In lei la troverÃ
Intervista a Gabriella Gagliardo di Renzo Sabatini
A colloquio con una donna impegnata per i diritti delle donne, in particolare in Afghanistan e in Pakistan.
Parlando anche di De André e delle “sue” donne, dell'immaginario maschile, di Marinella e Biancaneve, della Buona novella....
Ho conosciuto Gabriella
Gagliardo nel 1986, nell'umida primavera di Rio de Janeiro.
Erano i tempi di un'inflazione galoppante che si mangiava i
salari e mordeva i poveri. Lei era lì come volontaria
di una ong e viveva fra i lavoratori più umili, nell'immenso
ventre opaco della periferia di Rio, in una casupola senza neanche
l'acqua potabile.
Aveva alle spalle già una lunga serie di attività
che l'avevano vista al fianco delle Madres argentine,
o in Nicaragua per la campagna sandinista di alfabetizzazione.
In Brasile, sulla spinta della pedagogia degli oppressi di Paulo
Freire, realizzava un lavoro di “coscientizzazione”
con le donne dei quartieri popolari, il che voleva dire, più
o meno, aiutare quelle donne analfabete, povere e sfruttate,
a costruirsi una coscienza critica, una consapevolezza della
propria condizione di oppressione. Com'è nello spirito
della pedagogia degli oppressi, Gabriella con questo lavoro
educava e apprendeva allo stesso tempo. Non era partita, come
tanti altri, con l'ansia missionaria o la presunzione dell'occidentale
che crede di andare a portare la civiltà e quel lavoro
era per lei anche un'esperienza preziosa di apprendimento, una
fonte di conoscenze da utilizzare poi con altri gruppi di oppressi,
una volta rientrata in Italia. Perché di oppressioni
da cui liberarsi è pieno ogni angolo del pianeta.
Venticinque anni dopo Gabriella, in fondo, è sempre
la stessa: la si ritrova impegnata a insegnare italiano ai figli
dei migranti, o a organizzare un qualche evento di solidarietà
con le donne afgane. Lo stesso entusiasmo di allora, la stessa
determinazione, lo stesso spirito: imparare dall'esperienza
altrui, per provare a cambiare anche da noi. Anche noi stessi.
Conserva quell'antica passione per il lavoro di base e continua
a non fregiarsi di alcun titolo.
Nel momento in cui mi sono trovato ad affrontare il tema
delle donne protagoniste delle canzoni di De André, volendo
analizzare questo aspetto da una prospettiva femminista, mi
è sembrato naturale rivolgermi a lei, di cui conosco
la passione per la poesia del cantautore ma anche il rigore
con cui, sapevo, avrebbe analizzato quelle figure.
Hai una biografia piuttosto densa. Oggi insegni in Italia
ma hai anche trascorso alcuni anni in America Latina come volontaria.
Soprattutto sei stata sempre impegnata sul piano sociale e hai
legato il tuo nome a quello di tanti movimenti, dalla Lega per
i diritti dei popoli alle associazioni di solidarietà
con le “Madres” argentine e con le donne afgane.
Dacci un ragguaglio su questa tua biografia dell'impegno sociale.
«Mi sembra un po' esagerato parlare di biografia sociale,
comunque sì, ho sempre seguito determinate tematiche
e negli ultimi anni mi sono occupata prevalentemente di diritti
umani delle donne, soprattutto sul piano internazionale. Ho
seguito varie aree del mondo ma ultimamente mi sono concentrata
principalmente sull'Afghanistan. Gestisco un sito che si occupa
di questo ma l'informazione è solo uno degli aspetti
perché quello che ci preme è, in primo luogo,
mettere in collegamento organizzazioni e movimenti che si occupano
di queste tematiche per organizzare poi iniziative specifiche.
Come insegnante invece mi occupo soprattutto dell'inserimento
degli stranieri nella scuola media della periferia milanese,
in classi che sono ormai decisamente multietniche».
Il sito che curi si chiama Iemanjà1
e il gruppo con cui lavori sull'Afghanistan si chiama Comitato
italiano di solidarietà con le donne di Rawa2.
Che cosa fate esattamente?
«Iemanjà si offre come mezzo di comunicazione che
mette in collegamento gruppi e movimenti di donne. In questi
anni abbiamo seguito i lavori della Marcia mondiale delle donne
e di altre reti, ad esempio quelle che si occupano dei diritti
delle migranti. Seguiamo anche alcune iniziative specifiche,
come la campagna Abiti puliti, che cerca di mettere a fuoco
i problemi delle donne lavoratrici nelle industrie tessili dislocate
soprattutto in Asia e Africa e organizza campagne di boicottaggio
contro le ditte che non garantiscono i diritti fondamentali
delle lavoratrici e dei lavoratori. In Italia Iemanjà
ha aiutato anche a costituire un coordinamento tra vari gruppi
e associazioni, anche molto eterogenee fra loro, che da molto
tempo si occupano della solidarietà con le donne afgane.
In particolare lavoriamo con Rawa3,
che è l'organizzazione rivoluzionaria delle donne afgane.
Quest'impegno, negli ultimi anni, ha assorbito gran parte delle
nostre energie perché, con tutte le emergenze che ci
sono state in Afghanistan abbiamo pensato che fosse importante
intensificare questa attività. Questo sia perché
loro avevano bisogno di sostegno politico e anche di finanziamenti
per il sostegno dei loro progetti in ambito sociale; sia, soprattutto,
perché pensiamo che il punto di vista delle donne afgane,
l'esperienza di lotta che stanno sviluppando nel loro paese,
rappresentino un contributo prezioso anche per i movimenti italiani.
Quindi abbiamo sentito la responsabilità di cercare di
veicolare, all'interno dei movimenti italiani, i contenuti dell'impegno
delle donne afgane, perché questi contenuti potrebbero
arricchire molto il nostro modo di fare politica o di operare
sul piano sociale e culturale».
È abbastanza sorprendente apprendere che esiste
ed opera un movimento rivoluzionario delle donne afgane. Immagino
che non sia facile per queste donne agire in un paese dove la
loro condizione è tanto discriminata. Parlaci di queste
donne. Come si muovono, come ce la fanno?
«Rawa è un'organizzazione che ha circa trent'anni
di vita ed è ormai molto radicata. Queste donne hanno
vissuto tutto il periodo che va da prima dell'invasione sovietica
a tutta la lotta contro l'invasione sovietica, alla lotta contro
il fondamentalismo che contemporaneamente si andava affermando.
Quindi hanno dovuto lottare costantemente su due fronti e l'organizzazione
è stata sempre clandestina perché già al
momento della fondazione non era possibile per le donne organizzarsi
alla luce del sole. Rawa ha sviluppato il suo intervento lavorando
soprattutto con le donne più povere, le donne di base,
a cominciare dal lavoro di alfabetizzazione. Bisogna considerare
come, all'epoca, la grandissima maggioranza della popolazione
femminile, oltre il 90 per cento, fosse completamente analfabeta.
Quindi l'alfabetizzazione è stata considerata la priorità
assoluta anche perché attraverso il lavoro di alfabetizzazione
c'era la possibilità di sviluppare un lavoro di presa
di coscienza dei diritti umani fondamentali da parte delle donne.
Questo lavoro è stato strutturato mediante piccolissimi
gruppi clandestini che lavoravano nelle case e che, alfabetizzando
le donne, facevano in modo di formare anche persone che fossero
poi in grado di diffondere, a loro volta, il lavoro di formazione,
sempre a livello di ambiente popolare. Questo lavoro, proprio
perché veniva svolto da donne che in quanto tali non
erano assolutamente considerate in grado di fare qualcosa di
pericoloso per lo stato o per il regime, ha avuto risultati
enormi, nonostante la fortissima repressione. In questo modo
Rawa ha conseguito un forte radicamento a livello popolare.
Poi, quando milioni di afgani sono dovuti andare all'estero
come profughi, le donne di Rawa sono state molto presenti anche
fra i profughi e hanno rafforzato moltissimo il loro lavoro,
soprattutto in Pakistan, dove sono arrivate a gestire completamente
alcuni campi profughi, organizzandoli secondo le idee che nel
frattempo avevano sviluppato, per esempio impostando in un certo
modo i servizi educativi e sanitari all'interno dei campi. Ancora
oggi le donne di Rawa sono molto presenti all'interno dei campi
di rifugiati afgani in Pakistan, oltre ad essere presenti, ovviamente,
in Afghanistan, dove si sono reinserite massicciamente dopo
la caduta dei Talebani, lo smantellamento di molti campi e il
rientro dei rifugiati. Oggi in Afghanistan le donne di Rawa
realizzano soprattutto un lavoro di tipo sociale.
Oltre all'alfabetizzazione, che continua, organizzano corsi
professionali che consentono alle donne di avviare un'attività
e avere un reddito. Si occupano di salute attraverso una serie
di ambulatori ed hanno costituito una rete di micro orfanotrofi,
sorta di case famiglia che sono anche delle scuole a tempo pieno,
in cui i bambini vengono cresciuti con una grandissima attenzione
alla loro formazione. Molte delle leader attuali del movimento,
giovanissime, sono in realtà cresciute in questi orfanotrofi,
negli ultimi venti, trent'anni. Gli orfanotrofi accolgono bambine
e bambini ed educano all'uguaglianza tra i sessi e tra le diverse
etnie, tagliando alla radice i presupposti che permettono all'integralismo
e al fondamentalismo di esercitare un potere sulla coscienza.
Opporsi alle discriminazioni e all'ingiustizia e sottoporre
a critica le decisioni dei responsabili sono scelte fondanti
del modello pedagogico di Rawa, applicate in modo sistematico
nelle loro scuole».
Un'immagine mitica
Passando a De André, mi interessa molto il tuo
sguardo di donna così attenta alla condizione delle donne.
Le canzoni di De André sono popolate di personaggi femminili
spesso vittime di vari tipi di oppressione. Come ti ritrovi
in questo mondo cantato da De André? Sono donne reali
o solo personaggi di canzoni?
«A me le sue canzoni sono sempre piaciute moltissimo per
la musica e soprattutto per la voce con cui lui riusciva a interpretarle.
Però le donne delle sue canzoni, spesso, non sono personaggi
nei quali mi sembra possibile riconoscersi, almeno oggi. Bisogna
tener conto che ormai sono trascorsi molti anni da quando le
prime canzoni, quelle più famose, sono state scritte.
Sono canzoni della fine degli anni cinquanta, inizio dei sessanta,
quindi precedono il sessantotto e il femminismo degli anni settanta.
Sarebbe anche ingiusto aspettarsi una coscienza femminista in
un tipo di testo che viene ben prima che certe tematiche si
fossero sviluppate in Italia. Quei personaggi invece direi che
risentono di un altro tipo di coscienza che De André
aveva sviluppato negli anni della sua gioventù e rispetto
a quello ha sicuramente precorso i tempi. Perché prima
ancora che scoppiasse il sessantotto c'è in De André
questo tema della repressione sessuale contro cui le sue canzoni
si scagliano in maniera polemica, utilizzando spesso l'ironia.
Quindi, in questo senso, le figure femminili servono più
che altro per esprimere questa legittima esigenza di liberazione,
vista però ancora da un punto di vista molto maschile,
senza un'analisi dell'oppressione di genere. Infatti, l'immagine
della prostituta che ricorre in molte canzoni è un'immagine
completamente mitica, non è storica. È la proiezione
di questo desiderio maschile di una libertà sessuale
in cui il sesso, invece di essere qualcosa di proibito, di oscuro,
di cattivo, l'incarnazione stessa del male, diventa invece l'incarnazione
del piacere, del bello, della felicità, della vitalità,
dell'energia positiva. Per cui queste prostitute sono figure
felici, solari, ma non sono autentiche».
Però, proprio parlando delle “creature che
si guadagnano il pane da nude”, molti hanno affermato
che le canzoni di De André sono servite a restituire
dignità alle prostitute. Da questi microfoni ce lo ha
confermato proprio Carla Corso4,
già prostituta e poi fondatrice del Comitato per i diritti
civili delle prostitute. Secondo te invece c'è il rischio
solo di mitizzare ed esaltare una realtà che è
poi la mercificazione del corpo femminile a uso e consumo dei
maschi?
«Io penso che in De André (penso a quelle prime
canzoni ma anche a quando ha riscritto alcune poesie dell'Antologia
di Spoon River) ci sia anzitutto una problematica di tipo
esistenziale, una sorta di indagine sulla condizione umana in
generale. In questo senso le prostitute di De André fanno
parte di quella umanità derelitta, emarginata e condannata
dalla società che invece lui rivaluta perché,
in queste figure apertamente sconfitte, riconosce qualcosa di
profondamente universale. È quindi la condizione umana
che è più evidente in queste figure. La loro debolezza,
i loro limiti, la loro sofferenza. Ma anche l'oppressione che
subiscono emerge in maniera inequivocabile. Però se si
vanno a vedere proprio i testi dell'Antologia di Spoon River
che lui ha selezionato per la sua raccolta, si vede che ha scelto
tutti personaggi maschili, mentre le figure femminili sono solo
degli scorci, restano sullo sfondo. Comunque mi sembra che quello
di De André sia soprattutto un discorso sulla condizione
umana. Per quanto riguarda le prostitute in particolare non
mi sembra che siano mai rappresentate come persone con una loro
identità. È come se fossero più nell'ambito
della natura che della storia, come se si trovassero in una
certa condizione per natura. Se guardiamo alla Canzone di
Marinella, che De André ha scritto rivedendo e trasfigurando
proprio la vicenda di una prostituta che era stata assassinata
e gettata in un fiume, vediamo che ci propone una figura di
donna, che poi forse è rimasta anche un po' come modello
per i suoi successivi personaggi femminili, che esiste solo
nelle favole. C'è lei, c'è il principe e ci sono
tutti i simboli: il fiore, l'acqua, la stella... e lei alla
fine, cadendo nell'acqua, ritorna alla natura, ovvero torna
a far parte di questo ciclo naturale a cui le donne sono destinate,
secondo il mito tradizionale. Cioè secondo questo mito,
che qui non viene messo in discussione, le donne non sono mai
dentro la storia ma dentro la condizione della natura, quindi
non c'è mai nessuna possibilità di riscatto. Quindi
tutte queste prostitute che si incontrano nel canzoniere di
De André e a cui lui guarda certamente con grande simpatia
non hanno mai via di scampo perché, essendo un mito,
sono destinate a rimanere eternamente in quella posizione».
Continuando a parlare di prostitute, che ne pensi di Nancy,
che lui ha tradotto da Leonard Cohen? I suoi clienti sembrano
immaginarla serena, forse addirittura felice, ma poi lei muore
suicida. Molti hanno sfiorato il suo corpo ma nessuno l'ha capita.
Non ti pare che qui De André ci comunichi anche la superficialità
di molti uomini che forse si nascondono dietro le loro certezze
e rinunciano a farsi domande sulla sofferenza delle donne che
si ritrovano accanto?
«Di Nancy mi colpisce soprattutto quella frase
in cui dice: “Si innamorò di tutti noi”.
Non dice che i clienti si sono innamorati di lei ma è
Nancy a essersi innamorata di tutti loro. Poi la strofa prosegue
con quei versi: “Dicevamo che era libera e nessuno era
sincero, non l'avremmo corteggiata mai, eccetera”. Ecco,
c'è questa idea della prostituta che si innamora dei
suoi clienti che è il massimo del sogno maschile! C'è
questo immaginarsi una disponibilità totale, anche se
è una disponibilità che deve essere condivisa
con una serie di altri uomini. E c'è questa idea che
lei fosse libera, che rappresenta una totale negazione della
realtà, un'idea della prostituzione completamente mistificante.
Da questo punto di vista mi sembra anche molto ingenua la maniera
di De André di parlare delle prostitute e che quindi
non ci sia la possibilità di riconoscere l'identità
di qualcuna o la storia di qualcuna ma soltanto una rappresentazione,
anche molto bella, molto ricca, di questo mito, che è
anche un mito estremamente tradizionale. Mi sembra che il fatto
che lei, poi, muoia suicida, confermi quello che dicevo prima
parlando di Marinella, ovvero che a queste figure non si dà
scampo. Non si può comunicare realmente con un mito,
quindi il finale deve per forza essere tragico. Anche in altre
canzoni mi sembra che non ci sia un finale che permetta l'idea
di una comunicazione e di un cambiamento di prospettiva, una
via d'uscita. Sono situazioni cristallizzate».
Le vedove in testa
Be', le canzoni di De André che hanno un finale
positivo sono rare, però non dobbiamo dimenticare Angiolina,
che dopo tanti fallimenti, “Si veste da sposa, canta vittoria,
volta la carta e finisce in gloria”! Comunque, restando
su questo tema, bisogna ricordare che in un'intervista De André
ha detto: “Se la sofferenza porta alla santità
non capisco perché la Chiesa non ha mai santificato una
prostituta”. Come la vedi una provocazione di questo genere?
«Come provocazione va benissimo, la trovo assolutamente
opportuna! Certo che però in un'intervista di questo
genere salta fuori che la prostituzione non nasce affatto da
un'adesione gioiosa, da una scelta e che si tratta invece di
una realtà di sofferenza. Quindi mi sembra che questa
coscienza nel momento in cui parla ci sia ma nel momento in
cui elabora artisticamente scompaia. Comunque rispetto alla
Chiesa la trovo senz'altro una provocazione molto, molto opportuna».
La riflessione sulla santità delle prostitute ci
traghetta verso l'album in cui De André ha dedicato riflessioni
molto delicate e profonde alle donne del Vangelo, da Maria alle
madri dei ladroni. Tu hai sempre avuto una particolare attenzione
verso il cristianesimo, le vicende narrate nei Vangeli. Come
ti sembrano le donne descritte da De André nella Buona
novella?
«La buona novella per me è una delle
raccolte più belle di De André, anche dal punto
di vista musicale. Lo dico non da esperta, ma da semplice ascoltatrice:
secondo me in De André la trasmissione di gran parte
dei significati passa non solo attraverso i testi ma anche attraverso
la musica. Cioè le sue canzoni non si possono considerare
semplicemente come testi poetici, avulsi dalla musica in cui
nascono e questa operazione nella Buona novella è
particolarmente riuscita. I personaggi femminili del Vangelo
descritti nella Buona novella sono personaggi significativi,
intanto perché nella prima parte c'è tutta l'infanzia
di Maria. È una ricostruzione che si rifà ai Vangeli
apocrifi e che quindi non è completamente frutto della
sua immaginazione ma che comunque è sicuramente ampiamente
rielaborata. C'è un'attenzione forte a questa situazione
di oppressione che la cultura e il contesto sociale costruiscono
attorno alla figura di Maria, rispetto alla quale lei trova
una scappatoia, che però rimane molto ambigua, nel senso
che non è mai evidente che cosa realmente sia successo,
se lei abbia vissuto una relazione amorosa con qualcuno, se
sia stato un sogno, se sia stato un angelo. Resta un margine
di ambiguità di questo suo destino che comunque prende
una strada diversa perché in qualche modo lei risponde
liberamente alla possibilità di una strada diversa. Quindi
c'è un'apertura che rende questo personaggio molto più
umano.
Poi ci sono le donne sotto la croce, ci sono le madri dei ladroni:
sono personaggi che riescono a rappresentare i valori universali
dell'umanità e, finalmente, in Via della croce,
le donne come tali costituiscono un gruppo sociale distinto
e contrapposto ad altri gruppi. Ogni strofa individua infatti
un gruppo che reagisce diversamente all'esecuzione di Gesù.
Ci sono i padri dei neonati trucidati da Erode, quelli che considerano
Gesù un ciarlatano colpevole di avere attirato la violenza
del potere sugli innocenti. Ci sono i discepoli sgomenti e terrorizzati,
incapaci di stargli vicino. Ci sono i potenti che si rilassano,
anche perché nessuno protesta. E infatti umili, straccioni,
poveri, cioè quelli che appartengono a Gesù, che
lo amano come se stessi (così dice sorprendentemente
il testo di De André) non esibiscono il loro dolore e
non ci sono sotto la croce, se mai ci sono sopra, rappresentati
dai due ladroni crocifissi con lui. Ecco, tra questi gruppi
troviamo finalmente il gruppo delle donne. La descrizione di
queste donne è veramente tragica: non si vede la faccia,
perché sono curve e col velo fin sugli occhi. “Fedeli
umiliate da un credo inumano”, è la stessa loro
fedeltà che le condanna a essere “schiave già
prima di Abramo”.
Intrappolate in un ciclo mitico come i personaggi femminili
che abbiamo visto fin qui? Direi proprio di no! Infatti, a differenza
delle donne rappresentate finora, queste si muovono! Oddio,
si muovono a fatica, e chi cammina in testa sono proprio le
più sfigate, quelle senza alcun valore sociale, probabilmente
non più buone nemmeno come merce sessuale: le vedove.
Ma queste donne ora si identificano con Gesù: con riconoscenza
soffrono la sua pena. Loro vedono benissimo che il Dio di Gesù
non è quello a cui loro erano fedeli prima, poiché
Gesù “una nuova indulgenza insegnò al padreterno”.
Loro riconoscono in Gesù, che ha perdonato Maddalena,
che le è stato fratello, cioè che si è
messo alla pari con lei, un redentore. Lo seguono sulla via
della croce perché quel sistema di potere che uccide
Gesù è lo stesso che soffrono loro, la sua sofferenza
è la loro stessa sofferenza, e la loro possibilità
di riscatto dipende da come va a finire questa storia. Ecco
qui finalmente un'apertura. Certo lo ammazzano, ma questo apre
una strada nuova e la sconfitta di Gesù e del suo progetto,
per chi decide di camminare, non è affatto definitiva,
anzi vale la pena andare avanti. Infine, l'accostamento delle
tre madri (Maria e le due madri dei ladroni, una che non si
sa neanche da chi abbia avuto 'sto figlio delinquente) esalta
fino allo spasimo la potenza tutta terrestre dei legami affettivi,
del valore della vita umana, della cura della vita di cui le
donne sono depositarie. È molto forte la rappresentazione
delle tre donne insieme, in un unico gruppo solidale».
Possibilità di scelta
Come ti sembrano invece quelle donne della galleria
deandreiana che hanno un'estrazione più borghese? Penso
ad esempio alla protagonista di Giugno '73 o alla
moglie dell'impiegato in Verranno a chiederti del nostro
amore. Donne che, secondo me, sembrano aver perso spontaneità,
i cui comportamenti paiono dettati dalle convenzioni della classe
sociale cui appartengono.
«Verranno a chiederti del nostro amore io l'ho
letta all'interno della raccolta che la contiene, Storia
di un impiegato, un album che esce dopo i fatti del sessantotto,
quindi quando c'è già un clima diverso, pieno
di fermenti, di discussioni all'interno degli ambienti di sinistra
che De André sicuramente frequentava. Storia di un
impiegato è un album che riesce a esprimere con forza
tutte le tensioni che ci sono all'interno di questa sinistra,
tutte le tematiche della contestazione di quegli anni contro
le varie oppressioni, quella sessuale, quella delle relazioni
familiari, delle istituzioni come il matrimonio, l'oppressione
del potere politico. C'è proprio la contestazione degli
istituti che controllano, regolano, bloccano la possibilità
degli individui di autorealizzarsi; penso per esempio alle figure
del padre e della madre nel Ballo mascherato. In questo
ambito c'è questa canzone, Verranno a chiederti del
nostro amore, questa lettera rivolta a una donna. Io qui
non colgo tanto l'estrazione borghese, che è probabile
ma forse non è particolarmente significativa all'interno
di questo lavoro in cui i personaggi vengono un po' tutti da
un ambiente di classe media. Quello che mi colpisce in questa
canzone è che qui il problema di scegliere finalmente
si pone. Viene posto, certo, in modo polemico, perché
il protagonista, proprio alla fine della canzone, dice: “Continuerai
a farti scegliere o finalmente sceglierai?”. Ma il fatto
che lei possa finalmente prendere delle decisioni evidentemente
è qualcosa che mette in crisi la normale relazione che
avrebbe potuto esserci, perché evidentemente c'è
una relazione che è finita, c'è la possibilità
che lei scelga di andare a vivere con un'amica o con un altro
uomo. Che decida, insomma, di fare qualche cosa della sua vita.
E questa decisione non è necessariamente solo quella
di vivere con un uomo. C'è la possibilità che
scelga altro, che decida dove stare, cosa fare. Quindi questo
disagio che si sente nella canzone, rispetto a questa relazione
che non ha funzionato, lo vedo legato ai cambiamenti, al fatto
che non è più così facile cantare la bellezza
di questa donna e la ciclicità naturale dell'amore, perché
è una relazione che, finalmente, è uscita dal
mito ed è entrata nella storia. Quindi ci sono dei conflitti,
c'è una realtà da affrontare».
Vorrei commentare con te questa frase ripresa da un'intervista
rilasciata da De André a un giornalista: “Forse
per un'educazione di stampo maschilista ho sempre considerato
la donna come l'immagine e il simbolo del sacrificio. Prima
di tutto quello della maternità, una malattia sconosciuta
all'uomo, che dura nella sua fase acuta per nove mesi e poi
continua per tutta la vita. Poi quello grave della prostituzione.
Un altro ancora, improvvisamente ricomparso, è quello
della verginità. Laddove vedo la donna come simbolo del
sacrificio, con gli stessi occhi, vedo noi uomini come simbolo
della prevaricazione, tante volte associata all'optional della
violenza”. Come donna come ti ritrovi in questa analisi
della società che vede da una parte le donne simbolo
del sacrificio e dall'altra gli uomini simbolo della prevaricazione?
«Identificherei questa come l'immagine più antica,
quella che lui canta nei suoi primi lavori, dove le donne, come
dicevo, sono legate al mito, quindi come immagine del sacrificio
sono inchiodate a questa loro condizione “naturale”,
dalla quale non possono spostarsi sul piano della storia. Però
con Storia di un Impiegato, che è appunto un lavoro posteriore
al '68, ci sono delle mutazioni. Quando si riferisce alla madre,
nel Ballo mascherato, in modo certo ironico, corrosivo
e anche rabbioso, si vede che qualcosa è cambiato. Perché
per la madre del protagonista il martirio è addirittura
“il suo mestiere, la sua vanità”, quindi
qui la madre è pienamente nel ruolo della donna come
simbolo della sofferenza e del sacrificio. Però questa
madre ora “accetta di morire soltanto a metà, la
sua parte ancora viva le fa tanta pietà”. Quindi
qui, anche da parte di una persona non più giovanissima,
non c'è più la totale adesione, senza dubbi e
senza remore a questo ideale di sacrificio e di immolazione
totale di sé. Per cui c'è qualcosa che sta cambiando.
In questo caso la consapevolezza non sembra portare molto lontano
perché l'unico sentimento che riesce a suscitare è
il fatto di riconoscere di avere ancora una parte viva, ma con
grande commiserazione. Del resto siamo in un contesto in cui
ognuno cerca di costruirsi una maschera e apparire in un certo
modo. Però qui c'è un passo avanti rispetto all'idea
della donna che è solo sacrificio senza speranza».
Andando molto avanti nel tempo, c'è una canzone
cantata in genovese nell'ultimo album di De André, che
si intitola: 'A cumba, la colomba, ambientata
in una campagna immaginaria. Qui assistiamo alla trattativa
fra il padre di una ragazza e il suo pretendente, che alla fine
la spunta e riesce a far “volare” la colomba, ovvero
la ragazza, dalla casa paterna al suo casale. Sembra una favola
ma la frase finale racconta che la storia finisce male per la
ragazza: “Serva a strofinare per terra, con il marito
a zonzo”. Che valore ha un testo così pubblicato
in un contesto storico molto diverso, alla fine degli anni novanta?
«Qui viene ripresa una visione molto tradizionale, quella
degli uomini che usano la donna come merce di scambio. Gli uomini
comunicano tra loro e usano le donne, che non sono riconosciute
come soggetti. Come stile letterario qui, in qualche modo, De
André sembra volersi richiamare a quei testi di tradizione
medievale che troviamo come adattamenti e traduzioni in alcune
delle sue prime canzoni. Riprendere questo argomento negli anni
novanta secondo me è validissimo perché questo
problema non è un problema che appartiene al passato
o che sia risolto nella storia. Purtroppo nel fondo della coscienza
collettiva è rimasta molto radicata questa tradizione
culturale e il fatto di rappresentarla in qualche modo la denuncia.
Se l'idea della denuncia non era così esplicita, come
senz'altro non lo era nei testi medievali, cantarla adesso,
con l'aggiunta di quel verso finale in cui, uscendo dall'immagine
retorica di questa bellissima colomba, si vede che cosa poi
comporti per lei, nella realtà, questa transazione, solo
quello rende questa rappresentazione una denuncia del fatto
che questa condizione non è ancora cancellata, anzi,
è ben radicata e presente nella nostra condizione culturale».
Guerrieri e vecchi professori
Tra gli aspetti sottolineati dal canzoniere di De André
c'è anche la violenza, fisica e morale contro le donne.
Penso per esempio al vecchio ricco che seduce la giovinetta
nella Leggenda di Natale, canzone della seconda
metà degli anni sessanta. Penso al re che conclude la
transazione con il marchese prendendosi la marchesa e ripudiando
la regina in Il re fa rullare i tamburi. Penso a “Maggie
uccisa in un bordello dalle carezze di un animale” in
Dormono sulla collina, e così via. Ti sembra che
De André abbia colto nel segno parlando di questi aspetti?
Si poteva magari scegliere un linguaggio più esplicito?
«Mi sembra che il linguaggio sia comunque abbastanza esplicito,
tenendo presente che è un linguaggio poetico. È
come se in De André il maschile fosse visto su due linee.
Da una parte c'è l'aspetto negativo, che viene presentato
attraverso la denuncia dei comportamenti che portano all'aggressione,
alla violenza, al sopruso, fino alla guerra. Qui c'è
da includere anche tutto il filone antimilitarista. C'è
questa idea del maschile in cui si utilizza molto l'ironia,
anche nell'ambito di testi che di per sé non sono ironici.
Penso per esempio a Fila la lana, dove la donna aspetta
il marito che è morto in battaglia. Anche se non è
una canzone ironica c'è quel verso molto ironico all'inizio:
“Se sia stato un prode eroe non si sa, non è ancor
certo”. Un verso che, da solo, mette in dubbio tutta la
retorica militare sul valore del cavaliere, mentre il resto
della canzone è concentrato sul dolore della sposa che
aspetta invano il suo ritorno. Quindi il maschile, visto in
maniera guerrafondaia, aggressiva, prevaricatrice, viene senz'altro
denunciato.
C'è poi un'altra immagine del maschile, anche quella,
direi, piuttosto decadente. Non ci sono grandi eroi ma figure
piuttosto meschine. Dal vecchio professore della Città
vecchia a questa massa di perdenti, che magari trova rifugio
nelle prostitute. Rispetto a tutta questa umanità maschile
dolente c'è una certa indulgenza che a volte potrebbe
sembrare anche compiacimento, come accade spesso, ad esempio,
nell'ambiente dei drogati, fra loro stessi. Probabilmente fa
parte della cultura del poeta maledetto essere dentro questo
clima che comunque ha qualcosa di affascinante ed è anche
legato alla possibilità di essere creativi, di essere
personaggi positivi pur nella propria debolezza, anzi compiacendosi
anche un po' dei propri limiti, della propria debolezza, come
aspetto della condizione umana da accettare».
Però c'è da tener presente che molte delle
canzoni che hai citato sono nate alla fine degli anni sessanta,
nell'ambito del tentativo di ribaltare la morale comune. In
quelle canzoni diviene protagonista un'umanità che, secondo
il sentire comune, non avrebbe neanche dovuto trovar posto in
una canzone.
«È vero e in questo De André ha sicuramente
precorso i tempi, perché molte canzoni che sono state
scritte ben prima del sessantotto mettevano in crisi proprio
questa morale dell'epoca e questo è stato un merito.
Per questo molte generazioni si sono nutrite di quelle canzoni».
Torniamo a Marinella, di cui hai parlato
all'inizio. È un po' un mostro sacro, anche perché
è stato il primo successo commerciale di De André
quando l'ha interpretata Mina. Come ha scritto lui stesso, negli
ultimi anni della sua vita, è stato proprio quel successo
inaspettato a convincerlo a continuare sulla strada della canzone,
abbandonando gli studi di giurisprudenza. Tu hai già
ricordato che la canzone era ispirata alla storia di una giovane
prostituta uccisa brutalmente e scaraventata in un fiume. Una
storia che De André raccontò di aver letto sulla
cronaca locale appena quindicenne, quindi verso la metà
degli anni cinquanta. Però tutto questo retroscena De
André l'ha raccontato solo negli anni novanta. Per decenni
Marinella è stata vista come una favola d'amore
molto ben riuscita nella fusione fra versi e musica. Per questo
De André, negli anni della contestazione, ricevette anche
molte critiche e nel 1973 il movimento femminista romano ne
fece una versione in chiave femminista dove Marinella
diventava una moglie/schiava che “lavava i piatti da mattina
a sera”. Rivista alla luce delle rivelazioni di De André
sull'origine della canzone, secondo te Marinella resta
una: “canzonetta”, come scrisse Giuseppe Vettori
nel suo Canzoni italiane di protesta? Avevano ragione
le femministe degli anni settanta, oppure la possiamo rivalutare?
«Secondo me Marinella va ascoltata come si ascoltano
le favole, come si ascoltano Biancaneve o Cenerentola.
Le favole le puoi leggere a tanti livelli e in tanti modi, però
è su quel piano che va letta, perché si tratta
di una storia ricca di simboli, come nelle favole. Marinella
è come La bella addormentata, che a un certo punto
viene svegliata dal principe e che lei segue senza una ragione.
Di positivo, in questa favola, c'è il fatto che la relazione
anche erotica, sessuale, viene vista in maniera assolutamente
positiva. Considerando che comunque in quegli anni il sesso
veniva visto in maniera negativa e la donna veniva considerata
l'incarnazione di una sessualità che faceva paura, che
rappresentava la tentazione, allora, in questo senso, una canzone
di questo tipo conserva una funzione positiva. Però resta
il fatto che il personaggio femminile non è reale, è
una proiezione dell'immaginario maschile. Io non conosco la
versione alternativa, però immagino che le femministe
di quegli anni avessero delle buone ragioni per contestare un
mito di questo tipo, perché si doveva uscire dall'idea
di Biancaneve; perché la prospettiva di Marinella, che
alla fine ricade nel fiume, non lascia scampo, ed era quindi
una prospettiva inaccettabile per un movimento femminista che
stava cercando di trovare delle strade diverse».
Le donne di Atene
C'è da dire che la Marinella di De André
cade nel fiume anche perché ricalca così il destino
della ragazza che ha ispirato la canzone, che fu appunto assassinata
e gettata in un fiume.
C'è qualche protagonista delle canzoni di De André
che proprio non sopporti? Che magari rappresenta uno stereotipo
tale che saresti contenta se De André non l'avesse mai
cantata?
«Direi di no e comunque anche gli stereotipi è
importante che vengano rappresentati. Si tratta di opere artistiche
e quindi non è che si leggano come altri tipi di testi.
Nel momento in cui si ascoltano, si interpretano. Comunque,
laddove si vede rappresentato un mito che al suo interno ha
qualcosa di negativo per le donne, è comunque bello e
importante che venga rappresentato, perché se ne prende
maggiormente coscienza. Quindi io non toglierei assolutamente
nulla».
Francesco De Gregori ha detto che “le canzoni di
De André costituirono una tappa importante della nostra
crescita morale e culturale”. Evidentemente si riferiva
soprattutto alle canzoni degli anni sessanta, che lui ascoltava
da ragazzo, prima di diventare lui stesso cantautore. Da un
punto di vista prettamente femminista le canzoni di De André
di quegli anni, potrebbero essere servite a una qualche crescita?
«Potrebbero essere servite agli uomini per prendere coscienza
della propria situazione di repressione sessuale. Potrebbero
averli aiutati a riconoscere l'aspetto ironico della propria
sessualità, a riconoscere e mettere in discussione quegli
aspetti della cultura maschile che riguardano l'aggressività,
la prevaricazione o il mito dell'eroismo. Sono canzoni che potrebbero
aver spinto gli uomini a riflettere su se stessi, ma non credo
a prendere coscienza di una repressione di genere o del fatto
che si possa avere un punto di vista diverso, da parte femminile,
sulla realtà. Del resto è un'idea che ancora proprio
non esisteva nel contesto in cui sono state scritte quelle canzoni».
Sicuramente ti sarai imbattuta in tante canzoni, romanzi
e poesie scritte da uomini che parlano delle donne in un modo
che non hai apprezzato. Ti è capitato di imbatterti in
artisti maschi che hanno lasciato invece una traccia positiva
parlando o cantando di donne?
«Chico Barque5, che è
brasiliano, ha scritto molte canzoni, che parlano di donne,
che mi piacciono molto. Per esempio c'è una canzone in
cui parla dell'esempio delle donne di Atene6,
in cui mette bene a fuoco la loro oppressione. È una
canzone ben fatta sia dal punto di vista del testo che musicale,
tanto che quando lavoravo in Brasile l'abbiamo utilizzata molto
con vari gruppi di donne a livello popolare. La facevamo ascoltare
e serviva per iniziare una discussione sulla condizione femminile.
Alcune donne, che magari erano anche molto, molto ingenue, recepivano
quella canzone come un invito a identificarsi con quel modello
delle donne di Atene e si arrabbiavano moltissimo perché,
attraverso quelle immagini, veniva fuori molto chiaramente la
condizione di oppressione che loro vivevano quotidianamente.
Il testo era già fatto in modo da facilitare questo tipo
di reazione. Quindi una donna si arrabbiava moltissimo perché
si sentiva invitata a immedesimarsi in quell'esempio, oppure
capiva che era ironico e da lì cominciava a esprimere
tutto quello che aveva riconosciuto della sua esperienza».
Be', se vuoi la puoi utilizzare anche nel tuo lavoro con
le donne dei quartieri popolari della cintura milanese, perché
quella canzone è stata ricantata in italiano, non so
se con la stessa efficacia, proprio da un cantautore milanese,
Eugenio Finardi.7
Nella tournée del 1993 De André dedicava tutto
il primo tempo del suo spettacolo ai personaggi femminili delle
sue canzoni. Ho un ricordo personale, perché andai a
vederlo in teatro: in quel concerto De André raccontava
della difficoltà, per un artista maschio, di entrare
nell'universo femminile, della sensibilità necessaria
per capirlo fino in fondo. Ammetteva insomma la propria difficoltà
oggettiva.8 Visto
da una prospettiva femminista questo fatto di un artista uomo
che cerca comunque di entrare nell'universo femminile ma non
ci riesce fino in fondo e lo ammette, come lo vedi? È
comunque un nobile tentativo oppure ci vedi una negatività
o addirittura una forma di autocompiacimento dell'artista?
«No, il tentativo di guardare al mondo da una prospettiva
diversa va comunque sempre incoraggiato. È legittimo
cercare di farlo e comunque è da apprezzare anche un
risultato parziale. Quindi lo considero un atteggiamento assolutamente
positivo».
Il mondo della canzone d'autore è prevalentemente
maschile. Secondo te perché ci sono poche donne cantautrici?
Anche in questo campo le donne fanno fatica ad entrare?
«Evidentemente sì. Non è un ambiente che
conosco, ma è una questione che riguarda tutti i campi.
Anche nella letteratura e nelle altre arti è così,
quindi non mi stupirei se fosse lo stesso nel mondo della canzone.
Ci sono tanti condizionamenti a monte, dei limiti che le donne
in genere già si pongono a causa dell'istruzione ricevuta,
non parlo soltanto dell'educazione personale ma proprio anche
dello sviluppo stesso della storia che condiziona, per cui ci
si pongono dei limiti, l'autostima non è molto forte,
la fiducia nelle proprie capacità creative non è
tale da spingere a impegnare grandi energie per cercare il successo
in questi ambienti. Si aggiungono poi le difficoltà esterne,
oggettive, che chiudono le strade e rendono tutto molto più
difficile. Questo lo dico per come è organizzato il mercato
culturale in tutti i suoi settori e quindi non sarei stupita
se il mercato discografico presentasse le stesse caratteristiche».
Visto che hai parlato di queste difficoltà, avviandoci
verso la conclusione dell'intervista vorrei tornare a parlare
un po' di te. Dopo tutti questi anni di impegno sociale, di
esperienze femministe e di lavoro concreto con le donne, te
la senti di provare a tracciare un piccolo bilancio? Ti sembra
di poter essere ottimista sul futuro oppure siamo ancora molto
indietro sulla condizione femminile e sul rapporto uomo/donna?
«C'è sicuramente ancora moltissima strada da fare.
Il dato positivo di questi ultimi anni è il fatto che
è molto più facile comunicare, anche a livello
internazionale, attraverso le nuove tecnologie e questo sta
accelerando molti processi, perché anche la costituzione
di reti, l'organizzazione di eventi, la collaborazione continuativa
fra diverse organizzazioni è oggi molto facilitata, grazie
a questa facilità e velocità di comunicazione
di informazioni. Questo può senz'altro facilitare degli
sviluppi. Però dal punto di vista delle condizioni materiali
delle donne a livello planetario, basta leggere anche solo i
rapporti ufficiali degli ultimi anni delle agenzie internazionali:
il quadro che ne emerge, i dati statistici, dimostrano oggettivamente
che la situazione è ancora estremamente difficile, una
situazione di repressione molto forte e di grande discriminazione.
Quindi resta ancora da percorrere moltissima strada».
Renzo Sabatini
Note
- Al momento il sito non è più attivo, ma il progetto
è di riattivarlo nei prossimi anni.
- Dai tempi dell'intervista il comitato ha allargato il suo
sostegno ad una serie di altre associazioni e movimenti ed
è stato ribattezzato Cisda, Comitato Italiano di Sostegno
alle Donne Afgane (osservatorioafghanistan.org).
- Revolutionary Association of Women of Afghanistan. Per approfondimenti
si consiglia di visitare il sito dell'organizzazione (rawa.org),
di grande interesse sia per una miglior comprensione della
metodologia di lavoro e di lotta delle donne afgane, sia per
approfondire la conoscenza della situazione nel paese, in
relazione a tematiche che la stampa nazionale generalmente
ignora o tratta in maniera approssimativa e disinformata.
- Vedi “A”
n. 371, maggio 2012.
- Chico Barque de Hollanda (nato a Rio de Janeiro nel 1944)
è un cantante, compositore e scrittore brasiliano, noto
autore e interprete della Bossanova. Arrestato durante gli anni
della dittatura militare, nel 1969 si rifugiò per un
breve periodo in Italia.
- Mulheres de Atenas, pubblicata nel 1976.
- Il testo, nella bella traduzione di Eugenio Finardi, si trova
facilmente sul web, per esempio sul sito angolotesti.it.
- Il concerto della tournée teatrale del 1993 è
stato pubblicato nel 2012 in un cofanetto con libro e 16 cd
(Sony Music, Tutti i tour di Fabrizio De André).
Le tracce contengono anche questo parlato di De André.
(intervista realizzata via telefono il 3 maggio 2006. Registrata
presso gli studi di Rete Italia-Melbourne. Andata in onda nell'ambito
della trasmissione radiofonica settimanale: “In direzione
ostinata e contraria”, dedicata ai personaggi delle canzoni
di Fabrizio De André).
In
direzione ostinata e contraria
Con
questa intervista, prosegue la pubblicazione su “A”
di una parte significativa delle 27 interviste radiofoniche
realizzate da Renzo Sabatini e andate
in onda in Australia nel programma “In direzione
ostinata e contraria” sulle frequenze di Rete Italia
fra il maggio 2007 e l’agosto 2008. In tutto si
è trattato di sessanta puntate (ciascuna della
durata di circa quaranta minuti, per un totale di quasi
40 ore di trasmissioni), nel corso delle quali sono state
trasmesse le 27 interviste e messe in onda tutte le canzoni
di Fabrizio De André. Si tratta dunque della più
lunga e dettagliata serie radiofonica mai dedicata al
cantautore genovese.
Se proponiamo questi testi,
è innanzitutto per dare ancora una vlta spazio
e voce a quelle tematiche e a quelle persone che di spazio
e voce ne hanno poco o niente nella “cultura”
ufficiale. E che invece anche grazie all’opera del
cantautore genovese sono state sottratte dal dimenticatoio
e poste alla base di una riflessione critica sul mondo
e sulla società, con quello sguardo profondo e
illuminante che Fabrizio ha voluto e saputo avere. Con
una profonda sensibilità libertaria e – scusate
la rima – sempre in direzione ostinata e contraria.
Precedenti interviste
pubblicate: a Piero
Milesi (“A” 370, aprile 2012), a Carla
Corso (“A” 371, maggio 2012), Porpora
Marcasciano (“A” 372, maggio 2012), Franco
Grillini (“A” 373, estate 2012), Massimo
(“A” 374, ottobre 2012), Santino
“Alexian” Spinelli (“A” 375,
novembre 2012)); Paolo
Solari (“A” 376, dicembre-gennaio 2012-2013);
Gianni Mungiello,
Armando Xifai, Alfredo Franchini (“A”
377, febbraio 2013); Giulio
Marcon e Gianni Novelli (“A” 378, marzo
2013); Sandro
Fresi e Paola Giua (“A” 379, aprile 2013);
Luca Nulchis
(“A” 380, maggio 2013); don
Andrea Gallo (“A“ 381, giugno 2013; Paolo
Finzi (“A” 382, estate 2013)).
la redazione di “A” |
Dalla parte delle donne afgane
Il Coordinamento Italiano di Sostegno alle Donne Afghane è
nato su iniziativa di alcune realtà italiane che da anni
lavorano sui temi dei diritti delle donne, contro i fondamentalismi
e le guerre e che hanno deciso di costituirsi in associazione
per far conoscere in Italia la difficile situazione in cui tuttora
versa l'Afghanistan e far conoscere il lavoro di alcune organizzazioni
afgane:
Rawa (Revolutionary Association of Women of Afghanistan.
www.rawa.org);
Hawca (Humanitarian Association of Women and Children
of Afghanistan. www.hawca.org);
Opawc (Organization Promoting Afghan Women Capabilities.
http://opacw.org);
Saajs (Social Afghan Association of Justice Seekers.
http://saajs.blogsky.com);
Afceco (Afghan Child Education and Care Organization.
www.afceco.org).
Il Cisda lavora a fianco di queste Associazioni sostenendo i
loro progetti, affiancandole politicamente nelle loro scelte.
È un movimento di promozione e sostegno dei diritti femminili,
opera in questa situazione di conflitto e di fondamentalismo
sostenendo una cultura di pace e di costruzione dei diritti
attraverso un lavoro capillare per alfabetizzare donne e bambini
e far nascere una coscienza civica e di pace che parta proprio
dalle donne.
Il Cisda ha sede a Milano, promuove azioni politico-sociali
a livello nazionale e internazionale sulle condizioni delle
donne afgane; raccoglie fondi, sostiene progetti a favore delle
donne e dei bambini negli orfanotrofi in Pakistan e in Afghanistan;
organizza momenti pubblici e realizza materiali informativi.
Può scrivere al Cisda, all'indirizzo email cisdaonlus@gmail.com
chi sia interessato a:
- avere maggiori informazioni sulle attività dell'associazione;
- sostenere uno dei tanti progetti in Afghanistan e in Pakistan
(scuole, orfanotrofi, team medici mobili);
- promuovere un'iniziativa nella propria zona. |
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