Azzardopatia,
non ludopatia
Con un giro d'affari da 87 miliardi di euro nel 2012, l'Italia
è il paese europeo che spende più denaro nel gioco
d'azzardo. Il 12 per cento dei consumi delle famiglie italiane
sono dedicati all'azzardo, cifra che secondo la Coldiretti corrisponde
al 70 per cento della spesa in beni alimentari.
Più della metà degli introiti dell'azzardo viene
dalle slot machine, 400mila “macchinette” sparse
nelle sale giochi, nei tabaccai e nei bar di tutto il paese.
C'è chi gioca solo l'euro di resto che gli dà
il barista, e c'è chi dopo quell'euro non si riesce a
fermare. Si stima che in Italia i giocatori patologici siano
circa 800mila, e che siano tre milioni le persone a rischio.
Le conseguenze sociali della crescita del settore – che
dalla liberalizzazione del decennio scorso ha registrato un'impennata
del 500 per cento – sono disastrose e, mentre le mafie
e lo stato incassano gli utili, i comuni devono occuparsi del
recupero dei giocatori patologici.
L'azzardo è la dipendenza più in auge al giorno
d'oggi“, spiega ad A rivista Simone Feder, psicologo e
coordinatore dell'Area giovani e dipendenze della comunità
Casa del giovane di Pavia. “La ludopatia è una
malattia che io non riconosco, perché è l'azzardo
ad ammalare, non il gioco. Non dobbiamo parlare di ludopatia
ma di azzardopatia o meglio, come si dice a livello internazionale,
gioco d'azzardo patologico. È una malattia che colpisce
sempre più persone ed è una dipendenza da un comportamento
che è molto reiterato, quindi è ossessivo-compulsivo”.
Questa caratteristica è ben nota a chi lucra sugli “azzardopati”,
e non è un caso se i tempi di giocata delle slot machine
sono stati velocizzati. “Una slot machine fa un giro ogni
quattro secondi: ogni quattro secondi si mangia un euro. Fai
conto quanti secondi ci sono in un minuto, quanti minuti ci
sono in un'ora e quante ore in una giornata”, racconta
un “giocatore anonimo”.
I Giocatori anonimi sono gruppi di auto-aiuto presenti in molte
città italiane. É un'associazione che si autofinanzia
e che ha come unico requisito per entrarne a far parte il desiderio
di smettere di giocare. Abbiamo raccolto le testimonianze di
alcuni suoi membri:
Prima testimonianza: Io ho giocato per sette anni circa
e mi sono rovinato, economicamente e affettivamente, correndo
il rischio di perdere la mia famiglia. Non ero più una
persona ma un mollusco, così ho deciso di andare al Sert
(Servizi per le tossicodipendenze) dove mi hanno detto che non
esistono medicine per la mia malattia, e mi hanno suggerito
di recarmi a Giocatori anonimi.
Nella prima riunione ho capito e accettato di essere malato.
Da allora, giorno dopo giorno, sto vincendo le mie battaglie
che sono giornaliere, perché se mi metto in guerra col
gioco, quello vince. Ogni giorno mi dico “oggi non devo
giocare” e fortunatamente fino a ora non l'ho fatto, anche
se mi piacerebbe. L'azzardo è sempre una porta socchiusa,
non è mai chiusa del tutto, se gioco un euro ne gioco
due, poi cinque e così via. Un ragazzo durante una delle
ultime riunioni di Giocatori anonimi ha detto una cosa vera:
“al gioco vince chi non gioca”.
In che modo mi sono avvicinato alle slot machine non lo so.
Inizi buttando due euro nella macchinetta per vedere cosa succede
e senza accorgertene ci metti dentro somme sempre più
rilevanti, fino al punto in cui pensi solo a giocare, non ti
interessa la famiglia, non ti interessa la tua vita, non ti
interessa niente. A un certo punto mi son trovato a passare
quattordici ore al giorno davanti alla slot machine: mi svegliavo
di notte pensando alla macchinetta, il mattino mi svegliavo
alle cinque per uscire di casa ed essere il primo davanti al
locale per giocare, non mi rendevo conto di essere malato. Io
arrivavo al punto che se la macchinetta mi dava dei soldi li
rimettevo dentro, li perdevo e poi mettevo quelli che mi ero
portato dietro, e così via.
Il problema è la facilità con cui si può
accedere alle slot machine: entri in un tabacchino e c'è
una slot machine, entri nel bar e nel retro c'è la slot.
È stato questo proliferare che mi ha fregato, perché
molto probabilmente non sarei mai entrato in una sala giochi
apposta per giocare con le slot. Nel retro del bar in cui giocavo
c'erano sette macchinette, roba da arrivare alla fine del pomeriggio
con giramenti di testa e nausea. Ci sbattevano fuori dal bar
perché dovevano chiudere e fare pulizie, ci venivano
a lavare i pavimenti sui piedi. Tra noi ci dicevamo: “Tu
quanto hai perso?”. “Duecentocinquanta euro”.
“Ah, io 600”. Come se chi avesse perso di più
fosse il più forte.
Io che sono un compulsivo di slot avevo un rapporto diretto
con la macchinetta: quella macchinetta era la mia, di conseguenza
ci dovevo giocare io; ecco perché alle 5 del mattino
ero davanti al bar aspettando che aprisse. Non riesco a capire
come si prenda questa malattia, so solo che in un certo momento
sono diventato giocatore compulsivo.
Seconda testimonianza: Il gioco è sempre stato
una parte della mia vita: all'età di otto anni ero in
montagna a giocare a poker con gli amici di mio fratello che
ne avevano quattordici, e ho perso una cifra di sei-sette milioni
di lire senza neanche rendermi conto di cosa stavo facendo.
Non ho mai potuto fare a meno di giocare, non mi potevo tirare
indietro di fronte a qualsiasi cosa inerente a una scommessa
e all'azzardo, e mi piaceva.
Arrivi a un punto in cui non ti interessa di vincere o perdere,
ma solo di giocare e avere l'adrenalina del gioco: una volta
al casinò di San Remo in un'ora e mezza ho vinto circa
sedici milioni di lire, ma mi sono sentito più soddisfatto
quando li ho persi tutti nel giro di un'ora e mezza, oltre a
perdere tutti i soldi che mi ero portato dietro.
Poi ho iniziato ad avere gli attacchi di panico, mia moglie
era incinta del secondo figlio e io avevo gli attacchi di panico
perché non avevo il coraggio di dirglielo.
La mattina dopo la mia prima riunione di Giocatori anonimi,
per la prima volta dopo anni, mi sono guardato allo specchio
senza vergognarmi perché avevo fatto ventiquattro ore
senza giocare. Dal 2003 ho staccato il gioco dalla mia vita
ed è una cosa fantastica perché io vivevo per
il gioco, pensavo per il gioco.
Terza testimonianza: Nell'ultimo anno ho giocato moltissimo.
Psicologicamente ero distrutto e ho parlato con mia moglie perché
non ce la facevo più, dormivo due-tre ore per notte,
mi alzavo e vomitavo, stavo proprio male fisicamente e lei ha
cercato di tenere in piedi la baracca. Abbiamo trovato su internet
Giocatori anonimi; dopo nemmeno tanto che andavo lì riuscivo
a guardarmi allo specchio. Psicologicamente mi sento meglio,
anche se ho ancora dei problemi: a volte sento un'angoscia che
mi viene da dentro, è proprio un dolore fisico che ho.
Orsetta Bellani
Argentina e Cile/
Multinazionali e stati contro i mapuche
Il popolo mapuche detiene un vero record di “resistenza”,
per lo meno in termini di durata temporale. Già oltre
cinquecento anni fa si trovò a dover fronteggiare le
mire espansionistiche del popolo Inca; poi arrivarono gli spagnoli
e la questione cominciò a farsi seria. I Mapuche fronteggiarono
fieramente gli invasori, il capo guerriero Lautaro riuscì
anche a guidare il suo popolo a qualche gloriosa vittoria, però
i Mapuche capirono presto che gli uomini bianchi avevano una
particolare “venerazione” per l'oro e l'argento.
Così decisero di buon grado di rinunciare alla lavorazione
di questi metalli e soprattutto (per non rischiare) si spinsero
sempre più giù nell'America Latina, verso terre
deserte e latitudini ostili, sperando che nessun altro venisse
fin laggiù a molestarli.
I problemi ricominciarono quando arrivò lo stato (chissà
quanti anni son dovuti passare prima che i Mapuche capissero
cos'è uno stato...). Lo stato argentino cominciò
sul finire dell'ottocento la gloriosa campagna militare denominata
“Conquista del deserto”: già dal nome si
evince la grande umanità dei burocrati argentini, che
evidentemente consideravano le persone che abitavano da centinaia
di anni quelle terre al pari di puma e condor. Lo stato cileno
non volle essere da meno e si affrettò a conquistare
anch'esso la propria fetta di torta prima che gli venisse rubata
da altri.
La resistenza del popolo mapuche contro lo stato (argentino
e cileno) va avanti ancora oggi. Però, dopo “scocciature”
come la Carta dei diritti umani e la rinnovata attenzione nei
confronti dei popoli selvaggi, per lo stato si faceva dura continuare
a maltrattare e condannare alla miseria i Mapuche. Per fortuna
presto il mondo cominciò a farsi più piccolo e
l'economia industriale iniziò a crescere a livelli esponenziali,
così lo stato trovò dei nuovi alleati: le multinazionali.
Il piano era questo: lo stato vendeva a queste entità
astratte piene di soldi il deserto che aveva conquistato. Lo
stato si prendeva i soldi e le multinazionali si prendevano
le terre e entrambi avevano di che essere soddisfatti: quello
che si chiama un buon affare. Il fatto che queste terre fossero
abitate da indigeni già prima dell'arrivo dello stato
è solo un dettaglio, e d'altra parte non è certo
colpa dello stato se gli stessi Mapuche dicono che quelle terre
non gli appartengono, che sono invece loro, “la gente
della terra”, ad appartenere ad esse.
Tra le multinazionali che hanno messo a segno questo “buon
affare”, c'è la Benetton, che ha comprato dallo
stato argentino un'estensione di terreno paragonabile alla superficie
dell'Italia. La notizia ha trovato un certa diffusione anche
in Italia, specialmente tra i mezzi di informazione “antagonisti”
(compresa la rivista “A”) anche se, a livello mediatico,
la sua eco non è stata nemmeno comparabile a quella suscitata
dagli “scandalosi” cartelloni pubblicitari del creativo
e illuminato Benetton, l'industriale di successo di cui l'Italia
in crisi dovrebbe andare fiera. Ma non bisogna sottovalutare
la complicità ancor più grave dello stato argentino
(o cileno, perché dall'altra parte della cordigliera
non c'è Benetton, ma lo schema è il medesimo).
Ci troviamo nella Patagonia del Nord, provincia del Chubut.
Atilio, dopo una vita a lavorare in fabbrica, ha deciso di andare
a vivere con sua moglie e i suoi figli sul terreno dove vivevano
i suoi antenati. È nata così la comunità
mapuche Santa Rosa Leleque (vedi
“A” 382, p. 101).
Atilio ha costruito la sua ruka (casa mapuche), coltiva la terra
e alleva galline, pecore e cavalli. Peccato che il terreno risulti
di proprietà di Benetton e la stessa comunità
sia pertanto considerata non solo illegittima ma criminale.
La Benetton decide di far costruire a fianco della comunità
Santa Rosa un museo del popolo mapuche. Un amaro contentino
che ha quasi il sapore della beffa ma che è molto utile
a gettare fumo negli occhi dell'opinione pubblica.
La repressione dello stato argentino verso i Mapuche è
molto più fine e subdola rispetto alla tattica adottata
sul versante cileno. Lo stato argentino segue una strategia
sottile, combattendo una battaglia soprattutto culturale. La
conseguenza di questa battaglia è che, sebbene molti
degli abitanti della Patagonia argentina siano mapuche o di
origini mapuche, soltanto pochi di loro si ritengono e si dichiarano
tali. Addirittura molti espongono fuori dalle loro case la bandiera
argentina, come a dire che non vogliono avere niente a che fare
con le loro origini indigene. Questo perché ormai, per
l'opinione comune, se si parla mapudungun, se si studia e pratica
la cultura mapuche, c'è il rischio di passare per cittadini
di grado inferiore, anche se permangono, soprattutto tra i giovani,
persone che di fronte alle loro case espongono con orgoglio
la bandiera mapuche, che vanno alle manifestazioni e che partecipano
alle cerimonie e agli incontri mapuche.
Michele Salsi
Per
saperne di più:
- Associazione
Ya Basta – Onlus (yabasta.it)
- Asociación
Mapu, associazione spagnola di base a Esquel (asociacionmapu.org)
- Comunidad
Santa Rosa (santarosarecuperada.com.ar),
sito della comunità di Santa Rosa Leleque, anche in italiano
- Il
documentario Los colores de la discordia è
reperibile in lingua originale su YouTube
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