'inatteso [...] come portatore di qualcosa che non possiamo
prevedere (e che perciò cambierà il mondo)”
(in Pustianaz, 2010, a cura di: 85). “Queering anarchia”
(capitolo III) vuol dire anche riconoscere che queste due politiche
radicali condividono un investimento passionale nei luoghi dell'altrove,
in un futuribile ancorato al presente che deve necessariamente
restare eccentrico, evitando di cristallizzarsi su identità
fisse e di perdere la sua sostanziale radicalità antagonista.
Così facendo il queer incrocia già il dominio
etico del postanarchismo; per Newman, ad esempio, l'inatteso
è alla base di teorie e prassi in grado di prendere le
distanze da un'etica fondata su principi immutabili, e di permettere
di sperimentare nel presente forme di sostenibilità posticipate:
“non bisogna accontentarsi mai delle forme esistenti di
democrazia ma piuttosto impegnarsi per una maggiore democratizzazione
nel qui e ora; per un'articolazione continua della promessa
democratica im/possibile di una libertà e un'egualità
perfette [...] e integrare il concetto di democrazia a venire
con una micro-politica e un'etica libertaria allo scopo di rimuovere
i nostri investimenti psichici nel potere e nell'autorità
inventando pratiche inedite della libertà” (2010:
180, 181)16.
Ripensare l'agire individuale
La conclusione del volume è suddivisa in due parti:
nel capitolo IV discuto le pratiche pink/queer nate nell'ambito
delle mobilitazioni di massa del movimento dei movimenti, per
poi concentrarmi sulla questione della responsabilità
partendo dagli spunti teorici cui ho già accennato. Essi
riflettono sull'urgenza di ri-pensare l'agire individuale nel
mondo nella teoria e nella pratica, partendo da incontri imprevedibili
con l'alterità – altre teorie, altre pratiche,
altri soggetti, che ci rendono necessariamente impur* –
come pratica quotidiana di operare il dissenso. Infine, la “Coda”
contiene una sequenza di spunti, riflessioni e proposte per
negoziare un'etica queer risultante dagli incroci sviluppati
nei capitoli precedenti. Attraverso il dialogo tra sessualità,
teorie queer ed etica anarchica cerco di proporre il soggetto
queer come colei/colui che intuisce il fondamento della propria
presenza nel mondo in ciò che non le/gli appartiene;
un soggetto politico sempre già contestualizzato in un
“fuori interno” al potere (v. Newman 2001). L'anarchismo
queer rompe i legami tra significanti e significati nell'articolazione
dell'esperienza e li sostituisce con espressioni singolari,
autonome, anti-autoritarie in continuo divenire. Qui e ora.
Samuele Grassi
Note
- È indubbiamente riduttivo consegnare il queer all'ambito
di un superamento delle politiche identitarie della sessualità;
tuttavia, intendo esplicitare i vari richiami in termini di
teoria e di pratica politica nel seguito di questa introduzione
e nei capitoli successivi.
- Ringrazio Massimiliano Bertelli e la redazione della rivista
Il Grandevetro per avermi permesso di presentare queste
riflessioni in un intervento sul numero Questa o quello
per me pari sono (103, 2012).
- I suggerimenti di Clotilde Barbarulli, Liana Borghi, Renato
Busarello, Giovanni Campolo e Marco Pustianaz sono stati preziosi
per le riflessioni in oggetto, qui e altrove in questa introduzione.
- Nel capitolo III, questo paradigma è al centro della
discussione dell'omonazionalismo (v. Puar 2007 e altri).
- “Democrazie sessuali” è un termine particolarmente
efficace ripreso dalla critica all'omologazione queer e mutuato
dall'attivismo italiano. Nel 2011 Facciamobreccia ha organizzato
un convegno sul tema (v. capitolo III), posizionando l'Italia
come una democrazia sessuale “fantasma” in quanto
occupa una posizione sia interna, sia esterna in questo ordine:
“una periferia europea e mediterranea in cui convergono
normativa antidiscriminatoria e respingimenti in mare, globalizzazione
e identitarismo regionalista, neoliberismo in crisi e conservatorismo
religioso” (Facciamobreccia).
- Mentre faccio queste considerazioni, si avvicina la presentazione
del neo-partito di Magdi Allam, Io amo l'Italia (1 dicembre
2012).
- Nella sua applicazione della citazionalità ai fondamenti
del concetto di genere, Butler sostiene che citando il genere
stesso, anch'esso una copia senza originale, ci si rende conto
della capillarità delle norme che lo regolano e dei
loro effetti, e si dimostra la sua vulnerabilità in
quanto categoria (Frabetti 2011a: 35-6).
- Ciò che rende la T.A.Z. realmente dirompente e sovversiva
di ogni ordine precostituito è proprio la sua transitorietà,
il modo in cui stabilisce il potere creativo dell'effimero.
Prosegue Hakim Bey: “Appena la T.A.Z. è nominata
(rappresentata, mediata) deve svanire, svanirà, lasciandosi
dietro una corteccia vuota, solo per poi saltare fuori ancora
da qualche altra parte, ancora una volta invisibile perché
indefinibile in termini dello Spettacolo” (1995; trad.
it. 2007: 15).
- La società de/generata. Teoria e pratica anarcoqueer,
Nautilus, Torino.
- Essa ha riscosso un discreto interesse fin da subito, come
dimostra anche la rete internazionale Anarchist Studies Network
fondata dai ricercatori britannici Ruth Kinna e Alex Prichard,
che contiene sezioni su “Gender” e “Sexuality”.
- Attraverso la sua critica all'eteronormatività, il
queer è un modo per delegittimare il valore intrinseco
attribuito alle identità sessuali dominanti: partendo
da questo presupposto Laura Portwood-Stacer afferma che questo
modello di critica “echeggia nella filosofia fondamentale
dell'anarchismo, nell'impegno all'autonomia e all'opposizione
contro le gerarchie, cioè a relazioni di potere inique
che autorizzano una violazione dell'autonomia di alcune persone
da parte di altre” (2010: 480).
- Ringrazio Aldo Ceccoli per aver stimolato le mie riflessioni
su questo e altri punti di questa introduzione.
- Sul rapporto tra femminismo e anarchia in Emma Goldman,
v. anche Wexler, cit. in Hewitt 2001: 313.
- In proposito, si vedano Heckert, Cleminson, 2011a, a cura
di; Rousselle, Evren, 2011, a cura di.
- In Jacques Derrida, la differenza tra giustizia e legge
è tale che, a differenza di quest'ultima, la giustizia
si apre sempre all'altr*; diventa imprevedibile, proprio perché
altrimenti non avrebbe ragione di contrapporsi alla legge
stessa.
- L'anarchia a venire di Newman è una rielaborazione
del concetto di a-venire di Derrida.
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