La cultura del tarocco
di Nicoletta Vallorani
Sono da poco emersa dalla consueta
ordalia che va sotto il nome di Esame di abilitazione per insegnanti.
Negli anni, le modalità e i tempi che hanno contraddistinto
il processo di attribuzione di questo inutile titolo alla categoria
ineliminabile degli aspiranti docenti di scuola media inferiore
e superiore hanno subito varie metamorfosi, a seconda del ministro
dell'istruzione in carica, per rimanere sostanzialmente le stesse
e sostanzialmente inefficaci.
Sgombriamo
il terreno da alcuni possibili malintesi: adoro insegnare in
questi ambiti. La formazione dei futuri insegnanti mi è
sempre sembrata un'impresa importante. Non che io mi ritenga
particolarmente dotata, ma faccio del mio meglio, convinta come
sono che qualunque miglioramento sociale passi attraverso l'acquisizione
di uno spessore culturale che consenta di discriminare il bene
dal male. Secondo malinteso: trovo che la proliferazione di
infiniti precari nel campo dell'insegnamento sia il risultato
di una politica di assunzione dissennata, mai sanata da nessun
ministro fino a questo momento. Dunque, nessuna colpa per chi
ci si prova, in questa complicata carriera professionale, molto
spesso con grande passione, sebbene a volte con una idea del
tutto distorta di quel che implica questo poco prestigioso mestiere.
Nel passaggio dai concorsi ordinari (che ho sostenuto io in
tempi ormai remoti) alle Ssis (Scuole di specializzazione per
l'insegnamento secondario) e infine all'attuale Tfa (Tirocinio
formativo attivo), l'aspetto colpevolmente e incredibilmente
trascurato è, da sempre, la prova attitudinale, ovvero
un qualche sistema di verifica dell'attitudine di un qualsiasi
soggetto a presentarsi in una classe e gestire, socialmente
prima ancora che scientificamente, un numero spesso copioso
di adolescenti non sempre ben intenzionati e oggi, in misura
crescente, provenienti da culture molto diverse. Perché
il punto è questo: per insegnare non è sufficiente
la conoscenza dei contenuti relativi alla disciplina di cui
si è portatori. Al contrario, questa conoscenza è
spesso del tutto inutile. Nel mio caso, ad esempio, appena vinto
il concorso per il quale ero qualificata dal conseguimento di
una laurea in lingue e letterature straniere moderne, sono finita
a insegnare in un Istituto per periti aziendali e ho vagato
per istituzioni analoghe per sei o sette anni, con il mandato
di insegnare a compilare una lettera commerciale o a descrivere
una brugola in lingua angla, quando anche in italiano avevo
difficoltà a definire questi oggetti. Nessun problema:
ho studiato e fatto un lavoro, credo, decente. Ma io penso di
avere una attitudine istintiva all'insegnamento, che comunque
nessuno si è mai preoccupato di verificare prima di mandarmi
in aula. Così, negli anni, una volta diventata docente
universitaria, mi sono trovata a preparare e abilitare aspiranti
insegnanti, valutandoli solo sulla competenza in relazione ai
contenuti. In nessun modo, mi è stato reso possibile
fermare chi, per ragioni di, appunto, totale mancanza di attitudine
alla comunicazione, dopo qualche anno in classe avrebbe anche
potuto imbracciare un fucile. E per fortuna che non siamo negli
Usa.
In questo recente formato della formazione insegnanti, per quanto
io resista a questa considerazione, devo ammettere che la preselezione
dei candidati, seppure operata a vanvera attraverso test che
avevano l'efficacia di un gioco alla paglia più corta,
ha selezionato un poco le folle di pretendenti al ruolo di insegnante.
Il risultato è che ho avuto a che fare con un gruppo
meraviglioso, molto preparato e in 90 casi su 100 infinitamente
motivato. È stato un onore avere a che fare con costoro.
E quello che ho imparato da loro è davvero moltissimo.
Adesso il punto è: cosa ne sarà di loro? Riusciremo,
integrandoli in un sistema burocratico che funziona come la
Fabbrica di cioccolato di Dahl, a non distruggerne le
doti?
E qui arriviamo alla questione numero due: i concorsi di idoneità
per docenti universitari. Anche lì, è stato messo
insieme un complesso sistema, altamente informatizzato, che
in soldoni fa appello alla responsabilità individuale.
Candidati commissari come pure candidati all'idoneità
dovevano caricare in rete titoli e pubblicazioni. Naturalmente
si presumeva che questi titoli e queste pubblicazioni fossero
autentiche. In momenti di straordinaria quanto episodica lucidità,
mi è accaduto di chiedermi, nel paese dei Giannino e
dei Trota, se ci si potesse fidare delle dichiarazioni fatte
sotto la propria responsabilità. Ho pensato però
che vi fosse qualche meccanismo di controllo della veridicità
delle affermazioni, per esempio, di chi aspirava ad entrare
nelle commissioni che dovevano valutare le idoneità.
Errore gravissimo. Ora viene fuori, infatti, che un commissario
di storia moderna ha dichiarato il falso. Ha inserito cioè
tra le sue pubblicazioni – necessarie per meritare il
ruolo di selezionatore – dati farlocchi, successivamente
sostituiti con il beneplacito delle istituzioni. In un paese
normale, costui sarebbe stato come minimo espulso dalla commissione.
Invece no. Noi mettiamo pezze e saniamo, sperando che nessuno
se ne accorga. E quando qualcuno se ne accorge, magari, ci scusiamo.
Anche attraverso un conteggio approssimativo, ci si rende conto
che inventarsi meccanismi di controllo di milioni di Cv, tra
idoneandi e commissari, è cosa impossibile. È
una questione, di nuovo, di cultura. E questa cultura è
riuscita a sdoganare la menzogna derubricandola a marachella.
Sono una persona per bene. Per questo fatico un poco ad andare
in aula a raccontare a studenti e specializzandi che devono
comportarsi lealmente e che esiste una cosa che si chiama dignità
personale, e che attraverso la strada della dignità personale
si persegue la libertà, del singolo e della collettività.
Fatico perché non è vero. I fatti di questo nostro
paese lo negano. E chi come me lo sostiene rischia di creare
dei disadattati. Non ho responsabilità per questo. Ma
vorrei che per una volta chi le ha se le assumesse. Troppo difficile?
Nicoletta Vallorani
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