pensiero
Anarchia e surrealismo
di Arturo Schwarz
Su questo tema si è tenuta lo scorso giugno a Reggio Emilia un'affollata serata, promossa dalla Federazione anarchica locale (aderente alla FAI). Ecco il testo della relazione presentata da Arturo Schwarz, anarchico, storico dell'arte, saggista e poeta.
Iniziamo con un'osservazione
di carattere semantico a proposito della parola anarchia
composta da due lemmi an-arcos. An: privativo;
arché: comando, potere. Il che implica, in primo
luogo, il rifiuto del principio d'autorità, della delega
del potere, delle condizioni associate al potere e a chi lo
esercita: violenza e oppressione, arbitrio e distruzione –
anche di questo nostro pianeta – come le recenti catastrofi
ecologiche ben dimostrano. Anarchia non è quindi sinonimo
di disordine e confusione – come molti dizionari invitano
a credere – ma al contrario, questa filosofia della vita
implica un ordine superiore fondato sulla conoscenza, l'aiuto
reciproco e l'armonia.
È opportuno sottolineare – e l'ho fatto in un articolo
recente per un numero speciale di A – che sia il poeta
sia l'artista sono un modo d'essere dell'anarchico perché
creare significa dare origine a qualcosa che non è esistito
prima. Ogni creatore parte dalla tabula rasa, rifiuta
il principio di autorità così come ogni modello
anteriore. Ne consegue dunque che, coscientemente o meno, chiunque
è impegnato in una attività creativa è
un anarchico. Infatti, “poeta”, “artista”
e “anarchico” sono, per me, termini intercambiabili,
sinonimi perfetti. L'anarchia è la forma di esistenza
del creatore, proprio come il movimento lo è della materia.
Allo stesso modo in cui la materia è la dimensione del
movimento, il creatore è la dimensione estetica dell'anarchico.
Alla domanda su cosa resta del surrealismo oggi, risponderei:
tutto. Non ho in mente l'arte o la poesia, il cinema o il teatro,
la fotografia o la scrittura; penso ad una filosofia di vita,
a uno stato d'animo, a una morale, a una purezza, a un bisogno
di libertà, alla necessità di riconoscere alla
donna il suo giusto posto, il primo. Come dalla nozione di lotta
di classe o di inconscio, dal surrealismo non si può
tornare indietro. Col surrealismo, qualcosa è successo
per sempre. La rivolta, per la sua stessa natura, rifiuta ogni
filiazione; non ci si bagna due volte nello stesso fiume. Breton
è il primo a ricordarlo: “A venti o venticinque
anni la volontà di lotta si definisce in relazione a
ciò che si trova attorno a sé di più offensivo,
di più intollerabile”1.
Egli preciserà, “l'attività d'interpretazione
del mondo deve continuare ad essere legata all'attività
di trasformazione del mondo. Sta al poeta, all'artista, approfondire
il problema umano in tutte le sue forme, il procedere illimitato
del suo spirito in questo senso ha un valore potenziale di mutamento
del mondo [...] 'Trasformare il mondo', ha detto Marx, 'cambiare
la vita', ha detto Rimbaud: per noi, queste due parole d'ordine
fanno tutt'uno”2.
Un luogo comune solidamente radicato nella sinistra –
rivoluzionaria e non – vuole che l'azione politica di
Breton e dei suoi amici fosse dilettantesca e superficiale.
Per confutare questo pregiudizio e documentare fino a che punto
l'attività del movimento fu ragionata e aderente alle
necessità di una prassi autenticamente rivoluzionaria
basta seguire la cronaca degli eventi. Si vede allora come il
surrealismo, sin dall'inizio del movimento nel 1924, sia stato
autorevolmente presente in tutti i momenti chiave – piccoli
o grandi che fossero – della storia contemporanea con
prese di posizione, sia politiche sia estetiche, altamente chiarificatrici.
Nessun altro movimento culturale può rivendicare una
tale continuità di interventi politici, altrettanto lungimiranti
e su un periodo di tempo così lungo. Il sogno a occhi
aperti dei surrealisti non fece mai perdere loro di vista la
realtà nella quale lottavano.
Istituzioni aberranti e scandalose
Il primo proclama del gruppo, nel 1925, riprende una classica
rivendicazione del pensiero anarchico: “Aprite le prigioni.
Sciogliete l'esercito. Non esistono reati di diritto comune”.
Vi si legge tra l'altro: “Le costrizioni sociali hanno
fatto il loro tempo. Niente, né la constatazione di un
fatto compiuto né il contributo alla difesa nazionale
potrebbero costringere l'uomo a fare a meno della libertà.
L'idea di prigione, l'idea di caserma hanno oggi pieno corso;
queste mostruosità non vi sorprendono più... Non
abbiamo paura di confessare che noi attendiamo, che noi auspichiamo
la catastrofe. La catastrofe consisterebbe nel persistere di
un mondo in cui l'uomo ha dei diritti sull'uomo. L'unione sacra
dinanzi ai coltelli o alle mitragliatrici: come fare appello
più a lungo a questo argomento squalificato? Restituite
ai campi i soldati e i galeotti. La vostra libertà? Non
c'è libertà per i nemici della libertà.
Non saremo complici dei carcerieri”3.
Questa prima presa di coscienza è di carattere ancora
generico. Più tardi, Breton preciserà ancora meglio:
“il rifiuto surrealista è totale. [...]. Tutte
le istituzioni sulle quali si fonda il mondo moderno e che hanno
avuto la loro risultante nella prima guerra mondiale sono considerate
da noi aberranti e scandalose. Per cominciare, ci scagliamo
contro tutto l'apparato di difesa della società: esercito,
'giustizia', polizia, religione, medicina mentale e legale,
scuola [...] Ma per combattere con qualche speranza di successo
è necessario attaccarne la struttura portante, la quale,
in ultima analisi, è di ordine logico e morale: la pretesa
'ragione' di uso corrente, la quale ricopre – con un'etichetta
fraudolenta – il 'buon senso' più logoro, la 'morale'
falsificata dal cristianesimo allo scopo di scoraggiare ogni
resistenza contro lo sfruttamento dell'uomo.”4
In un volantino del 21 settembre 1925, intitolato “La
rivoluzione innanzitutto e sempre” i surrealisti già
affermano “Ben consci della natura delle forze che attualmente
turbano il mondo [...] vogliamo proclamare il nostro assoluto
distacco e in qualche modo la nostra purificazione dalle idee
che sono alla base della civiltà europea [...] Dovunque
regni la civiltà occidentale, tutti i vincoli umani sono
venuti meno, tranne quelli che hanno una ragion d'essere nell'interesse,
nel 'duro pagamento in contanti'. Da più di un
secolo, la dignità umana è ridotta al rango di
un valore di scambio. È già ingiusto che chi non
possiede sia asservito da chi possiede, ma quando questa oppressione
supera il quadro di un semplice salario da pagare e assume come
esempio la forma di schiavitù che l'alta finanza internazionale
fa pesare sui popoli, è una iniquità che nessun
massacro riuscirà a espiare. Non accettiamo le leggi
dell'Economia e dello Scambio, non accettiamo la schiavitù
del Lavoro e, su un piano ancora più ampio, ci dichiariamo
in stato di insurrezione contro la Storia [...] Noi siamo
la rivolta dello spirito; consideriamo la Rivoluzione sanguinosa
come la vendetta ineluttabile dello spirito umiliato dalle vostre
opere. Non siamo degli utopisti: questa Rivoluzione non la concepiamo
che in forma sociale”.
Molto spesso, negli ambienti della sinistra, si esige dagli
artisti di essere “i pifferi della rivoluzione”,
come già condannava Elio Vittorini. In proposito la posizione
dei surrealisti è molto decisa. Nel “Secondo manifesto”
Breton afferma: “Non credo alla possibilità di
esistenza attuale di una letteratura o un'arte che esprimano
le aspirazioni della classe operaia. Se rifiuto di crederci,
è perché in periodo pre-rivoluzionario lo scrittore
o l'artista, di formazione necessariamente borghese, è
per definizione inetto a tradurle”5.
Infatti, come si potrebbero difendere una letteratura e un'arte
cosiddette proletarie “in un'epoca in cui nessuno potrebbe
vantarsi di appartenere alla cultura proletaria per l'ottima
ragione che quella cultura non ha ancora potuto essere realizzata,
nemmeno in regime proletario”6.
Il prologo di un regresso
A partire dalla primavera del 1931 si susseguono quattro documenti,
i primi due con titoli che si commentano da soli: Non visitate
l'esposizione coloniale (maggio) e Primo bilancio dell'esposizione
coloniale (3 luglio). Al fuoco inneggia invece alla
ripresa delle lotte in Spagna: “A partire dal 10 maggio
1931, a Madrid, Cordova, Siviglia, Bilbao, Alicante, Malaga,
Granada, Valenza, Algeciras, San Roque, La Linea, Cadice, Arcos
de la Frontera, Huelva, Badajoz, Jerez, Almeria, Murcia, Gijon,
Teruel, Santander, La Coruña, Santa Fé, ecc.,
la folla ha incendiato le chiese, i conventi, le università
religiose, distrutto le statue, i quadri che questi edifici
contenevano, devastato gli uffici dei giornali cattolici, cacciato
tra le urla i preti, i monaci, le suore, che passano in fretta
le frontiere. Cinquecento edifici distrutti per cominciare non
chiuderanno questo bilancio di fuoco. Opponendo a tutti i roghi
una volta innalzati dal clero di Spagna la grande luce materialista
delle chiese bruciate, le masse sapranno trovare nei tesori
di queste chiese l'oro necessario per armarsi, lottare, e trasformare
la Rivoluzione borghese in Rivoluzione proletaria”.
Nel febbraio 1933 i nazisti danno fuoco al Reichstag accusando
del rogo i comunisti e dando così un pretesto a Hindenburg
per abrogare i diritti fondamentali sanciti dalla costituzione
di Weimar. Il decreto che mette fine alla repubblica prepara
il terreno per la vittoria (truccata) dei nazisti, che in marzo
ottengono il 44 per cento dei seggi in parlamento. Per consolidarne
il dominio Hindenburg firma un nuovo decreto che autorizza Hitler
a legiferare per quattro anni senza il controllo del Reichstag.
L'Associazione degli artisti e scrittori rivoluzionari (Aear)
e i surrealisti sono gli unici gruppi di intellettuali che in
Francia cercano di allertare l'opinione pubblica. Nell'appello
Protestate! essi avvertono che il risultato elettorale
in Germania è il prologo di un regresso della civiltà,
della messa fuori legge di ogni pensiero che non sia retrogrado,
del ritorno al più cupo e feroce antisemitismo da medioevo.
L'appello auspica un fronte unico di lavoratori e intellettuali
per lottare contro il terrore in Germania e contro il Trattato
di Versailles, le cui clausole inique hanno favorito, se non
provocato, l'ascesa del nazismo.
L'anno seguente, le giornate dal 6 al 10 febbraio 1934 segnano
l'offensiva del fascismo francese. La reazione di Breton e dei
suoi amici è immediata: “È la sera stessa
del 6 febbraio 1934, cioè tre o quattro ore dopo il putsch
fascista di cui alcuni di noi erano stati a osservare il concreto
sviluppo, chi sui grandi boulevards, chi nelle vicinanze
della Place de la Madeleine, che, dietro mio suggerimento, si
stabilì di invitare a riunirsi subito il maggior numero
possibile di intellettuali dl tutte le tendenze decisi a far
fronte alla situazione. Si trattava di fissare immediatamente
le misure di resistenza che potevano essere prospettate. Questa
riunione – che doveva durare tutta la notte – si
concluse con la redazione, [il 10 febbraio 1934] di un documento
intitolato 'Appello alla lotta' che scongiurava le organizzazioni
sindacali e politiche della classe operaia di realizzare l'unità
d'azione e si pronunciava per lo sciopero generale”7.
Critiche all'Unione Sovietica
Dal primo al secondo dopoguerra i surrealisti sono stati quasi
isolati nel denunciare la degenerazione dello stato sovietico.
Mi basti citare una sola dichiarazione redatta nel 1935. “Limitiamoci
a registrare il processo di rapido regresso per cui dopo la
patria è la famiglia a uscire indenne dalla rivoluzione
russa agonizzante (che ne pensa Gide?). Laggiù non resta
altro che restaurare la religione e – perché no?
– la proprietà privata perché sia finita
con le più belle conquiste del socialismo. A costo di
provocare il furore dei loro turiferari, chiediamo se vi sia
bisogno di un altro bilancio per giudicare dalle loro opere
un regime, in particolare il regime attuale della Russia
sovietica e l'onnipossente capo sotto il quale quel regime sta
volgendo alla negazione radicale di ciò che dovrebbe
essere e di ciò che è stato. A quel regime, a
quel capo, non possiamo che significare formalmente la nostra
sfiducia”8.
In questo convegno dominato dagli stalinisti – nel quale
si tentò perfino di impedire ai surrealisti di leggere
la loro relazione – le sole voci di dissenso furono quelle
di Waldo Frank, André Malraux, Boris Pasternak, Magdeleine
Paz, Charles Plisnier e Gaetano Salvemini.
Nel manifesto Al tempo che i surrealisti avevano ragione
(1935), Breton e i suoi amici tornando sulla questione della
difesa della cultura, affermano: “Il problema non può
essere quello della difesa e della conservazione della cultura.
La cultura, dicevamo, ci interessa solo nel suo divenire,
e questo divenire esige prima di tutto la trasformazione della
società mediante la rivoluzione proletaria”9.
Nel 1936 la congiuntura internazionale diventa esplosiva. Il
18 luglio in Spagna il generale fellone Franco si ammutina e
aggredisce la Repubblica: è il prologo della resa delle
“democrazie” occidentali alla peste bruna. In Francia
la vittoria del Fronte popolare in giugno non frena la corsa
all'abisso. Lo stesso anno la Renania è rioccupata. Quando
l'eroica resistenza spagnola viene tradita dal governo francese
del Fronte popolare, sono ancora i surrealisti ad avvertire
che l'abbandono della Spagna repubblicana non può essere
che il preludio alla realizzazione del piano di egemonia mondiale
dei nazifascisti. Essi reclamano una decisa azione prima che
sia troppo tardi: “Fronte popolare! Organizza d'urgenza
le masse! Costituisci, esercita, arma le milizie proletarie
senza le quali non sei che una facciata! È venuto il
momento di mettere a profitto il vecchio argomento dei tuoi
avversari: l'affermazione concreta della forza è la prima
garanzia di sicurezza!” (Neutralité? Non-sens,
crime et trahison, 20 agosto 1936).
Il 3 settembre 1936 e il 26 gennaio 1937 André Breton
prenderà posizione sui primi e sui secondi processi di
Mosca. Ne rimase così sconvolto che quindici anni dopo
la sua indignazione rimaneva intatta: “Non riesco a spiegarmi
come oggi, anche con quel minimo di coscienza che può
sussistere, non ci si ribelli dinanzi alla sfida impudente non
dico a ogni sentimento di giustizia, ma addirittura al più
elementare buon senso, costituita dalla messa in scena di quei
processi e dalle motivazioni delle sentenze”10.
Poco più di un anno dopo Breton parte per il Messico
per incontrare l'uomo il cui pensiero politico e il cui rigore
morale egli ha ammirato e difeso sin dal 1925, e cioè
sin dall'inizio del periodo “ragionante” del surrealismo.
Gli incontri con Trotsky permisero presto di “giungere
a un accordo circa le condizioni che, da un punto di vista rivoluzionario,
dovevano essere riservate all'arte e alla poesia, affinché
queste partecipassero alla lotta emancipatrice, pur rimanendo
interamente libere nelle loro ricerche”11.
Questa intesa si espresse in un testo, pubblicato il 25 luglio
1938, con il titolo Per un'arte rivoluzionaria indipendente
e si concluse, l'anno seguente, con la fondazione di una
'Federazione internazionale dell'arte rivoluzionaria indipendente'
(Fiari)“.
È sintomatico che l'ultima presa di posizione dei surrealisti,
poco prima dello scoppio della guerra, nel luglio del '39, sia
una protesta contro l'arresto di tre militanti rivoluzionari,
nel quale i surrealisti vedono l'annuncio della soppressione
di tutte le libertà. ”Stiamo bene attenti! L'incarcerazione
di questi tre nostri compagni è solo un piccolo saggio.
Se riesce, è la fine anche delle poche libertà
che ancora ci restano [...] Invitiamo tutti coloro che non sono
stati ancora colpiti da questo ignobile contagio sciovinistico,
tutti coloro che osano pensare liberamente, a unirsi a noi per
protestare contro gli scellerati decreti-legge che autorizzano
lo stato maggiore a far pesare fin da ora la sua dittatura facendo
passare per un 'attentato alla difesa nazionale', anzi
per una operazione spionistica, l'azione di uomini coraggiosi,
dell'onestà e della lucidità dei quali rispondiamo
noi. C'è di mezzo non la loro libertà, ma la
libertà di tutti“ (A bas les lettres de cachet
(luglio 1939).
L'ignobile parola “impegno”
Nel 1941 Breton, rifugiato a Marsiglia in zona non occupata,
parte per New York, per poi tornare a Parigi nella primavera
del 1946. Il suo primo intervento pubblico – un discorso,
il 7 giugno, in difesa di Antonin Artaud al Teatro Sarah Bernhardt
– gli dà l'occasione di chiarire il carattere irrisorio
di “ogni forma di engagement che stia al di qua
di questo triplice e indivisibile obiettivo: trasformare il
mondo, cambiare la vita, rifare da cima a fondo l'intelletto”12.
L'anno seguente tira altre stoccate contro l'engagement di
molti intellettuali, per la maggior parte stalinisti, spesso
gli stessi che durante l'occupazione nazista, e prima che il
conflitto coinvolgesse l'Urss, incitavano a fraternizzare con
il soldato tedesco e a collaborare con il regime di Pétain:
“L'ignobile parola impegno [engagement], che è
diventata alla moda durante la guerra, trasuda un servilismo
che fa orrore alla poesia e all'arte”13.
Lo stesso anno ricorda il concetto base del surrealismo: per
trasformare il mondo bisogna prima conoscerlo. E come possono
trasformarlo coloro che tradiscono la verità e la bellezza?
Breton scrive: “Che aberrazione, che impudenza c'è
nel volere 'trasformare' un mondo quando si fa così poco
caso della necessità di interpretarlo in ciò che
ha di più permanente!”14.
La prima dichiarazione collettiva del gruppo va situata nel
clima politico dell'immediato dopoguerra, quando, conniventi
i comunisti al governo, si abiuravano gli ideali della Resistenza.
Le forze del colonialismo francese avevano represso con furore
selvaggio le istanze nazionaliste in Algeria (45.000 massacrati
in seguito alla repressione di una manifestazione dei braccianti
del Setif), e in Madagascar (85.000 morti tra il 1947 e il '48).
Ora si trattava di condannare il tentativo di ridurre nuovamente
a colonia la Repubblica Democratica del Vietnam, la cui indipendenza
era stata proclamata da Ho Chi Minh il 29 agosto 1945. Con vigore
e lucidità il gruppo riconferma le proprie opzioni rivoluzionarie
e internazionaliste, concludendo il loro manifesto di condanna
con queste parole, “il surrealismo dichiara di non aver
rinunciato a nessuna delle sue rivendicazioni e meno che mai
alla volontà di una trasformazione radicale della società.
Ma esso sa quanto siano illusori gli appelli alla coscienza,
all'intelligenza e persino agli interessi degli uomini, quanto
siano facili su questo piano la menzogna e l'errore e quanto
le divisioni siano inevitabili: per questo il campo che si è
prescelto è al tempo stesso il più ampio e il
più profondo, commisurato a una vera fraternità
umana. Esso è dunque qualificato per elevare la sua protesta
veemente contro l'aggressione imperialista e per rivolgere il
suo saluto fraterno a coloro che in questo stesso momento incarnano
il divenire della libertà”15.
Questa dichiarazione e le due seguenti (“Rottura inaugurale”
e “A cuccia, i piagnoni di dio!”) esplicitano –
e il discorso è diretto in particolare alle nuove leve
– le direttive fondamentali che hanno caratterizzato la
riflessione poetica e ideologica nel periodo tra le due guerre,
e cioè: internazionalismo, antistalinismo e anticlericalismo.
“Rottura inaugurale” (giugno 1947) ribadisce l'autonomia
del pensiero surrealista dai partiti, in primo luogo da quello
comunista, e persino dal trotskista, e conclude: “È
nella misura in cui chiede alla rivoluzione di inglobare la
totalità dell'uomo, di non concepirne la liberazione
da un angolo visuale particolare bensì sotto tutti gli
aspetti contemporaneamente che il surrealismo si dichiara il
solo qualificato a gettare sulla bilancia le forze di cui si
è fatto l'indagatore e poi il conduttore meravigliosamente
magnetico – dalla donna-bambina allo humour nero,
dal caso oggettivo alla volontà del mito. Queste forze
hanno come luogo di elezione l'amore incondizionato, sconvolgente
e folle che solo permette all'uomo di vivere in tutta la sua
ampiezza, di evolvere secondo dimensioni psicologiche nuove.
”Questa impresa è l'impresa specifica del surrealismo.
È il suo grande appuntamento con la Storia. Il sogno
e la rivoluzione sono fatti per conciliarsi, non per escludersi.
Sognare la Rivoluzione non significa rinunciarvi, ma farla doppiamente
e senza riserve mentali. Sventare l'invivibile non significa
fuggire la vita, ma precipitarvisi totalmente e senza ritorno.
“Il surrealismo è quello che sarà”16.
Bandiere rosse e nere
In Arcane 1717, uno
scritto redatto durante gli anni dell'ultimo conflitto mondiale,
Breton per la prima volta esprime dubbi sulla via proposta dai
marxisti-leninisti per giungere alla liberazione dell'uomo.
Egli è scosso dalla sterile esperienza di quindici anni
di lotta accanto alla sinistra, sia pure non stalinista, ma
comunque marxista. Questi anni gli hanno fatto constatare quanto
i militanti, non solo di questa sinistra, siano sordi alle rivendicazioni
che non siano sociali. L'unico uomo politico – Trotsky
– che aveva capito il carattere insopprimibile delle rivendicazioni
dell'uomo come individuo, e non come un'entità astratta
indissolubilmente legata alla massa, era stato assassinato quattro
anni prima.
Breton torna allora al suo primo amore, torna alla grande corrente
del pensiero libertario, alle fonti, al socialismo utopico di
Fourier18. Rievoca l'emozione
che provò, a diciassette anni, all'apparire delle bandiere
nere in una dimostrazione popolare: “Ritroverò
sempre per la bandiera rossa, spoglia di sigle e di emblemi,
lo sguardo che ho avuto a diciassette anni, quando, nel corso
di una manifestazione popolare, alla vigilia dell'altra guerra,
l'ho vista dispiegarsi a migliaia nel cielo basso di Pré
Saint-Gervais. E tuttavia – sento che, razionalmente non
posso evitarlo – continuerò a fremere ancora di
più evocando il momento in cui, quel mare fiammeggiante
in punti poco numerosi e ben circoscritti, è stato forato
dal volo delle bandiere nere”19.
Poi il suo ricordo va ancora più lontano, alla sua infanzia:
“Non dimenticherò mai il sollievo, l'esaltazione
e l'intima soddisfazione suscitata in me, una delle prime volte
in cui da bambino fui accompagnato in un cimitero – fra
tanti monumenti funebri deprimenti o ridicoli – dalla
scoperta di una semplice lastra di granito dov'era inciso in
lettere maiuscole rosse il superbo motto: ”Né dio
né padrone“. La poesia e l'arte avranno sempre
un predilezione per tutto ciò che trasfigura l'uomo in
questa ingiunzione disperata, irriducibile che, di quando come
una sfida derisoria egli rivolge alla vita. Perché al
di sopra dell'arte e della poesia, lo si voglia o no, sventola
una bandiera rossa e nera di volta in volta”20.
“A cuccia, i piagnoni di dio!” (giugno 1948) denuncia
i vari tentativi di strumentalizzare, a profitto del cristianesimo,
il pensiero di Rimbaud, di Lautréamont e persino di Sade.
Vi si osserva che “i cristiani d'oggi dispongono di argomenti
presi in immondezzai teologici abbastanza eterocliti da far
fronte alle circostanze più diverse. In queste condizioni,
non essendovi la benché minima costanza nel linguaggio
da essi impiegato, a causa della loro fondamentale duplicità,
ogni discussione è impossibile. Del resto lo è
sempre stata. E così, anche se l'idea di dio, considerata
in quanto tale, non riuscirebbe che a strapparci degli sbadigli
di noia, poiché le circostanze in cui questa idea interviene
sono tali da suscitare la nostra collera, gli esegeti non siano
sorpresi di vederci ricorrere ancora alle 'grossolanità'
dell'anticlericalismo elementare dove il Merde à
dieu iscritto sugli edifici del culto a Charleville resta
l'esempio tipico. Il fatto che i politici tra loro rinuncino
all'anatema non basta perché noi rinunciamo a quelle
che chiamano bestemmie, apostrofi evidentemente prive ai nostri
occhi di ogni obiettivo sul piano divino, ma che continuano
a esprimere la nostra irriducibile avversione verso qualunque
essere inginocchiato”21.
Dalla fine degli anni quaranta in poi le prese di posizioni
surrealiste arrivano sempre puntuali per condannare ogni involuzione
reazionaria. Ma per concludere vorrei ricordare la collaborazione
dei surrealisti con Le Libertaire – settimanale della
Federazione anarchica in Francia – che, a partire da 22
maggio del 1947 inizia ad ospitare testi surrealisti pubblicando
la prima dichiarazione collettiva del dopoguerra, “Libertà
è una parola vietnamita”. Tra il 17 giugno e il
20 novembre 1952 uscirono altri trentuno testi tra i quali due
discorsi di Breton: quello pronunciato alla Mutualité
(21 ottobre 1949), dove, dopo aver ribadito la profonda affinità
tra surrealismo e anarchia, viene commentato il programma del
movimento “Cittadino del mondo” lanciato da Gary
Davis; e quello a Wagram (6 marzo 1952) in difesa dei sindacalisti
condannati a morte da Franco.
Con la “Dichiarazione preliminare” (12 ottobre 1951)
iniziava, sotto forma di “Billets surréalistes”,
la collaborazione regolare al già citato Le Libertaire:
“Surrealisti, noi non abbiamo mai cessato di riservare
alla trinità Stato-lavoro-religione un'esecrazione che
ci ha spesso condotti a incontrarci con i compagni della Fédération
anarchiste. Questo accostamento ci conduce oggi a esprimerci
sul Libertaire. Ce ne rallegriamo tanto più in quanto
questa collaborazione ci consentirà, pensiamo, di definire
alcune delle grandi linee di forza comuni a tutti gli spiriti
rivoluzionari [...]
Questa sovversione, il surrealismo è stato e rimane il
solo a intraprenderla sul terreno sensibile che gli è
proprio. Il suo sviluppo, la sua penetrazione negli spiriti
hanno messo in evidenza l'insuccesso di tutte le forme di espressione
tradizionali e hanno dimostrato che esse erano inadeguate alla
manifestazione di una rivolta cosciente dell'artista contro
le condizioni materiali e morali imposte all'uomo. La lotta
per la sostituzione delle strutture sociali e l'attività
profusa dal surrealismo per trasformare le strutture mentali,
lungi dall'escludersi, sono complementari. La loro unione dovrà
affrettare l'avvento di un'èra libera da ogni gerarchia
e da ogni costrizione”22.
Oggi, come ieri, il movimento surrealista continua la stessa
lotta su una scala internazionale più estesa che mai.
Si veda in proposito il mio Il Surrealismo, ieri e oggi /
Storia, filosofia, politica, in corso di stampa dove do
la parola a oltre 40 militanti sparsi in Europa, nell'America
del Nord e del Sud, in Africa, in Asia e in Australia dove il
surrealismo è tutt'ora – per dirla con un espressione
inglese – alive and kicking, e cioè, vivo
e scalciante.
Arturo Schwarz
Note
- Breton, Entretiens 1913-1952 (interviste radiofoniche
con André Parinaud), trad. Livio Maitan e Tristan Sauvage
[Arturo Schwarz], Storia del Surrealismo, Schwarz Editore,
Milano 1960, p. 197.
- “Discorso al Congresso degli scrittori”, giugno
1935 in Manifesti del Surrealismo, Einaudi, Torino 1966,
p. 172.
- La Révolution Surréaliste (Paris), n.
2, 15 gennaio 1925, p. 18, ripreso in André Breton, Storia
del surrealismo 1919-1945, cit. p. 211.
- “La claire tour”, in Le Libertaire (Paris),
11 gennaio 1952, p. 2, ripreso in La clé des champs,
Editions du Sagittaire, Paris 1953, pp. 272-73.
- “Seconde manifeste du surréalisme”
(1930), in Breton, Manifesti del surrealismo, cit., p.
90.
- ibid, p. 91.
- Breton, Storia del surrealismo, cit. pp. 157-58.
- Breton, “Posizione politica del Surrealismo”,
1935 in Manifesti del Surrealismo, cit., p. 183-84.
- “Du temps que les surréalistes avaient raison”
(1935), ibid., p. 173.
- Breton, Storia del Surrealismo, cit., p. 161.
- idem, p. 172.
- Breton, “Hommage à Antonin Artaud” (7
giugno 1946), in La clé des champs, cit., p. 84.
- Breton, “Seconde arche”, ibid., p. 109.
Vedi anche, su questo argomento, Benjamin Péret, Le
déshonneur des poètes (1945), Pauvert, Paris
1965, ripreso qui quasi integralmente alle pp. 209-11.
- Breton, “Signe ascendant” (30 dicembre 1947),
in La clé des champs, cit., p. 113.
- “Liberté est un mot vietnamien” (aprile
1947), in Jean-Louis Bédouin, Storia del Surrealismo,
dal 1945 ai nostri giorni, Schwarz Editore, 1960, pp. 253-55.
- “Rupture inaugurale” (21 giugno 1947), ibid.,
p. 263.
- Breton, Arcane 17 (1944), Sagittaire, Paris 1947.
- Breton, Ode à Charles Fourier, Fontaine, Paris
1947.
- Breton, Arcane 17, cit., p. 20.
- Ibid., p. 21.
- “A la niche les glapisseurs de dieu” (14 giugno
1948), in Bédouin, Storia del Surrealismo, dal 1945
ai nostri giorni, cit., «Documenti» p. 269.
- “Déclaration préalable”, in Le
Libertaire (Paris), 12 ottobre 1951, ripreso in Arturo Schwarz,
Breton Trotskij e l'anarchia, Multhipla, Milano 1980
(I ed., Savelli, Roma 1974), pp. 177-78.
Arturo
Schwarz (Alessandria d'Egitto, 1924), storico dell'arte,
saggista e poeta. Giovane militante trotzkysta, fu arrestato
per ragioni politiche e torturato nel natio Egitto. Trasferitosi
in Europa, sin dagli anni '50 ha scritto su testate anarchiche
(Volontà, Il libertario, Umanità Nova).
Con la nostra rivista, che lo annovera tra i propri collaboratori,
ha un rapporto di particolare simpatia dal 1970, l'anno
precedente la nostra nascita, dato che fu tra gli abbonati
sostenitori di una rivista... che doveva ancora nascere.
Ha insegnato in alcune università (University of
California: La Jolla e Berkeley, Harvard, Toronto, Parigi,
Gerusalemme, Tel Aviv, ecc.). Ha tenuto conferenze in
musei e accademie d'arte (New York, Philadelphia, Caracas,
La Havana, Saõ Paolo, Gerusalemme, Tokio, Milano,
Urbino, Bologna, ecc.). Ha curato importanti mostre antologiche
(Biennali di Venezia e di Saõ Paolo, Dada, e Surrealismo;
e retrospettive: Duchamp e Man Ray).
È autore di
monografie su André Breton, Marcel Duchamp e Man
Ray, nonché di saggi su Dadaismo, Surrealismo,
la Kabbalah, alchimia, tantrismo, arte tribale e preistorica.
Ha scritto complessivamente oltre un centinaio di libri,
tra saggistica e poesie.
Negli anni '60 è stato
anche editore (Edizioni Schwarz) pubblicando tra l'altro
un libro di Daniel Guerin e un paio di Leone Trotzky. |
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