La femmina detective e l'indice di Cordier
a cura di Felice Accame
1.
La prima osservazione concerne il fatto che nei Dialoghi
platonici, che possono essere considerati come la più
radicale e metodica espressione storica di una detection dell'animo,
i personaggi femminili latitano. D'altronde, se Assiotea ha
potuto assistere alle lezioni di Platone è stato solo
in virtù del suo travestimento da uomo, così come
Agnodice per andare a imparare la medicina da Erofilo, in quella
stessa Alessandria dove, seicento anni dopo – nel 415
–, la povera Ipazia si doveva travestire da uomo per poter
spiegare filosofia e matematica ai propri concittadini, prima
di esser fatta letteralmente a pezzi dagli sgherri del vescovo
Cirillo, fanatico cristiano e, come tale, nemico di qualsiasi
mutamento della condizione femminile. La società maschile
e maschilista ha espropriato la femmina dell'indagine scientifica
fino a che ha potuto.
La seconda osservazione, derivata dalla prima, concerne il fatto
che il contesto ideologico fa sì, piuttosto, che sia
la donna non soggetto ma oggetto di indagine: da parte di veri
e propri maniaci e da parte di occhiuti e possessivi mariti
in cerca di adulterii e di altre malefatte di cui vendicarsi
nel nome del l'onore ferito.
2.
Lasciando da parte per una volta Dio, il Signore dell'Eden,
che, sapendola lunga – troppo lunga, tanto lunga da correre
il rischio di annoiarsi parecchio –, al primo misfatto,
sa subito ascrivere il relativo colpevole, il primo detective
maschio potrebbe essere considerato il diavolo Asmodeo, uno
che doveva avere parecchio pelo sullo stomaco visto che aveva
avuto perfino il coraggio di andare a letto con Lilith (demone
della disgrazia e della jattura, della malattia e della morte),
la prima moglie di Adamo, uno che con le donne non è
stato particolarmente fortunato. Asmodeo, a dire il vero, è
più noto come serial killer che come detective, ma siccome
scoperchiava le case (de-tect), ecco che la Summerscale (Omicidio
a Road Hill House), dando credito ad un racconto di Le Sage
(Le diable boiteux, Il diavolo zoppo, scritto
nel 1707) – uno che aveva letto maluccio il libro di Tobia
– lo promuove a primo detective (scoperchiava e ci guardava
dentro, violava la privatezza) – come serial killer, invece,
ha fatto secchi tutti e sette i mariti della povera Sara prima
che nessuno di loro, povera Sara, avesse potuto deflorare la
moglie.
Ma – domanda – a chi possiamo retrocedere per scovare
una femmina indagatrice? Nell'Antico Testamento è possibile
individuarne una? Nel Nuovo no di certo, perché compito
della donna – detto da San Paolo – era di stare
in silenzio e non interferire. Nell'Antico, invece, poteva ancora
capitare che allorquando le preoccupazioni del re Giosia cominciarono
a farsi gravi e gravose in relazione ai numerosi peccati della
sua gente chiese ai suoi collaboratori di consultare YHWH e
costoro, non sentendosela di farlo direttamente, non vanno né
da Geremia né da Sofonia (vivi, vegeti e operanti in
loco), ma vanno da Culda, la moglie del guardarobiere Sallum,
che abitava nel secondo quartiere di Gerusalemme. Culda –
che in ebraico sta per “ratto” e che dunque non
dice niente di buono sul suo potere attrattivo – annuncia
sciagure a più non posso e la magnanimità di YHWH
nei confronti del povero re Giosia – presumibilmente uccidendolo
sul colpo – cui sarebbe stato risparmiato il castigo di
vedere la desolazione del suo popolo. Culda è dunque
una profetessa che riscuote un credito sociale notevole. In
Dritto al cuore, il romanzo di Elisabetta Bucciarelli, una sorta
di Culda c'è – ed è l'abitante della Casa
(una maiuscola che, nominalizzando, impone rispetto e timore)
– che come Culda è sufficientemente abile profetessa
da risultare praticamente ininfluente. E dunque, non è
a lei che viene affidato il ruolo investigativo.
3.
Da Il cervello delle donne di Louann Brizendine colgo
alcune differenze fra maschi e femmine. Lo spazio cerebrale
occupato dagli impulsi sessuali nei maschi è due volte
e mezzo rispetto a quello delle femmine. Il cervello maschile
pensa al sesso molte al volte al giorno, quello femminile tre
o quattro volte nei giorni “focosi”. Più
esattamente, ovvero numeri alla mano: l' 85 per cento dei maschi
pensa al sesso ogni 52 secondi (tra i 20 e i 30 anni –
ma conosco molto bene un'eccezione: un maschio di 68 anni che
ci pensa più frequentemente). Tutti i cervelli fetali
fino all'ottava settimana appaiono femminili. Dall'ottava settimana
arriva il testosterone e avviene chiaramente la determinazione
del sesso. Nelle femmine, nei primi tre mesi di vita, la capacità
di contatto visivo aumenta di oltre il 400 per cento, mentre
non aumenta affatto nel maschi. Da ciò lo sviluppo della
capacità femminile di decifrare le espressioni del volto
e i toni della voce – che spinge le femmine anche al primo
atto di sudditanza, cioè a comprendere l'importanza dell'approvazione
sociale. I maschi usano il linguaggio per impartire ordini,
far eseguire compiti, vantarsi, minacciare. Ciò può
essere correlato anche al fatto che il cervello maschile viene
inondato da testosterone e questo li handicappa nella sfera
sociale. Nei giochi, le femmine fanno a turno venti volte più
spesso dei maschi.
Le aree del cervello che processano la parola sono più
ampie nelle femmine che nei maschi. La capacità di processare
parole determina il fatto che le femmine parlano prima, gestiscono
più quantità di parole e sanno dirle più
in fretta. Il testosterone testicolare, infatti, diminuisce
l'interesse al dialogo e alla socializzazione – tranne
che per lo sport (evidente palliativo) e, ovviamente, il sesso.
Lo sfrondamento delle sinapsi in eccesso comincia prima nelle
femmine che nei maschi. E, infine, va anche detto che –
fuori e dentro la metafora – le femmine si svegliano prima
dei maschi.
Ce n'è abbastanza per la giustificazione sociale della
donna detective? Io penso che ce ne sia più che a sufficienza.
|
Margaret Rutherford nei panni di Miss Marple |
4.
La detective dilettante era una tipica figura dell'ottocento
inglese. Come quelle ideate da W. S. Hayward – in The
experience of a Lady Detective (1861) e da Andrew Forrester
in The Female Detective (1864). Senza aver letto la Brizendine,
Forrester sosteneva che l'istinto investigativo fosse una qualità
eminentemente femminile, perché le donne avevano l'opportunità
di osservare “intimamente” i fatti e la capacità
di decifrarli. Spesso, però, il detective femmina è
moglie di un poliziotto – come la signora Bucket in Casa
desolata, dove Dickens fa dire al marito che sua moglie
è “naturalmente dotata di genio investigativo”.
Questo nell'Inghilterra vittoriana, allorché la donna
doveva “stare al suo posto” e dove questo suo posto,
sempre e comunque, doveva essere subordinato a quello del marito.
Poi, però – con la maturazione di “anni ruggenti”
raccogliendo i soliti spiccioli di elemosina di un'eredità
femminista essenzialmente scialacquata – quella di fine
ottocento come quella degli anni sessanta e settanta del novecento,
peraltro –, poi, però, diventando più numerose
le donne detective, subentra un analogo del celibato accademico
– che chiameremo nubilato indagatorio – in virtù
del quale la donna non distratta dal sesso o dalle incombenze
familiari può dedicarsi alla speculazione intellettuale
dell'indagine. Zitella (termine oggi connotato negativamente,
ma non necessariamente perché ha la stessa origine di
zizza, tetta, mammella – traslato alla fanciulla ed alla
sua crescita anatomica e poi all'eternamente fanciulla) è
l'infermiera Hilda Adams, detta mrs. Pinkerton, creata da Mary
Roberts Rinehart nel 1925. Zitella è Leslie Maughan,
creata da Edgar Wallace. Zitella è Sarah Kane, altra
infermiera, creata da Mignon G. Eberhart nel 1929 (che, poi,
crea anche Susan Dare, altra zitella). Zitella è Hildegarde
Withers di Stuart Palmer - e Imogène di Charles Exbrayat
e Elvire Prentice di M. B. Endrèbe che ne rappresentano
la versione francese. Nel 1930, ne La morte nel villaggio
era apparsa per la prima volta in romanzo miss Marple che, grazie
alla crescente notorietà di Agatha Christie ne diventa
il prototipo senescente.
5.
Femmina chi la racconta e femmina la raccontata è il
caso costituito da Elisabetta Bucciarelli e la sua ispettrice
Maria Dolores Vergani, ormai protagonista di tre o quattro romanzi
e altrettanti racconti. Maria Dolores Vergani, il personaggio
costruito da Elisabetta Bucciarelli, ispettrice, non è
sposata (come Barbara Gillo, a carico di Rosa Mogliasso; come
Grazia Bruni, a carico di Gianni Simoni, nella corte del giudice
Petri – per citare alcuni analoghi letterari contemporanei).
Per illustrare la sua sensibilità mi servirò di
un unico episodio che traggo da Dritto al cuore. C'è
un momento in cui lei, cercando di cambiare la piega che aveva
preso una chiacchierata fra più persone, chiede: “cosa
fai nella vita, Daniele?”, “Dipingo”, rispose
lui lasciandosi portar via dalla discussione. “Un artista”,
chiese la Vergani. E lo chiede senza punto interrogativo, faccio
notare io: tirando dunque una conclusione. “Un pittore”,
risponde lui. All'ispettore la risposta piacque molto. Ci fa
sapere la Bucciarelli – che chiamo anch'io “la Bucciarelli”
così come lei, nella circostanza, chiama “la Vergani”.
Ora, a giustificare questo gradimento chiamerei in causa due
ordini di motivi: il primo riguarda la correzione in quanto
tale, segno di un'autonomia di pensiero, di una precisazione
di termini; non l'accettazione passiva di una conversazione
cui si dà così poco valore da non prendere in
considerazione neppure la necessità di correggerne gli
sviluppi. Se alla Vergani la cosa piace è perché
ha stima del pensiero oppositivo – ha necessità
di dialettica – e vive male, conseguentemente, in contesti
– come quello dove lavora, nella polizia, per esempio
– dove il lasciar correre viene premiato e la pausa sulla
soglia della criticità viene sanzionato da stigmi sociali.
Il secondo riguarda il valore della differenza così come
è percepito dall'ispettore Vergani – quali connotazioni
si trascinano dietro, per lei, artista e pittore – fermo
restando che, comunque, il suo interlocutore è coerente,
perché, prima, aveva detto che “dipingeva”.
Nell'artista – non a caso usato spesso tra virgolette
di ironia – c'è una potenzialità di inganno
che nel pittore – più concretamente artigiano –
non c'è. “Artista” – a volte tra virgolette,
a volte senza – è stato chiamato chi ha compiuto
un furto con particolare destrezza, “artista” è
il truffatore, “artista” è il rapinatore
e, per De Quincy (che scriveva L'assassinio come una delle
belle arti nel 1827), è perfino l'omicida. Il sospetto
nei confronti della categoria – così come aleggia
nella mente della Vergani – è dunque ampiamente
giustificato. Lei preferisce parole che designino chiaramente.
6.
Da una constatazione relativa alla sensibilità del personaggio
si può passare ad una constatazione relativa alla sensibilità
dell'autrice – per quanto lei si carichi direttamente
degli oneri che le competono e non solo tramite la mediazione
dei suoi personaggi. Allora – dando un seguito a una mia
annosa ricerca di cui ho pubblicato di recente i risultati (cfr.
Rossori. Viatico all'esercizio della colpa e della redenzione)
– ho monitorato i rossori segnalati nel romanzo.
Non si tratta di un calcolo vano: se uno scrittore “fa
arrossire” un suo personaggio qualche motivo ci sarà:
segnala un senso di colpa? Segnala una colpa? Segnala il timore
di poter essere incolpato? Comunque, segnala uno stato di cui
ci si vergogna e, al contempo, segnala qualcosa di sé,
di cosa pensa che costituisca colpa e di cosa pensa in merito
alla facoltà redentrice del rossore – segnala qualcosa,
detto in altre parole, dei suoi valori. Orbene la Bucciarelli
fa arrossire cinque volte, per un totale di quattro persone
diverse – tre maschi e una femmina, una ragazza che arrossisce
una volta sola e per il più candido dei motivi –
l'amore inconfessato per un ragazzo. Notevole è sicuramente
poi il fatto che ad arrossire due volte sia un tenente dei carabinieri
– e non per sesso ma per omissioni...
Fra le tante disponibili, faccio solo due osservazioni. La prima.
La differenza costituita dai valori assegnati alle parole (artista,
pittore) viene sanata da un sapere che viene implicitamente
assegnato al lettore – lo si chiama in causa affinché
ci metta qualcosa di suo; mentre la differenza costituita dalle
motivazioni viene sanata a vari livelli di esplicitezza (pulsioni
sessuali e omissioni, in linea di massima, portano al senso
di colpa). La seconda. La Vergani non arrossisce. Non tanto
perché – come potrebbe essere il caso del Poirot
del Mistero del treno azzurro – è eroe letterario
senza macchia e senza paura – e, al massimo, “si
sarebbe detto che arrossisse” ma non arrossisce –,
ma perché la Vergani è eroe meno eroe e meno letterario
pur non priva di retropensieri. Ha i suoi problemi ma è
leale nel rapporto con l'altro.
7.
Con l'Indice di Cordier oso proporre uno strumento di
valutazione dei romanzi gialli (ovvero basati sulla triade correlazionale
di delitto-indagine-scoperta, o svelamento). Misura il grado
di dipendenza tra narrazione e vita privata del detective. Il
nome gliel'ho affibbiato sulla base della serie di telefilm
dedicati al commissario Cordier. Dopo alcuni casi, infatti,
avendo dotato il commissario di una famiglia allargata a moglie,
figlia e figlio separato con fidanzate a ciclo continuo di alta
innovatività (una per telefilm, quasi), ogni narrazione,
prima o poi, prevedeva momenti d'innesco causati dal coinvolgimento
personale di uno dei membri di questa famiglia. Senza questa
famiglia – la famiglia del commissario – il tasso
della delinquenza parigina sarebbe sceso vertiginosamente. L'indice
di Cordier è dunque una misura del grado di evoluzione
di una narrazione (si prenda il dr. House: la prima serie è
incentrata su diagnosi relative ad altri personaggi, pian piano
si è sempre più rivolta a diagnosi relative al
dr. House medesimo o a persone della sua cerchia). Il tasso
di informatività di una narrazione – la sorpresa
che può suscitare e la capacità creativa del suo
autore – è correlato all'indice di Cordier –
più è alto e minore è il tasso di informatività
e di creatività della narrazione. Con la Vergani, Elisabetta
Bucciarelli è giunta alla quarta (quinta, sesta, settima)
narrazione e qui, in Dritto al cuore, l'indice vibra
pericolosamente verso l'alto – si veda le modalità
del coinvolgimento dell'ispettore nella vicenda –, ma,
in virtù di calibratissima sanatura conclusiva, chiude
decisamente verso il basso. Fatto è che, la sanatura
conclusiva di tutte le differenze che caratterizzano i paradigmi
costitutivi della narrazione, è risolta nell'impersonalità
– un'impersonalità durrenmattiana (mi riferisco
al Durrenmatt de La promessa e de La panne, quello
che sacrifica l'intera triade di delitto-indagine-scoperta del
colpevole, l'intero “genere”, in un Requiem per
il romanzo giallo). E qui, in questa riduzione al grado
minimo di eroicità nella sanatura suprema, in questa
moderatezza di ruolo e di toni, in questa distanza ricreata
fra persone e vicende – in questa distanza ricreata al
contempo fra letteratura e merce – sta tutta la consapevolezza
politica che la Bucciarelli esprime con il suo romanzo.
|
Basil Rathbone nei panni di Sherlock Holmes |
8.
L'impersonalità – e dunque la scarsa eroicità
della soluzione conclusiva –, il fatto che la sagacia
dell'ispettore Maria Dolores Vergani sia meno enfatizzata rispetto
ai paradigmi letterari storicizzati fino quasi al punto di farle
perdere la sua letterarietà trova piena corrispondenza
nello stato di malessere – psicologico e fisico, convalescente
anche per il termometro delle relazioni umane – della
protagonista stessa. In ciò la Vergani riesce a iscriversi
a un folto club di paralleli maschili. Non si può non
notare, infatti, come nella cosiddetta letteratura di “genere”
– nella fattispecie della letteratura basata sulla triade
di “delitto-indagine-scoperta” –, l'eroe positivo,
il detective, abbia perso in salute man mano che evolveva. S'invecchia,
insomma, anche se si è vivi soltanto sulla “carta”.
Anche qui, si potrebbe addebitare il fenomeno alla selezione
darwiniana dei caratteri letterari. Dai primi eroi dell'acume
agli attuali è tutto un peggiorare di cartelle cliniche.
Mi si potrebbe obiettare che Sherlock Holmes era intossicato,
ma è anche vero che fino a che è stato nelle mani
di Arthur Conan Doyle, se la cavava benissimo. Il suo stato
fisico e mentale stava in un rapporto direttamente proporzionale
alla complicatezza dell'enigma che, per imperativo categorico
kantiano, doveva risolvere. È soltanto molti anni dopo,
nelle mani di Nicholas Meyer – con la sua Soluzione
del sette per cento –, che incontrerà Freud
– buono quello – nel tentativo di risolvere i propri
problemi con la cocaina. Il Nero Wolfe di Rex Stout era obeso,
mangiava e beveva a quattro palmenti ma ciò non impediva
i suoi colpi di genio. Philo Vance di Van Dine fumava una sigaretta
dietro l'altra ma problemi ai polmoni non ne ha mai avuti. E
via così: la sanità fisica e morale introduceva
alla serendipità. Da un po' di anni a questa parte le
cose, in parte – in una parte significativa – sono
cambiate. Il Martin Beck dei comunisti scandinavi Sjowall e
Walhoo (siamo negli anni settanta del secolo scorso) passa più
tempo nell'afflizione di un matrimonio fallito, nel rigirare
la forchetta nella piaga di una comunicazione difficile con
la figlia e nelle proprie malattie che non nelle indagini vere
e proprie in cui è impegnato. Il suo emulo nordico di
trent'anni dopo, il commissario Wallander di Mankell soffre
più o meno degli stessi problemi – con una punta
di diabete in più e conti non fatti con il padre. L'Erlendur
Sveinsson dell'islandese Arnaldur Indridason vive sotto una
cappa di cupezza inestinguibile causata, soprattutto da una
difficile situazione familiare e da una figlia tossicodipendente.
Il malinconico ispettore Morse di Colin Dexter – oltre
ad un desiderio sessuale rigorosamente inappagato – ha
il diabete e nessuna voglia di curarsi. Il giudice Petri di
Gianni Simoni ha un enfisema polmonare, peraltro, e nessuna
intenzione di smettere di fumare. Ancora più recentemente
mi è capitato di imbattermi nel commissario Roberto Serra
costruito da Giuliano Pasini (in due romanzi: Venti corpi
nella neve e Io sono lo straniero), che, afflitto
non poco da pene d'amore, si porta appresso il gravame di un
passato di tragedia familiare e la presumibilmente conseguente
malattia neurologica. Una specie di epilessia che lo costringe
all'ascolto costante dei propri sintomi e che gli dona la facoltà,
breve e luminosa, di vedere qualcosa con gli occhi degli altri.
Lui la chiama la “Danza” – quella che l'epistemologo
costruttivista Mauro Ceruti, nel 1989, avrebbe definito “la
danza che crea” – ma nella casistica di un neurobiologo
à la page potrebbe ben essere annoverata come un caso
di neuroni-specchio estremamente sensibili. Qualche detective
con la psoriasi o con la colite ulcerosa – anche se non
lo conosco – ci sarà certamente. Ma, se le cose
stanno così – e, di certo, alcune di queste cose
stanno così –, c'è da chiedersi dove questo
processo evolutivo ci porterà. Anche Darwin aveva finito
con l'ammettere che, da un certo punto in poi della sua storia,
l'uomo non è più soggetto all'evoluzione naturale,
perché – come diceva il suo amico-nemico Wallace
– l'invenzione dell'intelletto aveva reso superflui i
mutamenti fisici. Allorché gli scrittori inventano, volenti
o nolenti – consapevolmente o meno –, ma non possono
che farlo in rapporto a quanti sulla medesima strada li hanno
preceduti e, pertanto, variano. Apponendo variazione su variazione
– non a caso, perché il clima ideologico è
vincolo ineludibile – possono dunque giungere ben presto
all'esaurimento del catalogo – o, almeno, all'esaurimento
di quanto nel catalogo vale qualcosa in termini di mercato.
Come c'è il momento in cui il detective femmina vale
qualcosa, così ci sarà il momento in cui vale
qualcosa anche il detective maschio malandato. Poi – di
solito, subito dopo – ecco che vale qualcosa anche la
femmina malandata. Ma il prontuario vendibile non è infinito
e allora ecco la domanda più inquietante: ci sarà
un momento in cui si ricomincia da capo? Ripartiremo presto
dalla simbiosi di sanità e moralità? E, se sì,
politicamente, quanto ci costerà?
Felice Accame
Note
Il cervello delle donne di Louann Brizendine è
pubblicato da Rizzoli, Milano 2007 e ristampato più volte.
Omicidio a Road Hill House di Kate Summerscale è
pubblicato da Einaudi, Torino 2008. Per chi voglia avere un'idea
chiara dell'Inghilterra della seconda metà dell'ottocento,
prezioso è anche il secondo libro della Summerscale,
La rovina di Mrs. Robinson (Einaudi, Torino 2013). Dritto
al cuore di Elisabetta Bucciarelli è pubblicato da
E/O, Roma 2013. Per molte informazioni sono debitore anche nei
confronti di Il romanzo giallo di Stefano Benvenuti e
Gianni Rizzoni, pubblicato da Mondadori, Milano 1979. Il mio
Rossori, infine, è pubblicato da DuePunti, Palermo
2013. |