Catalogna
L'eterna seduzione del nazionalismo
testo e foto di Steven Forti
Alcune riflessioni sparse sulla questione catalana.
E, più in generale, sul rapporto tra “lotte nazionali” e lotta di classe.
Scrivere a caldo, si suol dire,
non è cosa buona e giusta. Bisognerebbe far passare del
tempo e scrivere a mente fredda. Tendenzialmente sono d'accordo.
Il fatto è che qui in Catalogna la situazione è
“calda” da più di un anno e non ci sono avvisaglie
che si raffreddi in tempi ragionevoli.
Dunque, è meglio scrivere, prima che passi troppo tempo,
perché il dibattito di fondo, lungi dall'essere solo
catalano, è di interesse generale.
In queste pagine vorrei evitare di toccare temi di cronaca spiccia
o riportare dichiarazioni altisonanti, che per lo più
lasciano il tempo che trovano, di dirigenti i cui nomi si dimenticheranno
nel giro di qualche anno. Non parlerò dunque del possibile
referendum di autodeterminazione catalano (si terrà o
non si terrà? e in questo caso, che domanda si porrà
ai cittadini catalani?) né della catena umana che ha
riunito oltre un milione e mezzo di persone lo scorso 11 settembre.
Non parlerò neppure dell'infausto centralismo di Madrid
e dell'atavico nazionalismo spagnolo, che alimenta il nazionalismo
e l'indipendentismo catalano, da cui poi, a sua volta, si retroalimenta,
né delle prese di posizione europee (una Catalogna indipendente
rimarrebbe fuori dall'Unione Europea?).1
Sono già in troppi ad urlare – con insulti gratuiti
inclusi e grazie ai mass media che da un lato o dall'altro dell'Ebro
spillano propaganda a seconda delle lobby di riferimento e che
dimostrano ancora una volta che nelle baraonde politico-identitarie
ci sguazzano – e pochi, pochissimi sono quelli che cercano
di riflettere, favorendo l'apertura di un dibattito che si fa
di giorno in giorno più difficile. Un dibattito che alla
base ha, almeno per chi si sente un membro della vasta ed eterogenea
famiglia della sinistra, una vexata quaestio da risolvere:
quella della relazione tra classe e nazione. Pensare di risolverla
sarebbe forse un'utopia, complessa tanto quanto quella descritta
cinque secoli fa da Tommaso Moro. Provare a ripensarla in questo
inizio di XXI secolo è invece una necessità. Può
dunque la sinistra essere nazionalista, senza perdere la sua
identità? Lotta di classe e lotta nazionale possono andare
mano nella mano? E ancora, nell'Europa del 2013 possiamo parlare
di popoli oppressi e sfruttati che lottano per la loro emancipazione?
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Manifesto “Catalunya contra el Feixisme”
della gioventù del partito indipendentista Estat Català |
Marx, Lenin, Mao
La tematica non è affatto nuova. Molti ne hanno scritto.
A partire da Marx con le riflessioni sui casi della Polonia
e soprattutto dell'Irlanda, considerate nazioni oppresse. In
Irlanda, per il Marx maturo, non c'era una questione sociale
al di fuori di una questione nazionale. Anche l'ultimo Engels
sottolineò in più occasioni come l'internazionalismo
del proletariato era possibile solo se esistevano nazioni indipendenti.
La posizione di Lenin, ribadita più chiaramente nel Congresso
dei popoli oppressi tenutosi a Baku nel 1920, era stata resa
esplicita già nel 1916: “Credere che la rivoluzione
sociale sia immaginabile senza le insurrezioni delle piccole
nazioni nelle colonie e in Europa (...) significa rinnegare
la rivoluzione sociale”.
Anche Mao, almeno a partire dalla Lunga Marcia iniziata nel
1934, dimostra posizioni orientate ancora di più in questa
direzione: “nella lotta nazionale, la lotta di classe
assume la forma di lotta nazionale; e in questa forma si manifesta
l'identità tra le due lotte”. Ovvero: “Nella
guerra di liberazione nazionale, il patriottismo è perciò
un'applicazione dell'internazionalismo”.
Seguono poi i cosiddetti classici del socialismo terzomonidista
della metà del novecento, dove la lotta per la liberazione
di una nazione oppressa si unisce indissolubilmente alla lotta
di classe. Gli esempi sono numerosi (da Cuba al Vietnam, dai
paesi arabi al Congo fino alle Black Panther). Non è
un caso che Editori Riuniti intitolò la raccolta di saggi
politici di Ho Chi Minh pubblicata nel 1968 Socialismo e
nazione.
Per quanto la cultura marxista sia passata di moda dopo il 1989,
ciò non toglie che alcuni settori dell'indipendentismo
catalano recuperino, coscientemente o meno, parte di queste
analisi. Una cosa non nuova in Spagna (e non solo): si pensi
alla sinistra abertzale nei Paesi Baschi dai tempi di
Herri Batasuna al presente di Bildu o al caso galiziano con
il primo Bloque Nacionalista Galego o l'attuale Alternativa
Galega de Esquerda. Anche in Catalogna l'unione di classe –
permettetemi, anche per l'oggi l'uso di un termine considerato
ormai desueto – e nazione non è una novità.
La novità è semmai il consenso che tali posizioni
stanno ottenendo. Si badi bene: coloro i quali sono a favore
dell'indipendenza della Catalogna non sono solo partiti ed associazioni
del composito mondo della sinistra catalana (e di quel che ne
rimane di questi tempi). La destra di Convergència Democràtica
de Catalunya è passata nell'ultimo biennio da una posizione
autonomista a una indipendentista, il centro-sinistra di Esquerra
Republicana de Catalunya ha sposato la tesi di un indipendentismo
senza complessi.
È fuorviante e completamente erroneo, dunque, leggere
la situazione catalana come un'opposizione tra la destra (spagnolista)
e la sinistra (catalanista). Le fratture sono molteplici, sia
nella società sia nei partiti politici. La sinistra ecologista
e post comunista di Iniciativa per Catalunya Verds è
spaccata al suo interno, come anche la federazione socialista
catalana, per quanto i due partiti abbiano votato in modo diverso
riguardo al diritto di autodeterminazione e dimostrino diverse
sensibilità sulla volontà di celebrare o meno
un referendum.
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La catena umana nel centro di Barcellona lo scorso
11 settembre 2013 |
Questione complessa e delicata
Lo stesso vale per il mondo anarchico e libertario, da sempre
meno sensibile al richiamo della patria e della nazione. Non
sono pochi però gli anarchici catalani indipendentisti,
sia all'interno sia all'esterno della Fai. Esiste poi la Candidatura
d'Unitat Popular (Cup), formazione anticapitalista entrata per
la prima volta nel Parlamento catalano nel novembre scorso con
tre deputati e il 3 per cento dei voti, che considera sociale
e nazionale i pilastri del proprio pensiero e della propria
azione. Per la Cup, l'indipendenza catalana non è separabile
dalla lotta per politiche sociali avanzate. Negli ultimi sondaggi
di inizio ottobre la Cup raddoppierebbe i voti.
Un'altra formazione è sorta recentemente: il Procés
Constituent guidato dall'economista Arcadi Oliveres e dalla
teologa benedettina Teresa Forcades che difende una Repubblica
catalana indipendente libera dalle banche e dai poteri finanziari.
Sociale e nazionale vanno mano nella mano.
La questione è invero assai complessa e delicata. Un
italiano fatica a capirla e, usando paradigmi conosciuti, la
identifica con una specie di leghismo oltre frontiera. Certo,
il discorso della destra catalanista basato sull'economia, le
tasse e l'anticentralismo avvalla in parte questa analogia:
“Roma ladrona!” si converte in “¡Madrid
ens roba!”. Ossia, “Madrid ci ruba!”. Ma c'è
di più.
Torniamo però alla relazione classe-nazione e facciamo
un altro passo indietro. L'estate del 1914 è stato uno
dei buchi neri nella storia del proletariato. La socialdemocrazia
tedesca vota i crediti di guerra e il socialismo francese decide
di entrare nella Union sacrée. Il militante (socialista)
si trasforma in militare (tedesco o francese). È la fine
dell'internazionalismo. Pochi resistono al fascino della patria.
Lenin, Rosa Luxemburg, Gorter, Pannekoek e Malatesta, tra gli
altri. Anche in Italia, per quanto il Psi né aderì
né sabotò la guerra, non furono pochi gli interventisti
provenienti dalle fila della sinistra: Mussolini e qualche sparuto
socialista rivoluzionario e molti sindacalisti rivoluzionari,
in odore di nazionalismo già dalla guerra di Libia (Arturo
Labriola, Ottavio Dinale...), come era avvenuto in Francia per
Gustave Hervè. Pochi furono i “superstiti”
all'abbraccio della patria; nelle fila sindacaliste rivoluzionarie
meritano una menzione Armando Borghi, Virginia D'Andrea e Pulvio
Zocchi, accusato d'essere pagato profumatamente dagli Imperi
Centrali (come il Lenin che nel 1917 attraversò la Germania
diretto in Russia) per aver pubblicato all'inizio del 1915 Coerenza,
un periodico anarco-sindacalista neutralista. In ogni caso,
se evitiamo il senno di poi e ci immergiamo in quel momento
storico, i propositi spesso non erano malvagi o non parevano
tali: la guerra la si faceva per difendere la patria della rivoluzione
e della libertà dai “barbari” tedeschi guglielmini
e per fare poi la rivoluzione sociale. Prima la guerra, poi
la rivoluzione. Ben altro è successo.
Facciamo ora un passo in avanti. Nel periodo interbellico non
furono pochi i tentativi di coniugare sociale e nazionale. E
non penso solamente al nazionalsocialismo e al corporativismo
fascista. Penso anche alla cosiddetta terza via, al planismo
di Henri De Man, ai neosocialisti francesi di Renaudel e Marquet
e a molti altri casi comparabili in Europa. E penso anche a
traiettorie individuali, come quelle di alcuni socialisti, comunisti
e sindacalisti rivoluzionari che si convertirono al fascismo
tra anni venti e anni trenta. Jacques Doriot, Paul Marion e
Marcel Déat in Francia, Óscar Pérez Solís
e Ramón Merino Gracia in Spagna, Nicola Bombacci, Alberto
Malatesta e Edmondo Rossoni in Italia, solo per fare qualche
nome.2
Non è un caso che fu proprio quando il fascismo giocò
la carta della patria vilipesa e attaccata in ambito internazionale
(le sanzioni della Società delle Nazioni per la guerra
d'Etiopia nel 1935) che Arturo Labriola rientrò in Italia
dall'esilio a Bruxelles scrivendo al figlio che “Bisogna
avere il santo coraggio di identificarsi col proprio paese anche
in quello che il proprio paese può presentare di contrario
alle nostre tendenze.” Non è un caso nemmeno il
fatto che Stalin giocò la carta propagandistica della
“grande guerra patriottica” dopo l'invasione nazista
dell'Urss per unificare il popolo sovietico. È fuor di
dubbio che in quegli stessi anni la relazione tra classe e nazione
ha dato anche frutti bellissimi, per quanto di corta durata,
come le esperienze dei Fronti popolari in Francia e Spagna o
le esperienze partigiane in Italia, Francia e Jugoslavia (e
anche in Grecia, spesso dimenticata). Ciò non toglie,
in ogni modo, che i tentativi di unire sociale e nazionale,
classe e nazione siano spesso un modo rischioso di giocare con
il fuoco. La nazione è una fiamma incontrollabile che
può bruciare in pochissimo tempo un lavoro sociale durato
decenni. Quello che mi domando è dunque: ne vale la pena?
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Bandiere indipendentiste nella catena umana nel
centro di Barcellona lo scorso 11 settembre 2013 |
Una nazione sfruttata e oppressa?
Non è questa l'unica domanda che mi pongo, tutt'altro.
Entrando più in concreto nel caso catalano: possiamo
considerare la Catalogna del 2013 una nazione sfruttata e oppressa
(da 300 anni di dominio spagnolo, come frequentemente si sente
ripetere)? Ha senso, politicamente e storicamente parlando,
applicare modelli terzomondisti a una regione autonoma europea
nel XXI secolo? E ancora: di che libertà si parla quando
si dice che si vuole una “Catalogna che vive in libertà”?
Non è ormai la parola libertà un contenitore svuotato
di qualunque suo significato? Libertà da che cosa e per
che cosa? A cosa serve una Catalogna indipendente se il proletariato
(leggasi lavoratore precario o disoccupato) andaluso, galiziano
e madrileno è ancora sfruttato? Una Catalogna libera
sarebbe una Catalogna diversa dal punto di vista sociale? E
una domanda a monte: Come si può stringere la mano al
proprio sfruttatore (la borghesia catalana) per un obiettivo
comune (l'indipendenza)?
Vorrei concludere con un ultima citazione di un pensatore dimenticato:
Anton Pannekoek. Nel 1912, il pensatore olandese scrisse Lotta
di classe e nazione, una risposta a La questione delle
nazionalità e la socialdemocrazia di Otto Bauer,
pubblicata nel 1907. Pannekoek vi affermava che “il proletariato
non può trovare nessuna forza costitutiva nella nazione.
(...) Ciò che è nazionale non ha per il proletariato
altro significato che quello di una tradizione. (...) la nazione
gioca per il proletariato un ruolo simile a quello della religione.”
E ancora: “Ciò che è nazionale (...) costituisce
un ostacolo per la lotta di classe e deve essere eliminato.
(...) gli antagonismi nazionali costituiscono un mezzo eccellente
per dividere il proletariato, distrarlo dalla lotta di classe
con slogan ideologici e impedire la sua unità di classe.
(...) Agli slogan e agli argomenti nazionalisti dobbiamo rispondere:
sfruttamento, plusvalore, borghesia, dominio di classe, lotta
di classe.”3 Ad alcuni
probabilmente tutto ciò puzza di naftalina. Io non ne
sono convinto. Credo invece che sia ancora oggi uno dei migliori
antidoti a questa “eterna seduzione del nazionalismo”4.
Steven Forti
Note
- Per una cronaca ragionata della questione catalana rimando
a due libri usciti recentemente in Italia: Elena Marisol Brandolini,
Catalunya – España, il difficile incastro,
Roma, Ediesse, 2013 e Angelo Attanasio e Claudia Cucchiarato,
La questione catalana. Independéncia?, GoWare,
2013 [e-book].
- Per un approfondimento di questi casi vedasi il mio El
peso de la nación. Nicola Bombacci, Paul Marion y Óscar
Pérez Solís en la Europa de entreguerras,
Santiago de Compostela, PUSC, 2013.
- Cito dall'edizione spagnola: Anton Pannekoek, Lucha de
clases y nación, in Herman Gorter e Anton Pannekoek,
Contra el nacionalismo, contra el imperialismo y la guerra:
¡Revolución proletaria mundial!, Ediciones
Espartaco Internacional, 2005, pp. 39, 40, 41, 60, 51.
- Prendo a prestito il titolo dal bel saggio di Fredy Perlman
pubblicato in Italia dalla casa editrice Chersi di Brescia
nel 2006.
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