Le scoperte dell'America e i fossili culturali
a cura di Felice Accame
1.
In Scienza, Gilberto Corbellini dice che “la discussione
sull'uso civile del nucleare fa prevalere le istanze emotive,
ovvero il modo distorto con cui valutiamo i rischi”. Sarebbe
altresì noto, secondo lui, che “psicologicamente
diamo più peso ai rischi meno probabili e che causano
nell'insieme meno danni, e meno peso a quelli più probabili
e che causano danni maggiori”. Tanto gli è sufficiente
per bollare l'opposizione alla produzione di energia nucleare
come un'assurdità, il cui “massimo” –
sebbene non sembri c'è una sua coerenza nell'argomentazione
– si toccherebbe “quando sono in discussione, non
dappertutto ma in paesi come l'Italia sì, la coltivazione
e la commercializzazione degli organismi geneticamente modificati”.
Questo suo modo di argomentare è un gioiello di retorica:
della questione non si fa neppure cenno, mentre l'attenzione
viene spostata sul modo con cui viene percepita; di scorie radioattive
e di inquinamento del pianeta non si parla, ma di “psicologia”
sì e, dimenticando il determinato – i danni certi
–, la si butta sul calcolo delle probabilità e
sul peso che un soggetto ignoto ed eletto a rappresentanza universale
assegna ai risultati di questo calcolo. Anche se non si sapesse
che Corbellini è al servizio di multinazionali e Confindustria,
non mi si dica che questo – alla faccia dell'“obiettività
della scienza” – non è un tipico caso di
obiettivo negoziato “sulla base dei rapporti di forza
politici ed economici”.
2.
Nello stesso libro, Corbellini trova modo di sfogarsi contro
quella che lui ritiene essere la pericolosa concezione “costruttivista”
della scienza che si baserebbe sulla convinzione che “non
esiste una realtà data a priori”, “non esistono
verità universali o indipendenti dai punti di vista”,
“non ci sono fatti” ma “solo interpretazioni”.
Va da sé che, usando i verbi “esistere” ed
“essere” – ovviamente senza chiedersene il
significato né, tantomeno, venendo sfiorato dal dubbio
di doverne rendere conto –, Corbellini, sulla scia dei
molti che l'hanno preceduto nella storia della filosofia, ottiene
il risultato di ridicolizzare le tesi avverse. Ma non si ferma
lì, perché, utilissima per la sua argomentazione,
ci sarebbe anche una “versione culturale e sociale”
di costruttivismo che “implica che ogni conoscenza è
solo ciò che viene messo in pratica nei contesti quotidiani
e istituzionali, ovvero nelle interazioni e nelle negoziazioni
tra individui o comunità culturalmente situate”.
Secondo questa versione, allora, la scienza sarebbe “un'impresa
che mira al raggiungimento di obiettivi socialmente attesi e
negoziati sulla base dei rapporti di forza politici ed economici”
– ecco proprio il caso suo – e il suo scopo, allora,
“non sarebbe il conseguimento di una conoscenza oggettiva”.
Come evitare di concluderne che “l'epistemologia costruttivista
è insensata”? Non solo: come evitare di far notare
che questa “epistemologia” è “solo
una forma più sofisticata di relativismo, cioè,
in ultima istanza, di idealismo” e che, come tale, è
“dannosa”?
3.
Per Corbellini, “il pensiero magico si sviluppa come un
modo spontaneo di categorizzare i cambiamenti nell'ambiente
sulla base dell'imprinting cognitivo che ci induce ad attribuire,
in assenza di esperienze correttive, cause invisibili e animate
ai cambiamenti nello scenario circostante” e la scienza
“verosimilmente e almeno in parte” ne sarebbe una
“continuazione” – nella sua forma “pura”
sarebbe “un'invenzione di figure religiose dedite alla
speculazione”. Ciò non ostante, il “metodo
scientifico” consisterebbe in un processo “attraverso
il quale degli individui operano per costruire una rappresentazione
del mondo affidabile e intersoggettiva”. Sui criteri per
stabilire questa affidabilità e questa intersoggettività,
ovviamente, si tace, perché, in caso contrario, si verrebbe
ad ammettere che un criterio di “oggettività”
non è disponibile e, pertanto, si ridarebbe fiato alle
istanze costruttiviste. Il problema di distinguere nettamente
la “scienza” dalla “pseudoscienza” (o
più semplicemente dalla non-scienza) se lo sarebbero
inventato i “filosofi”, dal cui sapere gli scienziati
sarebbero immuni.
4.
Giusto a questo nodo – scienza e non-scienza, oggettività
dei suoi risultati, realismo e costruttivismo (non caricaturale)
– si riferisce ancora Lucio Russo ne L'America dimenticata.
Se n'era già ampiamente occupato ne La rivoluzione
dimenticata di cui quest'ultimo libro può essere
considerato un importante corollario. In entrambi i libri dimostra
brillantemente come, ad un dato punto della storia dell'intreccio
tra scienza e filosofia, enti di cui c'era piena consapevolezza
in ordine alla loro teoreticità siano stati spacciati
per concretezze di realtà indipendenti da noi che li
categorizziamo come tali. E in entrambi i libri la tesi è
sempre quella: grazie ai romani e ai cristiani il sapere accumulatosi
fino a tutta l'età ellenistica – o fino al secondo
secolo prima di Cristo – è andato perduto. Oltre
alla svista di prendere lucciole per lanterne (o mappe per territori,
più esattamente, svista in cui cade ancor oggi un Corbellini),
in questo sapere c'era, per esempio, la sfericità della
Terra e la sua corretta misurazione e il sistema eliocentrico
di Aristarco di Samo. La tabula rasa voluta da romani prima
e cristiani dopo ha fatto sì che ci si ritrovasse con
la Terra al centro dell'universo, piatta e ridotta nelle sue
dimensioni, nonché con le Colonne d'Ercole invalicate
e invalicabili. Così è stato possibile costruire
il mito di Colombo che scopre un'America che, invece, era stata
scoperta e riscoperta più volte ben prima di lui. Che
il mito di Colombo, poi, sia servito ad alimentare racconti
di ordine consolatorio e fomentatori di razzismo non ha fatto
che promuoverlo ulteriormente. Che la Storia che ci è
propinata non stia in piedi – che troppe testimonianze
di comunicazioni debbano essere ignorate o mal interpretate
(Russo riferisce dell'umoristico caso degli ananas: raffigurazioni
romane del terzo secolo dopo Cristo rappresentano chiaramente
ananas insieme ad altri frutti e, tuttavia, è stato dimostrato
che gli ananas sono originari del centro America. Come fanno
ad essere lì dove stanno ben prima che Colombo “scoprisse”
l'America? Gli storici “benpensanti”, quelli che
non vogliono trovare crepe nel paradigma che prescrive la mancanza
totale di contatti pre-colombiani, spiegano la cosa adducendo
l'inettitudine degli artisti romani, che, “in realtà”,
avrebbero voluto rappresentare altri frutti ma non ci sono riusciti.
Gli ananas, dunque, sarebbero frutti di un errore ripetuto,
peraltro, più volte) – non sembra preoccupare più
di tanto coloro che usano di questa Storia ai fini della propaganda
ideologica.
5.
L'analisi di Russo costituisce un ottimo esempio di come porti
lontano una correzione apportata alla Storia. Se gli “antichi
contatti transoceanici” sono dimostrati (i Vichinghi in
America settentrionale intorno all'anno 1000, per esempio) si
viene ad eliminare “il principale pilastro a fondamento
della teoria dello sviluppo parallelo di tutte le civiltà
attraverso le stesse fasi”, ovvero l'idea di una storia
umana consistente di una “serie di evoluzioni parallele,
progressive e lineari, rette da leggi definite” in ragione
della quale “tutte le culture sarebbero ordinabili secondo
una scala universale, ottenuta trasferendo in impliciti giudizi
di valore un dato virtualmente cronologico (un po' come si fa
parlando di 'età mentale' dei ragazzi)”. Dall'accettazione
della tesi, infatti, discenderebbe che sarebbe “naturale”
considerare “primitive” le culture diverse dalle
nostre – che sarebbero, allora, perlopiù, “ritardatarie”;
dal suo rifiuto – dalla sua confutazione – discenderebbe,
invece, che “le civiltà diverse della nostra”
non possono più “essere valutate in base a quanti
elementi comuni ai nostri posseggono”, ovvero paradigmate
su di noi. In gioco, allora, ci sono le fondamenta di ogni determinismo
biologico. Russo osserva in proposito che “se si è
convinti che tra due civiltà non vi sia stato alcun contatto,
la presenza di elementi condivisi può sempre essere considerata
un effetto dello scarso numero di possibilità a disposizione
dell'uomo e del peso delle caratteristiche biologiche della
specie umana nella costruzione della cultura. Ogni scoperta
di un elemento comune può essere usata sia per difendere
l'ipotesi dei contatti sia a favore del determinismo biologico”,
ma è chiaro, aggiungo io, che se gli elementi comuni
sono sistemati in un contesto cronologico, ovviamente, le possibilità
interpretative si restringono.
6.
“La nozione di sfericità della Terra”, spiega
Russo, “non svolgeva alcun ruolo nell'Europa medievale,
che ignorava la cartografia scientifica, le coordinate geografiche
e la possibilità di tracciare rotte marittime su base
teorica”. Casi di questo genere sono molteplici. La
rivoluzione dimenticata annovera fra gli altri casi che
riguardano l'uso del vapore, la misurazione del tempo, i cannocchiali
o le consapevolezze euclidee circa la relatività del
moto. Tutti risultati destinati ad essere “riscoperti”
come nuovi, “inventati” successivamente. Rende bene
l'idea l'analogia con l'evoluzione biologica, dove “capita
spesso che in una specie persistano organi o strutture che hanno
perso del tutto la funzione che avevano in un antenato”.
Sono “elementi vestigiali” – come, nell'uomo,
l'appendice o il coccige – e, dice Russo, se “in
una cultura si trova un elemento suscettibile di svolgere un
ruolo importante, ma ciononostante completamente inutilizzato
si può essere certi che si tratta di un relitto proveniente
da una cultura diversa”. In un altro libro – Flussi
e riflussi – in pratica era riuscito a dimostrare
che il rapporto tra teoria corretta delle maree e teoria della
gravitazione universale andava rovesciato, perché erano
state le idee relative alle prime a favorire la seconda e non
viceversa. Si può dunque parlare di fossili culturali,
di conoscenze fossili che, ogni tanto, casualmente, possono
riemergere dal buio della storia illuminandoci all'improvviso
sul corso di una storia che, allora, diventa più coerente
e più comprensibile. E qui finisce l'analogia tra evoluzione
culturale ed evoluzione biologica, perché ogni processo
di fossilizzazione, nella prima, non è privo di responsabili.
Resta da considerare, infatti, il ruolo di chi, ad un certo
tipo di sapere, si oppone con tutti i mezzi che ha a disposizione.
O in nome o per conto del potere dei pochi – dei pochi
autorizzati a sapere “come stanno le cose” –,
ogni accenno di costruttivismo, nella storia delle idee, è
stato ostacolato sul nascere, cancellato, sepolto accuratamente,
occultato alla vista dei tanti – ridotto a fossile culturale
da parte dei Corbellini di turno.
7.
Su molte versioni di costruttivismo – su quelle che possono
più o meno esser rappresentate come le ha rappresentate
Corbellini –, ovviamente, non si può che esser
d'accordo con lui. Ma se a rappresentare le istanze di fondo
del costruttivismo – quelle che partono dalla autocontraddittorietà
della filosofia del conoscere e del realismo che, come dogma
religioso, è chiamato a metterci una pietra sopra –
fossero espresse altre tesi – per esempio, quelle che,
liquidata ogni forma di filosofia, partono dalle necessità
dell'analisi dei rapporti tra linguaggio e pensiero e della
riconduzione a operazioni mentali dei significati – ecco
che il giudizio cambierebbe. Il costruttivismo di cui parla
Corbellini è una caricatura di comodo ben funzionale
all'imposizione del realismo ed alle forme di potere che viene
a legittimare.
L'impostazione metodologica di Lucio Russo può essere
definita costruttivista già nel fatto del suo interrogarsi
costante sull'origine delle categorie e dei nomi che in qualche
modo (a volte davvero alla meno peggio) le rappresentano cui
andrebbe aggiunto il suo atteggiamento critico nei confronti
degli usi realistici di enti teorici (quindi “costruiti”)
come nei confronti delle ricadute idealistiche di certa fisica
novecentesca. Tuttavia la sua concezione della “scienza”
mi lascia perplesso. Per esempio, lui dice che “il fatto
che nessun'altra civiltà abbia reinventato indipendentemente
il metodo scientifico, riapparso solo dove è stato possibile
recuperare testi dell'antica scienza” (ellenistica, in
parte, II secolo aC) “depone (…) a favore dell'ipotesi
che tale metodo avrebbe potuto essere perduto definitivamente,
come si può immaginare sia avvenuto in passato per altre
conquiste”. È chiaro, allora, che anche lui –
come coloro che lo ascrivono a questo o a quello, vuoi che sia
Anassimandro o vuoi, in una versione popolarissima e truffaldina,
che sia Galileo – vincola la nascita della scienza ad
un posto e ad un momento dovendo dunque poi ipotizzare il perché
proprio di questo posto e di questo momento fra i tanti. In
un modo o nell'altro, dunque, prefigura una sorta di discontinuità.
Riconducendo, invece, la procedura scientifica alla sanatura
delle differenze da un paradigma – e alla coerenza con
le sanature poste in precedenza –, nonché alla
sua riducibilità ad istruzioni positive e non metaforiche,
come tali trasmissibili ed eseguibili da chiunque, ecco che
non ci sarebbe più bisogno di circostanze speciali per
spiegarne la nascita. Il procedere di chi si accinge a preparare
un piatto di spaghetti è scientifico quanto quello del
chimico e del fisico alle prese con reazioni più e meno
a catena, mentre – con buona pace del “progressista”
Corbellini – non è scientifica affatto la procedura
della magia vincolata com'è, poco democraticamente, alla
specialità della persona che la esercita.
Felice Accame
Nota
Scienza di Gilberto Corbellini è stato pubblicato
da Bollati Boringhieri, Torino 2013. Dell'autore mi sono già
occupato in Il maoista
platonico e l'etologo (“A”, 38, 339, novembre
2008). L'America dimenticata di Lucio Russo è
stato pubblicato da Mondadori Education, Milano 2013; La
rivoluzione dimenticata e Flussi e riflussi sono
stati pubblicati da Feltrinelli, Milano, rispettivamente nel
1996 e nel 2003.
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