potere e movimenti/4
Occupiamo il presente
di Antonio Senta
Le cause alla base delle proteste che attraversano il mondo sono molteplici, ma sono tutte sociali, nel senso che riguardano le condizioni, la qualità della vita: lavoro, ambiente, diritti, liberazione sessuale e dei costumi, geografia urbana, oppressione razziale e di classe.
La rivoluzione è adesso
(slogan di Occupy Gezi)
L'anarchismo vive, evolve, progredisce
(Luigi Galleani)
Le proteste popolari che negli ultimi anni hanno attraversato il globo nelle sue varie latitudini, reagendo così a quell'attacco alle condizioni di vita dei subordinati che viene chiamata “crisi”, non sono solo risposte di rabbia né tanto meno di disperazione. In molti casi singoli, gruppi, comunità inventano soluzioni che esulano dalla morsa statuale e del profitto, dando vita in maniera creativa a nuove relazioni sociali, a comportamenti e modi di vivere, a nuovi sentimenti e immaginari. “Personalmente mai visto niente di simile, negli Stati Uniti e nel mondo”, scrive Noam Chomsky riguardo ai legami tra le persone nati con il movimento Occupy Wall Street (cfr. Id, Occupiamo il futuro, “Internazionale”, 4 novembre 2011, p. 19) e sembrano accorgersi di questa novità anche i fautori della lotta politica tradizionale, persino in Italia (cfr. Alternative. Un nuovo immaginario per il dopo-crisi, “Il Manifesto”, 18 luglio 2013).
Le cause alla base delle proteste sono molteplici, ma sono tutte sociali, nel senso che riguardano le condizioni, la qualità della vita: lavoro, ambiente, diritti, liberazione sessuale e dei costumi, geografia urbana, oppressione razziale e di classe.
Nel resistere al dominio i movimenti inventano spazi condivisi di autogestione della propria vita, in forma orizzontale, collettiva, condivisa. Rompono l'atomizzazione delle società contemporanea creando uno spazio e un tempo altro, spesso entrando in collisione con lo spazio del tempo dello stato e del capitale: lo vediamo quando i manifestanti guadagnano margini di libertà, occupando piazze e strade, bloccando o liberando, a seconda dei punti di vista, ponti e arterie di comunicazione. Attraverso la pratica quotidiana fatta di confronto orizzontale e assembleare tra i membri e spesso di scontro con le autorità, i protagonisti di questi movimenti danno vita a nuove modalità relazionali, libere e solidali, caratterizzate da un'autorganizzazione che esula dalle forme politiche avanguardiste dei partiti. Mezzi e fini, metodi e obiettivi della mobilitazione finalmente coincidono.
Spesso capita di sentir dire che i movimenti contemporanei sono impotenti perché non scalfiscono la catena di comando: esautorati leader e partiti al potere ne subentrano altri, cosicché poco cambia.
Per essere davvero efficaci, o “potenti”, essi dovrebbero architettare istituzioni proprie, che a seconda di chi le propone vengono chiamati poteri costituenti, contropoteri istituzionali (Etienne Balibar), forme di sovranità popolare ecc., tutti strumenti, al di là delle differenti denominazioni, in grado di esercitare un potere politico, la cui conquista rimane, in buona sostanza, “il grande dovere del proletariato”, secondo la definizione data da Marx al congresso dell'Internazionale a L'Aja nel 1872. Ma tale proposta, mi sembra, ha un vizio di fondo, pensare cioè che sia possibile stabilire delle norme valide per tutti, e non solo per coloro che lo desiderano, e farlo senza imposizione e quindi senza abuso di potere. Molti dei movimenti contemporanei hanno ben presente tale difficoltà, che pare insormontabile, e proprio per questo nei loro settori più avvertiti si rifiutano di vestire i panni dei legislatori, di farsi cioè essi stessi governo, stabilendo norme cui tutti debbano conformarsi. La libertà è anche rifiuto dell'esercizio del potere. Tale consapevolezza, oggi diffusa, mette in una nuova luce, attualizza, i concetti di rivoluzione e, in qualche misura, di anarchia.
Partiamo rapidamente dal primo concetto. Ci sono diversi modi
di intendere la rivoluzione: c'è chi la concepisce solo
con la R maiuscola e la considera al singolare, una Rivoluzione
otto-novecentesca, con fucili e barricate, bandiera rossa (o
nera) sopra al municipio e relativa devastazione degli archivi
e abolizione della proprietà privata. Può essere
comunista, con la presa del potere, o anarchica, con la sua
distruzione. Secondo alcuni, e qui faccio riferimento all'ultimo
libro di Giampietro “Nico” Berti, Libertà
senza Rivoluzione (Lacaita, Manduria-Bari-Roma, 2012), su
cui c'è stato ampio dibattito,
la possibilità di dare vita a una Rivoluzione così
intesa oggi non è più data e quindi l'anarchia
stessa sarebbe fallita, relegata nel novero delle utopie dello
scorso millennio. D'altra parte però è noto a
tutti che rivoluzione è un termine vasto, molteplice,
plurale: ci sono rivoluzioni politiche, e di tipo assai diverso
tra loro, ma anche sociali, artistiche, astronomiche, filosofiche
ecc.
Il ruolo dell'arbitrio e della volontà
Passiamo al secondo concetto: l'anarchia, si sa, è assenza
di governo, cioè di oppressione e di sfruttamento. Gli
anarchici combattono tutte le forme di oppressione, a partire
dallo stato, inteso come realtà massima della coercizione,
e dal capitalismo, cioè lo sfruttamento eretto a sistema.
Il loro obiettivo storico è la rivoluzione anarchica,
cioè sociale, internazionale, totale. Nell'ottocento
positivistico tale “missione” era intrinsecamente
legata al concetto di progresso storico, alla progressiva emancipazione
dell'uomo. Il compito dei seguaci di Kropotkin, Galleani e Gori
era quello di affrettare la distruzione di questo mondo fatto
di oppressione e sfruttamento e dare così vita a una
“umanità nova”. È questa una visione
determinista ed escatologica erede dei due grandi filoni del
pensiero occidentale, il cristianesimo e l'illuminismo, giunti
all'anarchismo attraverso la mediazione dell'idealismo tedesco.
Del cristianesimo tale visione accetta la possibilità
di redenzione, che con l'illuminismo è diventata una
redenzione tutta umana. L'umanità, complessivamente intesa,
si può redimere: è necessario eliminare alla radice
stato, chiesa e capitale, cioè ogni sorgente di oppressione,
asservimento e sfruttamento e dare così vita all'uomo
nuovo in grado di instaurare una società senza capi né
padroni. A tal proposito alcuni post-anarchici denunciano “la
pregnanza del modello cristiano della mitologia anarchica (...)
la credenza apocalittica, la fede millenarista, la fiduciosa
attesa nella fine dei tempi (ovvero la fine della storia che
si compie con la realizzazione del paradiso in terra), lo schema
del peccato originale mondato dalla redenzione (ovvero la colpa
della proprietà privata capitalista redenta da una rivoluzione
proletaria salvifica)” (Michel Onfray, Il post-anarchismo
spiegato a mia nonna, Elèuthera, 2013, p. 61).
L'anarchismo però non si esaurisce in tale visione. Militanti come Malatesta hanno sottolineato il ruolo dell'arbitrio e della volontà degli uomini nel determinare i processi di trasformazione sociale. Allo stesso tempo l'anarchia non è solo un fine, un obiettivo, ma un mezzo, un metodo. Non si tratta dunque, scriveva Malatesta, “di fare l'anarchia oggi, o domani o tra dieci secoli; ma di camminare verso l'anarchia oggi, domani e sempre” (Id., Verso l'anarchia, “La Questione Sociale”, 9 dicembre 1899). Da qui ne deriva che le varie espressioni dell'anarchia, dai tentativi insurrezionali alle sperimentazioni rivoluzionarie e autogestionarie, hanno una duplice validità: prefigurano il mondo a venire e lo realizzano qui e ora. Il pensiero e la pratica anarchica vivono nella lotta e nella protesta contro le forme del dominio e nella parallela creazione di tempi e spazi liberi.
Questo è quello che fanno anche i movimenti contemporanei. Essi adottano pratiche anarchiche, nel senso che tendono a eliminare o ridurre al minimo le dinamiche di subordinazione e comando al loro interno, formando reti collaborative, cooperative e libere tra le singolarità che le compongono.
Danno vita a luoghi e tempi anarchici, luoghi e tempi cioè caratterizzati dall'assenza di governo, e quindi di dominio e coercizione, di sfruttamento e di gerarchia. Tali luoghi e tempi non sono più solamente Taz (territori temporaneamente autonomi), anche se al concetto di Taz devono molto (quello della Taz è tra l'altro un concetto che ha dei precedenti nel movimento socialista, basti pensare ai falansteri di Fourier, alla colonia Cecilia di Rossi o a quelle francesi di Faure e compagni, fino alle più recenti comuni degli anni sessanta e settanta). Non sono cioè luoghi e tempi statici, delimitati, ma aperti, dinamici, che tendono, grazie alle proprie pratiche di contaminazione e di creazione di immaginari, ad allargarsi a ulteriori fette di società.
Non più un piano unico, ma mille piani
Nel liberare spazi e tempi i movimenti dell'oggi utilizzano
il metodo dell'azione diretta secondo la definizione di David
Graeber: “insistere, in situazioni in cui ci si trova
di fronte a strutture di autorità ingiusta, nell'agire
come se si fosse già liberi” (David Greaber, Direct
Action. An etnography, Ak Press, 2009, p. 203). Un'azione
diretta che si esprime “sia in una modalità costruttiva
nella realizzazione di spazi urbani, orti, comuni rurali, nelle
occupazioni abitative e collettive (...) sia in maniera oppositiva
alle devastazioni promosse dalle istituzioni allineate: stato,
industrie, finanza, e media ” (Stefano
Boni, Le lotte e la maschera, “A rivista”,
maggio 2012, pp. 22-23). La creazione di “altri mondi
possibili” qui e ora è quindi spesso lotta, scontro
con l'autorità statale e con lo sfruttamento capitalista:
esodo e resistenza non sono due termini separati.
Spazi e tempi liberati vivono così negli spazi interstiziali lasciati dallo stato o strappati a esso (David Graeber, Critica della democrazia occidentale, Elèuthera, Milano 2012), e operano per un loro allargamento, come crepe che rompono fino in profondità un muro di ghiaccio (cfr. John Halloway, Crack capitalismo, Derive Approdi, Roma 2012). Scrive il collettivo CrimethInk: “dobbiamo costruire la nostra libertà creando degli squarci nel tessuto di questa realtà” (cit. in David Graeber, La rivoluzione che viene. Come ripartire dopo il capitalismo, Manni, San Cesario di Lecce 2011, p. 91).
Oggi, forse, non c'è un municipio da prendere per issarvi la propria bandiera e bruciarne gli archivi, decretando la rivoluzione sociale e quindi lo stato di felicità permanente, ma c'è da costruire collettivamente, nel rapporto con gli altri, felicità plurali, difenderle dalle autorità che le vogliono rinchiudere e normare, farle crescere a spese dello stato e del capitale.
I movimenti contemporanei sembrano rifiutare una visione unica di spazio e tempo e i concetti stessi di totalità e di egemonia: non più un piano unico, ma mille piani su cui innestare la resistenza al dominio e la creazione del nuovo. Ci sono infatti spazi e tempi liberati, che convivono, in maniera a volte latentemente a volte apertamente conflittuale, con spazi e tempi non liberati, che si allargano a spese di questi ultimi o da questi ultimi sono costretti a restringersi.
Questa geografia della liberazione è visibile nei movimenti reali. Zuccotti Park viene occupato per diverse settimane e poi sgomberato dalla polizia con estrema brutalità, mentre ai giornalisti non è dato testimoniare allo sgombero e i cieli di Manhattan sono off-limits per gli elicotteri dei media. Così piazza Syntagma o gli uffici della tv pubblica autogestita Ert ad Atene, così piazza Taksim a Istanbul, così le vie di Rio de Janiero. Le singolarità che prendono parte a queste mobilitazioni, che formano la grande massa degli oppressi e degli sfruttati di oggi, se sgomberate, sono pronte a rimettere in pratica altrove i propri rapporti liberati dando corpo a istanze di trasformazione sociale in nuovi contesti.
Così i movimenti contemporanei non intendono la rivoluzione come evento traumatico in grado di liberare definitivamente l'uomo, ma intendono la rivoluzione o meglio le rivoluzioni come rotture, di diversa entità e intensità, che contribuiscono ad allargare spazi e tempi di autonomia, non statali, senza governo, in cui non c'è più la schiavitù del lavoro salariato, in cui l'accumulazione del potere è considerata spregevole e il comandare immorale, in cui il potere è così diffuso da neutralizzare il dominio.
Negli ambienti antagonisti esiste oggi la consapevolezza che le dinamiche di oppressione e sfruttamento, gli strumenti del dominio e del governo, si modificano e che contro di esse è necessaria una lotta senza fine, fatta di rivoluzioni continue, e in grado di rinnovarsi continuamente. Una visione di questo tipo è strettamente legata al rifiuto del comando, del dominio, del governo, della politica intesa come insieme di norme a cui uniformare tutti gli uomini.
Dall'anarchia ai movimenti di protesta
L'anarchismo nella sua storia si è scontrato con il
problema del governo, ha sperimentato il corto circuito di provare
a imporre la società anarchica per decreto e con la forza
delle armi. Nella Spagna del '36-39, in una situazione in cui
guerra e rivoluzione si trovavano intrecciate (cfr. Claudio
Venza, Anarchia e potere nella guerra civile spagnola
1936-1939, Elèuthera, Milano 2009), gli anarchici hanno
creato spazi liberati nella forma delle collettività
agricole e delle fabbriche autogestite, dando vita a rapporti
sociali e umani nuovi (si pensi al movimento delle Mujeres
Libres), rompendo l'ordine simbolico, aprendo, nel tentativo
di liberare l'umanità, un nuovo immaginario. Alcuni hanno
scelto di difendere queste conquiste anche con la forza della
legge, da qui la paradossale e ben nota partecipazione al governo
repubblicano: quattro ministeri dal novembre 1936. Una esperienza
che ha lasciato nelle generazioni successive, dentro e fuori
la Spagna, pesanti strascichi, ma anche la consapevolezza che
anarchia e governo sono termini opposti tra loro.
Ciò che l'anarchia ha maturato da tempo, il rifiuto del
governo, sta diventando oggi patrimonio dei movimenti di protesta.
Pare ormai ci sia consapevolezza diffusa del fatto che elezioni,
rappresentanza e partito siano fattori avversi ai processi di
trasformazione sociale anche tra quelle sinistre che non rinunciano
alla tattica parlamentare (cfr. G. Bettin, L. Casarini, S. Dazieri,
C. Freccero, U. Mattei, Strategie. L'Europa, a sinistra,
“Il Manifesto”, 28 luglio 2013, p. 1: elezioni,
rappresentanza e partito sono – scrivono – “cose
limitate, contraddittorie nel processo sociale di cambiamento”).
A sempre più persone pare chiaro che ogni movimento,
ogni lotta, ogni insorgenza incide più in profondità
sul tessuto sociale quanto meno viene trasformato in istanza
e pratica di governo (e non il contrario) e che non è
per nulla necessario entrare nell'ambito governativo per dare
vita a decisioni più democratiche o condivise. Senza
governo ce la possiamo fare benissimo: ormai lo sanno quasi
tutti, non più solo gli anarchici. Effettivamente basta
guardarsi intorno: ovunque vediamo solidarietà, comunità,
collaborazione che – scrive Graeber – “è
il modo in cui si comportano di solito le persone che lavorano
insieme per realizzare qualcosa. Se due persone stanno aggiustando
un tubo e uno dice “passami la chiave”, l'altra
non risponde “quanto mi dai?”, se davvero entrambe
vogliono aggiustare il tubo. Ciò rimane vero anche se
queste persone sono impiegati di Bechtel o di Citigroup. Applicano
principi comunisti perché sono gli unici che in realtà
funzionano” (Id., La rivoluzione che viene. Come ripartire
dopo il capitalismo, cit., p. 59).
Ciò non è sostenuto solo dagli anarchici. Da almeno
un trentennio le ricerche scientifiche confermano che l'egoismo
non è un principio evolutivamente sostenibile. Christoph
Adami, docente di microbiologia e genetica molecolare della
Michigan State University e il fisico Arend Hintze hanno recentemente
pubblicato uno studio sulla rivista Nature Communications dove
dimostrano che l'evoluzione non favorisce gli egoisti ma tende
invece a punirli (cfr. C. Adami, A Hintze, Evolutionary instability
of zero-determinant strategies demonstrates that winning is
not everything, “Nature Communications”, agosto
2013).
L'anarchia non è quindi solo l'isola che non c'è,
né un obiettivo irraggiungibile, non è qualcosa
di stabile, né di statico. È moto continuo, resistenza
e rivolta permanente contro lo sfruttamento, contro la necessità
quotidiana di vendere al padrone di turno la propria carne e
il proprio cervello. Anarchia è tutte le sperimentazioni
antiautoritarie, tutti i frammenti di alternativa all'esistente.
Anarchia è un insieme di rapporti umani liberati che
c'è, che vive nella creazione autonoma di pratiche e
forme sociali, nell'elaborazione di nuove forme di vita contro
e oltre le forme del comando.
Come scriveva un secolo fa Galleani nella celebre risposta a
Francesco Saverio Merlino, vecchio compagno di idee passato
al socialismo legalitarista: l'anarchismo non ha mai come oggi
avuto la sua necessaria ragione di essere; mai come oggi si
è affermato con tanta intensità ed estensione,
lungi dal morire (Merlino lo aveva definito un cadavere) “vive,
evolve, progredisce” (Luigi Galleani, La fine dell'anarchismo?,
Newark, 1925, p. 9).
Antonio Senta
Dal prossimo numero, il dibattito
Con questo scritto si chiude la serie dei quattro articoli
che Antonio Senta ha dedicato (a
partire da “A” 383, ottobre 2013) ai nuovi movimenti,
alle lotte, al potere, ecc... Temi attuali e caldi, sui quali
sentiamo la necessità che si discuta.
Analogamente a quanto è stato fatto, nel corso di
un anno, con il libro Libertà senza Rivoluzione di
Giampietro “Nico” Berti, invitiamo a inviarci scritti
di non oltre 6.000 battute (spazi compresi).
Questo limite ha il doppio obiettivo di permettere a più
persone possibile di intervenire e, al contempo, di spingere
a una (relativa) sinteticità.
Sotto a chi tocca.
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