pensiero
Guardando il mondo alla rovescia
di Giorgio Barberis
Una riflessione su Ivan Illich e sull'attualità del suo pensiero a dieci anni dalla morte.
La perdita dei “sensi”
Durante l'estate precedente la sua morte, avvenuta a Brema
il 2 dicembre 2002, Ivan Illich ha lavorato alla revisione della
sua ultima opera, intitolata La perdita dei sensi1,
che si incentra sulla denuncia di una realtà sempre più
astratta e dominata da regolamenti tecnici e dalle scelte di
sedicenti esperti, che alienano la libertà di
ciascun individuo e annullano la possibilità di scelta.
Nell'introduzione ai saggi che compongono il volume egli scrive:
“Mi batto per una rinascita delle pratiche ascetiche,
allo scopo di mantenere vivi i nostri sensi, nelle terre devastate
dallo ”show“, in mezzo a informazioni schiaccianti,
a consigli perpetui, alla diagnosi intensiva, alla gestione
terapeutica, all'invasione dei consiglieri, alle cure terminali,
alla velocità che toglie il respiro”.
Nell'arco di gran parte della propria riflessione teorica, come
vedremo, Illich sviluppa e articola un'aspra critica al processo
di istituzionalizzazione, che nato dall'esigenza di rispondere
a bisogni diffusi, a poco a poco li cristallizza, perpetuando
un sistema di organizzazione sociale finalizzato essenzialmente
a ipostatizzare strutture di potere.
Nella sua introduzione a un altro testo illichiano, Disoccupazione
creativa2, Roberto Mordacci
osserva: “Nel sistema basato sulla professionalizzazione
delle funzioni essenziali, il cittadino del mondo civilizzato
è espropriato della propria capacità di fare da
sé ciò che altrimenti saprebbe fare benissimo:
costruirsi una casa, curare le patologie più semplici,
istruirsi, gestire le proprie controversie giuridiche e politiche,
muoversi da un luogo all'altro; tutte queste attività
sono state requisite, sottratte all'abilità personale
e monopolizzate da professionisti del settore”, contro
i quali Illich polemizza costantemente3.
Perfino la carità, principio fondante del cristianesimo,
così come pure – più in generale –
di ogni forma di relazione umana, si istituzionalizza, si pietrifica
o si mercifica, dando luogo a un mondo capovolto, iniquo, perverso.
Illuminanti le riflessioni di Illich, in conversazione con David
Cayley, sul pervertimento del cristianesimo e sul processo di
istituzionalizzazione che ha coinvolto anzitutto la Chiesa.
Essa, a poco a poco, ha snaturato il messaggio originario –
il dono incondizionato di sé e l'apertura totale all'altro
da parte del fedele – e ha dato vita a un sistema gerarchico
di potere e di controllo sociale. L'amore al di sopra della
legge diviene esso stesso Legge, obbligo morale e poi giuridico,
infine – estremo paradosso – strumento di limitazione
della libertà, e dunque di oppressione di chi non vi
si adegua. In pieno Medioevo, essenzialmente con il Dictatus
Papae di Gregorio VII, la Chiesa, “società
perfetta”, strutturata gerarchicamente e indipendente
da ogni altra autorità, getta i semi dello stato moderno.
La sovranità di Dio, la sua dichiarata onnipotenza, vengono
assunte come modello di dominio dell'uomo sull'uomo e sulla
natura; un dominio che non ammette limiti. La logica strumentale,
di cui i “sacramenti” sono un chiaro segno, non
ha più alcun argine. E quando ciò che rappresenta
il meglio si corrompe, si hanno le conseguenze peggiori
(citando Gregorio Magno, corruptio optimi pessima), come
il degrado odierno mostra impietosamente4.
Originalità di un pensiero critico
Autore straordinariamente versatile, uomo di Chiesa sempre
inquieto e intellettualmente libero, Illich nelle sue opere
ha tracciato percorsi innovativi per la scuola, la sanità,
lo studio e la tutela dell'ambiente, la scienza, l'economia
e l'analisi dei fenomeni politici, in particolare in due direzioni.
Da un lato, la fondazione nel 1966 a Cuernavaca del Cidoc, un
ricchissimo centro di documentazione interculturale dove vengono
raccolti cospicui lavori sulle società e sulle tradizioni
popolari latinoamericane e, contestualmente, documenti e materiali
di approfondimento sullo sviluppo e sul funzionamento delle
grandi agenzie e istituzioni globali. Dall'altro lato, l'idea
di una società conviviale, che si propone come
alternativa praticabile all'ideologia dello sviluppo illimitato
e agli effetti perversi del capitalismo maturo, che Illich –
nei suoi testi sicuramente discutibili ma sempre di grande interesse,
anche nel loro approdo paradossale – ha analizzato e denunciato
con mirabile lucidità e con uno stile nel contempo brillante
e asciutto, un argomentare acuto e spiazzante, e la capacità
– come giustamente ha scritto Filippo Trasatti5
– di “guardare il mondo alla rovescia” senza
alcun timore, distruggendo certezze e dando vita ad un pensiero
critico, da cui in tanti hanno potuto attingere.
Non soltanto il nascente ecologismo, gli ambienti terzomondisti
e il movimento studentesco degli anni settanta del novecento,
ma anche gran parte di quegli autori che, in opposizione al
progetto di estendere la logica di mercato ad ogni possibile
settore, compresi tutti i beni comuni disponibili in natura,
propongono oggi di dare maggior spazio e concretezza a una politica
economica ambientalista, a una società del dopo-sviluppo
e della decrescita (volontaria, consapevole, felice), ispirata
da criteri di equità, dalla comprensione della finitezza
delle risorse naturali e da un forte senso di responsabilità
nei confronti del proprio ambiente e delle generazioni presenti
e future. Un'idea con alcuni tratti di ingenuità, e che
richiederebbe un serio approfondimento anche genealogico6,
ma certamente utile a decostruire almeno parzialmente un discorso
pubblico che rimane ancorato al feticcio della crescita e del
profitto ad ogni costo, e incapace di reagire alle devastanti
criticità che segnano il nostro tempo, in cui, tra emergenze
ecologiche, instabilità politica e socio-economica, atten-tati
terroristici e guerra globale, predominano complessità
e incertezza7.
La perversione del capitalismo maturo
Ivan Illich, come detto, ha sempre aspramente criticato l'ideologia
dello sviluppo senza limiti e gli effetti perversi, controproduttivi,
del sovrasviluppo industriale, dimostrando la necessità
di un'austerità equilibratrice e gioiosa8.
Nei suoi testi più noti egli ha implacabilmente denunciato
il cortocircuito del sistema produttivo del capitalismo avanzato,
in cui lo strumento industriale ha da tempo superato quella
soglia critica che lo rende, appunto, contro-producente.
Così, in Energy and equity (1974) si mostra come
la diffusione universale dei mezzi di trasporto riduca la velocità
media degli spostamenti9. In
Deschooling society (1971) è argomentata la tesi
secondo la quale la professionalizzazione del sapere amplifica
disuguaglianze ed esclusione e lo sviluppo di un sistema scolastico
obbligatorio e uniforme annulla lo spirito critico e crea consumatori
di cultura docili e disciplinati10.
In Medical nemesis (1976) si evidenzia come l'ipermedicalizzazione
privi gli individui del controllo sulla propria salute, causando
una dipendenza “patologica” da mezzi tecnici in
continua evoluzione, sempre più sofisticati ma anche
inefficienti11. Più in
generale, le argomentazioni illichiane riescono a dimostrare
come l'eccesso di produttività generi crisi economiche
e il progresso tecnico isterilisca le capacità intellettuali.
Particolarmente noto il testo sulla descolarizzazione della
società, che ha dato luogo a un ampio e vivace dibattito,
con alcune adesioni entusiastiche ma anche con molte critiche.
Convinto che il sistema educativo occidentale fosse ormai al
collasso, schiacciato dal peso della burocrazia, dei dati e
delle statistiche insignificanti e del culto della specializzazione,
Illich si schierò contro i diplomi, i certificati, le
lauree, e soprattutto contro l'istituzionalizzazione e l'omologazione
dell'imparare. Egli si spinse a sostenere – forse anche
riflettendo sulla propria esperienza educativa – che un
adulto sarebbe in grado di apprendere i contenuti di dodici
anni di scuola dell'obbligo dai programmi standardizzati in
uno o due anni al massimo.
Ma ormai siamo tutti parte di un “sistema” cibernetico
fuori dal nostro controllo, che ci disincarna in un'eterea virtualità
e ci allontana dal reale sentire il nostro prossimo. Di qui
l'importanza di ricostruire una storia della conoscenza, intesa
nel senso più ampio possibile, e delle sue progressive
trasformazioni. Dalla consapevolezza istintiva della “conformità”
delle cose a un ordine cosmico, essa si piega via via a finalità
puramente strumentali e all'idea di un progresso senza limiti
del tutto chimerica, per giungere infine all'attuale crollo,
ancora da decodificare compiutamente. Ecco dunque l'esigenza
di “prendere le distanze”, di osservare la “tecnologia
culturale occidentale” con il dovuto distacco, e di volgere
lo sguardo altrove, sia dal punto di vista geografico (come
avveniva al Cidoc, e come Illich cercò di fare concretamente,
trascorrendo lunghi periodi in India e in Estremo Oriente) sia
dal punto di vista storico12.
Per un'autentica emancipazione umana
Fondamentale per questa prospettiva critica è la capacità
di guardare il mondo con gli occhi dell'altro, respingendo
sia la crescente omologazione culturale e la condivisione forzata
di stili di vita e di consumo imposti dal dominio commerciale,
militare e ideologico dell'Occidente, sia la rivendicazione
di micro-identità esclusive ed escludenti, spesso costruite
in modo strumentale per sostenere un atteggiamento di chiusura,
di diffidenza verso tutto ciò che è diverso.
Un improbabile radicamento a luoghi, tradizioni, culti, ideologie,
che risponde all'esigenza di contenere la sensazione di minaccia
e disorientamento, riducendo arbitrariamente gli elementi di
complessità, ma che costituisce una risposta artefatta,
inefficace, deludente. Occorre, invece, interpretare correttamente
la nostra epoca e comprendere che non ci sono verità
assolute da difendere o da esportare con le armi in pugno, ma
solo il bisogno di costruire un nuovo pensiero critico e aperto,
vie originali da scoprire e per-correre insieme, spazi di discussione,
condivisione, autogestione, da moltiplicare quanto più
possibile. Contro il monologo dell'Occidente e contro ogni logica
della purezza, la retorica dei Noi contrapposti a Loro,
contro steccati e barriere, ostilità, pregiudizi e chiusure,
si dovrebbe alfine comprendere che è proprio nell'incontro
con l'altro, nella relazione, che si può trovare
la migliore risposta al disordine globale. Una difesa del meticciato,
dell'ibridazione, che diviene ancora più preziosa oggi
in tempi di chiusure culturali e di mu- scolari esaltazioni
del dogma, pesantemente gravati, soprattutto dopo gli attentati
terroristici dell'11 settembre 2001, da ossessioni paranoiche,
da un persistente e onnipervasivo senso di minaccia, da manie
di persecuzione diffuse su scala mondiale e da un egoriferimento
ipertrofico di opposti fondamentalismi13.
Qui ci viene in soccorso ancora una volta Ivan Illich, con la
sua idea di convivialità, di apertura incondizionata
all'altro, che non è stata solo una proposta teorica
originale, ma anche autentica pratica esistenziale. È
noto, infatti, come l'aspetto conviviale fosse fortemente valorizzato
da Illich, che cercava il più possibile l'incontro, lo
scambio diretto con i propri interlocutori, al di fuori delle
ingessate ritualità accademiche. Le conversazioni attorno
alla tavola insieme a lui erano spesso il momento più
alto di confronto culturale ed elaborazione teorica, in un clima
di ascolto, armonia e condivisione vera, raccontato con nostalgia
ed emozione da tutti coloro che ebbero la fortuna di parteciparvi14.
Conversazioni e riflessioni che ci pare abbiano come tratto
comune un'idea di autentica emancipazione umana e di costruzione
di una vera autonomia dell'individuo all'interno di una comunità
conviviale. Illich è un autore radicalmente rivoluzionario,
la cui lezione in fondo ci dice questo: bisogna imparare a gestire
l'incertezza e l'assenza di punti di riferimento costanti nel
tempo, senza però rinunciare all'aspirazione di trasformare
in profondità l'attuale assetto sociale, sottraendosi
al dominio di un sistema economico che si autorappresenta come
assoluto ed eterno e di un sistema politico fragile e delegittimato,
riuscendo finalmente a coniugare il pieno riconoscimento dell'individualità
e della singolarità con il bisogno di inter- connessione
e di ricostruzione di un saldo legame sociale, e ritrovando
il gusto e il senso di una libertà che sia davvero autonomia
e di relazioni autentiche ispirate ai principi di cooperazione
e reciprocità.
Questa la speranza che ci deve muovere, significativamente l'unica
condizione umana a non uscire subito dal vaso di Pandora insieme
a tutti i mali in esso contenuti, e chiamata anzi a mitigarne
i catastrofici effetti diffusi per ogni dove. La speranza è
cosa ben diversa dall'aspettativa, che vive solo nel
futuro: essa non lo nega, ma semplicemente non se ne cura, essendo
chiamata a vivere il presente nella sua presenza e a non lasciare
spazio alle ansie, alla paura, all'attesa di qualcosa che potrebbe
non arrivare mai. L'uomo non è l'automa piegato dal processo
di istituzionalizzazione, dalla cultura omologante e dalla comunicazione
vuota e autoreferenziale, ma un soggetto vitale, creativo, libero
nel proprio legame conviviale con la comunità e perfetto
nella propria incompiutezza15.
Il rimedio al senso di impotenza che l'epoca della complessità
costantemente amplifica non è affatto quello di tornare
a vivere nelle tenebre – come troppi detrattori di Illich
e dei suoi epigoni hanno stigmatizzato –, bensì
quello di “portare una candela nelle tenebre”, di
essere una fiammella di luce e di speranza, di giustizia, amore
e libero pensiero.
Giorgio Barberis
Note
- I. Illich, La perte des sens, Fayard, Paris 2004, tr.
it., La perdita dei sensi, Libreria Editrice Fiorentina,
Firenze 2009.
- I. Illich, The Right to Useful Unemployment and its Profesional
Enemies, Boyars, London 1978, tr. it., Disoccupazione
creativa, Boroli, Milano 2005.
- Si veda ad esempio I. Illich et. al., Disabling Professions,
Boyars, New York 1977, tr. it., Esperti di troppo, Ercikson,
Gardolo (tn) 2008.
- I. Illich, The Corruption of Christianity, Canadian
Broadcasting Corporation, 2000, tr. it., Pervertimento del
cristianesimo. Conversazioni con David Cayley su Vangelo, Chiesa,
Modernità, Quodlibet, Macerata 2008.
- Trasatti ha curato un approfondimento
monografico su Ivan Illich nel n.294 di «A rivista
anarchica» [anno 33, novembre 2003], con i contributi
di Paolo Perticari, Francesco Scotti, Pietro M. Toesca.
- Che cosa significa e come si articola in concreto il concetto
di «decrescita»? Qual è la sua origine
e come si può realmente declinare? In tal senso, la lettura
illichiana è un punto di riferimento imprescindibile.
Serge Latouche, che della decrescita è uno dei massimi
teorici contemporanei, non esita a riconoscere come tale idea
«sia nata in seno alla critica dello sviluppo e della
crescita condotta da una piccola internazionale di pensatori
raccolti attorno a Ivan Illich; pensatori del Sud, oppure che
avevano un'esperienza concreta della sconfitta dello sviluppo
nei Paesi dell'Africa o dell'America latina»; S. Latouche,
La planète uniforme (2000), tr. it., La fine
del sogno occidentale, Elèuthera, Milano 2010, p.185.
- Convincente la celebre definizione di Ulrich Beck, che da
decenni parla di società del rischio. Si veda
ad esempio U. Beck, Risikogesellschaft: Auf dem Weg in eine
andere Moderne, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1986, tr. it.,
La società del rischio. Verso una seconda modernità,
Carocci, Roma 2000. Oggi la politica, l'economia, il mondo sociale
e culturale sono accomunati da grandi trasformazioni che mettono
fortemente in discussione le più diffuse categorie interpretative
e riferimenti culturali a lungo condivisi. Per un'analisi specifica,
seppur sintetica, di ciascuno di questi aspetti mi permetto
di rimandare al volume di M. Revelli, G. Barberis, Sulla
fine della politica. Tracce di un altro mondo possibile,
Guerini e Associati, Milano 2005.
- Si veda in particolare I. Illich, Tools for Conviviality,
Harper & Row, New York 1973, tr. it, La convivialità,
Boroli, Milano 2005.
- I. Illich, Energy and Equity, Calder & Boyars,
London 1974, tr. it., Energia, velocità e giustizia
sociale, Feltrinelli, Milano 1974. A Illich dobbiamo anche
questo inquietante calcolo: «L'americano tipo dedica più
di 1500 ore all'anno alla sua automobile: ci sta seduto dentro,
fermo o in moto, lavora per comprarla e mantenerla, per pagare
la benzina, i pneumatici, i pedaggi, l'assicurazione, le contravvenzioni
e le imposte. Dedica cioè 4 ore al giorno alla sua auto,
sia che se ne serva, se ne occupi o lavori per lei. E non consideriamo
tutti gli altri suoi impegni di tempo regolati dal trasporto:
il tempo passato in ospedale, in garage o in tribunale, il tempo
consumato a guardare la televisione e la pubblicità delle
automobili, il tempo speso a guadagnare il denaro necessario
per viaggiare durante le vacanze, eccetera. A questo americano
occorrono dunque 1500 ore per percorrere 10.000 km di strada:
6 km gli prendono più di un'ora» [La convivialità,
cit., p.25].
- I. Illich, Deschooling Society, Harper & Row,
New York 1971, tr. it., Descolarizzare la società,
Mondadori, Milano 1972, ripubblicato da Mimesis, Milano-Udine
2010.
- I. Illich, Medical Nemesis. The Expropriation of Health,
Pantheon, New York 1976, tr. it., Nemesi medica. L'espropriazione
della salute, Mondadori, Milano 1977, ripubblicato da Boroli,
Milano 2005.
- Lo straordinario commento al Didascalicon di Ugo di
San Vittore che troviamo Nella vigna del testo - libro
colto e affascinante, il quale si presenta come “una storia
sull'arte di leggere” nei suoi passaggi fondamentali
- è un importante tassello di questo percorso; I. Illich,
In the Vineyard of the Text. A Commentary to Hugh's Didascalicon,
1993, tr. it., Nella vigna del testo. Per una etologia della
scrittura, Raffaello Cortina, Milano 1994.
- Sul rapporto complesso ma per molti aspetti innegabile tra
paranoia e politica si veda la raccolta di saggi curata da Marco
Revelli e Simona Forti, intitolata appunto Paranoia e politica,
Bollati Boringhieri, Torino 2007.
- Per fare solo due esempi tra i mille possibili, citiamo Giuseppina
Ciuffreda che, nel necrologio pubblicato sul quotidiano «il
Manifesto» [04/12/2002, Il rovescio del progresso],
ricordando l'incontro con Illich ad Assisi nel novembre del
1985, scrive: «Un seminario con lui era un'esperienza
totale», e Franco La Cecla, il quale ebbe a scrivere:
«Il suo metodo di lavoro è più simile a
una stoà dell'antica Atene che a una vita accademica:
un gruppo di fedeli giovani ricercatori, di adulti studiosi
e di vecchi amici lo ricordano e lo seguono» [«Libertaria»,
n. 4, 2001].
- Occorre prendere atto - sostiene Illich - dei propri limiti
strutturali, rinunciando alle chimere e alle false promesse
di una modernità sclerotizzata, e ritornare invece alla
«conspiratio» originaria, all'amore come
dono gratuito di sé, alla comunità di sentire
nella gioia e nel dolore. Sul concetto di conspiratio,
il bacio con cui i fedeli nelle prime comunità cristiane
«mescolavano il loro spirito e suggellavano la loro reciproca
comunione», si vedano in particolare I. Illich, Pervertimento
del cristianesimo, cit., pp.93-96 e The Rivers North
of the Future. The Testament of Ivan Illich as told to David
Cayley, Toronto 2005, tr. it., I fiumi a nord del futuro.
Quodlibet, Macerata 2009, pp.214-218.
Da
Vienna a Brema, via New York, Cuernavaca, ecc.
Ivan Illich
nacque a Vienna il 4 settembre 1926 da Ivan Peter, cattolico
di nobili origini dalmate, e da Ellen Rose Regenstreif-Ortlieb,
di famiglia ebrea sefardita. Cosmopolita per origine e
vocazione, poliglotta, straordinariamente curioso e intellettualmente
aperto, fu teologo, storico, sociologo, linguista, filosofo,
antropologo, economista, e molto altro ancora (è
stato anche definito un profeta fuori tempo). Nel
1941 dovette lasciare l'Austria a causa delle leggi razziali.
Fu a Firenze e poi a Roma, dove seguì i corsi alla
Pontificia università gregoriana. Laureatosi nel
1951, fu ordinato sacerdote e assegnato alla diocesi di
New York, divenendo viceparroco in una comunità
portoricana. Ottenne qui i primi riconoscimenti, e iniziò
a sviluppare e consolidare la sua vastissima rete di conoscenze
e amicizie. Nel 1956 divenne prorettore dell'Universidad
católica di Ponce, a Porto Rico, ma nel 1960 lasciò
l'isola anche per la sua opposizione a un modello di Chiesa
troppo condizionata dalle spinte imperialistiche statunitensi.
Dopo un lungo peregrinare per il continente latino-americano,
scelse Cuernavaca come luogo da cui organizzare la resistenza
ai processi di omologazione culturale di un Occidente
completamente asservito alla logica di uno sviluppo senza
limiti. In Messico fondò il Cidoc, un centro di
documentazione sulle tradizioni indigene e sullo sviluppo
delle grandi istituzioni mondiali nel campo dell'educazione,
della salute, dell'economia. In opere divenute celebri,
Illich mostrò gli effetti controproducenti e le
profonde antinomie del capitalismo maturo e di una società
dei consumi dominata da presunti esperti, ossia
tecnocrazie non elettive ch'egli definiva senza mezzi
termini “fascismo manageriale”, e delineò
un modello di “società conviviale”,
insieme austera e gioiosa, che diverrà punto di
riferimento costante per una parte essenziale del pensiero
critico novecentesco.
Negli ultimi anni di vita insegnò regolarmente
a Brema e in Pennsylvania, ma continuò a viaggiare
e ad avere amici e seguaci ovunque. Sempre pronto all'incontro
e al dialogo, coerente con i propri alti ideali, intellettualmente
vivacissimo e spiazzante nella sua genialità, Illich
si spense a Brema il 2 dicembre 2002, non a causa del
tumore al volto che gli tormentò il nervo trigemino
per quasi vent'anni, ma in conseguenza di un arresto cardiaco. |
Illich
dixit
Rivoluzionare le istituzioni
Da
Celebration of Awareness (1970), tr. it., Rivoluzionare
le istituzioni, Mimesis, Milano - Udine 2012,
p.11: «Ciascun capitolo di questo volume è
il segno d'un mio tentativo di mettere in discussione
la natura di qualche certezza acquisita. Ognuno di essi,
quindi, denuncia un inganno, l'inganno insito in questa
o in quella istituzione. Sono le istituzioni che creano
certezza e quando vengono prese sul serio queste certezze
rendono il cuore insensibile e imprigionano l'immaginazione.
Ho sempre sperato e ancora spero che i miei giudizi, frutto
di rabbia o di passione, razionalmente costruiti o spontanei,
possano anche riuscire a far sorridere qualcuno e, con
questo sorriso, portare una nuova libertà, sebbene
la libertà non giunga mai senza un prezzo doloroso».
La convivialità
Da Tools for Conviviality (1973), tr. it, La
convivialità, Boroli, Milano 2005,
p.13: «La società, una volta raggiunto
lo stadio avanzato della produzione di massa, produce
la propria distruzione. La natura viene snaturata. Sradicato,
castrato nella sua creatività, l'uomo è
rinserrato nella propria capsula individuale. La collettività
è governata dal gioco combinato di una polverizzazione
estrema e di una specializzazione a oltranza. L'affannosa
ricerca di modelli e prodotti sempre nuovi, cancro del
tessuto sociale, accelera a tal punto il mutamento da
escludere ogni ricorso ai precedenti come guida
per l'azione. Il monopolio del modo di produzione industriale
riduce gli uomini a materia prima lavorata dagli strumenti.
E tutto questo in misura non più tollerabile. Poco
importa che si tratti di un monopolio privato o pubblico:
la disgregazione della natura, la distruzione dei legami
sociali, la disintegrazione dell'uomo non potranno mai
servire a uno scopo sociale».
p.30: «Alla minaccia di un'apocalisse tecnocratica,
io oppongo la visione di una società conviviale.
La società conviviale riposerà su contratti
sociali che garantiscano a ognuno il più ampio
e libero accesso agli strumenti della comunità,
alla sola condizione di non ledere l'eguale libertà
altrui».
p.67: «La popolazione è educata meglio,
curata meglio, trasportata meglio, divertita e spesso
nutrita meglio, ma a condizione che, per ogni unità
di misura di questo meglio, si accettino docilmente
sia i criteri sia gli obiettivi fissati dagli esperti.
Una società conviviale può instaurarsi solo
se riconosce il carattere arbitrario di queste misure
e la distruttività dell'imperialismo politico,
economico e tecnico che si nasconde dietro di esse».
p.130: «L'avvento del fascismo tecnoburocratico
non è scritto negli astri. Esiste un'altra possibilità:
un processo politico che permetta alla popolazione di
stabilire il massimo che ciascuno può
esigere, in un mondo dalle risorse manifestamente limitate;
un processo che porti a concordare entro quali limiti
va tenuta la crescita degli strumenti; un processo che
incoraggi la ricerca radicale intesa a far sì che
un numero crescente di persone possa fare di più
con sempre meno. Un programma del genere può
ancora apparire utopistico al punto in cui siamo: se si
lascia aggravare la crisi, lo si troverà ben presto
di un realismo estremo».
Nemesi medica
Da Medical Nemesis (1976), tr. it., Nemesi medica.
L'espropriazione della salute, Boroli, Milano 2005,
p.20: «Studiando l'evoluzione della struttura
della morbosità si ha la prova che durante l'ultimo
secolo i medici hanno influito sulle epidemie in misura
non maggiore di quanto influivano i preti nelle epoche
precedenti. Le epidemie venivano e se ne andavano, esorcizzate
da entrambi ma non impressionate né dagli uni né
dagli altri. Esse non vengono modificate dai riti celebrati
nelle cliniche mediche più di quanto lo fossero
dai tradizionali scongiuri ai piedi degli altari. Una
discussione sul futuro dell'istituzione sanitaria potrebbe
utilmente partire dal riconoscimento di questo fatto».
Nello specchio del passato
Da In the Mirror of the Past (1992), tr. it., Nello
specchio del passato, Boroli, Milano 2005,
p.35: «Il tema che intendo affrontare è
quello delle “benedizioni” di cui tuttora
godiamo, nonostante la crescita economica; della riscoperta
del presente quando si allontana dall'ombra che il futuro
vi ha proiettato sopra nel corso di tre decenni all'insegna
dello sviluppo. Penso sia giunto il momento di promuovere
la ricerca del dono non economico, che possiamo maggiormente
apprezzare se nutriamo la speranza in ulteriori riduzioni
del cosiddetto sviluppo.
Parlo intenzionalmente di benedizioni e doni quando
mi riferisco alla riscoperta del camminare e pedalare
in alternativa all'essere trasportarti; dell'abitare in
spazi autogenerati in luogo della rivendicazione del diritto
all'alloggio; del coltivare pomodori sul balcone e incontrarsi
in bar privi di radio e televisione; della capacità
di far fronte al dolore senza terapie e del preferire
l'attività intransitiva del morire al medicidio
monitorizzato.
Non intendo usare la parola “valore”: questo
termine economico ha subito recentemente uno slittamento
di senso nei nostri discorsi, così da rimpiazzare
il “bene”. Tuttavia, riconosco il pericolo
insito nel tentativo di mantenere la nozione di bene:
oggi il termine designa specificamente delle forme di
Management, il professionale “per il vostro
bene” sulle labbra di insegnanti, medici e ideologi.
Proprio per questo tento di recuperare le vecchie idee
di benedizione e dono per parlare della riscoperta dell'arte
di gioire di affrontare il dolore, che ho potuto osservare,
nei Paesi ricchi come in quelli poveri, allorché
è crollata l'aspettativa di vantaggi e sicurezze
garantiti dal mercato».
Ivan Illich |
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