Campi rom/Una politica assurda
Caro Paolo,
ho letto l'articolo di tuo fratello Enrico sul penultimo numero
di “A”. I dati che riporta ne “Il
cuore freddo di molti italiani” a proposito dei rom
sono impressionanti, ma per noi che lavoriamo su queste tematiche
purtroppo ben noti.
Il punto è: com'è che il popolo italiano, in genere
non particolarmente “cattivo” (!) e che ha mostrato
anzi capacità di solidarietà piuttosto ragguardevoli
in molte occasioni, è arrivato a un tal punto di ostilità
(di razzismo) da far sì che solo il 17 per cento sia
in grado di mostrarsi solidale verso questa gente?
Noi – mi riferisco sia all'Associazione OsservAzione di
cui faccio parte, anche se ormai ne sono parte poco attiva per
le conseguenze di una brutta malattia, sia a molte altre organizzazioni
tra cui la 21 Luglio – pensiamo che l'immagine che è
stata costruita addosso ai rom, attraverso il termine improprio
di 'nomadi' e le condizioni di vita in cui sono costretti a
vivere da oltre trent'anni qui in Italia, abbia influito pesantemente
su quei sentimenti negativi già presenti da lungo tempo
ed espressi nel termine “zingari”.
I dati ricordati da Francesca de Carolis nel riquadro “Roma
/ Dopo il fallimento dell'“Emergenza Nomadi”
(“A” 382, estate 2013) rispondono in parte alla
mia domanda. Responsabili delle condizioni di vita dei rom sono
le politiche che lo stato italiano, sia quello centrale sia
quello regionale sia, spesso ma non sempre, quello comunale,
ha messo in atto da quando, trent'anni fa, le loro presenze
hanno cominciato a salire, come risultato dell'immigrazione
dalla Jugoslavia, rendendo visibile la loro presenza sul territorio.
Vita in campi autorizzati e non, e sgomberi continui, in tutta
l'Italia: così si può descrivere la vita di gran
parte dei rom immigrati in questi trent'anni. Scrive Francesca
de Carolis: “ (...) a Roma sono stati spesi più
di 62 milioni di euro. [Oggi] I villaggi attrezzati sono otto,
mentre gli insediamenti a Roma sono quintuplicati, diventati
più di 500 nonostante i 536 sgomberi forzati”
(corsivo mio).
E in tutta l'Italia? Moltiplichiamo queste cifre per le città
in cui vi sono stanziamenti di rom e otterremo cifre inimmaginabili,
cifre di cui solo da poco si comincia a parlare.
Una ricerca delle associazioni Berenice, Compare, Lunaria e
OsservAzione, appena pubblicata, dal titolo “Segregare
costa: la spesa per i campi nomadi a Napoli, Roma e Milano”
cerca di approfondire questo tema. Le conclusioni a cui arrivano
gli autori sono riassunte nella frase finale della ricerca:
“spreco di soldi pubblici”.
Ma un piccolo dubbio mi ronza in testa: dopo trent'anni di questa
solfa è davvero ancora il caso di parlare di spreco?
O forse dovremmo aver il coraggio di dire cecità strumentale,
sfruttamento dei rom e delle loro deboli possibilità
di difesa per far girare soldi?
Tuo
Piero Colacicchi
Firenze
Con Maria, con Leonarda, con il popolo rom
Da giorni in Italia è in atto l'ennesima, preoccupante,
campagna di odio antizigano, fomentato ad arte da trasmissioni
sedicenti “di servizio pubblico”, rotocalchi di
intrattenimento, telegiornali, quotidiani...
Sappiamo che quando parliamo di rom, in questo paese che impedisce
ai superstiti dei naufragi di Lampedusa di partecipare ai funerali,
lo stato d'animo non è neutro.
Questa non è una sensazione, ma una consapevolezza accertabile
attraverso la frequentazione delle associazioni di solidarietà
con le comunità romanés, la conoscenza e l'informazione
attraverso le pubblicazioni, i testi di ricerca, le statistiche
delle condizioni drammatiche nelle quali le famiglie rom sono
costrette a sopravvivere a causa delle politiche istituzionali
locali e nazionali, con la complicità di un razzismo
popolare forse senza precedenti.
Chi pretende di informare, chi si assume l'onore di fare informazione
in Italia ha il doppio onere di essere informato e di trasmettere
correttamente le notizie, senza allusioni o esplicite affermazioni
di razzismo. È stato sostenuto, in una trasmissione televisiva
della tv di stato, che la bambina sarebbe stata rapita da un
network di trafficking di minori con sede in Bulgaria, e che
sarebbe stata successivamente comprata dalla famiglia rom per
“purificare la razza” della comunità romanés.
Spesso vediamo, nell' “altro” da “noi”,
lo specchio di ciò che siamo...
Niente di quanto è stato sostenuto, con la presunzione
e la certezza della Verità granitica, ha ancora alcun
fondamento. Un'ipotesi come un'altra, ma che sembra “pesare”
più di altre, scartate a priori.
L'immagine di Maria e l'utilizzo del suo corpo mediatizzato
e strumentalizzato secondo costruzioni comunicative che alludono,
spingono a prendere parte, a parteggiare per i bravi (la polizia
che l'ha “salvata” dagli “aguzzini”)
contro i cattivi (la famiglia rom), denota il contrario della
sensibilità dovuta in presenza della salvaguardia di
un minore: le foto contrapposte della piccola con i capelli
arruffati e le treccine più scure del biondo dei capelli
e le manine sporche, contrapposta a quella della bambina “ripulita”
dei segni del suo passato “vergognoso”, con il vestitino
nuovo e i capelli completamente biondi, al sicuro nell'associazione
di affidamento, quasi a voler “smacchiare” una colpa.
È forse una colpa essere poveri? No, non lo è.
È una condizione sociale, non una condizione dello “spirito”,
né ontologica, né tantomeno “innata”,
proprio come la razzista equazione che sta nuovamente passando
con ciò che è conosciuto per “linea del
colore”: una piccola bionda non può essere figlia
di genitori rom.
È talmente “normale” l'orrore della “razza”
che in questi giorni stanno moltiplicandosi, in Europa, massicci
controlli nei confronti di famiglie rom con minori “bianchi”.
Qualcuno ha forse pensato, riflettuto sul fatto che questi controlli
non sono affatto “normali”, né basati su
alcunchè di scientifico?
Al contrario, a seguito dell'oggettivazione del corpo di Maria
– il corpo del reato – cresce l'accanimento poliziesco
e razziale verso una minoranza vittima di molti olocausti, piccoli
e grandi, nella storia passata e recente di una rilevante parte
del mondo.
Questo è l'orrore, questo ritorno del passato con gli
abiti ipocriti di chi dice di voler tutelare i diritti dei più
deboli, sbattendo i mostri in prima pagina: le foto di fronte
e di profilo dei due rom del campo greco sulle televisioni pubbliche
italiane. Foto terribilmente simili a quelle dei perseguitati
del Casellario Politico fascista e dei reclusi nei campi di
sterminio nazisti: in entrambi questi elenchi dell'abominio
troverete volti di donne e uomini rom. Colpevoli di vivere secondo
regole non scritte, colpevoli di essere poveri e di vivere in
“discariche” a cielo aperto: non-luoghi nei quali
le istituzioni nazionali li costringono a vivere, senza assistenza
e lontani dal centro delle città, in periferie abbandonate
e prive di mezzi di trasporto.
I rom hanno molti doveri per lo stato italiano, ma nessun diritto.
Sono in maggioranza italiani, ma sono trattati peggio che se
fossero stranieri.
Sappiamo che la costruzione dell'immaginario passa attraverso
i corpi, e attraverso le modalità con le quali alcuni
corpi contano più di altri, e vengono “raccontati”
con differenti “marcature”. Così la cameretta
di Maria, in ordine, pulita e ben arredata, è elemento
di sospetto in una famiglia poverissima. In un mondo colmo di
pregiudizi, questo è ciò che il nostro “sguardo”
vuol vedere.
Così la giovane e coraggiosa Leonarda, pronta a percorrere
la propria strada di autodeterminazione in Francia anche contro
le violenze subite in famiglia, viene obbligata a scegliere
tra ciò che è ritenuta essere la “sua razza”
(la sua famiglia romanés, espulsa in Kosovo) e il cosiddetto
diritto/dovere di studio, magari per diventare “una brava
francese”. E magari per vergognarsi, in futuro, di avere
genitori “rom”.
Si parla tanto di aiutare le donne a denunciare chi le stupra
e molesta: lo stato francese si è reso complice della
violenza contro Leonarda, spingendola a ritrattare le precedenti
accuse verso il padre, a causa dell'attacco del governo francese
contro la sua famiglia. Ma l'utilizzo del sessismo per politiche
razziste e del razzismo per attacchi sessisti, noi, lo sappiamo
riconoscere. Noi sappiamo da che parte stare.
La piccola Maria non è figlia “biologica”
di chi l'ha comunque accolta e nutrita, pur in povertà.
I motivi per i quali la bambina è cresciuta in quella
famiglia rom possono essere tantissimi. La tv di stato e quella
privata hanno già decretato il verdetto.
Noi stiamo con Maria, con Leonarda e con il popolo rom.
Osservatorio antidiscriminazioni
altra.info@yahoo.it
(24 ottobre 2013)
Torino/Appello alla solidarietà
Cari compagni e compagne,
siamo obbligati a fare appello alla vostra solidarietà
attiva. Numerosi compagni e compagne della Federazione Anarchica
Torinese sono sotto processo per la loro attività politica
e sociale. Abbiamo in corso ben due maxi processi per la nostra
attività antirazzista, un processo per antifascismo,
uno per antimilitarismo, uno per il nostro impegno nel movimento
No Tav.
Banali azioni di informazione e lotta sono entrate nel mirino
della magistratura. Un presidio antirazzista diventa violenza
privata, una performance antimilitarista un'offesa alla sacralità
dell'esercito, il buttare via un manifesto fascista danneggiamento,
un'azione popolare di contrasto al Tav viene perseguita con
durezza.
Alcuni di noi hanno già subito nel recente passato condanne
per la propria attività politica. Alcuni di noi rischiano
la galera.
Siamo convinti che il miglior modo per rispondere alla repressione
dello Stato consista nel continuare con ancora maggior impegno
le lotte nelle quali siamo impegnati.
Siamo anche convinti che campagne pubbliche di appoggio ai compagni
finiti nel mirino della magistratura possano riportare sul terreno
della lotta le vicende che lo Stato vorrebbe relegare in un'aula
di tribunale.
I processi hanno anche un costo molto elevato, sia per gli avvocati
che per tutte le carte che la burocrazia della repressione pretende.
Ci servono urgentemente circa 10.000 euro. Non siamo in grado
di farcela da soli. Il conto corrente postale cui potete inviare
i vostri contributi è il numero 10 137 38 032 –
intestato a Maria Margherita Matteo, Torino.
codice IBAN IT35 Y076 0101 0000 0101 3738 032. Codice BIC/SWIFT
BPPIITRRXXX
Federazione Anarchica Torinese
fat@inrete.it
Il cimitero di Spoon River
Tutto il mondo è paese, un paese è tutto il mondo,
per la stessa ragione per cui in ogni singola cellula esiste
il segreto della vita; in un frammento, il dna racconta l'intero
romanzo biologico e genetico di un individuo... un paese è
il filamento di dna della Terra; un extra-terrestre potrebbe
studiare la psicologia comportamentale dell'intero pianeta visitando
Ducenta (Villanova di Bagnacavallo o il “Villaggio Anic”).
Un paese è l'archetipo di ogni carattere dell'umana commedia:
c'è lo scemo, ci sono i fedifraghi, gli omosessuali più
o meno dichiarati, meretrici, notabili, vittime, carnefici...
tutti concentrati in pochi chilometri quadrati e in un angolo,
un piccolo scampolo di terra circoscritto... l'album dei ricordi:
il cimitero.
Un condominio di immagini e parole, dove il passato si intreccia
con il presente dei parenti, degli amici sopravissuti che ancora
calcano il palcoscenico della vita per continuare una rappresentazione
che si ripropone sempre uguale e sempre diversa.
Ho visto le immagini del cimitero di Spoon River, non è
un cimitero, è la fotografia dell'immagine che tutti
noi occidentali abbiamo di un cimitero: alberi che ombreggiano
tombe sormontate da croci in pietra, incrostate di muschio e
muffe, epitaffi consolatori incisi su lapidi, consumate dal
tempo, che si affacciano su sentieri ghiaiosi, delimitati dall'erba
scomposta dal vento... luogo costruito dai vivi per i vivi,
dove i defunti giacciono sotto due metri di terra e i vivi si
aggirano minacciosi in superficie, mistificandone il ricordo
e le verità.
Nemmeno la pace è concessa alla “Grande consolatrice”,
non c'è perdono, consapevolezza n'è pietà
o pentimento, non c'è saggezza o riposo. I vivi fanno
sì che i morti portino con loro le meschinità,
il desiderio di vendetta, l'astio, le recriminazioni, l'odio...
e ciò, è rassicurante: c'è ancora vita,
dopo la morte.
E così Dante Alighieri fa in modo che il conte Ugolino
mastichi la nuca dell'arcivescovo Ruggeri per l'eternità
e, con quale immagine:
Noi eravam partiti già da ello,
ch'io vidi due ghiacciati in una buca,
sì che l'un capo a l'altro era cappello;
e come 'l pan per fame si manduca,
così 'l sovran li denti a l'altro pose
là 've 'l cervel s'aggiugne con la nuca
(...)
La bocca sollevò dal fiero pasto
quel peccator, forbendola a' capelli
del capo ch'elli avea di retro guasto.
Nessun perdono, nessuna pietà, ma l'orrore bestiale di
una vendetta, lo stesso sentimento di rivalsa che ha ispirato
Edgar Lee Masters nella sua poesia Il Giudice Selah Lively:
Ora Jefferson Howard e Kinsey Keene
e Harmon Whitney e tutti i pezzi grossi
che vi avevano schernito sono costretti a stare in piedi
davanti alla sbarra e pronunciare “Vostro Onore”.
Be', non vi par naturale
che gliel'abbia fatta pagare?
Astio e vendetta anche nella versione di Fabrizio De André:
E allora la mia statura
non dispensò più il buonumore
a chi alla sbarra in piedi
mi diceva “Vostro Onore”,
e di affidarli al boia
fu un piacere del tutto mio,
prima di genuflettermi
nell'ora dell'addio
non conoscendo affatto
la statura di Dio.
Non c'è comunicazione fra i morti, tutto rimane congelato
al momento in cui hanno cessato di vivere, non c'è nuova
conoscenza perché fra vivi e morti non c'è relazione
e non c'è nessuna comprensione nemmeno fra vivi; tutti
consumano la propria vita come fossero i primi e gli ultimi...
i soli:
Ognuno sta solo sul cuor della terra
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera
o, se preferite:
Questo pensiero non vi consoli, quando si muore si muore
soli.
Mauro Squarzoni
Prosegue il dibattito
su
“Libertà senza Rivoluzione”
Prosegue il dibattito sul volume Libertà senza Rivoluzione
di Giampietro “Nico” Berti (Piero Lacaita Editore,
Bari 2012), di cui abbiamo ripreso qualche
stralcio in “A” 377 (febbraio). Sui numeri
successivi sono intervenuti Franco
Melandri e Domenico
Letizia (“A” 378, marzo), Luciano
Lanza e Andrea
Papi (“A” 379, aprile), Luigi
Corvaglia e Alberto Ciampi
(“A” 380, maggio), Marco
Cossutta e Salvo
Vaccaro (“A” 381, giugno), Persio
Tincani e Fabio
Massimo Nicosia (“A” 382, estate), Enrico
Ferri e Antonio
Cardella (“A” 383, ottobre) Cosimo
Scarinzi e Francesco
Codello (“A” 384, novembre) e ora Claudio Venza
e Lorenzo Pezzica.
Il dibattito è naturalmente aperto a chiunque intenda
intervenire, con il limite delle 6.000 battute spazi compresi.
Dibattito
Libertà senza Rivoluzione/15
Claudio Venza/Nico Berti, un critico “a-rivoluzionario e a-riformista”
Non è proprio l'ultimo simpatizzante giunto quasi per
caso. Nico Berti è orgoglioso di essere stato uno dei
pochi giovani anarchici ad avvicinarsi al movimento nei primi
anni sessanta. Egli ha avuto un ruolo di primo piano nella formazione
di una “vulgata” libertaria a cominciare dai primi
anni settanta. Ha percorso in lungo e in largo l'Italia per
animare dibattiti e convegni promossi dal Centro Studi Libertari
di Milano, vere officine di cultura. Senza contare i numerosi
libri di storia del pensiero e del movimento anarchici, dal
“mattone” di circa mille pagine che affronta due
secoli di pensiero antiautoritario (Lacaita, 1998) alle monumentali
biografie di Francesco Saverio Merlino e di Errico Malatesta.
Tali informazioni, forse superflue per compagni meno giovani,
servono per capire lo spirito con cui è stato scritto
questo ennesimo libro di analisi e di proposte attorno all'anarchismo
di ieri, di oggi e di domani. Insomma è un lavoro che
merita seria attenzione invece di una schematica e troppo comoda
etichettatura.
Questo è innanzitutto un testo di filosofia politica
pieno di ragionamenti sui termini fondamentali di quella scienza
che mancherebbe all'anarchismo e che qui è offerta in
modo perentorio. Molte sono le asserzioni decise e senza indugi.
Valga citarne alcune: “Il pensiero rivoluzionario è
necessariamente un pensiero fondamentalista”, “La
Rivoluzione è priva di significato e, soprattutto, è
inutile”, “La Rivoluzione è autoritaria perché
è impossibilitata a costruire, in breve tempo, alcunché
di legittimo”. Logicamente se si parte da questi principii
ne discende che l'aspirazione alla libertà, vero nocciolo
duro dell'anarchismo, deve prescindere da ogni tipo di Rivoluzione
che la nega alle fondamenta. Qui non si affronta, nemmeno di
passaggio, la possibile esistenza di una Rivoluzione Libertaria.
La stessa esperienza spagnola, a cui Nico fa spesso riferimento
quale più alto esempio di tentativo libertario nell'Europa
Occidentale, sarebbe stata sconfitta per una intrinseca debolezza
o contraddizione: le masse spagnole non erano sufficientemente
rivoluzionarie. Una simile affermazione mi pare francamente
molto parziale e piuttosto autoconfermante.
L'analisi bertiana del fenomeno rivoluzionario è davvero
spietata e la condanna dell'anarchismo all'irrilevanza attuale
è senza appello. La causa risiede nella sconfitta definitiva
del comunismo che avrebbe comportato anche la fine del movimento
operaio e socialista nel quale, bene o male, l'anarchismo si
è riconosciuto. Dal successo del capitalismo deriva anche
la fine dell'“anarchismo classico”. E come si può
salvare l'anarchismo? Per il “profeta” Nico solo
trovando un confronto, e una collaborazione, con l'ideologia
meno lontana (e vincente) del mondo occidentale: il liberalismo
democratico.
Il bivio per l'anarchismo, a questo punto della storia umana,
sarebbe tra il preservare la memoria del passato oppure l'“aprirsi
al futuro, rinunciando a una parte – non piccola –
della sua identità pregressa”. La strada maestra,
per Berti, sarebbe quella della “libertà che parla
a nome dell'eguaglianza” ovvero l'accettazione del fatto
che “il politico è più importante del sociale”.
Ancora una volta la storia spagnola dimostrerebbe che “la
rivoluzione sociale non ha in sé la risoluzione di se
stessa”. Altrimenti (e ciò, secondo me, è
poco fondato storicamente) “gli anarchici avrebbero vinto”.
Un punto forte per evitare l'emarginazione risiederebbe nella
scelta del “male minore”, quello che è “il
più possibile vicino a ciò che piace”. Va
quindi rifiutata la sirena dell'utopia, troppo a lungo ascoltata
(ma era pure uno dei punti centrali dell'attività del
Centro Studi Libertari di Milano a cui egli ha dato per decenni
un notevole contributo!) in quanto “orizzonte teorico-concettuale
che ha drogato il pensiero anarchico”.
Questo testo presenta una tranquilla (“candida”
direbbe l'autore) affermazione sulla superiorità della
civiltà occidentale sulle altre civiltà che “non
presentano prioritariamente il valore centrale della libertà”.
Così Berti risponde ad una “operazione delirante
sotto il profilo epistemologico e abominevole sotto l'aspetto
etico”, quella del relativismo culturale che sta affascinando
vari ambienti libertari.
Molto significativa, e molto discutibile, appare la stroncatura
dedicata a tre militanti (e teorici) dell'anarchismo: Tomás
Ibáñez, Andrea Papi e Maria Matteo. I tre esprimono
convinzioni rivoluzionarie, sia pure aggiornate e rivedute,
rispettivamente in base al desiderio di rottura radicale, al
bisogno di una trasformazione profonda, all'urgenza dell'agire
rivoluzionario. Ebbene Berti contesta queste aspirazioni ripetendo
“Perché mai?”, ma trascura il fatto che tutti
e tre, e non solo loro, non si rassegnano a vivere nell'attuale
tipo di società basata sullo sfruttamento, l'oppressione,
la gerarchia. Chissà se gli anarchici dovrebbero, per
uscire dall'insignificanza storica e politica, rinunciare alla
lotta antiautoritaria e sedersi a chiacchierare con i potenti
di turno, i liberaldemocratici? Non penso che chi continua a
dichiararsi anarchico, e che qui ha realizzato un grande sforzo
intellettuale per ridefinire l'anarchismo, voglia indicare l'inutilità
di ogni forma di opposizione al sistema dominante in quanto
“male minore”.
Forse è un dato che l'anarchismo non è in grado
di giocare in proprio un ruolo importante sullo scenario complessivo.
È però altrettanto vero che “insistere sui
nessi che uniscono l'idea anarchica a quella liberale e a quella
democratica”, come Nico propone in conclusione, non significa
indicare una nuova promettente strada, bensì un triste
vicolo cieco. Un vicolo piuttosto oscuro nel quale, tra l'altro,
lo stato liberaldemocratico non appare per nulla disposto a
giocare dalla parte della squadra libertaria.
Claudio Venza
Dibattito
Libertà senza Rivoluzione/16
Lorenzo Pezzica/La memoria contro l'oblio
Libertà senza rivoluzione è senza dubbio
un testo importante e denso, soprattutto per il lavoro di ricerca
teorica, anche se in alcuni suoi passaggi, l'eccessiva enfasi
della scrittura indebolisce in parte l'analisi e la critica.
Si passa dal saggio storico-filosofico al pamphlet polemico,
dal linguaggio complesso e articolato ad espressioni affrettate
e acritiche, a volte eccessivamente liquidatorie.
Libertà senza rivoluzione lancia una sfida –
storica, culturale, politica - nei confronti di chi oggi si
ritiene anarchico. L'obiettivo di fondo del libro è infatti
quello di affrontare il problema politico e culturale che l'anarchismo
(pensiero e movimento) si trova oggi a sostenere dopo la sconfitta
del comunismo e la conseguente vittoria del capitalismo. Nello
spazio concesso, mi limiterò a brevi considerazioni e
personali suggestioni, in ordine sparso, rispetto ai temi principali
che emergono dal libro.
Merita seria attenzione la spiegazione che viene proposta nei
confronti del rapporto tra “rivoluzione e Rivoluzione”.
Persuade l'analisi dell'esaurimento storico della Rivoluzione
(con la R maiuscola) “rimasta una chimera”, meno
la conseguente risoluta rinuncia ad interrogarsi rispetto un
suo possibile nuovo significato (senza la R maiuscola). Convince
la critica serrata del comunismo e della sua storica e inesorabile
sconfitta, che del resto l'anarchismo, in tempo reale e non
a posteriori, aveva già criticato e condannato.
Quando però Berti affronta la questione della vittoria
del capitalismo nei confronti del comunismo, fatto storico oggi
evidente, affronta l'argomento senza dedicargli analoga acribia
intellettuale.
La vittoria del capitalismo oscilla tra la rilevazione di un
fatto storico difficilmente confutabile e l'asserzione di una
sua irreversibilità. Ma la vittoria a livello storico
non significa per forza aver ragione in base ad una impostazione
teleologica della storia, come sembra emergere dalle pagine
del libro, nonostante l'autore nello stesso tempo sottolinei
come la storia non abbia alcuna direzione e non abbia alcun
senso. Se è così, non si capisce perché
poi, nella sostanza, emerga una sorta di filosofia della storia
con l'obiettivo di trovare una giustificazione a definizioni
universalistiche che non lasciano spazio a confronti interpretativi.
L'analisi teorica e storica della vittoria del capitalismo è
affrontata senza tropo preoccuparsi di ricordare le numerose
trasformazioni avvenute sin dal suo inizio ed eludendo ad alcuni
tratti che hanno segnato e che segnano, in senso micidiale,
la sua storia e il suo presente, se non con qualche accenno
ai suoi “misfatti”, tutto sommato collaterali. L'analisi
così elude alla genealogia del capitalismo, al suo “Cuore
di tenebra”. Una genealogia fatta di conquiste coloniali,
di imperialismi, di forza lavoro asservita e schiavizzata, di
usurpazione politica e sua traduzione in principi di diritto,
di guerre, che hanno segnato la forza vincente di un capitalismo
difficilmente riducibile a semplice ordine “neutro”
e spontaneo di forze apolitiche di mercato. Con questa omissione
“genealogica” sembra difficile poter sostenere la
piene libertà di scelta dell'uomo trascurando di esaminare
storicamente e concretamente chi opera tale scelta e quali siano
i suoi concreti margini di autonomia e le sue condizioni materiali,
culturali e sociali.
Ha ragione Berti quando afferma che l'anarchismo opera un ribaltamento
semantico, proponendo una diversa prospettiva del rapporto politico
e sociale non più in termini orizzontali di destra/sinistra,
bensì verticali di alto/basso. Eppure nonostante la coppia
destra/sinistra sia difficile da riconoscere nella prassi politica
quotidiana e sia considerata superata dalla radicale trasformazione
dello spazio politico, dalla globalizzazione e dalla crisi dello
stato-nazione, penso che tale coppia conservi ancora oggi un
suo senso e significato.
Il libro pone una questione certamente importante, quella di
“immettere nuovamente l'anima universale dell'anarchismo
contro la storia ma (...) nella storia”. Argomento che
meriterebbe una riflessione articolata che per ragione di spazio
non è possibile condurre in questo contesto. Per rendere
concreta questa possibilità l'anarchismo, sostiene Berti,
deve liberarsi dell'ipoteca fallimentare della prospettiva rivoluzionaria
in senso socialista che lo ha connotato nel passato come movimento
inserito nel più ampio movimento operaio e affrontare
“l'ineludibile confronto-incontro” con il liberalismo
e la democrazia. Se l'anarchismo non riesce a realizzare questo
proposito il rischio è la fuoriuscita dalla storia e
la sua definitiva marginalità.
Non si capisce però perché sia necessario “gettare
il bambino insieme all'acqua sporca” fino a sostenere
in modo perentorio che all'anarchismo oggi rimangano solo due
strade: preservare i suoi contenuti storici, “coltivandoli
sotto forma di memoria (impressionante [corsivo mio],
e altamente significativo, questo suo guardare indietro come
è dimostrato dal numero crescente di iniziative archivistiche
di documentazione del passato promosse all'interno del movimento
anarchico)”, o aprirsi al futuro “rinunciando a
una parte – non piccola – della sua identità
pregressa”.
Non si capisce perché debbano essere necessariamente
due strade in contrasto.
Senza dubbio l'esercizio della memoria è strettamente
connesso a quello dell'oblio, come sottolineava Nietzsche. Un'operazione
che non è certo indolore; ma “la memoria e l'oblio”,
come scrive Remo Bodei, “non rappresentano (...) terreni
neutrali, ma veri e propri campi di battaglia”. La coppia
memoria/oblio ha costituito un'importante posta in gioco nella
lunga lotta per il potere condotta dalle forze sociali che hanno
dominato e dominano le società storiche. Impadronirsene
è sempre stata una delle loro massime preoccupazioni,
per poi manipolare la memoria stessa e spesso sostituire ad
essa un “comodo” oblio delle coscienze. E allora
“la lotta dell'uomo contro il potere è la lotta
della memoria contro l'oblio” (Kundera).
Lorenzo Pezzica
Spagna/Ma c'è stato anche Fèlix Carrasquer
Mi ha sorpreso trovare su “A” 382 (estate 2013)
un articolo su Francisco
Carrasquer; non perchè non se lo meriti, ci mancherebbe,
ma perchè in ambito libertario qui in Spagna è
sicuramente più conosciuto e apprezzato il fratello maggiore,
Félix, a cui non si accenna nello scritto di Javier Barreiro.
Ho avuto l'occasione di conoscere Francisco Carrasquer nel 2007
(e non Félix, morto nel 1993) per un'intervista nella
sua casa di Tárrega (provincia di Lérida): oltre
a presentarmi molti dei suoi scritti letterari, ricordava la
sua guerra civile combattuta sul piano militare e sosteneva
la teoria che se l'avanzata verso Saragozza non l'avesse guidata
Buenaventura Durruti bensì Francisco Ascaso (aragonese
che conosceva bene il territorio ma venne ucciso il 19 luglio)
le cose sarebbero andate in modo diverso1.
È certamente da ricordare la biografia di Francisco,
che combattè la guerra civile “de punta a punta”2,
subí la repressione franchista e riuscí poi a
stabilirsi nei Paesi Bassi, portando avanti una lunga carriera
universitaria e intellettuale.
Ma credo valga anche la pena di addentrarsi nella biografia
del fratello maggiore per cogliere l'entusiasmo e la portata
delle trasformazioni sociali: Félix, autodidatta libertario,
dedicò la sua vita a creare progetti basati sull'autogestione
e l'orizzontalità, e incarna secondo me l'essenza della
rivoluzione spagnola.
La sua testimonianza ci permette di conoscere il lavoro preparatorio
alle collettivizzazioni, di diffusione delle idee, di presa
di coscienza e organizzazione. Dalla sua esperienza traspare
chiaramente come l'avvicinarsi alle teorie anarchiche fosse
intrinsecamente legato a una pratica di cambiamento radicale
della società dell'epoca. I progetti che mette in moto
negli anni '30 sono precursori di ciò che verrà
organizzato durante la rivoluzione, non saranno certamente gli
unici, ma ci permettono di capire come poi la risposta all'insurrezione
militare del 1936 fu così estesa e organizzata.
Interesse per l'educazione
I fratelli Carrasquer erano quattro, Félix era il maggiore
e come si vedrà in questa breve biografia, il suo percorso
ha influenzato la vita degli altri. Il padre era segretario
comunale in un paesino aragonese (godevano quindi di una buona
posizione), Félix imparò a leggere molto presto
e aspettava con ansia il momento di iniziare la scuola. Il primo
giorno di scuola però non fu come sperava: il maestro
urlava che doveva solo obbedire, mentre lui voleva imparare...
A causa anche di una forte miopia convinse il padre che quella
scuola non gli sarebbe servita e si dedicò a pascolare
le capre e (comunque) a leggere, attività che gli permisero
di avere molto tempo per pensare e formare le proprie idee.
A 14 anni decise di provare la vita in città e da Albalate
si trasferì a Barcellona dove dopo vari lavori, scelse
di fare il panettiere, unica attività che non gli occupava
tutta la giornata (anche se parte della notte) per avere tempo
libero il pomeriggio e poter coltivare la sua grande passione,
la lettura.
La Barcellona degli anni venti era tutto un fermento socio-politico,
le esperienze viste e vissute si affiancavano quindi alla lettura
dei classici pensatori nella formazione del suo carattere. La
morte di sua madre e il secondo matrimonio del padre con la
sorella di Felipe Alaiz, noto scrittore anarchico dell'epoca,
marcarono definitivamente l'orientamento delle sue inclinazioni,
incoraggiato dalla famiglia nei suoi studi. Nel 1925 si iscrisse
all'Ateneu Enciclopèdic Popular, istituzione che da inizio
secolo aveva svolto un ruolo paradigmatico nella diffusione
della cultura come mezzo di emancipazione e che nonostante fosse
in ribasso durante la dittatura di Primo de Rivera, giunse alla
conclusione che senza un solida educazione non sarebbe stata
possibile una rivoluzione.
L'interesse di Félix per l'educazione nasceva dalla riflessione
sulle cause e possibili rimedi dei problemi sociali, partendo
dal fatto di non aver subìto la pressione scolastica
(visto che non ha mai frequentato una scuola) ma di aver visto
gli effetti nocivi di questa repressione sugli altri3.
Studiava quindi con passione le opere di filosofia e di pedagogia,
sviluppando un'idea orizzontale e autogestita del processo di
apprendimento.
Dopo un'esperienza negativa di ricerca di lavoro a Madrid, che
accentuò la sua coscienza politica, tornò al suo
paese dove organizzò una scuola e una biblioteca nel
Centro Repubblicano. Le lezioni erano per adulti e bambini,
uomini e donne; applicava il metodo Decroly per gli analfabeti
e la scelta di temi su argomenti liberi per gli altri e in breve
si iniziarono prove di teatro. Poi un evento esterno marcò
il futuro del paese, la morte di un duca e la vendita di terreni
del feudo che possedeva ad Albalate: il Gruppo Culturale si
impegnò nella creazione di un'associazione di lavoratori
per l'acquisto delle terre da gestire in comune. Con la proclamazione
della repubblica nel 1931 il Gruppo Culturale organizzò
una manifestazione che raggiunse i paesi vicini per incitarli
a cambiare radicalmente il panorama sociale e in quattro mesi
vennero organizzati 24 sindacati con più di 4.000 contadini
iscritti. Venne celebrato il 1ºmaggio con un'opera di teatro
italiana a cui partecipò tutto il paese. Dopo le elezioni
sindacali vennero scelti i membri del comune in un'assemblea
della Cnt (Confederación Nacional del Trabajo), e nonostante
si fossero eletti dei maturi repubblicani, l'interferenza del
sindacato risultò uno scandalo. Dopo solo due mesi venne
chiesto a Félix di riprendere il posto di segretario,
avendo visto come ad Albalate la libertà era totale e
parte del paese partecipava alle assemblee come “in un'autentica
democrazia”4.
Mentre la vista di Félix continuava a peggiorare e venne
sottoposto a un intervento antiquato con un ago rovente infilato
nell'occhio, nel suo paese cominciavano gli esperimenti delle
prime colletivizzazioni. Prima nei terreni del padre con dei
compagni di Barcellona che comprarono il primo trattore del
paese, poi nelle terre vendute dal duca. Sul terreno sindacale
Félix ricorda come reagì in un'assemblea quando
si accorse che si dava per scontato che le donne non avessero
diritto alla parola. E per quanto riguarda il boicot
agli unici proprietari di bestiame che non volevano firmare
l'accordo sulle condizioni di lavoro ricorda con tristezza come
molti reagirono con aria di vendetta nel momento in cui si decisero
a firmare, cosa che lo fece riflettere su una naturale inclinazione
dell'uomo alla vendetta.
Ad Albalate quindi si anticipavano le colletivizzazioni, ma
nel 1933 la Fai affermò troppo decisa che se la destra
avesse vinto le elezioni, gli anarchici sarebbero scesi in strada.
L'8 dicembre 1933 venne proclamato il comunismo libertario in
vari paesi sparsi su tutto il territorio spagnolo. La repressione
ovviamente fu immediata. La testimonianza di Félix ci
ricorda come venne cancellato il lavoro degli ultimi cinque
anni: chiuso il Gruppo Culturale, il sindacato, sospese le lezioni
e il teatro, smantellate le sperimentazioni nelle campagne e
soprattutto l'entusiasmo. Albalate non sarebbe mai tornata la
stessa.
I partecipanti all'insurrezione dovettero fuggire e nascondersi
finchè grazie ad un'amnistia poterono tornare al paese,
ormai solo per recuperare le loro cose. José, il secondo
fratello, si era stabilito in un paesino dei Pirenei dove, con
il titolo di maestro e grazie al materiale di Félix,
aveva montato una scuola col metodo Freinet. Félix tornò
a Barcellona con Francisco diciasettenne che stava finendo le
superiori, ed essendo ora vegetariani provarono a guadagnarsi
da vivere facendo il pane integrale, mentre Félix scriveva
articoli di pedagogia per la Revista Blanca, rivista di riferimento
nella diffusione culturale anarchica dell'epoca gestita dalla
famiglia Urales-Montseny.
La scuola autogestita Eliseo Reclus
Ma l'idea di fondo era creare una scuola autogestita e dopo
aver letto con Francisco tutta l'opera di Dewey, De Cousinet
e di altri pedagoghi, trovarono nell'Ateneo de les Corts grande
entusiasmo per realizzare la loro proposta. I tre fratelli e
la sorella minore Presen nel 1935 crearono la scuola Eliseo
Reclus (anche José lasciò momentaneamente l'insegnamento
ufficiale e con il suo titolo permise di legalizzare la scuola)
basata sull'insegnamento razionalista ma, grazie agli studi
approfonditi di Félix, con un passo avanti per quanto
riguarda l'autogestione e l'orizzontalità: dopo aver
visitato varie scuole razionaliste Félix si trova d'accordo
sui metodi utilizzati (Ferrer, Tolstoj, Freinet) ma considera
che l'iniziativa deve partire dai ragazzi e non dal maestro
che continuava a dirigere in qualche modo la classe. La scuola
Eliseo Reclus funzionava quindi con assemblee in cui maestri
e alunni avevano la stesso potere decisionale, e una cooperativa
che permetteva l'autogestione a livello economico. Inoltre riuscirono
a coinvolgere gran parte del quartiere nel progetto grazie ad
assemblee con i genitori, e serate con gli adolescenti.
La scuola venne criticata da altri maestri perché eccessivamente
“politica” e mi sembra molto significativa la risposta
di Félix: “se la politica è una questione
del popolo, sarebbe assurdo escludere i bambini da questa dinamica
fondamentale. (...) Se la pedagogia può avere un qualche
valore, dovrebbe consistere nell'aiutare i giovani a uscire
da un quadro tradizionale di oppressione e ingiustizia (...)
Se la storia dell'uomo è una catena di lotte cruente
tra dominatori e dominati, i bambini non possono ignorarlo né
essere neutrali in questo eterno scontro”5.
Purtroppo la scuola, come la la gran parte dei progetti dell'epoca,
ebbe vita breve a causa del golpe militare. I suoi fratelli
combatterono a Barcellona e poi al fronte (José morì
negli scontri, Francisco combatterà tutta la guerra)
e Félix, ormai cieco, venne incaricato di organizzare
l'ospedale della Maternità, sempre situato nel quartiere
de Les Corts, dove si volevano sgomberare le suore che lo gestivano
senza avere personale preparato per sostituirle. Riuscì
a organizzare assemblee con medici e infermiere, limitare la
mortalità infantile dei bebè abbandonati con semplici
accorgimenti di affetto e libertà di espressione. Quando
l'istituzione tornò in funzione, si recò nella
sua regione natale, l'Aragona, dove si stavano organizzando
le collettivizzazioni in un ambiente di incredibile entusiasmo
ma con poca capacità amministrativa.
Decise quindi di organizzare una Escuela de militantes, con
l'obiettivo di formare adolescenti capaci di portare avanti
le collettività contadine aragonesi a livello contabile
e di organizzazione, anche tenendo conto dell'imminente mobilitazione
militare degli adulti. La Escuela de militantes era un podere-fattoria
in cui i ragazzi convivevano e lavoravano oltre a fare lezione;
l'armonia nata dalla libera cooperazione, e il fatto di lavorare
solo tre ore al giorno per mantenere il progetto sono un altro
successo della connessione tra teoria e pratica di Félix.
Di nuovo l'avanzata dei fascisti tronca il progetto in corso
che si sposterà verso la frontiera francese finché
saranno obbligati all'esilio nel gennaio 1939.
Dodici anni in carcere, tanti in esilio
Vennero accolti in un campo in un paese vicino alla frontiera
svizzera dove organizzarono una scuola, e Félix ebbe
occasione di conoscere Piaget e altri importanti pedagoghi durante
un viaggio a Ginevra, prima di essere trasferito al campo di
concentramento di Argelès-sur-Mer. Nonostante il trasferimento
in diversi campi, continuava a organizzare un ambiente di autogestione
e collaborazione finché non evase alla fine del 1943
e rientrò in Spagna attraversando i Pirenei all'inizio
del 1944. Riprese il contatto con i compagni e partecipò
alla lotta antifranchista con la pubblicazione di volantini
e mantenendo in piedi la struttura della Cnt. Venne imprigionato
più volte, passando dodici anni in carcere, castigo reso
ancora più duro dall'impossibilità di leggere
a causa della sua cecità.
Nel 1959 tornò in libertà ma con il divieto di
vivere a Barcellona, decise quindi di trasferirsi in Francia
dove propose un progetto di Escuela de Militantes; anche se
l'accoglienza del progetto fu poco ottimista, vennero organizzati
dei corsi estivi nella fattoria di Thil e pubblicati dei brevi
testi che contribuirono alla formazione di Gruppi di Solidarietà.
Nel 1971 tornò in Spagna dove realizzò innumerevoli
dibattitti sulle necessità del paese e sulla pedagogia
libertaria ma la transizione distrusse gran parte del lavoro
che i rimanenti affiliati alla Cnt stavano portando avanti.
Di molte sue opere di teatro e poesia scritte prima e durante
la guerra e negli anni di carcere non è rimasta nessuna
copia, ma solo il racconto vibrante delle sue parole; le sue
pubblicazioni sulle esperienze autogestite ci permettono di
condividere il suo punto di vista e il travolgente sentimento
libertario che lo ha guidato.
Valeria Giacomoni
Barcellona (Spagna)
Note
- Francisco Carrasquer: Zaragoza y Ascaso. Dos pérdidas:
la pérdida, Alcavarán Ediciones, Zaragoza,
2003
- Intervista a Francisco Carrasquer, Tárrega, 25 luglio
2007
- Alejandro Tiana Ferrer: “El itinerario pedagógico
de Félix Carrasquer” en Monografia dedicata
a Félix Carrasquer sulla revista Anthropos, novembre
1988, Nº. 90, pp. 42-50
- Félix Carrasquer: “Autopercepción intelectual
de un proceso histórico. Notas autobiográficas”
en Monografia dedicata a Félix Carrasquer sulla revista
Anthropos, novembre 1988, Nº. 90, pp.13-30
- A. Tiana Ferrer, op. cit.
Per
saperne di più
Félix
Carrasquer: La Escuela de Militantes de Aragón.
Una experiencia de autogestión educativa y económica,
Barcelona, Foil, 1978, 178 pp.
Félix Carrasquer: Una experiencia de educación
autogestionada. Escuela Eliseo Reclus, calle Vallespir
184, Barcelona años 1935-1936, Barcelona,
edición del Autor, 1981, 189 pp.
Félix Carrasquer: Las colectividades de Aragón.
Un vivir autogestionado, promesa de futuro, Barcelona,
Laia, 1986, 295 pp.
Monografia dedicata a Félix Carrasquer sulla
revista Anthropos, novembre de 1988, Nº90
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I
nostri fondi neri
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Sottoscrizioni. Claudio Neri (Roma) 10,00;
Samuele Grassi (Firenze) 10,00; a/m Toni, circolo
Berneri (Bologna) ricordando Francesco “Franz”
Lo Duca, 60,00; Davide Foschi (Gambettola –
Fc) 10,00; Beppe Chierici (Todi – Pg) 30,00;
a/m Fabio Santin, Maolo Records, 10,00; a/m Musica
per “A,” Gianfranco Medde (Carmagnola
– To) 11,00; Libreria San Benedetto (Genova)
28,30; Francesco D'Alessandro (Sesto San Giovanni
– Mi) 370,00; Aurora e Paolo (Milano) ricordando
Giuseppe Pinelli, 500,00; Massimiliano Bonacci (Bologna)
10,00; Davide Foschi (Gambettola – Fc) 10,00;
Matteo Dispenza (Torino) 30,00; Daniele Del Freo (Carrara
– Ms) 10,00; Pino Fabiano (Cotronei –
Kr) ricordando Spartaco (2008-2013), 10,00; William
Cattivelli (Cremona), 10,00; Dario Fariello (Napoli)
5,00. Totale € 1.114,30.
Abbonamenti sostenitori. (quando non altrimenti
specificato, trattasi di euro 100,00). Arnaldo
Androni (Bacedasco Basso – Pc); Stefano Stofella
(Rovereto – Tn); Andrea Ridolfi (Castiglione
di Cervia- Ra); Fernando Ferretti (San Giovanni Valdarno
– Ar) 150,00. Totale € 450,00.
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