Ascoltando Fabrizio ad Algeri
Intervista a Amara Lakhou di Renzo Sabatini
Amara Lakhous è uno scrittore algerino che vive in Italia.
Da anni si occupa di migrazione in qualità di narratore, antropologo e reporter.
Secondo lui bisognerebbe ascoltare De André in Oriente come in Occidente.
Perché affronta tematiche universali e perché è un antidoto contro l'intolleranza.
Amara Lakhous: algerino ma vivi a Roma dal 1995. Laureato
in filosofia ad Algeri e in antropologia culturale a Roma. Come
giornalista hai lavorato sia per la radio nazionale algerina
che per varie radio italiane. In Italia ha già pubblicato
due libri1.
Insomma, una vita a cavallo di due culture, una vita da migrante,
come quella di tanti che in questo momento ci stanno ascoltando.
Parlaci un po' di te: chi è Amara Lakhous?
Io sono un viaggiatore. Vivo in Italia da circa tredici anni
e sono, per così dire, alla scoperta dell'Italia del
futuro. Oggi qui in Italia ci sono tantissime comunità
di immigrati e qui ho conosciuto albanesi, bengalesi, senegalesi
e tanti altri. Quindi oggi, in Italia, c'è questa grande
opportunità di conoscere il mondo intero in un solo paese.
Io faccio parte di questa bellissima, straordinaria esperienza.
Quindi tu hai scelto l'Italia per questa sua particolare
situazione storica?
Non esattamente. Sono venuto in Italia alla fine del 1995 perché
in Algeria, in quel periodo c'era il terrorismo e come tanti
altri intellettuali ho avuto problemi, minacce. Quando sono
arrivato in Italia posso dire di aver ricominciato a vivere,
dopo un'esperienza molto dura, molto difficile. È stato
un po' il destino a farmi ritrovare qui, perché in quel
periodo era molto difficile uscire dall'Algeria, ma ho avuto
la grande fortuna di avere un amico italiano, al quale ho dedicato
il mio primo romanzo italiano2.
Sto parlando di Roberto De Angelis3,
un antropologo e grande studioso dell'emigrazione in questo
paese. Lui mi ha aiutato, mi ha mandato un invito con il quale
sono riuscito a uscire dall'Algeria ed è così
che sono arrivato in Italia. Avrei subito potuto scegliere di
andare in Francia, come hanno fatto tanti altri, perché
parlo il francese e l'Algeria ha rapporti importanti con la
Francia. Ma ho preferito rimanere qui. Mi sono detto che quella
dell'Italia sarebbe stata per me un'esperienza nuova mentre
in Francia ci sono già un milione di algerini e quindi
sarebbe stato come vivere in Algeria. Io avevo bisogno di conoscere
una nuova realtà, una nuova lingua, una nuova cultura.
Oggi so che ho fatto molto bene, è stata una decisione
molto saggia.
Hai menzionato il tuo libro che, in Italia, è stato
pubblicato col titolo: Scontro di civiltà
per un ascensore a piazza Vittorio, ma in Algeria
è invece uscito col titolo: Come farti allattare
dalla lupa senza che ti morda. Tu sei riuscito a farti
allattare oppure la lupa ti ha morso?
È una questione aperta! Finora mi è andata molto
bene. Perché io qui mi trovo molto bene, Roma è
la mia città. Quando parto, addirittura quando vado ad
Algeri, ho una grande nostalgia di questa città. Amo
questa gente, amo la lingua, l'italiano. Per cui sono in realtà
davvero felice. Direi che la lupa non mi ha morso, mi ha solo
abbracciato.
Meno male! Il tuo libro è una sorta di giallo psicologico
che qualcuno ha paragonato al Pasticciaccio
di Gadda. La critica, mi pare di capire, lo ha accolto molto
positivamente. Con il pubblico invece com'è andata? Che
tipo di italiano legge il tuo libro?
L'accoglienza è stata straordinaria. Io vado molto spesso
nelle scuole in giro per l'Italia a parlare con i ragazzi, ho
fatto vari incontri, ricevo delle mail da persone di diverse
età. Insomma, mi sembra che questo libro abbia toccato
un po' tutti. Proprio in questi giorni è uscita la nona
ristampa a due anni dalla prima, quindi il libro continua a
interessare e questa per me è una grande soddisfazione.
La cosa curiosa è che adesso è uscita l'edizione
francese e sotto questa veste è tornato in Algeria. Quindi
l'ho scritto in arabo, l'ho riscritto in italiano, è
stato tradotto in francese dall'italiano e adesso è ritornato
nel mio paese dopo aver fatto questo giro, in cui l'italiano
ha finito per essere la mediazione fra le diverse lingue. Di
questo sono veramente felice. Presto uscirà negli Stati
Uniti e in Olanda anche un film in inglese tratto dal mio libro4.
Sono davvero contento.
E l'Australia?
Magari, mi piacerebbe molto arrivare anche lì. Mi interessa
molto perché è un paese di grandi migrazioni.
Io considero l'immigrazione un fatto molto positivo, anzi straordinario.
Ho avuto la fortuna di conoscere gli immigrati italiani in altri
paesi e conoscere la comunità italiana in Australia sarebbe
una bellissima esperienza5.
Tu ti sei occupato di immigrazione come mediatore culturale
e come studioso ti sei occupato della questione della prima
generazione di immigrati islamici in Italia. Questa tua esperienza
di vita la ritroviamo anche nelle pagine del libro?
Non c'è dubbio. Anzi, è proprio una cosa che rivendico.
Il libro è frutto della mia esperienza, della ricerca,
dello studio. È proprio grazie alle esperienze che ho
fatto qui a Roma che ho scritto questo libro. La mia scrittura
è sempre frutto di una ricerca e questo mi permette anche
di dare chiavi di lettura. L'Italia sta diventando un paese
di immigrazione e questo è un cambiamento epocale che
avviene nel giro di pochi anni e quindi servono strumenti per
analizzare e capire questa realtà e anche per poter proporre
delle soluzioni perché questi cambiamenti certamente
portano cose molto positive, però ci sono anche degli
aspetti negativi, che sono tipici e che accompagnano sempre
l'immigrazione. L'immigrazione ha un risvolto molto positivo
anche in termini di sviluppo attraverso le rimesse degli immigrati.
Basti pensare ai bengalesi, pakistani e marocchini che mandano
molti soldi nei paesi d'origine, producendo ricchezza e sviluppo.
Però c'è il risvolto negativo della criminalità
e della marginalizzazione. Questi problemi vanno affrontati.
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Amara Lakhous |
Un processo aperto
Nel tuo romanzo c'è una galleria di personaggi,
sia italiani che stranieri. Ognuno espone la sua verità
su un delitto che è stato commesso e così vengono
fuori tante sfaccettature, tante versioni, però sembra
sempre che la verità, nel suo senso più profondo,
sfugga. Accanto alla questione della verità, che ha sempre
molte facce, mi è sembrato di vedere fortissimo il tema
dell'identità, che ciascuno dei personaggi sembra quasi
cercare come negazione dell'identità dell'altro. La tua
è un'indagine sulla verità, sull'identità
o sulla condizione del migrante?
La mia indagine riguarda tutti e tre questi aspetti. Il mio
è un romanzo che ha tanti piani di lettura. Certamente
il discorso della verità è molto presente, perché
io ritengo che la verità sia un mosaico. Non basta un
pezzetto per capire il tutto, quindi abbiamo bisogno di più
verità. Questo mi consente di mettere in discussione
i vari estremismi, perché gli estremismi rivendicano
il monopolio della verità mentre io sono per la pluralità
religiosa, culturale, politica: questa secondo me è la
sostanza della democrazia. Poi c'è il discorso dell'identità
che è veramente di grande attualità. Molto spesso
c'è una banalizzazione del concetto, quando l'identità
viene presentata come una ricetta gastronomica, come una cosa
chiusa e statica. Io, basandomi sulla mia esperienza personale,
di osservatore privilegiato (perché gli strumenti di
studio che ho acquisito mi rendono privilegiato), ritengo che
l'identità sia invece un processo aperto, influenzato
costantemente da nuove esperienze. Questo ci dà la possibilità
di studiare, approfondire, analizzare la realtà italiana
odierna. Io, anche se non ho la cittadinanza italiana, mi considero
italiano, o almeno in parte italiano. Per forza! Parlo, penso,
amo, leggo in italiano; mangio all'italiana e frequento italiani.
In questa mia vita attuale c'è ben poco di algerino,
tanto che quando torno in Algeria mi sento un po' ospite, un
po' straniero, mentre qui in Italia mi sento a casa. Questo
è il destino del mio essere ma questo vale anche per
gli altri immigrati. Chi viaggia acquisisce elementi nuovi e,
per forza di cose, deve rinunciare ad alcuni elementi della
sua cultura di origine. I vostri ascoltatori, gli immigrati
italiani in Australia, certamente capiscono molto bene cosa
intendo dire.
Colpiscono molto i personaggi italiani del tuo libro,
tutti così diversi fra loro, colti soprattutto nei loro
aspetti regionali, nei campanilismi esasperati. Sembra che tu
gli italiani li abbia studiati a fondo, a differenza di altri
scrittori che a volte ci identificano sulla base di stereotipi
un po' tristi e scontati, che generalmente ci infastidiscono6.
Tu come li vedi gli italiani? Pensi che esistano, oppure esistono
più che altro i romani, i milanesi, i napoletani... tutti
diversi e a volte anche ostili fra loro?
In generale io considero sempre la diversità come una
risorsa, non come una minaccia. Anche perché se ci assomigliassimo
tutti sarebbe una noia! Certo, la diversità comporta
dei rischi, come per tutte le cose della vita bisogna anche
assumersi delle responsabilità, le cose vanno gestite,
non vanno lasciate al caso. Per cui io questa diversità
italiana la considero una grande ricchezza e proprio in questo
senso vivere in Italia è una grande opportunità,
perché è un paese molto ricco sul piano culturale.
Il fatto che ogni paesino abbia le proprie tradizioni, la propria
gastronomia, la propria lingua, anche la propria arte, per me
rappresenta una ricchezza straordinaria.
Ahmed, il protagonista principale del tuo libro, un algerino
che tutti credono italiano, riflette su certi atteggiamenti
di intolleranza subiti nella storia dagli immigrati italiani,
che sono poi gli stessi atteggiamenti che oggi molto spesso
subiscono gli stranieri immigrati in Italia. Il tuo protagonista
conclude con questa considerazione un po' amara: “Gli
italiani non hanno imparato nulla dalla loro storia”.
Credi che sia una caratteristica propria degli italiani o qualcosa
di più generale? In fondo anche i personaggi non italiani
del tuo libro hanno tutti qualche pregiudizio. Ad esempio c'è
il bengalese Iqbal che odia i pakistani.
Ritengo che la questione dell'amnesia sia un problema grandissimo.
Perché se uno non fa pace con se stesso, se non elabora
la sua memoria, diventa difficile stabilire rapporti sereni
con gli altri. Purtroppo oggi in Italia c'è questa amnesia:
si tende a dimenticare che nel corso di un secolo venticinque
milioni di italiani hanno lasciato questo paese. Ma si tende
anche a dimenticare l'emigrazione dal meridione, che è
un fatto molto recente. Ci si dimentica che ancora negli anni
sessanta e settanta si potevano trovare dei luoghi con il cartello:
“Non si affitta a meridionali”. Gli stessi identici
annunci li troviamo oggi, diretti agli stranieri extracomunitari.
In Italia ci sono difficoltà enormi per elaborare questo
passato. L'Italia rispetto ad altri paesi europei avrebbe questo
grande vantaggio, perché è l'unico paese che ha
vissuto sulla propria pelle cosa significa emigrazione ma, purtroppo,
questa esperienza non è stata ancora valorizzata e uno
degli obiettivi di noi scrittori emigrati è proprio questo:
cercare di fare questo lavoro sulla memoria. Se non lo fanno
gli italiani, allora dobbiamo farlo noi.
Recentemente ho preso parte ai lavori della Commissione Affari
Costituzionali del Parlamento, che sta svolgendo un'indagine
sul tema della sicurezza. Io e altri intellettuali siamo stati
invitati, dopo mesi di lavori, per portare il nostro contributo.
Il mio intervento si è concentrato sulla concezione della
sicurezza in collegamento con la questione dell'immigrazione.
Ho fatto riferimento al tragico caso della signora Reggiani7,
uccisa da un immigrato rom qui a Roma, che ha dato luogo a una
vera e propria caccia alle streghe, con dibattiti televisivi
sulla delinquenza degli immigrati, per cui gli immigrati non
diventano ma nascono delinquenti, per cui tutti i rom sono delinquenti.
In quell'occasione ho recuperato un fatto di cronaca che risale
al 1896, un fatto accaduto in Tunisia, durante la colonizzazione
francese. In quel caso una giovane francese venne uccisa da
un pescatore siciliano e all'indomani dell'omicidio si scatenò
una campagna contro tutti gli italiani. Ecco che ci troviamo
di fronte allo stesso meccanismo: un uomo commette un reato
e invece di essere punito lui solo viene condannata tutta la
comunità cui appartiene. Si tratta di un fatto estremamente
negativo e grave, perché la civiltà ci insegna
che la responsabilità è sempre individuale e non
può mai essere collettiva.
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La copertina dell'edizione italiana del libro di Amara Lakhous |
Dal particolare all'universale
I tuoi personaggi, spesso trascinati dagli eventi, un
po' inconsapevoli e un po' incolpevoli, ricordano da vicino
i personaggi delle canzoni di De André, specie quelli
della Città vecchia, che: “Se
non sono gigli, son pur sempre figli, vittime di questo mondo”.
Difatti tu De André lo hai citato più volte nel
tuo libro. Come mai a uno scrittore algerino viene in mente,
nel suo primo romanzo noir in italiano, di citare proprio il
cantautore genovese?
Definire Fabrizio De André come un cantante lo trovo
riduttivo. Per me è un grande poeta che ha cantato la
libertà e mi trovo molto d'accordo con lui rispetto alle
tematiche su cui insiste, sul suo cantare gli emarginati, i
ribelli. Poi c'è tutto il lavoro che ha fatto sugli idiomi
locali, che mi interessa molto perché la lingua è
un contenitore importantissimo di creatività. In fondo
è la stessa cosa che ho cercato di fare io nel mio romanzo,
lavorando su tre idiomi, napoletano, romanesco e milanese.
Per questa trasmissione mi è capitato di intervistare
un albanese che ha avuto guai con la giustizia italiana e che
ne è uscito anche grazie alle canzoni di De André8.
Lui ci raccontava che De André può benissimo essere
ascoltato da un albanese perché i suoi temi e i suoi
personaggi sono universali. Condividi questo punto di vista?
La poetica di De André può essere apprezzata anche
nel Maghreb?
Non ho dubbi in merito perché la grande arte consiste
proprio in questo: nasce in un ambito locale ma diventa universale.
Come nel caso di Fabrizio De André. Le sue canzoni affrontano
temi che hanno a che vedere con l'umanità, hanno il carattere
dell'universalità. Per cui non mi stupisce questo miracolo
di De André con il ragazzo albanese.
Ma anche se affronta tematiche universali non potrebbe
essere che lo faccia da un punto di vista troppo locale? Non
potrebbe essere “troppo italiano”, oppure “troppo
occidentale”, per essere apprezzato pienamente da culture
molto diverse?
No, Fabrizio De André era un grande artista e i grandi
artisti superano i confini della propria cultura. L'etichetta
nazionale diventa riduttiva. Noi diciamo che era italiano solo
per semplificare. Però in realtà appartiene al
mondo. Oppure potremmo dire che appartiene a tutti quelli che
lo ascoltano e che lo amano, a prescindere dalla cultura. Questa
in fondo è l'arte, detto in termini semplici.
Si usa dire che De André ha restituito dignità
alle prostitute, ai drogati e così via. Secondo Stefano
Benni le canzoni di De André sono un antidoto contro
ogni genere di intolleranza. Tu pensi di poter condividere questo
pensiero?
Certamente. Oggi purtroppo una parte dell'immigrazione in Italia
è legata alla prostituzione. Se cammini a Roma la sera
lungo la via Salaria o lungo la via Cristoforo Colombo, vedi
ragazze giovanissime, spesso minorenni, svestite, al freddo,
costrette a prostituirsi. De André aveva già da
molto tempo annunciato la sua solidarietà. Come anche
io sono solidale con queste ragazze che sono costrette a subire
la prostituzione e sono solidale con tutti coloro che subiscono
un'ingiustizia.
De André era molto interessato alla cultura e alla
musica dell'altra sponda del Mediterraneo e fece alcuni viaggi
nel Maghreb per approfondire alcuni aspetti. Nel disco Crêuza
de mä, cantato in un genovese antico, sostiene
di utilizzare una lingua “figlia dell'Islam”, perché
contiene migliaia di vocaboli di origine araba. Nell'ultima
tournée, presentando i pezzi della Buona novella, parlava
del rispetto con cui l'Islam guarda a Gesù, in opposizione
al disprezzo con cui i cattolici spesso guardano al profeta
dell'Islam. Tu come vedi questi atteggiamenti, in questi tempi
in cui si parla sempre di contrapposizione netta fra Occidente
e Islam?
Quello di De André è un punto di vista, una lettura
della realtà estremamente originale che si pone anche
decisamente controcorrente. Per me quindi De André, quando
dice queste cose e quando canta certe cose, diviene come un
ponte fra le culture, un ponte che noi dobbiamo assolutamente
rivendicare. Sarebbe bello farlo conoscere anche nel mondo arabo.
Perché noi sappiamo che molto spesso oggi si parla di
scontro di civiltà, di incompatibilità fra le
due sponde del Mediterraneo, tra due mondi opposti, tra Islam
e Occidente. De André invece è un testimone straordinario
che ci ricorda che i punti in comune ci sono, c'è una
storia comune. Certo, c'è la diversità, ma la
diversità è una ricchezza e la ricerca di De André
sul piano musicale e artistico lo dimostra ed è una grande
lezione.
Insomma sarebbe potuto diventare una specie di ambasciatore
del dialogo fra Islam e Italia?
Lo è. Lo dobbiamo solo promuovere. Invece di concentrarci
sulle divergenze, sui problemi, dovremmo concentrarci su quello
che ci accomuna. De André è un esempio e sarebbe
bello farlo conoscere nel mondo arabo, organizzare degli incontri,
tradurre i suoi testi. Questo sarebbe molto importante.
Ecco, supponiamo che tu ti trovassi un giorno a tradurre
De André in arabo per un cantante algerino: quali canzoni
si adatterebbero meglio? Pensi che servirebbe una traduzione
letterale oppure ci sarebbe bisogno di utilizzare parole diverse
per esprimere gli stessi concetti nella tua cultura?
Certamente non sarebbe facile tradurre quelle canzoni, anche
perché sono testi complessi, che hanno alla base tutta
una serie di esperienze, di ricerche. Comunque io punterei molto
sulle canzoni che affrontano tematiche universali. Quelle canzoni
che affrontano temi che, quando le ascolti, non puoi fare a
meno di dire: “Mi riguardano”. La vita, la morte,
il dolore... ma anche le canzoni in cui si parla di prostitute,
perché anche la prostituzione è un tema universale.
Libera circolazione
In appunti personali che sono stati pubblicati postumi,
De André ha scritto: “l'aspetto più inumano
della nostra società è che gli uomini valgono
meno delle monete. Il mercato del denaro è libero, gli
uomini invece no: prima di presentarsi ai punti di imbarco devono
attraversare oceani di carte bollate. Ma chi produce questa
ricchezza? Gli uomini! Che però si dividono in due categorie:
quelli che approfittano del denaro e quelli che devono restare
fermi e controllati”. Mi sembra che in questa considerazione
si esprima molta vicinanza ai problemi degli immigrati, di cui
si parlava prima. Ancora oggi molti lavoratori stranieri sono
costretti a restare irregolari perché non hanno potuto
fare le carte bollate di cui parla De André. Che ne pensi?
È una bellissima constatazione e poi io ci sono passato...
Sono molto d'accordo con lui e mi rammarico del fatto che queste
cose che ha detto De André purtroppo non trovano spazio
nei media e che quindi si tenda a dimenticarle. In realtà
questa frase è una fotografia esatta della realtà
odierna in cui gli uomini sono trattati esattamente così
e il denaro purtroppo, molto spesso, vale assai più di
un uomo.
Nel tuo libro il protagonista, Ahmed, cita un verso di
De André tratto dal Cantico dei drogati:
“Come potrò dire a mia madre che ho paura”.
Perché hai scelto proprio questo verso? Ti serviva in
quella particolare costruzione narrativa oppure è perché
è un verso che ti è caro?
Sono vere entrambe le cose. Perché in questo verso c'è
il rapporto con la madre e c'è la paura. E molto spesso
la madre è un rifugio dalle nostre paure. È un
verso stupendo, veramente stupendo.
Ma in definitiva qual è la canzone che preferisci
di De André?
C'è solo l'imbarazzo della scelta. Se proprio devo dare
una indicazione di preferenza direi La guerra di Piero.
Proviamo a fare un po' di fantagiornalismo. Lo scrittore
Lakhous vince un premio letterario e alla premiazione si trova
seduto proprio a fianco di De André che è venuto
ad assistere. Lui ovviamente si è letto il tuo libro
e ti fa i complimenti. Tu che cosa gli rispondi?
L'unica parola che gli direi è: grazie. E poi mi piacerebbe
ascoltarlo.
Ahmed detto Amedeo, ovvero l'algerino che tutti scambiano
per italiano, quanto ti somiglia?
Be', un poco mi somiglia, ci sono dei punti in comune. Però
non è un personaggio autobiografico. Il romanzo resta
comunque un incontro tra realtà e finzione e c'è
molta immaginazione.
C'è invece un personaggio di De André nel
quale ti potresti in qualche modo riconoscere?
Prima accennavo alla Guerra di Piero. Il rapporto con
un personaggio può essere di identificazione, di immedesimazione;
ma può essere anche un rapporto di rifiuto, nel senso
che certi personaggi è meglio evitarli. Io condivido
lo spirito pacifista di quella canzone.
Il tuo libro ha qualcosa a che vedere con l'Orchestra
di piazza Vittorio9?
Non esattamente, ma conosco bene l'orchestra, sono persone che
stimo molto. Diciamo che l'Orchestra di piazza Vittorio ha qualcosa
in comune con il mio romanzo nel senso che sia il romanzo che
l'orchestra sono espressioni di un'Italia nuova, che cambia;
un'Italia positiva. Il romanzo è ambientato a piazza
Vittorio, cuore di un quartiere di Roma, a cinque minuti dalla
stazione Termini. È un quartiere che rappresenta il futuro
nel senso che in quel quartiere ci troviamo di fronte ai due
grandi possibili scenari del futuro dell'Italia. Il primo scenario
è quello rappresentato dall'Orchestra di piazza Vittorio,
dove musicisti italiani e stranieri si mettono assieme e valorizzano
la diversità attraverso la musica, l'arte, la cultura.
Il secondo scenario rappresenta l'Italia dei ghetti, l'Italia
fatta di immigrati che a distanza di cinque o sei anni dal loro
arrivo ancora non parlano l'italiano; dove ci sono i negozi
cinesi con le scritte solo in cinese, che vendono prodotti cinesi
solo ai cinesi. Questa è piazza Vittorio. È una
piazza che rappresenta entrambi gli scenari. Sono due strade
e noi dobbiamo sceglierne una. Io credo che si debba scegliere
la strada aperta dall'Orchestra di piazza Vittorio.
Renzo Sabatini
Note
- La lista dei libri pubblicati da Lakhous si è allungata.
Si consiglia una visita al sito www.amaralakhous.com oppure,
meglio, in libreria.
- Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio.
Edizioni e/o, 2006.
- Antropologo, insegna sociologia urbana e metodi di osservazione
etnografica all'università di Roma La Sapienza. Sin dagli
anni '70 ha svolto ricerche sul campo in ambito urbano, sulle
migrazioni, sulle controculture, sugli insediamenti di autocostruzione
e altre forme di ghetti abitati da migranti, rom e sinti.
- Nel 2010 è uscito un film anche in Italia, con la regia
di Isotta Toso.
- Il progetto di far arrivare Lakhous in Australia come esponente
della nuova letteratura italiana “migrante” è
nato subito dopo questa intervista. Lo scrittore è stato
in seguito invitato in questa veste all'importante festival
degli scrittori di Sydney (Sydney Writers Festival) nel 2011.
Nel 2012 ha partecipato a una serie di conferenze organizzate
dagli istituti italiani di cultura in Australia.
- Nel mondo anglosassone è diffusa una letteratura da
viaggio di questo genere. Pensavo qui al libro The World
From Italy (Harper Collins, 2001) di George Negus, giornalista
e presentatore televisivo australiano molto famoso e apprezzato.
Lui, come giornalista, è decisamente in gamba, ma il
libro, frutto di un anno sabbatico trascorso in Toscana, è
un superficiale e irritante elenco di stereotipi.
- L'episodio è del novembre 2007.
- Vedi “A”
n. 377, febbraio 2013.
- L'orchestra è nata nel 2002 da un progetto sostenuto
da artisti, intellettuali e operatori culturali che hanno
voluto valorizzare il carattere multietnico assunto negli
anni dal rione Esquilino nel cuore di Roma, in contrasto con
chi voleva creare allarme sociale attorno al fenomeno migratorio
che stava cambiando il volto del quartiere. L'orchestra, oggi
composta da 18 musicisti di 10 paesi diversi, tutti residenti
all'Esquilino, è molto conosciuta e apprezzata anche
all'estero. Per maggiori informazioni si può consultare
il sito: www.orchestrapiazzavittorio.it.
(intervista realizzata via telefono nel febbraio 2008. Registrata
presso gli studi di Rete Italia – Melbourne. Andata in
onda nell'ambito della trasmissione radiofonica settimanale:
“In direzione ostinata e contraria”, dedicata ai
personaggi delle canzoni di Fabrizio De André).
In
direzione ostinata e contraria
Con
questa intervista, prosegue la pubblicazione su “A”
di una parte significativa delle 27 interviste radiofoniche
realizzate da Renzo Sabatini e andate
in onda in Australia nel programma “In direzione
ostinata e contraria” sulle frequenze di Rete Italia
fra il maggio 2007 e l’agosto 2008. In tutto si
è trattato di sessanta puntate (ciascuna della
durata di circa quaranta minuti, per un totale di quasi
40 ore di trasmissioni), nel corso delle quali sono state
trasmesse le 27 interviste e messe in onda tutte le canzoni
di Fabrizio De André. Si tratta dunque della più
lunga e dettagliata serie radiofonica mai dedicata al
cantautore genovese.
Se proponiamo questi testi,
è innanzitutto per dare ancora una vlta spazio
e voce a quelle tematiche e a quelle persone che di spazio
e voce ne hanno poco o niente nella “cultura”
ufficiale. E che invece anche grazie all’opera del
cantautore genovese sono state sottratte dal dimenticatoio
e poste alla base di una riflessione critica sul mondo
e sulla società, con quello sguardo profondo e
illuminante che Fabrizio ha voluto e saputo avere. Con
una profonda sensibilità libertaria e – scusate
la rima – sempre in direzione ostinata e contraria.
Precedenti interviste
pubblicate: a Piero
Milesi (“A” 370, aprile 2012), a Carla
Corso (“A” 371, maggio 2012), Porpora
Marcasciano (“A” 372, maggio 2012), Franco
Grillini (“A” 373, estate 2012), Massimo
(“A” 374, ottobre 2012), Santino
“Alexian” Spinelli (“A” 375,
novembre 2012)); Paolo
Solari (“A” 376, dicembre-gennaio 2012-2013);
Gianni Mungiello,
Armando Xifai, Alfredo Franchini (“A”
377, febbraio 2013); Giulio
Marcon e Gianni Novelli (“A” 378, marzo
2013); Sandro
Fresi e Paola Giua (“A” 379, aprile 2013);
Luca Nulchis
(“A” 380, maggio 2013); don
Andrea Gallo (“A“ 381, giugno 2013; Paolo
Finzi (“A” 382, estate 2013); Gabriella
Gagliardo (“A” 383, ottobre 2013).
la redazione di “A” |
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