politica
Crisi economica e paradossi
di Antonio Cardella
Cronache di un'estate che è stata
già un autunno. E dopo l'autunno...
L'ultima estate è già
alle spalle. I pochi vacanzieri che hanno potuto godersela sono
rientrati, hanno spalancato le imposte in modo che il tanfo
accumulato nelle stanze a lungo disabitate si disperdesse, poi,
disfatte le valigie, si sono accostati alle finestre per vedere
se qualcosa in loro assenza fosse cambiato nel consueto via
vai della strada sottostante. Nulla, apparentemente, sembrava
fosse mutato; il solito traffico rumoroso e inquinante al centro,
rarissimi passanti sui marciapiedi, tutti a passo spedito, circospetti,
come clandestini desiderosi di raggiungere in fretta un rifugio
sicuro.
E, per la verità, a parte il frastuono del traffico automobilistico,
la zona abitata sembrava parte di una città fantasma:
serrande chiuse e saracinesche abbassate malgrado il sole fosse
già alto nel cielo.
Anch'io, sebbene stanziale per vocazione e necessità,
compivo il rito dell'“affacciata” quotidiana e lo
spettacolo che mi si offriva non era molto diverso da quello
appena descritto. La lunga teoria dei negozi chiusi per cessazione
di attività sembrava non avere mai fine e, se sollevavo
gli occhi, le finestre sigillate e le orbite vuote degli appartamenti
disabitati davano la misura dell'abbandono e dell'isolamento.
Tento di contrastare la sensazione crescente che il collasso
delle attività commerciali, il rarefarsi dei rapporti
umani e sociali di un quartiere come il mio debbano elevarsi
a metafora di un'intera comunità, quella nostra, nazionale,
per quanto eternamente incompiuta.
Solo che ci vorrebbe uno sforzo di fantasia immane per ridurre
a semplice congiuntura sfavorevole un'involuzione che ha tutte
le caratteristiche di un processo molto difficilmente reversibile.
Intendiamoci: vie di fuga dal disastro incombente ce ne sarebbero
se solo fossero nelle corde di chi in questo paese ha il potere
di decidere. Purtroppo, oltre alle voragini che apre un sistema
economico assolutamente fuori controllo, che continua a colpire
ceti sociali senza l'apporto dei quali non vi è speranza
di crescita (il mondo del lavoro, dell'istruzione, della ricerca
scientifica e dell'industria di base non inquinata dal clientelismo
e dalla corruzione), l'Italia del terzo millennio patisce le
aggravanti di una classe politica inqualificabile per inefficienza,
autoreferenzialità, inquinata da conflitti di casta insanabilmente
estranei alle esigenze del paese reale, largamente corrotta.
Progressiva divaricazione
Certo, una crisi del sistema è percepibile in tutti
i paesi dell'Occidente, ma quando questa crisi veste il tricolore,
si connota di tratti pirandelliani, e precisamente di quei folgoranti
ritratti del grande agrigentino, ironici quando non addirittura
farseschi, al fondo dei quali si annida non solo il profondo
disagio dell'esistere, ma anche la cattiva coscienza di un popolo
che si avverte come l'ombelico del mondo e poi, sistematicamente,
perde le coordinate della propria sopravvivenza quotidiana.
Siamo figli di quella cultura filosofica greca che riesce a
spaccare un capello in quattro, ma poi induce Diogene a vivere
per protesta in una botte, nella schizofrenica presunzione di
essere mondo compiuto, irripetibile e autosufficiente, mentre
la botte gli è necessaria per ripararsi dalle intemperie
e vivere in solitudine la propria visione del suo stesso mondo.
Siamo un popolo cinico per pigrizia. Sembriamo tolleranti, ma
in fondo siamo solo indifferenti. La politica ci appassiona
solo nella misura in cui troviamo qualcuno a cui delegare le
fastidiose funzioni dell'amministrazione pubblica, alla sola
condizione che questo qualcuno non ci disturbi troppo, non alteri
gli equilibri consolidati e soprattutto non metta le mani nelle
nostre tasche o, almeno, così prometta.
La conseguenza di questo atteggiamento è una progressiva
divaricazione tra il paese reale e i professionisti della politica,
i quali, nell'indifferenza generale, riducono i conflitti all'interno
dei palazzi del potere, misurandosi non sui problemi concreti
della popolazione ma sulle scorciatoie da percorrere per prevalere
sull'avversario politico del momento. Così le alleanze
si stringono o si dissolvono col solo obiettivo di conservare
e, possibilmente, moltiplicare il numero delle poltrone da occupare,
indifferenti al prezzo che si fa pagare al paese in termini
di gravissime avversità economico-sociali non risolte.
Plasticamente, l'immagine più significativa dell'estate
passata è quella di un vecchio presidente della repubblica
e di un rampante presidente del consiglio tremebondi di fronte
ad uno schermo televisivo in ansia di sapere se un pluridelinquente,
più volte condannato (una volta finalmente in via definitiva),
di fronte alla solita platea di servi per natura, stipendiati
e suffragette, decidesse o meno di sfilare le poltrone su cui
le due cariche dello stato erano assise.
Poi il pluridelinquente ebbe pietà di loro e, soprattutto,
ritenne più conveniente non far saltare il tavolo, al
capo del quale poteva continuare a condizionare la vita politica
italiana. Sapeva di aver assunto al suo servizio due “utili
idioti” disposti con le loro mani a togliergli le castagne
dal fuoco.
Con il governo della larghe intese, voluto e pilotato da Napolitano,
il pluridelinquente si assicurava una robusta, decisiva rappresentanza
nella stanza dei bottoni. Con il governo Letta, delegava a un
rappresentante della sinistra (?) il compito di realizzare le
promesse della sua campagna elettorale: se andava bene il merito
era tutto di Berlusconi; se andava male il demerito era tutto
del presidente del consiglio rampante.
Operazione geniale ma tutt'altro che agevole se non fosse stata
favorita dalla smisurata bramosia di una poltrona da parte di
un ex (neo) democristiano, infiltratosi nelle fila di un sedicente
partito della sinistra, e di un capo dello stato che non ha
saputo o voluto valutare quanto la commistione, in un governo,
di due forze platealmente avversarie (almeno nell'immaginario
collettivo), ne avrebbe paralizzato l'operato.
Non so se, quando queste riflessioni saranno sotto gli occhi
dei lettori, il governo Letta sarà ancora in carica.
Quello che sinora risulta è che quasi tutti i conti dell'economia
reale sono saltati: non si sa dove trovare i soldi per abolire
la seconda rata dell'imu, non quelli per impedire di aggiungere
un punto in più sulla quota iva, complessivamente –
circa 3 miliardi e mezzo – ai quali vanno aggiunti quelli
per gli esodati, la cassa integrazione in deroga e il rifinanziamento
delle nostre missioni all'estero. Ragioniamo, quindi, tra i
6 e i 7 miliardi da reperire nel giro di poche settimane Nel
frattempo Piero Fassino, presidente dell'Anci, ha denunciato
che se non arrivano dallo stato i soldi per il mancato introito
dell'imu, molti comuni non saranno in grado di assicurare ai
propri concittadini i servizi essenziali
A rendere più drammatica la situazione è il peggioramento
dei conti pubblici: aumentano gli interessi sul debito pubblico
(siamo ormai oltre i 92 miliardi annui); le spese correnti in
crescita non sono compensate dal maggior gettito fiscale; c'è
da recuperare in fretta lo 0,1 per cento di sforamento dell'invalicabile
3 per cento tra deficit e Pil stabilito e imposto dalla comunità
europea: in pratica bisogna trovare in fretta un altro miliardo
e mezzo, sempre che non sia fondata lavanzato dal Fmi che si
tratti di uno sforamento dello 0,2 per cento.
La tecnica del rinvio
A fronte di questa emorragia inarrestabile di debiti da pagare
e di provvedimenti sconsiderati da finanziare (l'abolizione
dell'imu così com'è concepita non è la
sola), ci sono tutti i dati della recessione: la costante erosione
del nostro apparato industriale (Telecom e Alitalia sembra debbano
anch'esse volare per altri lidi), il disavanzo energetico, il
collasso delle attività commerciali, la costante riduzione
dei consumi interni e adesso anche delle esportazioni.
Insomma, il governo presieduto da Enrico Letta – questo
epigone desolante di una mai sepolta Democrazia cristiana traffichina
e fondamentalmente cinica – con la tecnica del rinvio,
ha concentrato a fine anno tutti i nodi non risolti di una situazione
che rende ogni giorno più drammatica la condizione di
un paese ingovernato.
Il dato paradossale di questa stagione della politica italiana
è che il governo Letta non ha amici, neppure tra i partiti
che lo sostengono. Gli unici che lo puntellano sono coloro che
lo hanno fortemente voluto: Giorgio Napolitano e Silvio Berlusconi.
Adesso, dopo l'Aventino-farsa minacciato dai deputati del Pdl,
che hanno offerto al loro idolo le dimissioni da parlamentari,
Letta, di ritorno dal viaggio in America, chiede una verifica
sulla tenuta della maggioranza. Anche se dovesse ottenere una
nuova fiducia, l'esperimento delle larghe intese reggerà
soltanto se il duo Napolitano-Letta sarà disposto a subire
il costante ricatto del Pdl, pur di non perdere l'effimero bastone
di un comando puramente formale. Il che significherà
perpetrare l'ennesimo tradimento a un paese stremato, lontanissimo
dai demenziali giochi di una politica nazionale in mano a uomini
privi di ogni dignità, disposti a tutto pur di non perdere
quei privilegi ottenuti da un sistema in caduta verticale, che
riunisce attorno allo stesso tavolo parassiti per vocazione,
delinquenti conclamati e personaggi anonimi che non sanno neppure
loro come siano arrivati a sedere su quelle poltrone, alle quali,
quindi, non intendono rinunciare, qualunque sia il prezzo da
pagare e da fare pagare.
Come sfuggire a questo destino annunciato?
Orate fratres!
Antonio Cardella
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