uomini in vendita
Storia (a lieto fine?) di uno schiavo contemporaneo
di Moreno Paulon
Dall'Indonesia alla Malesia, dalla promessa di un futuro migliore allo sfruttamento nei campi di lavoro. È la storia di Nuryadi, uno dei tanti “dannati della terra”, uno dei pochi che sono riusciti a tornare a casa.
Le informazioni sono lacunose,
ma grosso modo è andata così: in una mattina di
afa e zanzare, nell'entroterra dell'isola di Lombok, una sorta
di agente, un intermediario, un faccendiere del diavolo è
arrivato alle porte del villaggio. Un villaggio rurale di polli
vaganti, di vestiti scoloriti appesi alla porta della stalla,
di sentieri stretti e sterrati che si snodano sottili come crinali
di montagne tra i campi coltivati. Un villaggio decentrato come
ce ne sono molti nell'arcipelago indonesiano, fatto di poche
famiglie, di case leggere con pareti intrecciate di bambù
e tetti di foglie di palma. I bambini correvano scalzi fra le
capre e sollevavano urla di gioco e polveroni; le donne pazienti
all'ombra di enormi copricapo stavano smistando il raccolto
e un'anziana in disparte succhiava una manciata di tabacco,
osservando la scena senza capirci un gran che.
La presenza del forestiero metteva un po' tutti in soggezione:
aveva le scarpe ai piedi e un orologio luccicante al polso,
era uno che sapeva il fatto suo, uno certamente in grado di
leggere e di scrivere. Fu accolto con precipitosa ospitalità
all'ombra della bruga, la tradizionale capanna d'accoglienza
domestica rialzata dal terreno, e parlò direttamente
al giovane capofamiglia: Nuryadi. Si informò rapidamente
sulle condizioni del parentado e poi disse qualcosa sulle possibilità
di un futuro migliore, su certe occasioni che aveva sotto mano;
fece capire che si poteva guadagnare qualche bel soldo con un
lavoro all'estero, dove le cose erano diverse in economia. Certo
c'era da adattarsi, il lavoro era impegnativo, ma si trattava
di un sacrificio temporaneo e Nuryadi gli sembrava un uomo forte.
Non lo era? Certo che lo era, e si vedeva che la buona volontà
non gli mancava. Meritava di più, era uno in gamba, come
non notarlo. Si capisce che un lavoro all'estero, per una grande
compagnia già avviata e tutto, non capitava tutti i giorni.
Lui in veste intermediario si sarebbe occupato di ogni cosa,
avrebbe organizzato il trasferimento aereo, ottenuto i visti,
pianificato la permanenza, preso i dovuti accordi con il padrone
dell'azienda che offriva il lavoro. Non era neanche necessario
saper leggere e scrivere, avrebbe fatto tutto lui, nessun disturbo.
Naturalmente c'era da affrontare l'investimento iniziale per
il passaporto, per l'aereo e il visto, bisognava fare tutto
secondo la legge per non avere rogne, e l'azienda non poteva
certo investire alla cieca pagando aerei e documenti così
sulla fiducia col rischio di trovarsi sul groppone un cattivo
lavoratore. Ma se Nuryadi era un uomo serio e valido come sembrava,
se la sua famiglia avesse voluto sostenerlo per l'inizio, con
il suo guadagno poi si sarebbe ammortizzato tutto. L'agente
parlava così e a tratti sorseggiava il tè servito
dalla giovanissima moglie di Nuryadi. A dirla franca Nuryadi
non fremeva dalla smania di andarsene di casa, di lasciare così
d'un tratto la sua vita, le bestie, il villaggio e soprattutto
sua moglie da sola; ma lui e la sua compagna avevano una figlia
in arrivo e urgente bisogno di soldi per tirarla su.
Il lavoro all'estero sembrava capitare proprio al bisogno. Nuryadi
fa parte di una famiglia allargata di 22 membri, tutti analfabeti,
di quelli che non hanno mai messo piede in un'aula di scuola
perché fino a vent'anni fa non ne esistevano in paese,
di quelli che addirittura mettono la X dove gli dicono di metterla
quando c'è da firmare una dichiarazione e sanno a malapena
far di conto. Con le poche carte che aveva in mano, nel suo
villaggio c'era poco da fantasticare glorie: i piedi ammollo
nei campi di riso, la stalla, all'occasione qualche lavoro edile
sottopagato da rompere la schiena, oppure fare il facchino sul
monte Rinjani, caricandosi in spalla i carichi dei turisti occidentali
che fanno trekking, anticipandoli di corsa sul percorso per
fargli trovare tutto bello e pronto sulla cima insieme a un
piatto caldo. Quest'ultimo era il lavoro di Nuryadi, un lavoraccio
che si può fare finché si è giovani e forti,
ma poi? Cosa succede quando i turisti eccitati, riposati e con
zaini alleggeriti vanno su più veloce di te? Chi la cresce
la bambina?
L'agente posava il bicchiere e ragionava ancora sul futuro:
con un po' di soldi da parte si può cambiare la vita,
magari non per noi certo, ma per i nostri figli sì, li
si può mandare a scuola, perché imparino a leggere,
a scrivere e far di conto, per avere più carte da giocare.
E così, poco entusiasta di fare il facchino per i turisti,
con una moglie incinta e con la libertà che resta agli
ultimi della fila, Nuryadi decise di partire, di mettere la
X dove c'era da metterla, e di sacrificarsi con la sua giovane
moglie per l'istruzione della bambina nel suo grembo, perché
non fosse costretta a spezzarsi la schiena coltivando il riso
o portando carichi sopra la testa tutto il giorno come facevano
loro. E poi in futuro chissà, se avesse imparato un po'
di inglese, avrebbe addirittura potuto fare la guida per i turisti,
o lavorare in un ufficio, magari fare la cameriera in città,
vestita di tutto punto e con le mani e il viso puliti, senza
polvere e malattie. Qualche tempo dopo, Nuryadi lasciava la
sua casa, il vulcano Rinjani e una figlia di pochi mesi.
E il tempo perde consistenza
Al suo arrivo in Malesia, per prima cosa a Nuryadi furono
sottratti e trattenuti i documenti di identità. Questa
la procedura: l'imprenditore tiene i documenti fino alla fine
del lavoro. Fu poi portato in una baracca fuori Kuala Lumpur
e tenuto per tre giorni in attesa insieme a centinaia di immigrati
provenienti da altre nazioni, tutti democraticamente maltrattati
allo stesso modo, come bestie numerate in fila in attesa del
macello. Una prigionia senza cancelli la loro, senza sbarre,
a bassa sorveglianza. Spaesati com'erano per quei metodi da
galera, senza documenti regolari in terra straniera, analfabeti
e vittime del sortilegio di Babele, non potevano allontanarsi,
organizzarsi, nemmeno comprendersi l'un l'altro. Dopo tre o
cinque giorni di limbo, furono smistati dai dirigenti in gruppi
minori e trasportati nei rispettivi campi di lavoro, dove iniziarono
la dura raccolta dell'olio di palma. Sveglia, lavoro, pranzo,
lavoro, cena, letto. Dopo le prime settimane il tempo iniziò
a perdere consistenza e a scivolare via dalle mani, non si misurava
più. Sveglia, lavoro, pranzo, lavoro, cena, letto. Un
giorno dopo l'altro, Nuryadi venne trattenuto nel campo per
tre anni, lavorando nove ore al giorno, sette giorni su sette,
per 45 euro al mese. Entrato regolarmente in Malesia, il suo
visto di ingresso fu lasciato scadere, trasformandolo così
in un immigrato irregolare sul suolo nazionale, mentre il guinzaglio
del passaporto impugnato dall'imprenditore lo legava inesorabilmente
a lui come un cane alla lunghezza del passo del padrone.
Vivendo di stenti e trattato come uno schiavo, Nuryadi riusciva
a mandare alla famiglia qualche briciola di pane ogni mese,
un numero irrisorio rispetto alle aspettative. I soldi erano
così pochi che sua moglie al villaggio era costretta
a lavorare come operaia edile, portando macigni e polveri in
un cesto sulla testa avanti e indietro per il fiume per 1,29
euro a giornata, sperando che Nuryadi prima o poi riuscisse
a tornare, che potesse conoscere sua figlia finché era
bambina. Dopo tre anni di sfruttamento brutale, Nuryadi raccolse
la grinta e decise di scappare dal campo di lavoro. Capita che
intravedere la cima del monte al culmine dello sforzo restituisca
vigore e tenacia al passo dell'alpinista. Così fu per
Nuryadi, che fissò una cima al di là del mare
e decise di unirsi ad un gruppo di esuli disperati come lui,
di attraversare clandestinamente lo stretto nell'oceano col
rischio di farsi arrestare, di farsi ammazzare per raggiungere
la sua vetta: tornare a casa da sua moglie e sua figlia. L'attraversamento
era rischioso e il nemico questa volta aveva l'uniforme. Le
pattuglie di polizia stavano serrate sul confine come perle
di un rosario che non si discute, si esegue. Ai loro occhi Nuryadi
non era che un immigrato clandestino da respingere, una minaccia
da eliminare, una macchia da pulire, un criminale da trattare
secondo l'arbitrio delle leggi di sicurezza nazionali.
Nuryadi ha aspettato per una settimana al porto, nascosto in
una barca con tutti gli altri clandestini. Poi finalmente, complice
una notte senza luna, lo scafista si decise a rischiare la candela,
e avvenne lo sbarco. Nuryadi, uno fra gli innumerevoli dannati
della Terra, è fra i pochi clandestini che hanno
avuto la fortuna di tornare a casa. La sua è una delle
poche storie che non sono finite affogate nel nome della legge,
della sicurezza, della pulizia. Non parla volentieri dei dettagli,
è arrivato da un giorno e per ora vuole solo rimuovere,
dimenticare, ricominciare. Ha passato tre anni sequestrato in
un campo di lavoro per un'azienda di produzione di olio di palma,
ha speso tutto quel poco che aveva guadagnato per pagare uno
scafista illegale e rientrare clandestinamente a casa. Torna
alla terra umiliato e offeso, torna da sua moglie e da una figlia
che non si ricorda di lui per raccontare loro che è stato
tutto inutile, che malgrado tre anni di coraggio e impegno e
lontananza lui e sua moglie non possono permettersi l'istruzione
della bambina, con i costi dell'uniforme, i quaderni, le scarpe,
le matite.
Il prossimo faccendiere del diavolo
La storia di Nuryadi non è un unicum, è
anzi un caso esemplare di traffico di esseri umani. Il traffico
è una rete internazionale di criminalità organizzata,
di contatti, di intermediari informali, di uomini qualunque
con le mani sporche. È un'attività che sfrutta
i confini nazionali, la polizia repressiva, la presenza di diritti
differenziati fra gli Stati che creano cittadini di prima, di
seconda e di terza classe. La rete criminale vive nelle intercapedini
della legge e si fa forza della globalizzazione del capitalismo,
ridendo della globalizzazione di istanze più urgenti
quali diritti economici, istruzione, pari opportunità.
Il traffico sguazza nella disuguaglianza strutturale dei cittadini
del mondo, nell'ignoranza e nella povertà degli ultimi.
La struttura più frequente vede sulla scacchiera quattro
pedine: un intermediario locale contatta la vittima, la indirizza
ad un altro intermediario oltreconfine e quest'ultimo gestisce
la sua permanenza e le relazioni con il capo straniero. Il traffico
è un crimine invisibile e in Indonesia si cela soprattutto
nelle cucine dei ristoranti e nelle camere degli alberghi, nella
prostituzione da resort e da centro benessere, nel lavoro industriale,
agricolo e minerario. È un fenomeno che coinvolge uomini,
donne e anche bambini; offre servizi in apparenza innocui e
regolari (raccolta di frutta, pulizie, edilizia...), ma che
a monte riposano sulla rete criminale della tratta, sul sequestro
dei documenti e sul lavoro non retribuito. Un'esponente del
Ppk, organizzazione non governativa operativa a Mataram, Indonesia,
informa che ogni anno si registrano 250-300 casi di traffico
di esseri umani, e che questi sono solo la punta di un iceberg:
la piccola parte che realizza la gravità dell'abuso,
trova il coraggio di esporsi e si spinge fino alle porte delle
associazioni.
Lombok partecipa al traffico come punto di partenza, destinazione
e transito. Donne e bambini sono destinate al traffico locale,
gli uomini più spesso vengono esportati e impiegati sul
mercato internazionale. “Siamo coordinati con associazioni
e organizzazioni locali e internazionali, lavoriamo qui da 25
anni ma è sempre difficile intervenire sul territorio.
Gli squilibri internazionali incoraggiano povertà ed
emigrazione. La legge non è un deterrente sufficiente,
le condanne sono difficili da raggiungere e le pene inadeguate,
così il traffico continua”. L'arma più efficace,
alla luce di queste informazioni, sembra essere la sensibilizzazione
diretta praticata come misura preventiva, raccontando e condividendo
singole esperienze come quella della famiglia di Nuryadi per
destare l'attenzione di potenziali vittime future, mettendole
in guardia contro il prossimo faccendiere del diavolo che busserà
alla porta dei poveri con i suoi oracoli bugiardi, cercando
di vendere loro ancora una volta le favole marce del più
selvaggio capitalismo internazionale.
Moreno Paulon
Quella
raccontata in questo articolo è una delle storie
raccolte nel corso di The Human Earth Project ideato
da Ben Randall, un viaggio di sei mesi attraverso l'Asia
intrapreso con il proposito di accompagnare
una campagna fotografica dal sapore esotico
a due scopi maggiori: la conoscenza delle condizioni
di vita di 100 soggetti scelti casualmente e la
sensibilizzazione del vasto pubblico verso il traffico
di esseri umani fra Vietnam e Cina (humanearth.net).
foto Ben Randall
|
foto Ben Randall |
|