donne
Tra deformazione ed eliminazione
di Francesca Cuccarese e di Milena Scioscia
Dall'immagine deformata e stravolta delle donne in tv e nei media in generale, all'escalation di violenza che termina col femminicidio, punta dell'iceberg di episodi sommersi e, il più delle volte, ignorati.
Intervengono in queste pagine Francesca, impegnata nel Centro Antiviolenza La Nara (Prato) e Milena, operatrice del Centro Antiviolenza Frida Kahlo (San Miniato - Pi).
donne e media
Una televisione del genere...
di Francesca Cuccarese
La discriminazione di genere
ha carattere pressoché universale, non ha confini né
tempo; è un fenomeno globale, interessa la maggior parte
dei paesi del mondo, nei quali si manifesta come fenomeno complesso,
eterogeneo e trasversale. Come scrive Maria Clara Donato sulla
rivista Genesis “le donne ne sono investite in maniera
differenziata, a seconda di come il loro essere genere femminile
si intreccia con le appartenenze etniche, culturali, di classe
o con la pura casualità del luogo in cui capita di nascere
e vivere”. E se è vero che in occidente le donne
sono riuscite nel tempo a conquistare spazi di autodeterminazione
e libertà, il cammino verso una reale e concreta parità
di trattamento e dignità è ancora lungo e tortuoso.
In molti paesi occidentali infatti, le forme della discriminazione
sono apparentemente meno nette, visibili, materiali, rispetto
ad altre parti del mondo, ma ciò non rende immuni le
donne da trattamenti ingiusti, prevaricatori e violenti. La
discriminazione si fa più insidiosa, velata, velenosa,
annidandosi e sviluppandosi in seno alla società, con
devastanti conseguenze sia a livello individuale che collettivo.
Veicolata da prassi istituzionali, corroborata da attitudini
irresponsabili della classe politica, entra con prepotenza nel
quotidiano mediante la grande macchina massmediatica, che enfatizza
stereotipi e pregiudizi, innescando un circolo vizioso di legittimazione
della discriminazione in cui cambiano i mezzi ma non i fini.
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Anni 50 . In questo annuncio per Chase & Sandborn caffè
un uomo punisce così la moglie che non gli ha comprato
quel caffe |
Basta spegnere la tv?
Noi siamo il cibo che mangiamo, l'aria che respiriamo, l'acqua
che beviamo. Detto ciò potremo altresì sostenere
che siamo anche le parole che ascoltiamo e le immagini che vediamo.
Queste nutrono e sostengono le identità individuali e
collettive, orientando le nostre azioni e collocandoci nel mondo.
Molti sono gli autori contemporanei che hanno fatto luce sulla
natura pervasiva dei media all'interno delle nostre vite e sulle
loro ricadute a livello sociale ed educativo, attraverso un
approccio semiologico, cioè attraverso un'analisi di
quel sistema dei segni che consente di indagare tanto il contenuto
latente, quanto la dimensione simbolica dei mass media.
“Il medium è il messaggio”, così il
noto sociologo canadese, Marshall McLuhan, irrompeva nel testo
Gli strumenti del comunicare (1999) svelandoci come “le
conseguenze individuali e sociali di ogni medium, cioè
di ogni estensione di noi stessi, derivano dalle nuove proporzioni
introdotte nelle nostre questioni personali da ognuna di tali
estensioni o da ogni nuova tecnologia”, ciò a dire
che ogni mezzo tecnologico, che determina i caratteri strutturali
della comunicazione, produce effetti pervasivi sull'immaginario
collettivo, indipendentemente dai contenuti dell'informazione
di volta in volta veicolata.
Dunque è il medium che plasma e controlla e va studiato
in base ai criteri strutturali secondo i quali organizza la
comunicazione; è proprio la particolare struttura comunicativa
di ogni medium che lo rende non neutrale, perché essa
suscita negli utenti-spettatori determinati comportamenti e
modi di pensare, portando alla formazione di una certa forma
mentis. La nostra reazione convenzionale a tutti i media, secondo
la quale ciò che conta è il modo in cui vengono
usati, è “l'opaca posizione dell'idiota tecnologico”,
come afferma McLuhan. Perché, prendendo in prestito le
parole dell'autore, “il contenuto di un medium è
paragonabile a un succoso pezzo di carne con il quale un ladro
cerchi di distrarre il cane da guardia dello spirito”.
Alcuni media assolvono soprattutto alla funzione di rassicurare,
e uno di questi è la televisione. La televisione non
crea delle novità, piuttosto è un mezzo di conferma:
conforta, consola, inchioda gli spettatori in una stasi fisica
(stando seduti per del tempo a guardarla) e mentale (poiché
favorisce lo sviluppo di una forma mentis non interattiva, al
contrario di internet e di altri ambienti comunicativi a due
o più sensi).
La tv dunque intrattiene, svaga, diverte, e dopo aver formato
i bambini continua a formare, o comunque a influenzare gli adulti
informandoli, perché è certo che la televisione
è un incredibile formatore di opinione.
Tra gli altri ha scritto sull'argomento Giovanni Sartori, la
cui tesi, espressa nel testo Homo videns, si avvicina
molto alle posizioni del filosofo austriaco Karl Popper (Cattiva
maestra televisione), secondo cui i bambini guardano la
televisione per ore e ore, prima di imparare a leggere e a scrivere.
Il problema legato alla quantità di violenza che appare
sugli schermi televisivi, centrale nella riflessione di Popper,
è però per Sartori solo una parte della questione,
perché quello che il bambino assorbe è non solo
violenza ma anche un imprinting, uno stampo formativo tutto
centrato sul vedere: il video sta trasformando l'homo sapiens,
prodotto dalla cultura scritta, in homo videns nel quale
la parola è spodestata dall'immagine. Tutto diventa visualizzato.
“È importante dunque capire che il tele-vedere
sta cambiando la natura dell'uomo e in questo processo la tv
non è solo strumento di comunicazione ma anche paidèia,
strumento ‘antropogenetico', un medium che genera un nuovo
ànthropos, un nuovo tipo di essere umano. […]
E se il video-bambino si auto realizza come video-dipendente,
si traduce successivamente in un cattivo cittadino che mal sostiene
la città democratica e il bene collettivo”.
Oggi la tv è caratterizzata da due elementi principali:
la pubblicità e l'imitazione della quotidianità.
La presenza massiccia della prima orienta e determina ogni aspetto
della programmazione; in termini di linguaggio, accattivante
e seducente cui fine ultimo, e unico, è quello della
vendita; e di contenuti, affinché si arrivi alla più
ampia audience possibile, in funzione della pubblicità
stessa.
L'altro elemento, l'imitazione della quotidianità, avviene
a livello di organizzazione del palinsesto, di generi televisivi
e di stile di messa in scena, ma “essendo in realtà
un'imitazione artificiosa, che tende a riprodurre modelli più
che a ricercare la realtà, si finisce per rappresentare
un universo affetto da una distorsione di fondo”.
Ma chi è il lupo cattivo? Le responsabilità
sono multiple, per il momento limitiamoci a quelle che ricadono
sulla tv stessa, la quale servendo gli interessi delle imprese,
le stesse che sponsorizzano senza curarsi dei bisogni del pubblico,
sposa incondizionatamente la legge del profitto e della competizione.
E per cosa si compete? Ovviamente per accaparrarsi i telespettatori
e non certo per fini educativi, per produrre trasmissioni che
insegnino ai bambini qualche genere di etica. “Questo
aspetto è importante e difficile” spiega Sartori
“perché l'etica si può insegnare ai bambini
solo fornendo loro un ambiente attraente e buono ma, soprattutto,
buoni esempi”.
La tv però sembra non saper o non voler cogliere questa
sua portata educativa, esimendosi dalla responsabilità
di offrire un prodotto buono, proporzionale alle esigenze formative
e informative della società. Ha trasformato il pubblico
da soggetto a oggetto della comunicazione, che fa zapping passivamente
all'interno di palinsesti scadenti. Il suo livello qualitativo,
come osserva Sartori, “è sceso perché le
stazioni televisive, per mantenere la loro audience, devono
produrre sempre più materia scadente e sensazionale […]
e difficilmente la materia sensazionale è anche buona”.
I produttori continuano a giustificare quest'infima offerta
televisiva rispondendo: dobbiamo offrire alla gente quello che
la gente vuole, come se si potesse sapere quello che la gente
preferisce dalle statistiche sugli ascolti delle trasmissioni.
Nel caso italiano, i dati raccolti da Auditel, come ci ricorda
Lorella Zanardo in Il corpo delle donne, diventano l'elemento
decisivo per la stesura dei palinsesti da parte delle reti,
dove la semplice accensione del televisore, da parte di quelle
cinquemila famiglie campione, si tramuta in un gradimento implicito.
La legge dell'audience, allora, altro non è che quello
che Popper formulava più familiarmente come legge
dell'aggiunta di spezie che servono a far mangiare cibi
senza sapore che altrimenti nessuno vorrebbe: le spezie sono
il mezzo che i produttori hanno più facilmente a disposizione
per aiutarsi, sono il congegno sperimentato che è sempre
in grado di catturare gli ascolti.
Ma allora come difenderci da questo processo di abbrutimento
e omologazione? “Basta spegnere la tv!” urlano a
gran voce i più culturalmente preparati o comunque coloro
che sono dotati di più strumenti per farlo; ma la questione
è assai più complessa. Un'analisi più attenta
svela la portata culturale che si cela dietro quel gesto, apparentemente
semplice, quale è premere di tasto rosso sul telecomando.
Lorella Zanardo lo definisce un gesto elitario, che parte da
lontano, dall'aver ricevuto un'educazione capace di fornire
gli strumenti necessari a una lettura critica della realtà,
capace di aver trasmesso l'interesse per le relazioni, la lettura,
il cinema, il teatro, insomma aver creato i presupposti per
renderci davvero in grado di scegliere in maniera libera come
arricchire il nostro tempo libero e come informarci sul mondo.
Ma davvero tutti abbiamo quest'opportunità di scelta?
“In un paese dominato dai media”, spiega la Zanardo,
“dove i giornali di pettegolezzi trasformano in idoli
i personaggi televisivi, la tv rappresenta la forma di intrattenimento
più diffusa e più economicamente conveniente”.
E se poi consideriamo che in Italia il piccolo schermo rappresenta
la principale fonte d'informazione per l'80 per cento di coloro
che la guardano, il gioco è fatto.
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Anni 60. Questo magazine per uomini promette di spiegare
“come far fare a tua moglie ciò che vuoi che lei
faccia” |
La dittatura dei corpi perfetti
Il principio democratico enunciato nella nostra Costituzione
all'articolo 3 secondo cui: “Tutti i cittadini hanno pari
dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza
distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di
opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”,
si rivela in tutta la sua carica meramente formale se, analizzando
la programmazione televisiva italiana, adottiamo un'ottica di
genere.
In controtendenza rispetto a tutti gli altri settori, dalla
vita pubblica e politica a quella lavorativa e dirigenziale,
i media promuovono a genere privilegiato quello femminile. Nella
programmazione televisiva come nella pubblicità assistiamo
a una ossessionante presenza della donna e a un'eccedenza nell'uso
delle sua immagine e del suo corpo rispetto ai contenuti veicolati
e alle necessità del prodotto venduto-rappresentato.
Due interessanti ricerche svelano senza pietà quanto
in questi ambiti l'Italia rappresenti un'anomalia rispetto al
resto dei paesi europei, in termini di uso dell'immagine e del
corpo della donna.
Nel periodo compreso tra il 18 e il 28 febbraio del 2002 la
professoressa Giovanna Campani svolse un'indagine sulla televisione
italiana tette-culi: vennero analizzati alcuni programmi, quali
quiz, satira, informazione, attualità, politica e varietà
delle reti Rai, Mediaset e della allora nuova rete La7 a caccia
di stereotipi di genere. Al termine del lavoro venne montato
un video che già allora svelava “una sequenza di
donne discinte ancheggianti, in balletti ad alto significato
erotico, nonché di donne poco vestite usate come soprammobili
accanto a signori in giacca e cravatta”.
Come denunciato dal fotografo Ico Gasparri a proposito delle
cartellonistica pubblicitaria, nella televisione italiana si
assiste da tempo a un'eccedenza dell'uso, in termini quantitativi
e qualitativi, dell'immagine e del corpo della donna; infatti,
“le comparse delle signorine seminude non hanno niente
a che vedere con i temi trattati nei programmi. Quasi sempre
[…] rappresentano una sorta di accompagnamento o di decorazione
per gli uomini che conducono le trasmissioni”.
Più recentemente, nel lasso di tempo che va dal 26 dicembre
del 2008 al 31 gennaio del 2009, Lorella Zanardo, affiancata
da due colleghi, Cesare Cantù e Marco Malfi Chindemi,
hanno condotto un'altra accurata analisi dei palinsesti televisivi
nostrani, da cui è nato l'ormai conosciuto documentario
Il corpo delle donne, dall'omonimo testo. In ore e ore
di visione televisiva emerge un quadro che ha dell'assurdo:
una sequela di immagini offensive intrise di una banalità
vuota e stereotipata, dove fa da denominatore comune l'erotismo
e la costante allusione sessuale ai limiti della pornografia,
dominate da “corpi giovani ed esposti, ammiccanti e apparentemente
sempre pronti a soddisfare il desiderio maschile”.
La Zanardo lo definisce un erotismo becero e infantile, fatto
di immagini svilenti e grottesche, abiti dozzinali, inquadrature
ginecologiche, uomini volgari, copioni banali e donne carne
da macello.
Dobbiamo offrire alla gente quello che la gente vuole. Ma è
davvero questo ciò che il pubblico vuole? Ma davvero
siamo spettatori così addomesticati da accontentarsi
di così poco e brutto?
Guardando la tv, intuisci fin da piccolissima che il tuo corpo
sembra avere un potere enorme sugli uomini, come se il corpo
divenisse unico medium delle relazioni fra i generi, come se
il corpo, conforme a certi canoni di bellezza, giovinezza, erotismo,
divenisse parametro, misura, orizzonte dell'esistenza.
La televisione si fa propagatrice dei peggiori stereotipi di
genere, proponendo un'immagine assolutamente distorta e degradante
della donna e dei rapporti tra i due sessi, veicolati quasi
esclusivamente da relazioni asimmetriche, giocate su un terreno
dominato dal sesso e da perversi giochi di potere.
Questa pratica è tristemente diffusa non solo in Italia,
ma il problema, o l'anomalia come la si voglia chiamare, è
che da nessun altra parte, come da noi, questo è l'unico
modo in cui il modello femminile viene proposto in tv.
Ma in tutto questo la donna reale dov'è?
La crudeltà del messaggio coincide con la sua irrazionalità:
il modello diventa una donna che non esiste.
La tv da una parte ci propone una figura docile e ammiccante
che incarna il sogno della ragazza della porta accanto, la ragazza
soprammobile, che con la sua presenza innocente e passiva si
limita a decorare la scena, quasi sempre senza parlare, se non
per avvalorare le affermazioni dell'uomo; dall'altra parte,
sempre più frequentemente, assistiamo a immagini di donne
che, con piglio imprenditoriale e comportamenti maschili, gestiscono
un corpo iperfemminile: una figura di donna ibrida, erotica
e a disposizione dell'uomo (come accade da secoli), ma spesso
con uno sguardo e un atteggiamento aggressivi, da schiava-padrona
del desiderio maschile, mai arrendevole.
Divieto di invecchiare
La questione si fa ancora più spinosa quando alla variabile
genere accostiamo quella anagrafica, quando cioè la questione
femminile incontra l'ideologia dell'ageism, ossia la
discriminazione in base all'età, così definita
da William Graebner.
Dunque, come sono rappresentate le donne mature, in là
con l'età, quelle che Eve Ensler nel suo testo Il
corpo giusto apostrofa come “l'esercito delle postmestruate”?
È quasi inutile sottolineare come lo stereotipo abbondi
nella quotidianità quanto nella rappresentazione massmediatica.
Le cose non cambiano quando si invecchia, semmai peggiorano.
Nella stragrande maggioranza dei casi le anziane italiane, nella
vita reale, fanno o sono costrette a fare le nonne: come osserva
Loredana Lipperini in Non è un paese per vecchie
“con la fine della fertilità, il pendolo rallenta
la sua oscillazione fra puttana e madonna e si ferma sulla seconda
possibilità. Le vecchie sono sante e caste. Appena un
po' stupide. Appena un po' invidiose delle giovani”.
E se non sono nonne, tate o comunque persone preposte alla cura,
le anziane sono poco interessanti. E in modo simile e più
drammatico rispetto alle donne adulte, sono presenti sui media,
televisione in primo luogo, non per la loro cultura o per la
loro sapienza politica, ma come protagoniste della cronaca nera.
Appaiono solo quando sono vittime. Morte per scippo. Morte per
caduta. Morte per solitudine. Morte assassinate, anche.
Ma è la pubblicità che ci svela impietosamente
qualcosa di più sull'immaginario di questa fase della
vita, della nostra vita.
La pubblicità sui vecchi (consentiamoci di usare questo
vocabolo affrancandosi dalle trappole del linguaggio politically
correct) infatti, si fa portavoce del doppio stereotipo, anagrafico
e di genere.
Un'interessante ricerca, La rappresentazione degli anziani
nella pubblicità televisiva, condotta da Ludovica
Solari nel 2004 per il dipartimento di Scienze demografiche
dell'università La Sapienza, prese in esame gli spot
Rai e Mediaset del 2002, in cui apparivano personaggi over 50.
Ebbene, pur essendo ormai datata, i dati rilevavano una situazione
non troppo distante da quella attuale: gli anziani infatti,
nel 42 per cento dei casi apparivano come testimonial del settore
alimentare. Formaggi, olio, pasta e vino, perché l'anziano
ha esperienza e conosce i sapori di una volta, facendosi garante
della qualità e della bontà, basti pensare all'esplosione
dei patriarchi rurali (uno su tutti Giovanni Rana) nella veste
di imprenditori pensionati che, compiaciuti ed ecumenici, passano
i propri saperi alle nuove generazioni. Nulla di nuovo anche
nel fatto che vecchie signore imprenditrici non ce ne siano,
e che le donne over 50 prevalgano invece, nel secondo settore
pubblicitario più frequente: i prodotti per la casa.
“Perché se l'uomo conosce la tradizione degli antichi
sapori, che al suo lavoro si devono, la donna sa come fare il
bucato”. Gli stereotipi di genere, insomma, non hanno
età.
Scrive Solari: “La donna anziana rimane legata a quei
prodotti che da sempre enfatizzano il lato domestico e materno,
le occupazioni servili e infermieristiche […]. Gli uomini
sono prevalentemente rappresentati nel contesto lavorativo o
in attività che riguardano il mondo esterno, le donne,
invece, sempre in ambito familiare”; cristallizzate, dunque,
in ruoli di nonne impegnate nella cura della casa, mentre è
più facile trovare un nonno accanto al nipote, viaggiando
la trasmissione dei saperi, in linea maschile.
Loredana Lipperini in Non è un paese per vecchie svela
il congegno magico degli stereotipi pubblicitari, scovando,
come in un gioco di scatole cinesi, all'interno dello stereotipo
di genere – interno a sua volta a quello anagrafico –
uno ancora più insidioso: quello della negazione.
Negazione del tempo che passa, negazione della vecchiaia come
stagione della vita e condizione dell'esistenza, negazione della
essenza stessa della persona.
Il messaggio è velenoso e s'insidia dietro il meccanismo
dello scambio madre-figlia, ricorrente nelle campagne pubblicitarie
rivolte alle donne. Ti scambiano per tua figlia?: “che
si tratti di creme o di prodotti dietetici, di cosmesi o di
abiti, il parallelo viene ribadito impietosamente. È
la versione aggiornata e consumistica della fiaba di Biancaneve,
laddove a Grimilde viene proposto, non di vivere come è
stata fino a quel momento e come continua ad essere, semplicemente
con alcuni anni in più, ma di vendicarsi, infine e una
volta per tutte, della figliastra. Non serve avvelenarla, puoi
essere lei”.
È facile intuire come il mondo della pubblicità
si sia presto adeguato, e a sua volta abbia fatto da moltiplicatore
dell'effetto, alla nuova percezione che le donne over
hanno di sé: da un'indagine svolta nel 2008 da Marco
Testa, presidente e amministratore delegato della grande azienda
pubblicitaria Armando Testa, risulta che solo la metà
del campione delle oltre sessantaquattrenni intervistate si
definisce anziana. Quindi è logico che la comunicazione
pubblicitaria si sia trovata costretta a de-vecchizzare il proprio
linguaggio, adeguandolo a un pubblico che non si percepisce
tale. Il divieto d'invecchiare si è tradotto nella necessità
di identificarsi in personaggi brillanti, per i quali il tempo
si è fermato, sintetizzato in figure femminili, giovani
ma anziane, dall'effetto destabilizzante.
Ancora una volta siamo di fronte a una donna che non esiste:
figure femminili che grazie alla cosmesi e la chirurgia estetica
invasiva perdono ogni autenticità, ogni ricchezza interiore
psicologica, affettiva e intellettuale, aggrappate ad un fermo
immagine perenne, nella vana speranza che a quell'immagine possano
aderire per tutta la vita. Osserva ancora Lipperini: “Il
culto esasperato dell'immagine tipico del nostro tempo tenta
di esorcizzare la vecchiaia, la decadenza, la fine, attraverso
la rappresentazione ossessiva di una perenne, inalterata giovinezza
che sfida il tempo e dà l'illusione di una vittoria sulla
morte”.
La trappola del come se trae in inganno: nonostante l'età
è sempre una bella donna, come se avesse sempre vent'anni.
E allora, accompagnata dal nonostante, veste come se
fosse giovane, fa movimento come se fosse giovane, mostra il
proprio corpo, vive la propria sessualità, il proprio
tempo libero, come se fosse sua figlia, appunto.
Ma nella realtà è davvero così? Davvero
le madri vogliono essere le proprie figlie? Esiste veramente
questa agguerrita competizione tra generazioni, giocata esclusivamente
a colpi di creme antirighe e glutei scolpiti?
Cosa nascondono quei volti straziati dalla plastica e altri
materiali? Perché le donne non possono apparire con la
loro vera faccia?
“Nascondendo la nostra faccia stiamo rinunciando alla
nostra unicità”, commenta la Zanardo. Il volto
ci mette in relazione con l'altro, in contatto diretto con il
mondo, esponendoci e mettendo a nudo tutta la nostra vulnerabilità.
E come restare noi stesse in un mondo in cui si è accettate
solo se ferocemente invulnerabili? Invecchiando la faccia diviene
portatrice del vissuto, in tutta la sua originalità e
unicità. Ma allora, la parata di volti che ci vengono
proposti quotidianamente nei programmi televisivi, cosa sono
in grado di trasmetterci, se l'essenza più profonda di
queste donne è stata soffocata sotto strati di gomma?
Siamo dunque nel paese dove la giovinezza viene misurata con
quello che il poeta Edoardo Sanguineti ha definito “il
modello Berlusconi: catastrofico, esagerato, impermeabile alla
realtà, compiaciuto della tolleranza-zero che lo sostiene”.
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Anni 60. Nella pubblicità di questo ketchup dal tappo
svitabile una donna si stupisce di poterlo aprire da sola, senza
l'aiuto di un uomo |
Sex in the city
Nella disputa sull'accendere o spegnere la tv, come gesto politico
che si gioca tra la presa di coscienza e il boicottaggio, sicuro
è che, almeno una parte dei cittadini può salvarsi
dal suo potere seduttivo e di deformazione di genere, appellandosi
a un pur velato atto di volontà; altresì, una
rivista, o un giornale, si può decidere di strapparlo,
cestinarlo,bruciarlo o quanto meno scegliere di non comprarlo.
Ma c'è qualcosa da cui è veramente molto difficile
salvarsi, tutelarsi: la cartellonistica pubblicitaria stradale.
Poco studiata e ampiamente sottovalutata, la cartellonistica
pubblicitaria risulta essere un ambito di grande interesse per
un'analisi attraverso un'ottica di genere. Anche perché,
a ben vedere, la quasi totalità usa l'immagine femminile,
attraverso cui quotidianamente viola il nostro campo visivo
e il nostro immaginario.
La principale caratteristica che la denota infatti è
la sua natura obbligatoria: non può negarsi alla vista
di bambini, bambine, adolescenti, uomini e donne, violentate
e violentatori, vittime e carnefici, insomma tutte e tutti coloro
che ci passano vicino, come denuncia Ico Gasparri, fotografo,
artista che si occupa di comunicazione sessista ormai da anni.
In effetti, come è possibile non vedere un cartellone
di 18 metri quadrati per 3 mentre si cammina su un marciapiede
di 2? Spesso sostituiscono le facciate degli edifici storici
centrali in ristrutturazione, foderano interi palazzi, invadono
metropolitane, banchine delle stazioni, fermate degli autobus.
In vent'anni Ico Gasparri ha raccolto più di 4.000 immagini,
dandole alle stampe nel suo testo autoprodotto, Chi è
il maestro del lupo cattivo?, che a oggi rappresenta il
più vasto e articolato archivio di immagini relativo
alla cartellonistica sessista, e che lo ha insignito nel 2010
del premio come miglior artista italiano dedito ai diritti delle
donne e alle discriminazioni di genere, decretato dalla Commissione
Pari o Dispare e consegnato per mano della allora vice presidente
del senato Emma Bonino. Questi scatti documentano lo schifo,
come lui stesso lo definisce, con cui le nostre città
(e in particolare Milano, oggetto dei suoi studi) sono state
tappezzate, vestite in maniera violentemente sessista, documentando
il peggioramento esponenziale di cui l'Italia si è fatta
protagonista.
Gli scatti mostrano un excursus che va dall'immagine della donna
vestita, a parti di corpo che via via vanno scoprendosi, agendo
sempre di più e sempre più apertamente il sesso,
fino alla deriva nella pornografia. Esplicitato dalle immagini
fotografiche e rinforzato dal linguaggio usato nel testo scritto
che le accompagnano, il sesso esce sempre più dall'allusione
conquistando definitivamente l'area declaratoria.
Ico Gasparri sostiene che “niente è fatto per caso,
c'è una precisa filosofia che guida i pubblicitari”,
anche di grande aziende di fama internazionale nell'usare, per
altro senza neanche tanta originalità, l'immagine della
donna in maniera così mercificata e degradante.
Interessante sottolineare il fatto che Gasparri parli di immagine
e non solo e semplicemente di corpo della donna, ritenendo che
l'attacco, l'offesa, la violenza riguardi tutto l'universo femminile,
e non solo l'uso del suo corpo o di parti di esso, appunto.
Tanto meglio non va quando ad essere intervistati sono i consumatori:
racconta con sarcasmo che, su 50 persone intervistate, ben 48
non avevano capito che il prodotto pubblicizzato su un gigantesco
cartellone lungo una delle vie principali di Milano, fosse una
nota marca di acqua minerale.
In un interessante intervento tenuto nel novembre del 2009 presso
il Coordinamento delle donne dell'Idv di Milano, presenta il
suo film (così lo definisce), frutto dell'assemblaggio
di tanti, tantissimi frame, foto che in anni di ricerca ha scattato
e classificato in base a logiche pubblicitarie ricorrenti. Tra
queste l'oggettivazione: le modelle sono spesso distese in terra
o su piani di posa fotografici, come oggetti, ridicolizzate
al punto da essere trasformate esse stesse in oggetto. Merce
da consumare, pronta per l'uso e l'abuso. Un altro aspetto è
l'apertura e la gratuita disponibilità: le donne si aprono
in pose da contorsioniste, piegate, distorte, arrotolate. Poi,
naturalmente, l'eterna gioventù e, particolarmente significativo,
il rapporto uomo-donna: talvolta le modelle sono distese davanti
a un uomo che non si vede, se non in parte, un braccio muscoloso,
una schiena, non importa rappresentarlo ai fini della cattura
dello sguardo del consumatore. Se l'uomo si vede, spesso è
posizionato dietro, che le sovrasta o, peggio, le prende, le
tiene a sé con una stretta ai limiti della violenza;
mani forti, di possesso, che la cingono, la trattengono. Se
invece appare da solo, l'uomo diviene essere asessuato, nelle
misura in cui viene devitalizzato di tutta la sua carica erotica:
vestito sobriamente, seduto in un'ambientazione di rango o comunque
reale, promosso a un grado accettabile socialmente, non si specula
sulla sua vita intima e sessuale; si fa persona. Ma anche il
rapporto tra donna e donna fa parte dell'iconografia pubblicitaria.
È ricorrente il tema dell'omosessualità femminile,
tanto caro all'immaginario erotico maschile, totalmente deprivato
di qualunque connotato emotivo, affettivo, relazione, ma legato
unicamente alla sua dimensione sessuale. Infine: oltre la donna.
Quello che la pubblicità passa spesso è “l'esistenza
di un corpo diviso dall'essenza della donna”, certificandoci
che la donna ha qualcosa di diverso da essa stessa, che è
il corpo; un corpo logicamente perfetto secondo i canoni convenzionali
di cui i media ci bombardano quotidianamente (“Il tuo
corpo sarà l'unica cosa che ti piacerà indossare”,
come sentenzia il testo che accompagna la pubblicità
di una nota marca di acqua).
La sequela di immagini montate da Ico Gasparri svela come sia
cambiato nel corso degli anni il rapporto tra polis e
pubblicità, portando alla ribalta il duplice meccanismo
violento del quale siamo vittime. Da una parte infatti, le gigantografie
pubblicitarie hanno fagocitato i nostri sguardi e le nostre
strade con un torbido mix di biechi interessi economico-misogini,
riducendo le nostre città a luoghi insicuri, portatori
(non sani) di esplicite forme di discriminazione, verso un genere,
e violenza, verso entrambi. Dall'altra, l'obbligatorietà
con cui si impongono, trascende il qui e ora con l'aggravante
che tutta questa paccottiglia (prendendo in prestito un termine
usato da Ico Gasparri) espone senza riserve le nuove generazioni
a forme di diseducazione che, anche su quelle immagini, formano
i loro modelli di riferimento. L'effetto dell'esposizione a
tanta materia scadente è estremamente deviante e, a lungo
andare, plasma, colonizza l'immaginario dei minori, quanto degli
adulti.
Bombardamento quotidiano
Il problema ruota intorno alla cristallizzazione dei ruoli
e degli stereotipi legati all'uno e l'altro sesso, le forme
delle relazioni tra i generi, ma anche e soprattutto alla percezione
stessa della violenza.
Come testimonia Ico Gasparri, riportando quanto emerge dalla
sua attività di sensibilizzazione e formazione rivolta
alle e agli adolescenti, l'atto violento viene distorto e minimizzato,
ricondotto essenzialmente all'atto sessuale, o quanto meno a
un atto colorito di sangue, urla e botte. Solo grazie a un percorso
di presa di coscienza, i ragazzi e le ragazze riescono ad avere
un occhio più attento, sensibile, critico, tale da smascherare
quell'insidia che si cela dietro al fenomeno della “mediatizzazione
del corpo femminile”, affrancandosi dall'effetto normalizzatore
dovuto all'ossessiva “esposizione agli occhi di tutti
di sempre maggiore carne femminile esteticamente conformata
in qualsiasi attività della giornata”.
È dunque attraverso i media che si forma quel senso comune
plasmato, orientato, violentato dal bombardamento quotidiano
di rappresentazioni distorte e discriminatorie, facendo leva
su un piano simbolico in maniera così profonda da divenire
mezzo di propagazione del backlash (attacco alle donne,
concetto coniato dalla giornalista statunitense Susan Faludi).
Il danno più grave, dunque, è riconducibile alla
colonizzazione del nostro immaginario, concetto introdotto da
Augè in La guerra dei sogni. Se lo scontro tra
i popoli è spesso accompagnato dall'urto tra immagini,
“analogamente si può sostenere che anche lo scontro/incontro
fra i generi non può che giocarsi anche sul terreno delle
immagini”, osserva Anna Lisa Tota in Gender e media
(Molteni editore, Roma, 2008). “In tale prospettiva
l'immaginario appare come magazzino simbolico a cui attingere
per dare senso alle identità, per elaborare le rappresentazioni
sociali con cui misurarsi nella quotidianità. I mutamenti
che investono tale sfera, lungi dall'essere accessori o marginali,
sono destinati ad avere ripercussioni profonde sull'assetto
complessivo di un dato contesto sociale”. Questo è
il vero problema: l'immaginario è faccenda davvero complicata,
è granitico e infido, e i cambiamenti sono troppo lenti.
Lungi dal pensare che vi sia dietro il disegno di una qualche
società segreta che ci vuole tutti sessuopatici, c'è
però una certa coerenza tra le rappresentazioni mediatiche,
i discorsi politici e la cultura popolare italiana.
Questo sodalizio tra immagini e linguaggio opera un rafforzamento
simbolico dei ruoli e dei comportamenti rappresentati, facendoli
apparire come comunemente condivisi e socialmente accettati
e influenzando profondamente l'esistenza di tutte e di tutti,
fino a sfociare nelle mille ingiustizie, discriminazioni e violenze,
che le donne subiscono quotidianamente.
Il grave rischio, infatti, è che la discriminazione sul
piano simbolico che operano costantemente i media, ne alimenta
una reale.
Francesca Cuccarese
Il test di Bechdel
Il test di Bechdel, ideato da Alison Bechdel, autrice di fumetti
dedicati al mondo lesbico, sono dei requisiti che servono a
valutare (secondo l'ottica del personaggio che li presentava
nel fumetto) se un film valeva la pena di essere visto o meno.
I requisiti sono:
1. Devono esserci almeno due donne;
2. Le due donne devono comunicare tra loro;
3. A proposito di qualcosa che non sia un uomo.
Un ulteriore requisito che si è aggiunto in seguito è
che le donne abbiano un nome.
In apparenza questi requisiti sembrano abbastanza facili
da soddisfare, tuttavia si può vedere (bechdeltest.com)
che sono moltissimi i film che non passano il test, da
Pirati dei Caraibi a Fight Club, da Midnight
in Paris a Shrek, e tanti altri. |
donne e violenza
Dare un nome alle cose
di Milena Scioscia
Italia, 2012: 124 donne uccise,
più 47 tentati omicidi. Dieci al mese. Una ogni tre giorni.
Un paio di articoli di cronaca, ed è finita.
Christine Ockrent ha pubblicato un testo dal titolo eloquente:
Il libro nero della donna. Violenze, soprusi, diritti negati
(Cairo Editore, Milano, 2007). Il volume presenta quasi novecento
pagine di sguardi sulla condizione femminile globale, interpretati
attraverso l'ottica dei cinque principi del genere umano individuati
nella Carta dei diritti della Comunità Europea: sicurezza,
integrità, giustizia, libertà, dignità.
L'obiettivo dell'autrice è denunciare quali sono le reali
condizioni delle donne in un contesto globale, al fine di poter
individuare gli strumenti di lotta più efficaci e mirati
a migliorarle fattivamente. Ovunque si ponga, questo sguardo
sulle donne si fa cupo e inquietante: “Esse sono, molto
semplicemente, inferiori. Impure. Buone soltanto a essere sottomesse,
sfruttate, picchiate, violentate, comprate, ripudiate. Creature
di cui si può disporre a proprio piacimento. Destinate
al silenzio, all'oblio. Disprezzabili, insomma, e prive di dignità”.
Il gap più desolante nella conquista di spazi di autodeterminazione
e libertà è nella disparità tra sfera pubblica
e privata. Il quotidiano, il vicino, il privato, sono ancora
zone d'ombra; in Occidente è la sofferenza di esser nate
donne ad aggravare tutte le altre, e questa realtà viene
quotidianamente celata, manipolata, strumentalizzata agli occhi
dell'opinione pubblica, con obiettivi propagandistici e politici.
Il punto di partenza è senz'altro la consapevolezza contemporanea
delle discriminazioni di cui tutte le donne al mondo sono state
e sono vittime, incipit necessario per elaborare nuove concezioni
politiche, interpretative, giuridiche, costruite sul binomio
“uguaglianza e diversità”.
Amartya Sen indica nel suo Many faces of gender inequality
“le sette facce della disuguaglianza” che non permettono
una vita veramente umana per le donne in molti paesi del mondo:
disuguaglianza nella sopravvivenza, nella natalità, nelle
opportunità di base, nella proprietà, nella distribuzione
di benefici, nei carichi domestici, nella dimensione professionale.
Neologismo controverso
L'album fotografico che emerge dall'incrocio di queste analisi
è agghiacciante: alcune tra le forme di violenza perpetrate
su donne e bambine risultano essere l'infanticidio, il feticidio,
lo stupro come strategia di guerra, i delitti d'onore, la lapidazione,
le mutilazioni genitali, passando dalle quotidiane violenze
coniugali, dalle discriminazioni in ambito lavorativo, salariale,
familiare, sociale ed educativo, fino allo sconcertante fenomeno
del femminicidio.
“È la prima causa di morte violenta in Italia per
le donne tra i 16 e i 44 anni”, dice Rashida Manjoo, la
relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla violenza contro
le donne, citando i dati dell'Organizzazione mondiale della
sanità. La prima causa di uccisione delle donne nel mondo
è l'omicidio da parte di persone conosciute. La prima
causa di morte delle donne. Più del cancro, più
degli incidenti stradali.
Femminicidio è un neologismo ed è una brutta parola:
significa la distruzione fisica, psicologica, economica, istituzionale
della donna in quanto tale, in quanto donna. Avviene per fattori
esclusivamente culturali: il considerare la donna una res
propria può far sentire l'aguzzino legittimato a
decidere sulla sua vita.
L'antropologa messicana Marcela Lagarde, considerata la teorica
del femminicidio, lo definisce “la forma estrema di violenza
di genere contro le donne, prodotto della violazione dei suoi
diritti umani in ambito pubblico e privato, attraverso varie
condotte misogine – maltrattamenti, violenza fisica, psicologica,
sessuale, educativa, sul lavoro, economica, patrimoniale, familiare,
comunitaria, istituzionale – che comportano l'impunità
delle condotte poste in essere tanto a livello sociale quanto
dallo stato e che, ponendo la donna in una posizione indifesa
e di rischio, possono culminare con l'uccisione o il tentativo
di uccisione della donna stessa, o in altre forme di morte violenta
di donne e bambine: suicidi, incidenti, morti o sofferenze fisiche
e psichiche comunque evitabili, dovute all'insicurezza, al disinteresse
delle istituzioni e alla esclusione dallo sviluppo e dalla democrazia”
(si veda anche l'articolo http://27esimaora.corriere.it/articolo/perche-si-chiama-femminicidio-2/).
È un termine coniato ufficialmente per la prima volta
nel 2009 con la sentenza Campo Algodonero, storica non solo
perché per la prima volta riconosce una identità
giuridica propria al concetto di femminicidio quale omicidio
di una donna per motivi di genere e quale violazione dei diritti
umani, ma anche perché è stata emessa quando,
per la prima volta nella storia della Corte interamericana,
a presiedere l'organo giudicante era una donna, la magistrata
Cecilia Medina Quiroga.
Con questa sentenza il Messico è stato condannato dalla
Corte interamericana dei diritti umani per le donne violentate
e uccise dal 1993 nella totale indifferenza delle autorità
di Ciudad Juarez, nello stato di Chihuahua, al confine tra Messico
e Stati Uniti.
Qui i corpi delle donne venivano barbaramente e impunemente
seviziati, torturati, assassinati, straziati, abbandonati, buttati
nella spazzatura o sciolti nell'acido.
Dal 1992 più di 4.500 giovani donne sono scomparse e
più di 650 stuprate, torturate e poi uccise e abbandonate
ai margini del deserto.
Il tutto nel disinteresse delle istituzioni, con la complicità
della politica e della criminalità organizzata, attraverso
la possibilità di insabbiamento delle indagini esacerbata
dalla cultura machista dominante e da leggi che non prevedevano
lo stupro coniugale come reato, concedendo la non punibilità
nei confronti dello stupratore che avesse sposato la donna violata.
Secondo le denunce si sono macchiati di questi orrori anche
uomini delle forze dell'ordine e, laddove non direttamente,
attraverso quella forma di omertà che permette anche
al nostro paese di mantenere un primato da guerra civile. Certo,
in Italia non siamo arrivati a questi livelli.
Un dato però ci pone in classifica dietro al Messico:
se là il 60 per cento delle vittime di femminicidio aveva
già denunciato episodi di violenza o di maltrattamento,
qui invece una ricerca condotta da Anna C. Baldry ha evidenziato
che più del 70 per cento delle vittime di femminicidio
era già nota per avere contattato le forze dell'ordine,
ovvero per aver denunciato, o per aver esposto la propria situazione
ai servizi sociali.
Un dato che ci accomuna agli altri paesi europei: le ricerche
criminologiche dimostrano che su 10 femmicidi, 7/8 sono in media
preceduti da altre forme di violenza nelle relazioni di intimità.
L'uccisione della donna non è che l'atto ultimo, la punta
dell'iceberg di un continuum di violenza di carattere economico,
psicologico, fisico.
Il termine femicide (femmicidio o femicidio) era già
stato coniato precedentemente dalla criminologa Dian Russell,
per indicare gli omicidi della donna in quanto donna, ma anche
delitti trasversali a tutte le classi sociali: omicidi basati
sul genere, ovvero la maggior parte degli omicidi di donne e
bambine. Non si riferisce cioè soltanto agli omicidi
di donne commessi da parte di partner o ex partner, ma anche
delle ragazze uccise dai padri perché rifiutano il matrimonio
che viene loro imposto, o il controllo ossessivo sulle loro
vite e sulle loro scelte sessuali, delle donne uccise dall'Aids
contratto dai partner sieropositivi che per anni hanno intrattenuto
con loro rapporti non protetti tacendo la propria sieropositività,
delle prostitute contagiate dall'Aids e di quelle ammazzate
dai clienti, delle giovani uccise perché lesbiche. Se
vogliamo tornare indietro nel tempo, include anche tutte le
donne accusate di stregoneria e bruciate sul rogo.
La violenza di genere è un fenomeno trasversale. Le vittime
della violenza, così come gli autori della violenza,
sono di tutte le età e di tutte le professioni, e gran
parte della violenza avviene in famiglia, per mano di un partner
o marito, spesso dinanzi ai figli.
È un errore pensare che la violenza alle donne si verifichi
solo in ambienti in cui ci sia qualche disagio sociale, o povertà
culturale. Nessuna società o cultura ne è immune.
La violenza colpisce le donne in ogni parte del mondo, nella
sfera pubblica come in quella privata, in tempo di pace o durante
i conflitti. Esiste una dimensione sociale della violenza alle
donne perché essa attiene a profonde motivazioni culturali
e ai modelli di relazione tra generi: la violenza altro non
è che un modo per riappropriarsi di un ruolo gerarchicamente
dominante, a cui sono da sempre stati concessi privilegi.
Un modo per riappropriarsi di un potere.
“Il termine femminicidio viene adottato da subito con
un preciso significato politico, per indicare le violenze
di stampo misogino o sessista degli uomini e delle istituzioni
maschili sulle donne: un nome nuovo per una storia vecchia quanto
il patriarcato” spiega Barbara Spinelli, autrice di Femminicidio.
Dalla denuncia sociale al riconoscimento giuridico internazionale
(Franco Angeli editore, Milano, 2008).
Marcela Lagarde sostiene che la cultura rafforza in mille modi
la concezione per cui la violenza maschile sulle donne è
qualcosa di naturale: attraverso una proiezione permanente di
immagini, dossier, spiegazioni che la legittimano, ci troviamo
educati ad una violenza illegale ma legittima. Questo è
uno dei punti chiave del femminicidio.
Il femminicidio secondo Marcela Lagarde è quindi un problema
strutturale, che va al di là degli omicidi delle donne,
e riguarda tutte le forme di discriminazione e violenza di genere
che sono in grado di annullare la donna nella sua identità
e libertà; non soltanto fisicamente, ma anche nella loro
dimensione psicologica, nella socialità, nella partecipazione
alla vita pubblica.
Ogni qualvolta le donne reclamano il riconoscimento di diritti,
sociali, politici, lavorativi, riproduttivi, a questa richiesta
corrisponde una maggiore negazione di libertà e di autodeterminazione
da parte di chi esercita il potere, fino a una escalation di
violenza atta a conservare e a ricondurre la donna nella sua
dimensione “naturale”, di soggetto controllabile.
A un mese di distanza dall'assassinio della difensora dei diritti
umani Marisela Escobado, un altro femminicidio ha insanguinato
la città di Juarez: il brutale omicidio della poeta e
attivista Susana Chávez, ideatrice negli anni '90 del
progetto Ni una muerta más, in difesa delle donne di
Ciudad Júarez. Il femminicidio di Susana Chávez,
il primo dall'inizio dell'anno, si aggiunge ai 466 omicidi di
donne del 2010.
Dal privato al politico
In Europa si parla di femminicidio ignorando l'elaborazione
teorica e politica, le pratiche cioè del movimento delle
donne che hanno fatto di questo neologismo uno strumento di
interpretazione del reale e di decostruzione del patriarcato
in America Latina, rendendolo categoria di analisi della discriminazione
contro le donne in chiave sessuata.
Qui inizia la storia sconosciuta ai più.
Le donne messicane, attiviste, femministe, accademiche, giornaliste,
grazie alla loro attività di denuncia della responsabilità
istituzionale per il perdurare di questi crimini e di tutte
le violazioni dei diritti umani subite dalle donne che continuavano
a restare impunite, sono riuscite a far eleggere Marcela Lagarde
parlamentare.
Le categorie di analisi proprie delle donne per interpretare
la realtà (sociale, politica, scientifica) nascono con
la categoria di analisi del genere. Sono quindi proprio
queste categorie a descrivere le relazioni tra uomini e donne,
non in termini di differenza sessuale, ma di potere gerarchico,
sociale e politico, così come la storia del movimento
femminista italiano ci spiega bene.
Con il termine “femminicidio” intendiamo quindi
ogni esercizio di potere sulla psiche o sul corpo di una donna
volto ad annientarla perché non assomiglia a quello che
l'uomo o la società vorrebbero che fosse, perché
la donna esercita la sua libera determinazione “rompendo
gli schemi”, ribellandosi al ruolo sociale di moglie,
figlia, amante, suora, puttana, ruolo attribuitole dagli uomini
“a loro immagine” in una società patriarcale.
Ed è stato l'emergere dal privato al pubblico, e di conseguenza
al politico, ad aver reso possibile l'accomunare questi fatti
di violenza tanto diversi, dal Messico all'Italia, sotto uno
stesso nome.
Alcune femministe in Italia sono contrarie all'uso del termine
politico femminicidio, poiché sostengono che inchioda
“l'intero genere femminile al ruolo di vittima sacrificale”.
Una ulteriore violenza sottile, invisibile, si reitera quando
su molti articoli, saggi, pubblicazioni, interpellanze a cura
di ministre, vengono poste numerose virgolette intorno al termine
femminicidio, e si preferisce l'uso di parole altre, debitamente
virgolettate: “strage delle innocenti” (Barbara
Pollastrini), “ginocidio”, “emergenza per
le donne”, “mattanza”, quasi che il termine
fosse “l'ultima moda femminista”. L'appiattimento
semantico e il capriccio linguistico sviliscono così
un dibattito complesso, un ragionamento critico femminista sul
fatto che le donne non muoiono per caso, generando la negazione
di una nuova prospettiva di analisi di genere del fenomeno.
Non è solo l'uomo a uccidere: è l'ideologia patriarcale
che uccide, riprodotta da donne, uomini, istituzioni.
Parlare di femminicidio implica riconoscere le nuove forme di
patriarcato, specialmente in un paese in cui si riscontra un'assoluta
mancanza di dati in proposito.
Anche in Italia, il 18 marzo 2008 si è parlato di femminicidio
in un'aula di tribunale. A presidiare c'erano le donne del movimento
femminista locale (Rete delle donne umbre e Sommovimento femminista
di Perugia) e nazionale (Rete nazionale femministe e lesbiche),
che rivendicavano la matrice culturale del femminicidio di Barbara
Cicioni, donna giovane e autonoma, imprenditrice e madre di
due bambini, strangolata dal marito all'ottavo mese di gravidanza.
Al processo sono state ammesse come parti civili ben cinque
associazioni, di cui due per la difesa dei diritti umani.
Per la prima volta in Italia il femminicidio viene riconosciuto
come violazione dei diritti umani: la violenza domestica e l'uccisione
finale di Barbara Cicioni, e quindi di una donna, costituiscono
non più un fatto privato, né un fatto di donne,
bensì una ferita per la società tutta che, nel
momento in cui alla donna non viene riconosciuta la sua dignità
di essere umano e di persona, e per questo viene discriminata,
violata, uccisa, è collettivamente responsabile dell'eliminazione
della cultura e degli stereotipi che ne minano l'autodeterminazione,
la libertà, la vita stessa.
Parlare dunque di vittime di femminicidio con una certa riluttanza
è sintomo di una perdurante difficoltà della società
italiana ad affrontare la questione? È un'altra tattica
di occultamento?
La sororidad, il termine di sorellanza usato dalle femministe
latino-americane, c'è solo se c'è un atto politico,
una pratica di lotte, dove si può essere vittime di femminicidio
in un contesto politico che non teme di nominarti, che ti riconosce
in quanto tale, che ti sostiene.
Dare un nome alle cose è essenziale per comprenderle
e per evitare che si trasformino in pericolosi tabù;
dare un nome a un problema significa riconoscerlo come tale,
divenire consapevoli della sua esistenza, scegliere di agire
per contrastarlo.
Violenza di genere
Con il termine violenza, l'antropologa francese Françoise
Héritier intende “ogni costrizione di natura fisica,
o psichica, che porti con sé il terrore, la fuga, la
disgrazia, la sofferenza o la morte di un essere animato; o
ancora, qualunque atto intrusivo che abbia come effetto volontario
o involontario l'espropriazione dell'altro, il danno o la distruzione
di oggetti inanimati”.
Si tratta di imporre la propria volontà all'altro, di
dominarlo usando una serie di mezzi quali molestie, umiliazioni,
svalorizzazioni, fino alla capitolazione e alla sottomissione
della vittima. Volontaria o meno, la violenza si costituisce
come atto consapevole e intenzionale, volto a dominare
l'altro con una moltitudine di mezzi, in un rapporto di forza,
in una relazione asimmetrica.
Il termine violenza di genere è usato da molto
tempo dalle persone che fanno parte di associazioni di donne
e che lavorano nel settore, poiché delinea una forma
di violenza esercitata specificatamente contro il genere femminile
da parte del genere maschile, con gli obiettivi di mantenere
e perpetrare una cultura patriarcale millenaria, fondata su
una storica disuguaglianza tra i sessi, attraverso atti discriminatori
e di prevaricazione, che affondano le proprie radici di giustificazione
sociale nel senso del possesso.
Molto prima che il termine femminicidio venisse comunemente
(ma non sempre consapevolmente) utilizzato dai mass media, la
violenza di genere già lo includeva.
Acclude forme di violenza molto diversificate: la violenza che
si consuma quotidianamente tra le mura domestiche ai danni di
mogli (e figli, testimoni e quindi anch'essi vittime della stessa
violenza), la lapidazione come pena di morte prevista per il
reato di adulterio nella Shari'a, le mutilazioni genitali
femminili, largamente compiute e accettate da intere comunità,
il turismo sessuale minorile, a cui si aggiungono i danni di
dipendenza e malattia causati dall'uso di steroidi finalizzati
a rendere più appetibili e carnose le bambine, i delitti
d'onore e quelli perpetrati per dote, lo stupro come arma
di guerra, la morte per hiv delle donne africane, strette
e costrette tra abusi sessuali, violenze domestiche e il ripudio
dopo il contagio, il “suicidio” delle vedove indù
nella pira funebre del marito, l'infanticidio femminile per
cui il premio Nobel Amartia Sen denunciò nel 1990 l'assenza
all'appello di circa 100 milioni di donne nella sola Asia. Stime
più recenti ne hanno aggiunti altri 17 milioni.
Il termine è attualmente adottato a livello istituzionale,
e nelle conferenze mondiali sui diritti umani è stato
riconosciuto in qualità di violazione a tali diritti
fondamentali. La pratica della violenza contro le donne riflette
un modello basato su un'idea della virilità in cui l'elemento
fondamentale è l'esercizio della forza fisica, della
volontà/diritto dell'affermazione di sé, della
superiorità da raggiungere.
Negli ultimi decenni abbiamo assistito ad una presa di posizione
precisa da parte degli organismi internazionali nei confronti
del tema della violenza sulle donne e da tutti i documenti emerge
chiaramente che il concetto di violenza è un'espressione
culturale figlia della storica relazione di potere tra il genere
maschile e femminile. La violenza di genere è la violenza
contro le donne in quanto rappresentanti di uno status
subordinato nella società. La violenza contro le donne
non è solo il frutto di un'aggressione individuale; la
dimensione sociale della violenza sulle donne attiene a profonde
motivazioni culturali: essa è la modalità maschile
per riappropriarsi di un ruolo a cui sono stati da sempre concessi
privilegi, è lo strumento utilizzato per riaffermare
con forza la supremazia di un genere sull'altro.
La violenza di genere include violenza fisica, psicologica e
sessuale, come nella violenza domestica, nello stupro e nell'abuso
intrafamiliare, nella gravidanza forzata, nell'aborto selettivo,
nella disparità nell'accesso a cibo, a cure mediche o
all'educazione, nella schiavitù sessuale, o in pratiche
tradizionali che danneggiano la donna, come ucciderla nel nome
dell'onore, acidificarla, mutilarla, oppure nella prostituzione
coatta, nei matrimoni combinati, nelle aggressioni sessuali,
nelle intimidazioni sul posto di lavoro. Perfino la sfera normativa,
politica e civile hanno giustificato a lungo la supremazia dell'uomo
e quindi l'idea della donna quale “oggetto di proprietà”,
o soggetto di diritto subordinato alla volontà del padre
prima e del marito dopo. Tuttavia, pur essendo cambiate le leggi,
i tempi di mutamento dei modi di pensare sono ben più
lunghi, anche in Italia.
La violenza contro le donne che diventa rivendicazione del controllo
da parte degli uomini trova tra le mura domestiche lo spazio
ideale per attuare tale strategia. Essa assume diverse forme,
a seconda delle società e delle culture, ma la sua esistenza
è un fenomeno, un fatto sociale che è presente
in modo trasversale in tutte le classi sociali, le culture,
le religioni, le situazioni geopolitiche.
La violenza di genere riguarda però la sfera pubblica,
oltre a quella privata; essa può infatti avvenire nella
comunità, oltre ché in famiglia. Nella sfera pubblica
ci sono dei fattori di rischio che in un certo senso sostengono
la violenza contro le donne a vari livelli nella comunità:
a livello politico, a livello legislativo, a livello culturale,
a livello economico.
A livello politico, il fattore di rischio più evidente
è l'impossibilità o la scarsa possibilità
di partecipazione delle donne nei sistemi politici organizzati;
oppure una scarsa rappresentanza femminile nei mezzi di informazione,
nelle professioni mediche e giuridiche. Anche la visione tradizionalista
della famiglia come dimensione privata fuori dal controllo dello
stato è un grave fattore di rischio per la violenza di
genere.
A livello legislativo, i fattori di rischio sono la mancanza
di leggi eque sul divorzio, l'affidamento dei figli o l'eredità,
la non conoscenza dei propri diritti da parte delle donne. Inoltre,
in molti paesi, le donne vivono ancora uno stato giuridico inferiore
rispetto agli uomini e in alcuni paesi non esistono ancora norme
che tutelino le donne dalla violenza domestica, dallo stupro
e da altri reati contro di esse.
A livello culturale inoltre un fattore di rischio molto pericoloso
è quello di ammettere la violenza contro le donne come
modalità per risolvere i conflitti, così come
approvare la netta definizione di ruoli culturali, o sostenere
la credenza che l'uomo abbia il diritto ad una certa proprietà
sulla propria partner, o diffondere messaggi denigratori
e svilenti sul ruolo e sul corpo della donna.
A livello economico infine uno dei fattori di rischio più
gravi è la dipendenza economica delle donne dagli uomini
attraverso forme di restrizione e di scarso accesso alla formazione,
all'occupazione e alla vita politica e sociale, nonché
la presenza di leggi discriminatorie a proposito di diritto
alla dote o all'eredità.
Nonostante l'ampiezza e la gravità del fenomeno, nella
stragrande maggioranza dei paesi lo stato e la società
non riconoscono realmente la violenza contro le donne
come una violazione dei diritti umani, e per questo non attuano
strategie adeguate per contrastarla.
Milena Scioscia
Una su tre
Secondo l'unica ricerca nazionale sul fenomeno, fatta dall'Istat
nel 2007 prendendo in considerazione i dati dell'anno precedente
sono 6,743 milioni le donne tra i 16 e i 70 che, almeno una
volta nella vita, sono state vittime di violenza, fisica o sessuale;
ovvero il 31,9% della popolazione femminile: una donna su tre.
Le donne uccise nel 2006 sono state 101;
nel 2007 107;
nel 2008 118;
nel 2009 119;
nel 2010 127;
nel 2011 137
Secondo l'Osservatorio nazionale sullo stalking circa il 10%
degli omicidi avvenuti in Italia dal 2002 al 2008 ha avuto come
prologo atti di stalking. L'80% delle vittime è di sesso
femminile e la durata media delle molestie insistenti è
di circa un anno e mezzo. |
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