Questione
animale
e forme del dominio
C'è un racconto molto antico, appartenente alla tradizione dei Padri
del deserto (siamo in epoca successiva all'editto dell'imperatore
Costantino con il quale si lasciava libertà di culto
ai cristiani; se per molti ciò significava l'agognato
ritorno alla normalità dei giorni, altri intravedevano
un pericolo letale: l'abbraccio con il secolo e il potere; per
questo si erano incamminati verso il deserto). Si narra di un
anacoreta che viveva insieme ai bufali; un giorno rivolse a
Dio questa preghiera: “Signore, insegnami ciò che
mi manca”. E una voce gli disse: “Entra nel tal
cenobio e fai quel che ti diranno”. Egli si recò
nel cenobio e vi rimase, ma non capiva nulla del lavoro dei
monaci, sicché cominciarono a insegnargli le varie attività
e gli dicevano: “Fa' questo idiota! Fa' quello vecchio
stolto!” E, afflitto, egli disse a Dio: “Signore,
il lavoro degli uomini io non lo capisco, rimandami dai bufali”.
Dio glielo consentì ed egli ritornò alla campagna
a pascere con i bufali. Ma laggiù, gli uomini avevano
teso delle reti. Alcuni bufali vi caddero dentro e vi finì
anche l'anziano. Gli venne il pensiero: “Tu hai le mani,
sciogliti dalle reti”. Poi rispose a quel pensiero: “Se
sei un uomo, ti sciogli e vai a vivere con gli uomini. Ma se
sei un bufalo, allora non hai mani”. E restò nelle
reti sino al mattino. Quando gli uomini vennero a prendere i
bufali, alla vista del vecchio, furono colti da terrore, ma
lui non emise parola. Lo sciolsero e così poté
fuggire, correndo dietro ai bufali. Comportamento idiota, quello
assunto dal vecchio, simile a quello del principe Myskin di
Dostoevskij; di chi – incapace di adattarsi ai giochi
di potere – riesce a intuire i processi profondi dentro
e fuori di sé, vivendo il mondo come tema di una ricerca
senza fine.
Questo racconto ben si presta a introdurre il denso saggio Crimini
in tempo di pace (Elèuthera, Milano 2013, pp. 295,
€ 18,00) di Massimo Filippi e Filippo Trasatti, in cui
si indagano gli effetti causati dall'attuale organizzazione
dei viventi in base alla suddivisione in specie (specismo);
delineando al contempo delle linee di fuga radicalmente alternative
(antispecismo). I crimini in tempo di pace sono infatti
quelli verso gli animali. Come ci tengono a sottolineare gli
autori nella premessa “non è un libro sugli
animali (...) ma per gli animali” (umani inclusi).
Forse sono utili due parole a mo' di chiarimento. Ciò
che viene chiamato specismo ha come prodotto immediato l'attribuzione
di un diverso status agli appartenenti alle diverse specie
animali, sancendo, con presunta oggettività scientifica,
null'altro che dei rapporti gerarchici e di forza tra i viventi:
in breve, il dominio dell'uomo sugli animali non umani. Filippi
e Trasatti provvedono così a smontare il concetto di
specie e di quello che ne consegue, pezzo per pezzo, poiché
altro non è che un costrutto artificiale (sarebbero da
rileggere a questo proposito anche le pagine ironiche che Pirsig,
nel suo secondo e al momento ultimo romanzo – Lila
–, dedica alla classificazione dell'ornitorinco, vero
e proprio rebus zoologico). Ma la visione specista per funzionare
abbisogna di un marchingegno indispensabile, che sta proprio
al centro di ogni discorso sull'uomo: è la macchina
antropologica (il rimando va soprattutto ai lavori di Agamben
e alla distinzione – risalente a Platone e Aristotele
– tra bìos e zoè: la vita
umana, da una parte, e la nuda vita indifferenziata, dall'altra),
il dispositivo in base a cui si garantisce la creazione, la
manutenzione e il funzionamento dell'uomo in quanto tale: in
altre parole, l'uomo fa l'uomo separandosi dall'animale.
A ben vedere è all'opera la distinzione, elevata alla
massima potenza, della categoria schmittiana di amico/nemico:
il nemico non è necessariamente moralmente cattivo, esteticamente
brutto o economicamente dannoso: è semplicemente l'altro,
der Fremde (lo straniero), qualcosa costitutivamente
diverso da noi. Non basta: tale linea di separazione è
a sua volta fluida, di volta in volta viene ridefinita, decidendo
chi rientra nelle categorie dell'umano e chi va escluso (barbari,
eretici, neri, donne, ebrei, rom, gay, ecc.), divenendo oggetto
del medesimo trattamento riservato agli animali non umani (esclusione,
reclusione, sfruttamento, marchiatura, eliminazione, ecc.).
Il pregio del volume risiede soprattutto nella tensione volta
a far compiere nuovi passi, significativi, rispetto al tradizionale
approccio antispecista (fra l'altro, e detto en passant,
è di per sé sminuente definirsi, con il prefisso
“anti”, in termini di opposizione a qualcosa; qui
davvero – Wittgenstein docet – i limiti
del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo!).
Pur nel riconoscimento dell'ancor giovane età di questa
visione della vita e dei viventi, vengono colti nel volume alcuni
limiti nel primo antispecismo: la visione logocentrica (primato
esclusivo riferito al pensiero razionale), cripto-antropocentrica
(attribuizione ai non umani di qualità abitualmente assegnate
agli umani), settoriale (non vengono individuate le cause che
accomunano lo sfruttamento di umani e non umani) e giuridicizzante
(il campo del diritto degli animali diviene lo scopo ultimo);
con le parole degli autori: “Il diritto non è l'approdo
finale della lotta di liberazione del vivente, ma piuttosto
una soglia di passaggio verso altre forme di convivialità
ospitante”.
È proprio questa prospettiva conviviale e ospitante che
va apprezzata fino in fondo, cogliendone tutti i possibili esiti.
Perché è in corso un unico processo di sfruttamento
e di emarginazione dei viventi, siano essi operai o precari,
donne o gay, neri o popoli nativi, animali non umani o interi
ecosistemi. Classismo, sessismo, razzismo, specismo sono nomi
di articolazioni differenti di un unico grande processo in atto
da tempi immemorabili (l'erranza millenaria dell'umanità
di cui parla Jacques Camatte). Possiamo dire che oggi sta prendendo
forma un unico, globale movimento di liberazione? Questo nuovo
movimento si sta forse aggirando per il pianeta? Chi scrive
pensa di sì: si tratta di saperlo riconoscere, articolando,
dal basso e dall'interno, le sue voci con le sue infinite molteplicità,
con tutta la ragione e la passione che il momento presente richiede.
Il libro di Filippi e Trasatti sembra muoversi proprio in tale
direzione.
Federico Battistutta
Francesco Ghezzi,
dall'antifascismo al gulag staliniano
La casa editrice Zero in Condotta ha appena pubblicato il
libro di Carlo Ghezzi (già segretario della Camera del
Lavoro di Milano) dal titolo Francesco Ghezzi. Un anarchico
nella nebbia. Dalla Milano del teatro Diana al lager in Siberia
(pp. 126, e 10,00). L'autore ricostruisce la vita
di Francesco, suo parente, una bella figura di anarchico, che
dopo essere stato esule in Svizzera e Germania per sfuggire
alla respressione seguita alla strage del Diana si stabilì
in Unione Sovietica per venire poi internato, in seguito
alle purghe staliniane, nel campo di Vorkuta, in Siberia, dove
trovò la morte. Ne pubblichiamo l'introduzione di Massimo
Ortalli.
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Francesco Ghezzi |
C'è chi ha voluto vedere nella fine dell'Unione Sovietica,
nella dissoluzione dei regimi comunisti e nell'assestamento
di nuovi equilibri mondiali una sorta di fine della storia.
La definitiva e irreversibile conclusione di un processo che
era nato dai presupposti del progresso, dell'emancipazione sociale,
dell'affrancamento dal bisogno e dalla miseria, ma che poi si
è sviluppato mostruosamente nei suoi contrari: nella
drammatica contrapposizione tra gli obiettivi proposti e i risultati
effettivamente concretizzati. Quasi a significare che il grande
progetto di liberazione dell'uomo dallo sfruttamento e dai condizionamenti
materiali e morali ormai non avesse più possibilità
di realizzarsi, e marcasse la sua definitiva sconfitta insieme
con l'ammainarsi della bandiera rossa sulle cupole del Cremlino.
Ma di fine della storia non si può effettivamente parlare.
Non può essere che il progetto di libertà e solidarietà
che ha mosso le grandi aspirazioni del pensiero socialista e
libertario sia circoscrivibile a quelle manifestazioni che hanno
visto riprodursi la violenza del potere sull'individuo nel corso
del cosiddetto secolo breve. Come non può essere che
la speranza di un mondo migliore e l'interpretazione dei mezzi
idonei alla sua realizzazione debbano restare definitivamente
ristrette dentro le maglie di svolgimenti totalitari e liberticidi.
Ci sono altre strade da percorrere e, anche se oggi si stenta
a scorgerle e attualizzarle, esse sono lì che attendono
soltanto che il cammino riprenda.
Il protagonista di questo libro ne è testimonianza.
Francesco Ghezzi è un operaio milanese, un anarchico,
un sovversivo, fuggito dall'Italia per sottrarsi alla “giustizia”
fascista e approdato, dopo lunghe peregrinazioni in vari paesi
europei, nell'Unione Sovietica, sicuro di trovarvi condizioni
di una vita migliore, e di poter contribuire, con la generosità
dei suoi ideali, a quel grande processo di emancipazione sociale
che aveva entusiasmato il proletariato di tutti i paesi. Una
storia comune, la sua, a quella di altri rivoluzionari, di altri
ribelli affamati di giustizia sociale che, pur partendo da esperienze
diverse, ripararono, col cuore gonfio di speranza, nel “paradiso
socialista”, nel paese del socialismo reale. Si sa che
per loro le cose non andarono affatto così, perché,
nonostante alcuni innegabili miglioramenti nelle condizioni
di vita del miserabile proletariato russo, una pesantissima
cappa di oppressione e di controllo sociale si sarebbe abbattuta
sulla nuova società comunista, finendo con l'annullare
il significato stesso di quella grandiosa esperienza in una
paranoica paura verso qualsiasi forma di dissenso se non, addirittura,
di critica.
Francesco Ghezzi fu una delle tante vittime di questa mostruosa
degenerazione, ma fu una vittima indomita e mai rassegnata,
una vittima esemplare. Infatti, pur consapevole dei rischi cui
andava incontro con il suo comportamento ribelle, non smise
mai di affermare i suoi ideali e di proclamare solidarietà
alle vittime dello stalinismo. E per questo fu dapprima emarginato,
calunniato e perseguitato, poi mandato a morire in un gulag,
in obbedienza a quelle “disposizioni di servizio”
che il regime bolscevico applicava per neutralizzare i dissidenti.
E purtroppo, come sappiamo, fra questi veniva incluso chiunque
non fosse disposto ad accettare supinamente l'involuzione burocratica
e autoritaria che negava sistematicamente i presupposti sui
quali si era affermata la rivoluzione proletaria.
Carlo Ghezzi, significativa figura del movimento operaio milanese,
è legato a Francesco da un vincolo di parentela. È
un parente che non dimentica e intende riportare alla luce una
memoria storica quanto mai emblematica delle contraddizioni
e delle tragedie del novecento. Con un ammirevole lavoro di
scavo, ricostruisce le tante vicissitudini che hanno segnato
la vita del suo predecessore, dalla prima formazione anarchica
nelle fabbriche milanesi all'opposizione attiva alla guerra,
dalla partecipazione alla campagna per la liberazione di Errico
Malatesta e Armando Borghi nel 1921 alla strage del Diana, dalla
forzata scelta dell'esilio alla decisione di riparare nell'Unione
Sovietica per costruirsi una nuova vita, dal pieno inserimento
lavorativo nella nuova realtà socialista alla incessante
e coraggiosa critica rivolta alle disfunzioni e alle contraddizioni
che immiserivano la vita del popolo russo, fino alla tragica
scomparsa in un gulag siberiano, dove il regime riesce finalmente
a farne tacere la voce.
Molto spesso, quando si affronta una biografia, il rischio dello
storico è quello di farsi “coinvolgere” dall'oggetto
delle sue indagini, mettendo a repentaglio l'obiettività
e la serenità del suo giudizio. Ma in questo caso l'affetto
dell'autore risalta proprio come il pregio maggiore dalla narrazione
tragica e avvincente dei fatti, né intende mascherarsi
dietro il paravento asettico della ricerca storica. È
l'affetto di chi sente di condividere l'idealità di fondo
del protagonista, ma è anche, soprattutto, il sentimento
nutrito per il parente perduto, per colui che non si è
mai conosciuto, che è andato a morire lontano, ma di
cui si avverte ancora forte la vicinanza. E i sensi di tale
ritrovata, affettuosa vicinanza emergono particolarmente dalla
ricostruzione puntigliosa e per molti versi seducente delle
vicende della famiglia, qui ripercorse sin da quando i comuni
antenati lasciarono la piccola Cusano sul Seveso per trasferirsi
nella grande città. A Milano un'intera generazione proletaria,
quella di Francesco, partecipò al processo storico che
avrebbe trasformato le masse contadine in proletariato urbano,
e avrebbe ridisegnato un territorio prevalentemente artigianale
e ancora profondamente attaccato all'economia agricola in quello
di una moderna città industriale, al passo con i nuovi
tempi e con le profonde modificazioni sociali imposte dalla
rivoluzione dei processi produttivi.
Francesco Ghezzi fa parte pienamente di queste trasformazioni,
di cui è anzi figura paradigmatica, rappresentando con
la sua vicenda biografica un ceto che si trasforma in classe
e che partecipa attivamente a quel nascente movimento sociale
così ricco di prospettive cui dedica tutte le sue forze
e la sua volontà, insieme con i compagni di lavoro e
di fede. Un esempio di abnegazione quale solo situazioni di
estremo cambiamento possono produrre.
La ricostruzione di Carlo Ghezzi è particolarmente attenta
e partecipe nel restituire l'impegno totale e totalizzante di
Francesco, un impegno che lo porta (assieme agli inseparabili
Ugo Fedeli e Pietro Bruzzi) a scelte spesso estreme e pericolose,
tali da esporlo inevitabilmente sia alle attenzioni della giustizia,
sia a quelle, altrettanto pesanti, del nascente fascismo. Il
tentativo di coinvolgerlo ingiustamente nell'efferato attentato
al Teatro Diana, che sarà la causa del suo lungo peregrinare
in Europa fino all'approdo nell'Unione Sovietica, non fu altro,
infatti, che la strategia consapevole operata da un potere politico
e giudiziario intenzionato a spianare la strada alla violenza
squadrista, neutralizzando quanti, come Francesco e i suoi compagni,
avrebbero potuto rendere meno facile l'ascesa al potere del
fascismo. E merito della lunga e ostinata ricerca di Carlo,
che ha voluto sottolineare con decisione l'estraneità
del lontano parente alla tragedia del Diana, è anche
quello di avere ribadito l'inconsistenza di una sorta di “leggenda
nera” che per anni ha inseguito i protagonisti di una
parte non indifferente del movimento anarchico milanese dei
primi decenni del novecento. Così, riscrivendo le peripezie
di Francesco – vittima e non colpevole –, ha portato
un nuovo contributo a una lettura più obiettiva e onesta
di quelle lontane vicende.
Viviamo tempi, lo sappiamo, che ci rendono quasi impossibile
incrociare esistenze esemplari, vite dedicate a una causa sociale
che indichi strade collettive di riscatto, di emancipazione,
di libertà. Vite animate da una passione capace di trasformare
un progetto visionario in pratica quotidiana, temprate dallo
scontro con una realtà al tempo stesso drammatica ed
esaltante. Vite ricche di dignità, insomma, in grado
di diradare la “nebbia” che ammanta il potere e
di illuminare l'esistenza di chi è costretto a subire
ogni forma di sfruttamento morale e materiale. Fu questa la
vita di Francesco Ghezzi, una vita eroica senza volerlo essere,
una vita esemplare anche se vissuta, soprattutto negli ultimi
anni, consapevolmente “annullata” nella massa della
nuova società. Una vita che ci ricorda che l'eroismo,
quello vero e non quello agghindato di retorica e demagogia,
consiste nel saper portare rispetto alle proprie convinzioni.
Rispetto sempre e comunque, anche a scapito della propria sopravvivenza.
E siamo davvero grati a Carlo Ghezzi perché questo suo
lavoro non è solo un commovente omaggio a un grande compagno,
ma è anche uno stimolo a continuare a percorrere, anche
se più modestamente, la stessa strada di Francesco Ghezzi.
Massimo Ortalli
Ancora
sull' anarchia selvaggia
di Pierre Clastres
Del volume di Pierre Clastres L'anarchia selvaggia
(Elèuthera, Milano, 2013, pp. 120, € 12,00)
abbiamo pubblicato in
“A” 381 (giugno 2013) una recensione di Federico
Battistutta. Alberto Giovanni Biuso ci ha fatto avere la
sua e volentieri la pubblichiamo. L'importanza del lavoro di
Clastres ne giustificherebbe anche una terza.
Il potere è inevitabile, la guerra è inevitabile.
Non esistono società senza potere né società
senza guerra. Meno che mai le società primitive sono
società senza potere e senza guerra. E tuttavia i selvaggi
vivono senza stato, senza fede, senza legge, senza re. Com'è
possibile? Il contributo etnologico di Pierre Clastres è
fondamentale proprio perché spiega con chiarezza la differenza.
La differenza tra il potere e lo Stato, la differenza tra la
guerra e il dominio, la differenza tra le società indivise
e le società costruite sull'Uno.
Contro la teologia liberale e marxista della storia1,
l'etnologo rifiuta ogni determinismo evoluzionistico
di “figure del sociale che si generano e si concatenano
meccanicamente” (p. 30); egli cancella in questo modo
la condizione di incompletezza e di grado zero della storia
che l'ideologia coloniale liberale e marxista attribuisce ai
popoli primitivi. Contro ogni etnologia della miseria, lo studioso
mostra la miseria dell'etnologia e della sua miope convinzione
che l'accumulazione costituisca il motore di ogni società
e lo stato il senso di ogni convivenza civile. Per comprendere
i primitivi bisogna oltrepassare le unilateralità del
discorso naturalista, del discorso economicista
e del discorso scambista.
Nel primo caso è comunque troppo netta e antropocentrica
la tesi di Clastres che separa ontologicamente l'umano dalla
natura, il biologico dallo storico: “La società
umana non è materia della zoologia, ma oggetto della
sociologia” (p. 41). Una simile separazione è metodologicamente
e antropologicamente ingenua, come gli studi successivi hanno
mostrato. L'animale umano è appunto un animale, le cui
logiche di comportamento si inscrivono totalmente nell'ambito
biologico – e come potrebbe essere altrimenti? –
con le peculiari sue caratteristiche culturali, così
come ogni altra specie possiede delle qualità sue proprie
sia di struttura sia di funzione.
La critica agli altri due discorsi è invece molto più
ampia e fondata. Contro quello economicista, i dati etnologici
e l'argomentazione logica mostrano – anche sulla scorta
degli studi di Marshall Sahlins – come il modo di produzione
domestico (Mpd) “assicuri in realtà una completa
soddisfazione dei bisogni materiali della società, a
fronte di un tempo limitato dedicato alle attività di
produzione e della bassa intensità con cui sono espletate
(...) le società primitive, sia di cacciatori nomadi
sia di agricoltori stanziali, sono in realtà, considerando
il poco tempo destinato alla produzione, vere e proprie società
del tempo libero” e “società dell'abbondanza”
(pp. 46 e 97). Esse si comportano infatti seguendo l'invito
evangelico a non preoccuparsi per il domani perché a
ogni giorno basta la sua pena e a imitare invece l'esempio degli
uccelli e di altri animali che non accumulano ma che ogni giorno
si nutrono2. In altre, e chiare,
parole: “I selvaggi producono per vivere, non vivono per
produrre” (p. 101). La loro logica, i loro comportamenti,
la loro concezione della vita, delle relazioni e del tempo è
dunque l'opposto di quella incarnata dall'imprenditore capitalista,
la cui figura è invece presa a modello dalla teorie economiche
sia liberiste sia marxiste.
Sul discorso scambista – che è in gran parte quello
di Lévi-Strauss, maestro di Clastres – l'analisi
è articolata. Clastres condivide la tesi della centralità
dello scambio ma ne inverte la funzione rispetto alla pratica
della guerra. Quest'ultima, infatti, non è il risultato
di uno scambio fallito; non è dunque l'esito di una pratica
commerciale che nel mondo primitivo non esiste, ma è
la struttura e la condizione di base di quelle società.
La guerra ha lo scopo fondamentale di mantenere ciascuna di
quelle società autonome rispetto alle altre e indivise
al proprio interno. Si tratta di società-per-la-guerra
poiché “finché c'è guerra, c'è
autonomia: per questo la guerra non deve, non può finire,
per questo è permanente” (p. 69). La guerra svolge
la funzione costitutiva di forza centrifuga e di tutela del
molteplice. La società primitiva è egualitaria
al proprio interno, dove domina il principio di identità,
ma è separata rispetto all'esterno, dove domina il principio
di differenza. Sono società indivise – ciascuna
di esse rappresenta una totalità –; senza classi,
poiché non vi sono ricchi che sfruttano il lavoro degli
altri; senza organi separati del potere, che invece rimane per
intero all'interno della comunità, non si proietta e
incarna in istituzioni e figure separate dal corpo sociale.
Chi è dunque il capo? Il capo è qualcuno
che anzitutto deve possedere talento oratorio e generosità.
La prima qualità gli serve per fare da “portavoce,
ovvero dire agli Altri che cosa desidera e che cosa vuole la
comunità” (p. 28). La seconda qualità è
necessaria perché “il big man lavora, letteralmente,
per la gloria, e la società gliela concede volentieri
occupata com'è ad assaporare i frutti del lavoro del
capo. Gli adulatori vivono a spese degli adulati” (p.
106). Anche qui vige un dispositivo inverso rispetto alla società
dello stato, nella quale il capo raccoglie e utilizza il frutto
del lavoro dei sottoposti, un dispositivo che Clastres definisce
del debito. Se il capo è in debito con la società,
quella è una società indivisa – senza stato
–, se invece la società è in debito con
il capo, vuol dire che si è prodotta la scissione tra
dominanti e dominati ed è quindi nata la società
dello stato.
Per comprendere la struttura delle società primitive
è quindi indispensabile non confondere il potere con
il prestigio, errore quasi generale in cui incorrono gli studi
etnologici, e non soltanto essi:
“Che cosa spinge il big man? In vista di che cosa
si impegna? Non certo in vista di un potere che se si sognasse
di esercitare la gente della tribù rifiuterebbe di subire,
bensì in vista di un prestigio, di quell'immagine positiva
che gli restituisce una società pronta a celebrare in
coro la gloria di un capo così prodigo e lavoratore.
Ed è proprio questa incapacità a pensare il prestigio
senza il potere che pesa su molte analisi di antropologia politica,
rivelandosi particolarmente erronea nel caso delle società
primitive” (pp. 105-106).
Le società tribali possiedono quindi antidoti efficaci
contro la nascita dello stato e cioè della divisione
all'interno della struttura sociale tra chi comanda e chi obbedisce.
Uno dei più universali e costanti è appunto la
guerra, con la quale viene garantita la permanenza e la conservazione
di “una molteplicità di comunità indivise
che obbediscono tutte a una stessa logica centrifuga. Qual è
l'istituzione che esprime e insieme garantisce il permanere
di questa logica? È la guerra, come vera relazione tra
le comunità, come principale mezzo sociologico di promozione
della forza centrifuga di dispersione contro la forza centripeta
di unificazione (...) Quanto più c'è guerra, tanto
meno c'è unificazione, e il miglior nemico dello Stato
è la guerra. La società primitiva è una
società contro lo Stato in quanto è una società-per-la-guerra”
(p. 71). Hobbes aveva dunque ragione a sostenere che lo stato
è contro la guerra. La società primitiva conferma
tale legame di esclusione ma ne capovolge il senso “affermando
che la macchina della dispersione opera contro quella dell'unificazione.
Ovvero ci dice che la guerra è contro lo stato”
(p. 72). Si potrebbe tuttavia a questo punto chiedere perché
gli stati moderni, come le società primitive, sono caratterizzati
anch'essi da una condizione di costante guerra reciproca.
A ogni modo, se le società primitive non possono permettersi
una pace universale – che porrebbe a rischio la loro libertà
–, non possono neppure sostenere la guerra generale, il
cui risultato sarebbe la fine dell'eguaglianza. È per
questo che scattano le alleanze, soprattutto quelle familiari
– lo scambio delle donne –, per garantirsi un insieme
di amici dal comportamento neutrale o favorevole nel caso di
un conflitto con gruppi nemici. Diventa a questo punto chiaro
che “la logica della società primitiva è
dunque una logica centrifuga, una logica del molteplice. I selvaggi
vogliono la moltiplicazione del molteplice. E qual è
il principale esito del dispiegarsi della forza centrifuga?
Opporre una barriera invalicabile, il più potente ostacolo
sociologico, alla forza inversa, ovvero alla forza centripeta
dell'unificazione, dell'Uno. (...) Ora, qual è quella
forza legale che ingloba tutte le differenze per eliminarle,
che poggia precisamente sull'abolizione della logica del molteplice
per sostituirla con quella opposta dell'unificazione, qual è
l'altro nome di quell'Uno che rifiuta nella sua stessa essenza
la società primitiva? È lo stato”. (pp.
69-70)
Lo stato come identità, la società come differenza.
Il contenuto dell'indagine etnologica di Clastres diventa
a questo punto tutt'uno con la prospettiva metodologica
“di un relativismo culturale che, rinunciando all'affermazione
imperialista di una gerarchia di valori, ammette ormai
la coesistenza di differenze socioculturali, senza la
pretesa di giudicarle” (p. 25). La società primitiva
cerca e vuole, infatti, la frammentazione, la differenza, la
dispersione in una varietà di gruppi tra di loro separati
e autonomi, viventi su un territorio del quale utilizzano e
consumano in modo egualitario le risorse, riconoscendo soltanto
il prestigio di un capo lavoratore e donatore, negandogli invece
qualunque potere separato dal corpo sociale. La logica della
società primitiva “è una logica della differenza”
(p. 59). Non a caso, nello studiare tutto questo, Clastres formula
soprattutto due nomi, oltre a quelli di Lévi-Strauss
e di Hobbes. I nomi di Étienne de La Boétie e
di Friedrich Nietzsche, entrambi avversi all'Uno e al suo dominio.
Alberto Giovanni Biuso
Note
- “Risulta da tutto ciò che il marxismo non può
pensare la società primitiva perché la società
primitiva non è pensabile all'interno di questa teoria
della società. L'analisi marxista vale, forse, per le
società divise o per i sistemi dove, apparentemente,
la sfera dell'economia è centrale (il capitalismo). Ma
quando la si vuole applicare a società indivise, a società
che si collocano nel rifiuto dell'economia, una tale analisi
più che strampalata appare oscurantista. Non saprei dire
se sia facile o meno essere marxisti in filosofia, ma è
evidente che esserlo in etnologia è semplicemente impossibile”
(p.111).
- “Aborigeni australiani e Boscimani, quando stimano di
avere raccolto sufficienti risorse alimentari, smettono di cacciare
e di raccogliere. Perché stancarsi a raccogliere quello
che non si può consumare?” (p. 97).
Chico, l'anarchico
dei due mondi
“Come anarchico sono più interessato alla vita
che alla morte delle persone!”
(Alessio Lega)
Sono
sicuro che Angelo Pagliaro e Antonio Orlando hanno tenuto presente
questo assunto, peraltro molto diffuso nell'ambito della ricerca
storica anarchica, durante la stesura di Chico il professore.
Vita e morte di Francesco Barbieri, l'anarchico dei due mondi
(coedizione La Fiaccola e Zero in Condotta, Milano, 2013, pp.
352, € 22,00). Per anni infatti, quello dell'anarchico
calabrese è stato solo un cognome affiancato al più
famoso Camillo Berneri. I due vennero assassinati insieme durante
le tragiche giornate di Barcellona del maggio del '37, in quel
gorgo di tradimenti, omicidi politici e illusioni perdute che
fu il “labirinto spagnolo”, secondo una felice definizione
della storiografia inglese. A interessare gli studiosi che hanno
lavorato a quest'opera, non sono solo le misteriose circostanze
della morte, peraltro ben ricostruite, ma le scelte di vita
delle quali fu protagonista Barbieri e che s'intrecciano con
gli avvenimenti, i luoghi, le lotte della macrostoria.
Per questo il lavoro storiografico di Pagliaro e Orlando assume
una valenza che va al di là della ricostruzione biografica,
offrendo un ricchissimo panorama delle vicende storiche nelle
quali il movimento anarchico fu protagonista. Dalle lotte per
l'emancipazione dei lavoratori in Argentina e il ruolo che proprio
gli emigranti italiani ebbero in esse, alla guerra civile spagnola,
passando per le dure esperienze di carcere ed espulsioni.
Le imprese della lotta armata con il gruppo Culmine al fianco
di Severino Di Giovanni, che spaccarono il movimento sui metodi
da adottare per condurre le lotte; l'incontro e l'amicizia a
Parigi con Berneri nell'ambito del tentativo di organizzare
gli antifascisti italiani all'estero; la guerra al fronte e
per le strade della Spagna sono le tappe più significative
dell'avventura umana dell'anarchico calabrese.
Il lavoro di ricerca a tutto campo ha esplorato con sapienza
le fonti storiche, riportate in un ricchissimo apparato di note,
restituendo così la figura di Barbieri come uomo di azione,
sempre in prima linea, temuto dalle polizie di due continenti,
in particolare da quella fascista, che a lungo lo braccò.
Il libro non si esime dal ragionare sulle varie ipotesi formulate
nel corso dei decenni per fare luce su mandanti ed esecutori
del duplice omicidio, le cui modalità rimandano con certezza
a un'esecuzione mirata compiuta da sicari scelti, e sul quale
una parola definitiva ancora non è stata scritta.
Pagliaro e Orlando presentano al lettore documenti e testimonianze
che seguono le piste principali, che sostanzialmente si riducono
a due: quella che porta al Psuc direttamente controllato dagli
stalinisti e dall'Unione Sovietica e quella, meno probabile,
che attribuisce l'omicidio a spie fasciste dell'Ovra.
Particolarmente emozionanti le parole del racconto dei funerali
nel ricordo di Umberto Marzocchi: “In testa al funerale
centinaia di bandiere, tutti i sindacati, tutti i gruppi anarchici,
dietro i cinque carri un centinaio di anarchici del Mir, del
Movimento di Investigazione Rivoluzionaria, con le mauser...
e poi tutta la folla! Io sono in testa con la bandiera italiana...”
Una nota di carattere editoriale, ma non meno rilevante se letta
in prospettiva futura, è il fortunato connubio nord-sud,
fra Zero in Condotta e La Fiaccola, grazie al quale è
stato possibile giungere alla stampa di quest'opera.
Il lungo lavoro degli autori ha dato frutti copiosi anche in
termini di nuovi materiali documentali, che potrebbero essere
fruibili in un'eventuale edizione ampliata in formato ebook.
Un libro quindi che colma un vuoto storiografico a lungo rimasto
aperto come una ferita, e che oggi diventa finalmente una storia
di tutti per tutti: la storia di Francesco Barbieri.
Fabio Cuzzola
Teatro civile
e coscienza critica
Il vecchio della torre di Zelinda Carloni è un
racconto noir per giovani lettori. Anzi, lettori-ascoltatori,
infatti può essere considerato un racconto-spettacolo,
adatto a una lettura corale, e in pubblico.
“Vi racconto”. Inizia così “una storia
che porterà molto lontano”, mentre coinvolgimento
diretto e tono colloquiale della voce narrante abbattono la
quarta parete.
Il titolo rimanda al pezzo che un commissario-capo, preposto
a indagini investigative, e per diletto autore dei testi e regista
di una compagnia teatrale amatoriale, sta ultimando.
Senza accorgersene, si viene accompagnati nel gioco del teatro
nel teatro. Il commissario si servirà di un'attrice della
sua compagnia, per creare un espediente e riuscire a intrappolare
la mano infame che infierisce a morte su bambini e adulti tedeschi,
residenti in Italia, scelti a caso nel mucchio, come in una
roulette russa.
Il commissario Ideale, con la sua aria da stordito-insonne-cronico,
un po' bischero e slanci da cascamorto quando si trova a tu
per tu con una donna, è uomo interprete del sentire comune.
L'approccio cerebrale, mai sùbito lucido rispetto ai
casi da risolvere, è infarcito di citazioni colte, guide
autorevoli e motivo conduttore per orientarsi nell'intricato
labirinto degli indizi. Spesso sproloquia nomi fragorosi di
letterati, ma poi dichiara tutta la sua ignoranza quando si
tratta dei fatti storici delle Shoah: “Non ho mai sentito
queste cose”! Sarà Donna, detta Didi, “strana
creatura che pareva uscita da un racconto fantastico”
ad aprire alla conoscenza il commissario-regista-autore, a volte
attore. E il sodalizio Donna-Ideale si rivelerà ben riuscito.
Calate nell'intreccio fittizio dei casi investigativi da risolvere,
le spiegazioni di Donna accrescono realtà oggettiva agli
stessi avvenimenti storici da lei narrati. Il giovane ascoltatore-lettore-spettatore
si trova a conoscere, forse per la prima volta, come per il
commissario, attraverso la mediazione di un racconto dai risvolti
noir, i crimini del nazismo.Nella finzione letteraria, la mano
assassina agisce in nome delle vittime, facendosi paladina della
massima di Dostoevskij: “Ognuno è responsabile
di tutto davanti a tutti”. Collocato altresì in
apertura e chiusura del racconto, il motto conferisce un andamento
circolare alla struttura narrativa. La frase è ripresa
anche nelle battute conclusive del pezzo teatrale scritto dal
commissario-regista-autore, e pronunciate dal personaggio-vecchio
saggio, custode della memoria.
Ma la massima di Dostoevskij potrebbe rappresentare inoltre
il punto di partenza per un finale in divenire, aperto a un
dibattito con il giovane pubblico, sollecitato a interpretarla
a più voci, nel suo significato profondo. Il racconto-spettacolo
si rivela quindi un'opportunità per un primo approccio
ai temi della memoria individuale e collettiva, del conformismo
e del negazionismo, della violenza subdola che va smascherata.
Il vecchio della torre può ricavarsi uno spazio
meritato, in un contesto di teatro civile dove la narrazione-spettacolo
diventa occasione di sensibilizzazione e formazione di una coscienza
critica. Da coltivare fin dalle giovanissime generazioni.
Claudia Piccinelli
Il libro Il vecchio della torre non è pubblicato,
può essere richiesto in pdf all'autrice: lindazeli@hotmail.it.
Con
Vladimir Vysotsky
nel cuore
Lottavo romanzo (Sicilia Punto L, Catania, 2013, p.
165, € 10,00) raccoglie ventinove scritti piuttosto brevi
di Marco Sommariva e un testo finale, che mi figuro con i piedi
ben piantati in musica, di Alessio Lega. È uscito quest'estate
e l'ho letto disordinatamente e più volte, in treno,
a casa, in giro. Solo una volta – l'ultima – l'ho
letto seguendo la traccia delle pagine, ma lasciando comunque
da parte la prefazione. È perché temo le presentazioni
dei libri: non mi va che qualcuno mi suggerisca prima cosa succede
dopo, che mi si dia una traccia o un'angolazione da cui prendere
la mira, o una qualche chiave. Quando leggo qualcosa mi piace
andare in esplorazione da solo: voglio che la lettura sia un
viaggio nuovo, voglio farmi sorprendere, voglio che un libro
mi apra davanti panorami e preferibilmente panorami di meraviglia.
Una mezza sorpresa l'ho avuta già nel corso delle prime
letture (solo mezza perché un po' lo conosco, credo di
aver letto grande parte delle cose scritte da Marco e questo
è davvero uno dei suoi lavori più complessi e
riusciti), una sorpresa intera l'ho avuta scoprendo quest'ultimo
tratto, la prefazione appunto. Mi ero fatto un'idea complessiva
del libro e già stavo buttando giù degli appunti
che avrei poi trasformato in questa segnalazione, ma nel leggere
la prefazione di Haidi Giuliani mi sono accorto che praticamente
tutto quello che avrei voluto raccontarvi lei l'aveva già
scritto, prima e molto meglio di me.
Cambio quindi strada e, magari più banalmente, vi racconto
Lottavo romanzo dal rumore che fa, dai suoni che lo abitano.
Marco Sommariva ama impastare le parole dei suoi racconti con
una specie di colonna sonora: dà raramente delle indicazioni
specifiche, non sceglie brani lunghi né canzoni intere,
ma lavora a un mosaico di frammenti, di tracce, di scie sonore
che nell'economia del suo lavoro di scrittore hanno altrettanto
peso. Potrei descriverlo come quel disordine di suoni che escono
dalle finestre delle case quando passi per una di quelle strade
di quartiere fatte di poco o niente silenzio, rumori e voci
a tutte le ore e in tutte le gradazioni. È un groviglio
comunque ancora riconoscibile quello nel suo libro d'esordio
Il cristallo di quarzo, con i Radiohead mischiati ai Pink
Floyd in una babele fitta di worldmusic mediorientale oppure
maghrebina oppure da chissà dove. In uno dei suoi primi
lavori Vorompatra ti entrava nelle orecchie un mix elaborato
di Jackson Browne e chitarristi solitari in un angolo più
Ub40 e voci telefoniche più Patti Smith e Rem più
Tom Waits: una mescolanza artificiale ma possibilissima, specie
se letta come un'antologia veloce di suoni familiari a un ragazzo
nato negli anni sessanta e cresciuto felice col pop degli anni
settanta ed il rock degli anni ottanta, ma a disagio nella musica
degli anni novanta e lasciato chiuso fuori da quella del millennio
nuovo. Nel più recente Il venditore di pianeti alle
orecchie arriva molto poco di riconoscibile: è un rumore
continuo, bagnato e nebbioso come un novembre a nordest, di
macchine che passano e clacson e frenate, grumi sonici che escono
dalle radioline e dagli altoparlanti dei televisori, gente che
grida per strada e dentro le stanze ma che ci raggiunge come
da dietro un vetro opaco. Per caratterizzare Lottavo romanzo
Marco cambia strada, e sceglie piuttosto esplicitamente Vladimir
Vysotsky cantato con la voce di Eugenio Finardi (Il cantante
al microfono, edizioni Velut Luna, 2008, velutluna.it:
cercate questo cd e ascoltatelo con tutta l'attenzione possibile),
riuscendo a intrecciare fili rossi tra ciascun racconto breve
e ritagli di strofe del cantapoeta russo.
Il libro ha dimensioni piccole, resta comodo tra due mani, ma
mentre lo si legge si trasforma e diventa un album di fotografie
sempre più grandi e sempre più nervose e intrise
di inquietudine, oscurità, disperazione. Le parole sono
il pretesto per raccontare storie di occasioni buone strappate
di dosso ai protagonisti, sogni dai quali ci si risveglia con
ancora i segni dei denti e delle unghie sul viso, giornate buttate
via una dopo l'altra galleggiando in mezzo a un mare di gente
e di spettri ma comunque soli, sprecate aspettando fuori di
un portone che nessuno apre o al buio in cerca di una qualche
luce da accendere. Lo stesso, le canzoni che lo abitano sono
sconfinate dichiarazioni d'amore e d'indipendenza messe in bocca
a un profeta alcolista, condannato a restare straniero dappertutto
e sempre nonostante le traduzioni più amorevoli.
Marco Pandin
L'anarchia,
le anarchie,
le anarchiche, gli anarchici
Per i tipi della casa editrice imolese La Mandragora (editricelamandragora.it)
è uscito il volume di 570 pagine (€ 32,00)
Ritratti in piedi, in cui sono raccolti
tutti gli scritti che il nostro collaboratore Massimo Ortalli
ha pubblicato su questa rivista tra il 2001 e il 2009, nella
sua omonima rubrica. Ne pubblichiamo l'introduzione di un nostro
redattore.
Se la piccola cooperativa editoriale di cui mi occupo da 43
anni pubblicasse anche libri, questo dovrebbe essere nel nostro
catalogo. Si tratta infatti della raccolta completa dei testi
che Massimo Ortalli ha scritto sulla rivista anarchica “A”
per quasi nove anni, nella sua rubrica Ritratti in piedi.
E sottolineo l'aggettivo sua perché nessuno fino ad allora
aveva avuto l'idea di porre un'attenzione organica e sistematica
a quello sterminato mondo di scritti originati dal fecondo incontro
tra anarchia e letteratura.
In questa sede mi preme evidenziare che se questo incontro,
che data da oltre un secolo e mezzo e dura tuttora, ha dato
tanti risultati nella letteratura e in terreni artistici assai
variegati (si pensi al teatro, al cinema, ecc.) è perché
l'anarchia non è “solo” un ideale politico-sociale
o un movimento che ad essa si richiama, ma è tante e
tante cose in più. Al punto che a volte mi sembrerebbe
più preciso e chiarificatore parlare di anarchie,
al plurale. Con il rischio, però, di non cogliere appieno
quel sentimento di fondo che tutte queste anarchie tiene assieme.
I ritratti che Massimo Ortalli ripropone in questo suo scrigno
di umanità di oltre 500 pagine ci permettono di approfondire
la conoscenza di tante persone, reali o romanzate poco importa,
tramite le quali le grandi idee anarchiche si sono fatte vita
quotidiana, relazioni, progetti di lotta e tante altre cose.
Dietro e dentro questi scritti, dunque dietro e dentro questo
ponderoso volume, c'è Massimo Ortalli, un individuo,
un anarchico, con tutta la sua conoscenza sulla storia dell'anarchismo.
Anima dell'Archivio storico della Federazione Anarchica Italiana,
collezionista, studioso, autore di pubblicazioni, conferenziere
è tra quanti (a dire il vero, pochi) hanno gli strumenti
per cercare di abbracciare l'inabbracciabile, in altre parole
avere una visione d'insieme di quanto attiene all'anarchia,
fosse anche solo con attenzione prevalente per quella di lingua
italiana – che è ben altra cosa dal dire l'anarchismo
in Italia, data l'entità e l'importanza dell'emigrazione,
dell'esilio e del radicamento nei cinque continenti.
Pur in possesso di tanta “scienza”, non si potrebbe
nemmeno affrontare un processo di comprensione/narrazione dell'anarchismo
e degli anarchici senza coglierne empaticamente il mondo, il
sistema di valori, i comportamenti, i dibattiti politici, vorrei
dire anche i tic, le abitudini mentali, gli automatismi emotivi,
quella estrema ricchezza di umanità, di idee, di esperimenti,
di lotte che all'anarchia in vario modo si richiamano. Dentro
l'anarchia, le anarchie, c'è di tutto e questa raccolta
di scritti, all'incrocio con la letteratura, ne è ulteriore
conferma.
Va poi tenuto presente che l'impegno storiografico di Massimo
assume un senso compiuto solo alla luce del suo e del nostro
impegno militante, se tale si può definire la volontà
di contribuire alla trasformazione del mondo, non solo alla
sua “scrittura”.
Delicato ma fondamentale equilibrio è quello tra ricerca
storica e impegno politico, dove la reciproca autonomia (soprattutto
per quanto attiene alla prima, che deve essere libera da ideologismi
e schemi prefissati) non deve significare estraneità
e distanza dalle vicende del mondo attuale e dall'impegno contro
le ingiustizie che sta alla base del nostro coinvolgimento nelle
idee e nel movimento organizzato che cerca di portarle avanti.
Già, le idee. Non è certo questa breve introduzione
a permettere una disanima foss'anche veloce del ricco patrimonio
di esperienze, riflessioni, sofferenze, lotte, scritti che hanno
fatto e fanno dell'anarchismo un patrimonio – uno tra
i tanti, a mio avviso – al quale ovunque e sempre si possa
attingere per pensare e operare nella prospettiva di una nuova
società. Nel baule che gli anarchici preservano e cercano
di arricchire, da portare nell'arca di Noè verso un mondo
migliore, di idee ce ne sono a iosa. E con Massimo di queste
idee parliamo, discutiamo, riflettiamo, dubitiamo. Materia viva,
appassionante, ma a volte datata, per la nostra rispettiva e
spesso comune sensibilità. Idee da approfondire e riesaminare,
a volte da lasciare a un passato che ci pare proprio passato.
Perché le idee, per gli anarchici, sono (o meglio, dovrebbero
essere, a mio avviso) un patrimonio da riesaminare, ridiscutere,
sul quale riflettere. Mai un dogma.
Diverso è il discorso che riguarda gli individui, le
donne e gli uomini che hanno fatto e che fanno la storia dell'anarchismo:
portatrici e portatori in vario modo di quelle idee, testimoni
dei principi cui esse si ispirano per tradurli in atti quotidiani,
di impegno, di vita, di solidarietà, di lotta.
Lo accennavo all'inizio. Il patrimonio ideale dell'anarchismo
è eccezionalmente ricco, variegato, a tratti emozionante,
ma alla luce dell'esperienza mostra più di una corda:
non nell'ispirazione di fondo (una società di liberi
e di uguali, la pratica della solidarietà, ecc.) ma nelle
modalità per avvicinarsi a una realizzazione anche solo
parziale. L'esperienza e la riflessione hanno fatto crescere
in me continui punti interrogativi, le “certezze”
si sono diradate e a volte dileguate, il “quando l'anarchia
verrà / tutto il mondo sarà trasformato”
mi fa sorridere, a tratti anche amaramente.
Ma resta intatta in tutta la sua meravigliosa ricchezza l'umanità,
altra parola non mi viene per descrivere quell'impasto alchemico
di idee e comportamenti, di orizzonti ideali e quotidiana vita
solidale: come sintetizzava il nostro insuperato Errico Malatesta,
di pensiero e volontà.
Per dirla in altri termini, la tragica esperienza delle “rivoluzioni”
comuniste (lenin-staliniste), Auschwitz e Hiroshima e tanti
altri avvenimenti, hanno segnato radicalmente la storia e posto
interrogativi sulle modalità per realizzare un mondo
migliore. Le idee-forza dell'anarchismo restano un punto chiaro
e fisso, in cielo. Nel cielo delle idee, appunto.
In terra ci sono, hanno operato e operano gli individui, magari
associati in gruppi, organizzazioni, federazioni, ma comunque
individui. E dai migliori di questi – che costituiscono
il sottofondo dei ritratti proposti in queste pagine –
viene la vera, profonda e, a mio personale avviso, unica conferma
possibile dell'interesse per quelle nostre idee. Perché
in questi individui le idee si sono fatte comportamento, hanno
acceso amicizie, hanno costruito fiducia, hanno determinato
lotte. Hanno fatto scuola.
Dall'intrecciarsi del mio personale, quotidiano dialogo con
Massimo emergono sempre più punti interrogativi su idee,
strategie, prese di posizione. Certo, resta fondamentale l'ancoraggio
alla concezione malatestiana dell'anarchismo, con la sua attenzione
alla dimensione etica, indispensabile anche per fare da contrappeso
alle dure e a volte tristi necessità della lotta.
Ma Massimo e io ci rendiamo conto che non basta, in particolare
nel quotidiano operare. E allora ciò che ci lega a queste
strane e affascinanti idee passa principalmente attraverso la
vita delle persone migliori che abbiamo conosciuto, dei compagni
e delle compagne che ci apparvero grandi non solo per ciò
in cui credevano o per gli anni di galera fatti sotto il fascismo,
ma anche (e soprattutto) per la loro piccola quotidiana sensibilità
e attenzione verso gli altri.
“Non mi interessa se tu sei credente, mi interessa che
tu sia credibile” amava dire il mio amico don Andrea Gallo.
Quanta verità in quelle parole, applicate anche agli
anarchici.
E le anarchiche e gli anarchici in carne e ossa che popolano
questi ritratti, credibili lo sono stati e lo sono tuttora.
In loro l'anarchia, prima ancora che un ideale, è stata
ed è pratica di vita. Non è poca cosa. Per me,
per il mio personale non semplice né facile rapporto
con l'anarchismo, direi che è tutto.
Paolo Finzi
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