Attenti
a non mitizzare i berberi
Cara redazione,
ho appena letto insieme al mio compagno Abdellah, che è
di origine marocchina, berberofono e arabofono, il racconto
di viaggio in Marocco (“Il
segreto per diventare un uomo libero” di Gianluca Luraschi,
pubblicato in “A” 384, novembre 2013). Ecco la sua
opinione, da me tradotta (e condivisa).
È un bell'articolo però un po' fuori dalla storia.
Infatti i berberi sono stati grandi conquistadores. Il
Tarik che ha dato il nome a Gibilterra (Jebel Tarik, la montagna
di Tarik) era berbero e non arabo e, come si sa, ha conquistato
l'Andalusia.
In Spagna, in varie città (Toledo, ad esempio), si parlava
soprattutto il berbero. L'arabo era usato per l'amministrazione
(e la religione). I regnanti in Marocco erano berberi e non
arabi. Almoravidi e Almohadi per esempio: sono stati loro ad
aver governato il Maghreb, ma anche la Spagna, un pezzo dell'Italia...
Anche l'uso della parola “conquista” fa parte di
una visione occidentale. Gli arabi venivano a convertire, a
organizzare la vita politica e le istituzioni statali, ma non
occupavano, anche perché, dal punto di vista demografico,
sarebbero stati incapaci di occupare i territori musulmani vastissimi
all'epoca (fino alla Cina). Poi legavano il potere a rappresentanti
delle popolazioni locali (come appunto Tarik Ibn Zyad).
Sarebbe dunque uno sbaglio lasciare intendere che gli uomini
liberi berberi sono contro lo stato o le organizzazioni statali,
fin quando queste organizzazioni non toccano le libertà
che ritengono fondamentali: parlare la loro lingua (che conservano
oggi ancora), i loro modi di vivere, per esempio il nomadismo,
l'artigianato, ecc. Sarebbe forse utile riflettere più
a lungo su questa loro forma di libertà.
Isabelle Felici e Abdellah Diyari
Montpellier (Francia)
La resistenza No Tav, dalla piazza al tribunale
Raccontare l'opposizione alla costruzione del Tav in val Susa
non è solo riportare fatti, se pur importanti, legati
alle vicende che vedono l'opposizione a chi inizia a predisporre
cantieri e macchinari su quelle terre, ma è comprendere
le intelligenze e i corpi che agiscono, elaborano forme di resistenza
e praticano lotte attaccando i sostenitori dell'opera. Tutto
ciò dando voce a una eterogeneità di visioni del
mondo, modalità di espressione e pratiche difficilmente
rintracciabile nei movimenti sociali italiani.
Ormai non è più solo l'opposizione al Tav che
si leva dalle voci della valle, ma le ragioni che stanno dietro
ai molti no che si levano contro il Tav sono molteplici e toccano
molti ambiti, dalle questioni ambientali a quelle legate alla
gestione autoritaria del potere da parte di chi opera scelte
sovradeterminando “facce” e strutture sociali dei
territori in cui vengono calate.
Una volta scoperchiata la pentola non si torna più in
dietro; sembra essere questa la consapevolezza di migliaia di
donne e uomini della Val Susa che scelgono il loro territorio
come luogo di vita e di resistenza tanto nelle strade delle
cittadine che lo popolano quanto sui sentieri delle loro montagne.
Resistere in strada e nel bosco
Il 16 di novembre si è tenuta a Susa una grande manifestazione
di protesta che ha visto la partecipazione di oltre trentacinquemila
persone “contro la militarizzazione del territorio in
difesa dell'ambiente e contro lo sperpero di denaro pubblico”.
Con queste parole d'ordine è stata indetta la manifestazione.
La ratifica del manifesto di propaganda, dopo essere stato discusso
fra i vari comitati locali, è avvenuta durante un'assemblea
popolare il 25 ottobre a Bussoleno. In quell'occasione uno dei
leader della protesta ha spiegato le ragioni della scelta premettendo
che: “Come abbiamo sempre detto questa opera è
il bancomat della politica e la banca delle mafie. Dobbiamo
far sì che questo sogno diventi un incubo. Ogni centesimo
messo in quell'opera è un centesimo sottratto a scuola,
sanità, servizi, ricerca e alla cura del territorio.
Chiediamo all'assemblea di farsi carico e di approvare questa
manifestazione che per farla diventare grande non può
essere organizzata solo dai comitati”.
Il titolo del manifesto “Contro la militarizzazione del
territorio” indica che siamo di fronte, spiega ancora
l'attivista, a uno “scempio civile e naturale...
dico che resistere non è solo un diritto ma anche un
dovere,..,”. Il primo punto del manifesto è contro
il “Furto di denaro pubblico. La Torino-Lione non è
per il futuro di figli e nipoti, al contrario se la fate cancellate
il futuro dei nostri figli e dei nostri nipoti”. Il secondo
punto è contro la repressione e i molteplici episodi,
dai più gravi ai più banali come durante un “volantinaggio
dove non si è bloccata la strada, non si è fermato
nessuno non si è fatto nulla, tutti sono stati identificati;
questo vuol dire che il diritto di esprimersi per i No Tav non
esiste più” . Inoltre il terzo punto riguarda la
richiesta di un lavoro, ma un lavoro “utile e dignitoso,
non ci possiamo limitare a chiedere lavoro, perché anche
quello del boia è un lavoro. Lavoro utile e dignitoso,
..,”. Infine spiega ancora: “Scendiamo in piazza
anche per rivendicare la cura del territorio oltre che per la
sua difesa: non si può spendere miliardi di miliardi
in un'opera inutile”.
L'assemblea popolare ha ratificato sulla base del consenso la
proposta dei comitati e tutte le persone hanno iniziato il lavoro
di costruzione della manifestazione che si sarebbe svolta di
lì a qualche settimana. Ma anche nei boschi si resiste,
in tanti e in tanti modi diversi. Questo ci porta a evidenziare
ancora una volta che tutti possono partecipare, ognuno con le
sue modalità e con le sue visioni del mondo.
Bevendo un caffè in un bar, un attivista ci racconta
che un gruppo di cattolici della valle si reca ogni giorno intorno
al cantiere per pregare di fronte al pilone votivo, da loro
costruito durante la Libera Repubblica della Maddalena. Il pilone
dedicato alla Madonna è adesso sistemato appena fuori
dalle recinzioni e gli attivisti cattolici si recano quotidianamente
a pregare là; grazie a questo sono i più informati
delle attività che si svolgono all'interno del cantiere
che costeggiano per raggiungere il loro luogo di culto. Condividere
poi ciò che vedono durante le loro preghiere, scrivere
articoli per giornali quotidiani e organizzare proteste e assemblee
con tutte le altre componenti sono le attività principali
che hanno raccontato.
Ma nei boschi si annida anche Giacu, un folletto speciale che
veglia sul bosco della Maddalena di Chiomonte, e che i folletti
No Tav durante le notti vanno a cercare per ammirarne i rumori
e scherzi di disturbo verso le decine di militari di esercito,
polizia, carabinieri e guardia di finanza che presidiano il
cantiere fortificato.
Qualche volta però i folletti no Tav sono intercettati
dalla polizia che uscendo dal cantiere impedisce loro di assistere
agli spettacoli di Giacu. Il 19 luglio 2013 i feriti sono stati
molti e una ragazza ha subito violenze da parte della polizia.
I folletti non si arrendono e come nella tiepida serata del
6 dicembre 2013 si recano spesso in passeggiata notturna al
cantiere e talvolta in gruppi di oltre duecento persone; anche
in quella data Giacu ha donato loro qualche gioco pirotecnico
ai margini del perimetro di recinzione del cantiere. Anche in
quest'occasione tutti possono partecipare; c'è chi va
più vicino a Giacu, chi resta più lontano a osservare
e chi semplicemente accompagnando le passeggiate condivide speranze
e pratiche di lotta.
Agire la resistenza non è cosa indolore. Oltre alle botte
e ai lacrimogeni sono molteplici gli strumenti usati dalla magistratura
Torinese contro gli attivisti no Tav.
Resistere nei tribunali
Molti sono colpiti dalla repressione. Oltre alla criminalizzazione
di anarchici e antagonisti appartenenti ai No Tav, consuetudine
nel panorama italiano, il numero dei procedimenti contro i No
Tav si aggira attorno a 99 e ci sono oltre 500 persone fra denunciati,
indagati e giudicati in almeno un grado di giudizio.
Anche amministratori locali e semplici cittadini che aderiscono
alla lotta No Tav hanno spesso subito le iniziative della magistratura
torinese. Chi sa se è proprio l'enorme eterogeneità
di questo popolo in miniatura, che dice tutti questi no, che
ha favorito un vero e proprio salto di qualità da parte
della magistratura che, da quest'anno, ha iniziato a muovere
l'accusa di reato di terrorismo e associazione sovversiva.
Come spiegavano alcuni avvocati durante il convegno del 7 dicembre
2013, tenutosi a Bussoleno, dal titolo “Diritto alla resistenza”,
il salto di qualità non è dovuto solo all'evoluzione
nella gravità delle accuse e dei reati contestati ai
No Tav da vent'anni a questa parte, ma è ritracciabile
anche in tanti aspetti procedurali dei processi contro il movimento.
Un esponente del legal team ricordava che nei processi No Tav,
come nelle scelte di custodia cautelare, sembra sempre più
evidente il peso attribuito all'appartenenza politica del soggetto
indagato e tale aspetto ricorda, sostiene sempre l'avvocato,
il metro usato nella Germania degli anni trenta dove era non
solo il fatto ma la persona a cui si contestava tale fatto a
determinare la pena inflitta. Altri interventi hanno sottolineato
la denuncia dell'Europa contro il sovraffollamento delle carceri
italiane e gli avvocati, a tal proposito, sottolineano che la
custodia cautelare, detenzione in attesa di giudizio, è
indicata come una estrema ratio nell'ordinamento italiano, mentre
nei confronti dei No Tav sembra essere usata con una certa disinvoltura.
I diversi interventi hanno sottolineato una molteplicità
di aspetti sia di interpretazione del diritto che procedurali
e possiamo affermare che tutto ciò non ridefinisce certo
l'ordinamento italiano, ma ne dà almeno un'interpretazione
piuttosto peculiare.
In conclusione, tornando al bosco, sembra interessante far notare
che la strada che porta al cantiere è nel suo ultimo
tratto interdetta al libero transito da ordinanza prefettizia.
Tale ordinanza però, come stabilito dalla giurisprudenza,
deve avere carattere di eccezionalità ed essere temporanea.
Da quando sono iniziati i lavori di costruzione del cantiere,
oltre un anno e mezzo fa, sono state circa 13 le ordinanze che
si sono susseguite senza interruzione di tempo. Anche in questo
caso, sottolineano i legali, osserviamo una certa interpretazione,
quantomeno peculiare, della normativa.
Ascoltando le parole degli avvocati e osservando i folletti
No Tav è immediata la comprensione che sono molteplici
i terreni su cui gli attivisti intervengono. Inoltre, ridurre
la lotta contro il Tav a una lotta contro l'alta velocità
appare fuorviante.
Ormai non lottano più solo contro una grande infrastruttura
fortemente dannosa per l'ambiente e costosa per le tasche di
tutti gli italiani, ma contro un intero sistema di gestione
dei rapporti clientelari, come spiega Cicconi nel suo testo
Il libro nero dell'alta velocità, basato sul sistema
di appalti in project financing, contro un sistema di
gestione degli istituti di democrazia rappresentativa che non
tiene conto delle voci che si levano dai territori, contro gli
interessi delle élites economiche e politiche che sovradeterminano
le “facce” dei territori e le strutture sociali
di questi ultimi.
Una volta scoperchiata la pentola non si torna più indietro;
sembra essere questa la consapevolezza di migliaia di donne
e uomini della Val Susa che scelgono il loro territorio come
luogo di vita e di resistenza tanto nelle strade delle cittadine
che lo popolano quando sui sentieri delle loro montagne.
Espandere la resistenza anche alle aule dei tribunali è
un ulteriore fronte di lotta che indica la consapevolezza di
questo movimento, per cui anche in queste arene è necessario
rallentare la scure che i potenti di turno scelgono di usare.
Luca Giacomelli
Volterra
Termina il dibattito su
“Libertà senza Rivoluzione”
Con l'intervento di Stefano d'Errico termina il dibattito
conseguente all'uscita del volume Libertà senza Rivoluzione
di Giampietro ”Nico” Berti (Piero Lacaita Editore,
Bari 2012), di cui abbiamo ripreso qualche
stralcio in “A” 377 (febbraio). Sono intervenuti
Franco Melandri
e Domenico Letizia
(”A” 378, marzo), Luciano
Lanza e Andrea
Papi (“A” 379, aprile), Luigi
Corvaglia e Alberto Ciampi
(“A” 380, maggio), Marco
Cossutta e Salvo
Vaccaro (“A” 381, giugno), Persio
Tincani e Fabio
Massimo Nicosia (“A” 382, estate), Enrico
Ferri e Antonio
Cardella (“A” 383, ottobre), Cosimo
Scarinzi e Francesco
Codello (“A” 384, novembre), Claudio
Venza e Lorenzo
Pezzica (“A” 385, dicembre 2013 - gennaio 2014)
e ora Stefano d'Errico.
Dibattito
Libertà senza Rivoluzione/17
Stefano d'Errico/Anarchismo, liberalismo e politica: di necessità
virtù
Per Berti l'anarchismo trascende ogni stereotipo in ordine
alle altre teorie politiche: è una 'creazione universale
umana'. Collocata nella storia dentro il movimento operaio,
scrive Berti, 'l'idea anarchica è nata in contrapposizione
al liberalismo (“destra”) e al socialismo (“sinistra”)
perché, mentre liberali e socialisti hanno interpretato'
i valori di libertà ed eguaglianza 'in modo indipendente',
nullificandoli entrambi, l'idea anarchica 'li ha intesi
come inscindibili'. Ma la domanda è: cosa fare quando
(e noi aggiungeremo se) 'la rivoluzione non è più
all'ordine del giorno'? La risposta è ancora nella specificità
dell'anarchismo: 'Alla contrapposizione destra/sinistra
subentra la contrapposizione autorità/libertà,
dominio/libertà'. Obietteremo che resta irrisolta la
dicotomia diseguaglianza/equità. Ma Nico risponde con
Clastres: 'la relazione politica del potere precede e
fonda la relazione economica di sfruttamento. Prima che economica,
l'alienazione è politica, il potere è prima del
lavoro, l'economico deriva dal politico, l'emergere dello stato
determina l'apparizione delle classi'. Per Berti, quindi, l'economico
'se ha una propria esistenza storica, non ha (...)
autonomia antropologica. Va dunque rovesciata la concezione
marxista che vede il politico come dipendente dall'economico
e dal sociale. Lo stato non è una semplice sovrastruttura;
anzi esso è un elemento strutturale, è “causa
prima”, perché è dallo stato che nasce la
società di classe'. Mentre 'la fede (...)
che, attraverso la lotta di classe (...) si potesse giungere
al redde rationem rivoluzionario, distruggendo il regime
capitalistico, ha spinto l'anarchismo a porre la priorità
dell'eguaglianza rispetto a quella della libertà'. Secondo
me, rotture rivoluzionarie ce ne saranno ancora (il potere non
passa la mano). Anche se il problema del 'mercato' è
più complesso, il sistema capitalista è da abbattere
e l'eguaglianza resta indifferibile. Ma questo non sposta i
termini della questione. Mentre la libertà è un
principio inalienabile, la rivoluzione non può diventare
'dogma' valoriale. La rivoluzione attiene al metodo (perciò
è più che lecito discuterne). Senza libertà
non si dà (vera) rivoluzione: la prima conta quindi più
della seconda. Inoltre, lottare è un 'imperativo'
anche quando non vi sono condizioni rivoluzionarie. Perciò,
se tale fosse la sfida, dovremmo comunque affrontarla. Berti
si spinge anche oltre: l'assetto capitalistico è alienante
e gerarchico perché 'non è l'economico che
ha raggiunto una sua autonomia dal comando politico, ma è
il politico che ha assunto una particolare veste: quella economica'
(piena attualità). Tutto ciò non nega l'anarchismo,
unico nel negare stato e autonomia del politico. Anzi, afferma
la centralità di una politica a guida etica, strumento
per una società 'senza (e contro) lo stato'. Ecco
il punto. Berti afferma la necessità del qui ed ora
(etica della responsabilità) per il movimento libertario:
lotta per 'libere istituzioni sempre rivedibili e modificabili'.
Ricorda, di Bookchin, il 'municipalismo libertario quale
strumento di democrazia diretta realizzabile in ambito locale
anche attraverso l'eventuale, possibile partecipazione alle
elezioni comunali'. Ma Berti insiste tanto sulla 'parentela'
col liberalismo, che (è innegabile) conserva pur sempre
lo stato, perché questo s'è interrogato sulla
democrazia. Dei tanti interventi sul libro, solo Luciano Nicolini
(Cenerentola n.° 153) fa riferimento alla questione
costituzionale: la democrazia, infatti, da sola non basta (neppure
se democrazia diretta). C'è un limite invalicabile fra
democrazia e populismo, altrimenti si giunge a Mussolini e Hitler
(per via elettorale), o a Lenin e Stalin (per ...operaiolatria).
Berti accosta Kant e Bakunin: 'Agisci in modo da trattare
l'umanità, così in te come negli altri, mai solo
come un mezzo per (...), ma sempre e allo stesso tempo
come un fine. Agisci con le massime che desidereresti divenissero
leggi universali' (Kant) e '...Sono veramente libero solo
quando tutti (...) sono ugualmente liberi. La libertà
di ogni individuo è (...) soltanto il riflesso della
sua umanità' (Bakunin). Basta col mito della 'perfezione'.
Scrive Berti: 'Essendo creazione incessante della volontà
degli uomini, la libertà è il fine supremo della
storia, conquista mai definitivamente realizzabile appunto
perché dilatata all'infinito (...), l'anarchismo sociale
inteso come piena realizzazione dell'uomo (Bakunin) si dà
solo conservando l'individuo concepito nei termini liberali
(Kant). Il che vuol dire che l'anarchismo supera il liberalismo
solo se lo conserva. Precisamente: per superare la libertà
liberale bisogna mantenere il carattere dell'uguaglianza normativa
garantita dalla civiltà liberale. Ecco dunque la sintesi
(...) tra il solo orizzonte possibile dell'uguaglianza
(normativa) e la sola estensione possibile della diversità
(la libertà in divenire)'. La libertà non è
solo principio, bensì condizione di necessità:
se ne può fare virtù? Ci si può liberare
dello stato etico senza cadere in uno speculare 'anti-stato'
altrettanto categorico? Tale, per noi, è la sfida della
politica.
Non si darà mai (per fortuna) una società senza
conflitto. Il mito dell'antipolitica, in campo rivoluzionario,
non riesce a concepire azione che non sia contestualmente 'palingenesi'
(ribaltamento assoluto ed immediato del presente), condannandosi
a non ribaltare alcunché neppure in termini gradualistici.
Ma intenderebbe - massimo del paradosso - prefigurare un futuro
senza conflitti (quindi anche senza regole necessarie a dirimerli).
Ed è proprio il conflitto, presupposto fondamentale della
rivoluzione, ad affermare la necessità della politica.
Altrimenti, come accadde a chi credette nella (del tutto) presunta
'fine della storia', può affermarsi solo il mito
della società trasparente, tanto autoritaria da divenire
impersonale, quindi inumana. È così difficile
accettarlo, a maggior ragione se è una lezione della
storia?
Stefano d'Errico
I
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