pedagogia libertaria
A partire dalle esperienze concrete
di Maurizio Giannangeli / foto Giulio Spiazzi
Le pratiche di educazione libertaria
in Italia si confrontano, a partire dall'ultimo incontro della
Rete che in Italia le promuove e coordina.
Nell'ambito degli incontri periodici
che caratterizzano la Rete per l'educazione libertaria (Rel),
sabato 18 e domenica 19 maggio 2013 si è tenuto il seminario
di autoformazione sul tema dell'educazione libertaria in collaborazione
con il Cmel (Comitato milanese per l'educazione libertaria).
La realizzazione è stata possibile grazie al sostegno
e alla disponibilità del circolo Arci La Scighera di
Milano che ha ospitato il seminario con generosità e
interesse.
L'idea del seminario è nata dal desiderio, espresso da
alcune realtà educative libertarie presenti in Italia,
di dare avvio a processi di autoformazione favoriti dallo scambio
delle reciproche esperienze su temi e problemi individuati dalle
stesse realtà.
Chi compone la Rel è convinto che nel campo aperto dell'educazione
libertaria la formazione sia prevalentemente autoformazione;
nel senso che il racconto reciproco di pratiche ed esperienze
possa offrire un'occasione di formazione per tutt* coloro che
si impegnano quotidianamente in contesti educativi libertari.
Su come la Rel intende l'educazione libertaria e anche sui temi
della formazione e del rapporto tra contesto educativo e genitori
si rimanda alla lettura del Documento di presentazione
e al Manifesto sull'educazione libertaria, entrambi scaricabili
dal sito web della Rel (educazionelibertaria.org).
Per quanto riguarda il seminario, come già detto, sono
state le stesse esperienze in atto a decidere quali questioni
mettere a tema. Quelle divenute oggetto del seminario sono le
seguenti: 1. Pratica democratica tra libertà, autonomia
e partecipazione; 2. I saperi tra disciplinareità
e universalità; 3. Incidentalità e progetto.
Autenticità, rispetto e competenze nel rapporto educativo;
4. Gestione dei conflitti. La relazione tra sé e gli
altri.
Dato il carattere di autoformazione del seminario si è
deciso di dare svolgimento ai temi individuati in una forma
dialogica, lasciando libera circolazione alla parola, piuttosto
che attivare una modalità a conferenza. A tale proposito
va detto che quanto riferito in questo resoconto non può
che avere il carattere di parzialità rispetto a quanto
emerso in due giorni di discussione e confronto aperti.
Il gruppo di partecipanti, circa quaranta persone per la maggioranza
donne, provenivano da realtà educative di diverse regioni:
Puglia, Lazio, Marche, Emilia-Romagna, Liguria, Veneto e Lombardia.
Ogni tema era condotto da una o più persone.
In aggiunta a questi quattro temi, il Cmel e La Scighera hanno
organizzato, sabato sera, un dibattito aperto proponendo al
pubblico una domanda: “In che modo secondo te la felicità
ha a che fare con l'educazione?”. La serata di sabato
è stata molto partecipata.
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Milano, circolo Arci La Scighera, maggio 2013. Seminario
di autoformazione sull'educazione libertaria |
Tra libertà e autonomia
Il primo tema, Pratica democratica tra libertà, autonomia
e partecipazione, è stato condotto da Thea Venturelli,
referente della Rel nella regione Puglia, da 18 anni componente
di una comune in quella stessa regione.
Disposti su cinque tavoli dei fogli che presentavano frasi differenti
Thea ha chiesto ai partecipanti di sceglierne liberamente uno.
Si sono così costituiti cinque gruppi di discussione.
Dopo un tempo concordato ogni gruppo avrebbe esposto agli altri
quanto emerso. Prima di iniziare il lavoro a gruppi Thea ha
chiesto a tutti di depositare in una ciotola cinque euro. Tutti
hanno liberamente accettato e si è dato avvio al lavoro
dei piccoli gruppi.
Queste le cinque frasi scritte sui fogli e le considerazioni
emerse da ogni piccolo gruppo.
Prima frase: Una voce libera è sempre liberatrice.
Da un lato si è attribuita importanza allo scarto sempre
esistente tra ciò che la voce dice e l'interiorità
del soggetto da cui nasce. Contemporaneamente si sono riconosciute,
nella voce intesa come libera presa di parola nelle relazioni
autentiche quindi non di dominio, la forza e la capacità
del soggetto di esporsi all'altro, di esporsi all'ignoto dell'incontro.
In questa voce, esplicita istanza di comunicazione nella relazione
non coercitiva, è possibile sentire una voce libera e
al tempo stesso liberatrice. Nel momento in cui 'io' e
'tu' ci esponiamo reciprocamente nella comunicazione in
quello stesso momento si sta generando una possibile libertà
dei soggetti.
Seconda frase: Prendi in mano la tua vita e che cosa
succede, una cosa terribile: non puoi dare la colpa a nessuno.
La frase è apparsa “spietata”. Costringe
i soggetti a una solitudine essenziale riconducendoli esplicitamente
alla responsabilità dell'agito. D'altro canto è
stata anche riconosciuta come radice delle pratiche libertarie.
Essa annuncia il senso dell'autonomia ed il guadagno che questa
porta all'interno dell'agire libertario. Ossia, in una misura
umanamente accettabile, la possibilità di uscire dalla
lamentazione, di abbandonare l'abitudine a rimuovere da se stessi
il senso del proprio agire, anche quello più ordinario
e quotidiano, per assumere su di sé la responsabilità
e la felicità che la libertà di scelta comporta.
In misura umanamente accettabile, si è detto, perché
è stato anche ricordato che la frase potrebbe essere
diversamente intesa. Volgersi verso un senso di onnipotenza,
sottindendere una presunzione di infallibilità, una volontà
certa di non sbagliare rischiando così l'idealità
e l'irrealtà, perdendo definitivamente di vista i soggetti
reali, inevitabilmente opachi, contraddittori, incerti e costitutivamente
conflittuali.
Terza frase: La libertà intellettuale dipende
da cose materiali. E le donne sono sempre state povere, non
soltanto in questi duecento anni, ma dagli inizi dei tempi.
L'intreccio di libertà di parola e di pensiero, vita
materiale e differenza di genere è davvero inestricabile.
La vita materiale, intesa come forme di sussistenza, condizioni
economiche avverse, assenza di mezzi e opportunità, rischia
di limitare il nodo politico della differenza di genere al tema
dei diritti. Facile pensare alle politiche riparatorie, alle
affirmative action, alle quote rosa, alle pari opportunità.
In queste politiche riparatrici le donne, al pari di altri “soggetti
discriminati”, gruppi socio-politici non dominanti, ecc.,
sono intese come ennesima “categoria sociale” che
necessita di tutela. Ancora una volta non si capisce come un
sistema che produce disparità possa produrre, contemporaneamente,
credibili forme di contrasto alla disparità stessa.
La “vita materiale” però può essere
intesa anche in senso più ampio. Possiamo includere tra
le cose materiali anche i modi e le forme concrete delle relazioni,
l'ordine simbolico che le sorregge, la dipendenza psicologica
che le attraversa, le gerarchie e i ruoli definiti che precludono
la possibile autonomia dei soggetti.
Proprio i movimenti femministi, e in particolar modo il femminismo
della differenza, su queste questioni hanno segnato un punto
importante: di una condizione di svantaggio si può far
profitto. È possibile prendere parola anche in condizioni
materiali non favorevoli, intese in senso ampio, ossia anche
in quelle relazioni di dominio che mirano a impedire l'espressione
di una libertà intellettuale. Questa consapevolezza è
sicuramente un portato anche delle lotte e della politica delle
donne e dei movimenti femministi.
Se si riesce in questa autodeterminazione, simbolica prima ancora
che materiale, ciò che accade può generare chance
inaspettate: autonomia, scarto, “partire da sé
e non farsi trovare”, rivendicare il primato della politica
prima, “quella che viene dal tessuto delle relazioni personali
e sociali”, che non si compie nella delega, distinta dalla
politica istituzionale. Tutte chance che, pur in condizioni
di difficoltà, aprono all'inedito e all'imprevisto soprattutto
se vissute in modo collettivo.
Quarta frase: Ogni uomo ha diritto di voto nelle questioni
in discussione; ha egual diritto a provviste fresche o liquori
forti, presi in qualsiasi occasione, e può farne uso
a piacimento, a meno che la carenza renda necessario, per il
bene di tutti, porre un limite.
Si è subito detto che il diritto di voto, di per sé
non sufficiente a garantire libera partecipazione, implica una
capacità e un esercizio di ascolto attivo per nulla facili
ma necessari se si vuole pervenire insieme alla produzione di
un consenso condiviso. Da questo punto di vista la frase presenta
una circolarità espressa nell'oscillazione tra il soddisfacimento
di un personale e legittimo principio di piacere e l'autoresponsabilità
in relazione agli altri. Questa circolarità ben rappresenta
la dinamica della relazione educativa nei contesti libertari.
Dinamica che comporta cambiamenti e aggiustamenti continui,
che né gli adulti né bambini e ragazzi vivono
con facilità. Eppure la disponibilità a stare
in equilibrio dinamico tra desideri e piaceri soddisfatti da
un lato e consapevolezza del limite dall'altro è capacità
che va affinata e messa in atto.
Quinta frase: Prima o dopo, ma sempre troppo presto,
giunge il momento in cui si rinchiude il bambino fra le quattro
pareti del carcere scolastico.
L'ultima frase pone il tema dell'esperienza educativa sotto
il segno negativo dell'assimilazione alle istituzioni totali.
È apparso sin troppo facile sparare a zero sull'istituzione
scolastica, sugli effetti negativi della scolarizzazione, sollevare
critiche alla massificazione di un sapere standardizzato, denunciarne
l'autoreferenzialità.
Questa critica però non basta. Occorre anche puntare
il dito verso di noi, verso quelle esperienze che si vogliono
alternative al modello dominante. Anche in queste esperienze
bisogna porre estrema attenzione a quali pareti andiamo costruendo
sia in senso materiale e fisico, sia vigilando sulle pareti
“ideali” e quindi sui nostri pregiudizi, sul desiderio
di noi adulti di prefigurare comunque il bene di bambini e ragazzi
sovrapponendo la nostra visione alla loro effettiva esperienza.
La riflessione si è conclusa recuperando il significato
etimologico di scuola (scholé) che rimanda a un
“età del tempo libero”, a una cura di sé
nell'ozio, “in opposizione a un'economia dominata dalle
industrie dei servizi”.
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Intervento di Maurizio Giannangeli del Collettivo Milanese
Educazione Libertaria e Gabriella Prati de I Saltafossi di Bologna |
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Un momento del dibattito |
“Cosa ne facciamo dei soldi raccolti?”
I resoconti dei piccoli gruppi, come ha osservato Thea, hanno
dimostrato ricchezza di sguardi imprevisti, capacità
di circolazione libera della parola, di ascolto e di confronto,
riuscendo anche a cogliere legami con il tema dell'educazione
libertaria, giungendo a considerazioni inaspettate.
Tornati nel gruppo allargato i partecipanti hanno sperimentato
cosa vuol dire raggiungere un consenso unanime nel prendere
una decisione. Oggetto della decisione l'utilizzo del denaro
raccolto all'inizio della giornata.
La discussione è apparsa subito più difficile,
meno partecipata; lunghi silenzi e persino un certo imbarazzo.
Si oscillava tra la critica a un metodo, che non aveva precisato
il fine e non aveva offerto la possibilità di una reciproca
presentazione, e ammettere di aver comunque aderito liberamente
alla proposta con un gesto di fiducia. Appariva evidente che
una decisione sul “danaro” creava imbarazzo. Alla
fine ha preso forma una risoluzione: lasciare la possibilità
di riprendere i soldi a chi lo ritenesse opportuno. I soldi
eventualmente rimasti avrebbero costituito la prima disponibilità
economica, per ora simbolica, di un fondo destinato ad aiutare
le realtà educative libertarie in Italia.
Dopo il momento conviviale garantito da La Scighera con un ottimo
pranzo, Thea è brevemente tornata sull'accaduto osservando
quanto il denaro sia ancora un tabù. Per parte sua la
raccolta iniziale nasceva dalla necessità di trovare
un oggetto, uno “strumento neutro” utile al raggiungimento
di un fine, intorno al quale compiere insieme l'esperienza della
formazione di un consenso unanime in forma assembleare.
Si è concluso che è importante porre al centro
la riflessione sulle risorse materiali grazie alle quali potremo
realizzare i nostri progetti. Dell'idea di un fondo, di una
sorta di “microcredito” a sostegno delle diverse
esperienze, dovrà senz'altro farsi carico la Rel e se
ne dovrà discutere ancora.
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Genitori e figli all'incontro |
I saperi tra disciplinarietà e universalità
Più difficile il resoconto sul tema dei saperi. La forma
dialogica e interlocutoria ha dato libero spazio alla presa
di parola dei presenti. Gabriella Prati, referente per la Rel
in Emilia e fondatrice dell'esperienza educativa libertaria
I Saltafossi di Cadriano (Bologna) e io, referente della Rel
in Lombardia e componente di Cmel, in qualità di conduttori
abbiamo svolto una introduzione breve, per lasciare tempo al
confronto libero.
Gabriella ha introdotto il tema ponendo una serie di interrogativi
in riferimento all'apprendimento e ai saperi. Cosa è
in gioco nell'azione quotidiana insieme a bambini e ragazzi?
Cosa portiamo nei saperi e quali saperi? Cosa vuol dire, che
nell'esperienza educativa l'adulto è un accompagnatore?
Verso quali forme e modi dell'apprendimento, verso quali saperi?
Ha poi letto un breve estratto da un testo collettivo di un
gruppo di sette donne con le quali ha lavorato per trent'anni
nella scuola statale dell'infanzia. Il testo ha reso esplicita
una continuità tra l'esperienza statale di allora e quella
libertaria di oggi. Dal testo è emerso che, allora come
oggi, la relazione educativa è vissuta nell'esercizio
di un ascolto attivo capace di accogliere la soggettività
e l'unicità di ognuno, le diverse sensibilità
e tutti gli imprevisti che l'incontro comporta quotidianamente.
Il brano letto si intitola Sensibilità relazionale,
artistica, ecologica. Come allora, anche oggi si tratta
di “favorire lo sviluppo di una sensibilità”.
Sensibilità è parola che “si avvicina al
concetto di consapevolezza di sé in modo plastico e dinamico,
è un termine fragile e forte, aperto alle innumerevoli
sfumature dell'esperienza.” Sensibilità è
parola scelta perché “abilità, competenze,
conoscenze, non rendono appieno ciò che noi ci sforziamo
di offrire al bambino.”
Ne esce un'immagine dell'adulto educatore/accompagnatore capace
di continua interrogazione su di sé come su ciò
che lo circonda, disposto a stare nell'“incessante flusso
del fare”, in una relazione aperta e autentica grazie
anche alla narrazione e all'ascolto.
Sul tema dei saperi io ho invece proposto di spostare lo sguardo
dai modi con cui noi adulti ci disponiamo all'accompagnamento
ai modi e alle strategie di apprendimento messe in atto da bambini
o ragazzi nella relazione educativa, ponendo particolare attenzione
a cosa diventano i saperi per il soggetto attivo che apprende
in un contesto di apprendimento libero. A partire da questo
spostamento ci possiamo porre ulteriori domande sui saperi:
quale ruolo svolgono (anche i saperi formalizzati) nelle esperienze
educative libertarie rispetto alla “questione politica
decisiva del potere di formare i soggetti”? I saperi restano
strumento e forma di dominio o divengono occasione di crescita
dei soggetti? E se lo divengono cosa divengono e attraverso
quali modi e forme nell'apprendimento?
Nominare l'apprendimento non è facile e non è
mai certo se riportato solo dallo sguardo dell'adulto educatore/accompagnatore.
Si ritiene però utile, come occasione di autoformazione,
partire dalle esperienze di educazione libertaria in atto in
Italia e tentare di descrivere quale ruolo svolgono i saperi
anche formalizzati nel favorire o meno il libero ed autonomo
apprendimento.
Nella scuola statale superiore di secondo grado la maggior parte
dei ragazzi mostrano una esplicita mancanza di fiducia nella
possibilità di essere loro stessi i “soggetti in
grado di creare conoscenza, di dare significato, di costruire
la propria identità”.
Procedendo negli studi sembra che i soggetti attivi scompaiano
a tutto vantaggio degli “oggetti della conoscenza”,
delle discipline, dei saperi oggettivati, esterni al concreto
campo di esperienza di ragazzi e ragazze. Va quindi detto che
in contesti simili i saperi mantengono un ruolo importante nelle
pratiche di dominio e di espropriazione dei soggetti dalla possibilità
di libera scelta, di crescita autonoma e consapevole.
La questione qui sollevata riguarda allora quale campo hanno
i saperi in esperienze di autoapprendimento che pongono più
attenzione ai soggetti attivi che agli “oggetti della
conoscenza”. Si tratta di indagare quale rapporto, nelle
esperienze di educazione libertaria in atto, si instaura tra
il soggetto che autoapprende e i saperi stessi, intesi anche
come saperi formalizzati. Verificare insomma se in parte restano
strumento e forma di dominio o, diversamente, in che modo divengono
occasione di crescita autonoma dei soggetti.
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Materiale laboratoriale |
Dai liberi interventi
Gli interventi che si sono succeduti hanno articolato il tema
delle responsabilità degli adulti nella relazione educativa,
che siano educatori o genitori, e di fatto non hanno quasi trattato
la questione del campo dei saperi per come è stata proposta.
I temi emersi sono risultati: l'importanza che l'accompagnatore
si faccia “neutro” e nello stesso tempo capace di
ascolto selettivo; l'importanza di instaurare una relazione
di fiducia nell'apprendimento; come aiutare il bambino a essere
un soggetto forte; la necessità di creare centri educativi
permanenti abbandonando la struttura scolastica a favore di
una esperienza di comunità autoeducante e autogestita
dove anche la famiglia si faccia carico dell'educazione dei
figli; la critica alla società attuale e il progetto
di “realizzare l'utopia”; l'esperienza educativa
libertaria come protezione dell'essere che viene al mondo.
Per contro sono emerse anche la necessità di stare al
presente e di calarsi nella realtà di ogni giorno carica
di contraddizioni e conflitti; la perdita di centralità
dell'insegnante depositario del sapere in una realtà
di condivisione di un sapere aperto e diffuso offerto dalle
nuove tecnologie dell'informazione e comunicazione.
Tutti temi importanti e sentiti che comunque hanno evidenziato,
come già detto, un forte sbilanciamento sulla descrizione
di ciò che noi adulti possiamo o dobbiamo agire nella
relazione educativa piuttosto che su come bambini e ragazzi
apprendono; una difficoltà a descrivere i reali processi
di apprendimento e, soprattutto, un'ulteriore difficoltà
a porre attenzione alla trasformazione dei saperi che bambini
e ragazzi mettono in atto nell'esperienza autoeducativa concreta.
D'altro canto alcuni dei presenti appartengono a realtà
che non sono ancora del tutto avviate e, a oggi, le esperienze
rappresentate nell'insieme si rivolgono a bambini e ragazzi
di età compresa tra i pochi mesi di vita sino a un massimo
di 14 anni.
È probabile che il problema del ruolo che giocano i saperi
nell'apprendimento assuma maggior rilievo mano mano che ci si
approssima alla maggiore età.
In conclusione, sul tema del ruolo dei saperi come su altre
questioni affrontate, bisognerà tornare in un prossimo
seminario per approfondire meglio, nel senso soprattutto di
ancorare di più la riflessione al vissuto e alle pratiche.
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Sabato 18 maggio, pubblico femminile all'intervento aperto
di Cmel |
Incidentalità e progetto
Paul Goodman (1911-1972) sosteneva che l'educazione incidentale
è la forma principale dell'apprendimento. Il riconoscimento
di questo statuto è dovuto al fatto che l'incidentalità
è determinata dal forte legame che tiene insieme l'apprendimento
e lo studio alle istanze espresse dalla vita. È questa
verità che garantisce a bambini e ragazzi di apprendere
scoprendo e che determina il fatto che l'apprendimento è
sempre autoapprendimento. In questo senso l'educazione incidentale
non è altro che il “prendere parte alle attività
correnti della società” tenendo fermo il punto
che “ogni studio rappresenta solo una risposta alle domande
della vita” (Lev Tolstoj).
Il confronto sul tema dell'incidentalità è stato
condotto da Giulio Spiazzi e Simone Piazza, entrambi componenti
attivi della Rel. Con i loro racconti sono riusciti a comunicare
non solo qualcosa che potrebbe ben corrispondere all'esperienza
di educazione incidentale ma anche a dare descrizione di cosa
sono i saperi e come si trasformano nell'esperienza concreta
del libero apprendimento, rispondendo così anche alla
domanda posta nel tema precedente.
Giulio Spiazzi è stato per sette anni cofondatore della
scuola libertaria Kiskanu e da due anni, conclusa quella esperienza,
ha dato avvio, con un piccolo gruppo sperimentale sempre a Verona,
alla realtà di Kether, esperienza ancora più estrema
e libertaria di Kiskanu.
Per introdurci al tema Giulio ci ha raccontato due episodi che
ci hanno portati uno in Asia Centrale e uno sulle colline di
Avesa (Verona), due mondi lontanissimi e apparentemente antitetici.
Una è la storia, o parte della storia, di Noor Makhmud,
bambino afghano, l'altra racconta di H. e della sua esperienza
a Kether. Bambino di sette anni Makhmud “vive nella provincia
nord orientale dell'Afghanistan, al centro della piana del Takhar.
Nella città di Taloqan aiuta il nonno ciabattino nell'attività
di riparazione di sandali e scarpe.” Makhmud apprende
dal fratello Wajid come riconoscere Tajiki, Uzbeki, Hazara e
Pashtun dal tipo di calzatura, a saper cogliere, nel differente
passo, la necessità di calzare scarpe differenti. Insomma,
dal fratello di pochi anni più grande e dai loro amici
Makhmud apprende a “farsi sicuro nell'arte della distinzione”.
Frequentando la strada e i mercati apprende le svariate lingue.
Impara a scrivere e a leggere insieme al fratello con l'aiuto
del nonno. Questa prima storia si conclude con Makhmud che dichiara
che “questo è quello che ci piace e ci interessa
e che ci fa vivere. Nostro cugino va a scuola ma lì vogliono
farti pensare in arabo e a noi non va bene... non serve a quello
che ci piace fare e che ci dà il naan, il pane.
E poi,... gli arabi vanno a cavallo.”
La seconda storia si svolge nella piccola scuola libertaria
Kether di Verona, sulle colline dell'Avesa. H. è un ragazzo
che per mesi è stato oggetto di impegnative assemblee
del gruppo educativo Kether composto da bambini, ragazzi e accompagnatori.
Alcuni ne volevano l'allontanamento momentaneo, altri l'espulsione.
Motivo di tali proposte era il comportamento che spesso H. assumeva,
le sue provocazioni ed anche, talvolta, le violenze ai danni
di persone e cose. Ma a Kether non vige il metodo della “maggioranza”
e il raggiungimento dell'unanimità è invece la
scelta che il gruppo si è data per comporre un consenso
unanime nelle decisioni che riguardano la vita del collettivo
e dei suoi componenti.
Ciò ha consentito “ad H. di 'darsi del tempo' per
imparare a convivere e partecipare 'a modo suo' a un percorso
di quotidiana serena frequentazione”. In questo modo,
da settembre a oggi, H. ha imparato a non scontrarsi fisicamente
per ogni situazione di contrasto, ha partecipato alla “costruzione
di un ambiente ludico” come la “base” o il
mercatino nel bosco, ha trovato la propria posizione nella ritualità
della partita di calcio. “H. si sta autoeducando alla
relazione non conflittuale.
La lettura di Giulio ha dimostrato una capacità di sguardo
in grado di cogliere i diversi aspetti e modi con i quali H.
si sta autoeducando: ”H. è sensibile al contatto
fisico rassicurante, si “scioglie” quando un amico
o una compagna lo abbraccia con affetto. H. impara, perché
vuole imparare, non dai libri né dagli accompagnamenti
di materia o di studio scolastico. H. non può né
vuole “vedere” un traguardo d'esame che sancisca
una presunta “idoneità alla classe successiva”.
In questi giorni passa alcune ore su un albero. È diventato
uno dei maestri d'arrampicata, grazie alle sue forti
doti di equilibrio fisico, coraggio e disponibilità.
Aiuta “piccoli” e “grandi” in quest'arte
attraverso la sua profonda generosità. Tutto ciò
lo fa star bene e già molti si rivolgono a lui
con più accettazione ed iniziano a stimare i suoi aspetti
socializzanti emergenti.”
Ora H. vuole stare con gli altri. Prima voleva fare a botte
con tutti. Ora, con il tempo, ha capito da sé che forse
le relazioni si possono vivere in modo più compiuto e
autentico. Ogni tanto disegna, ogni tanto assiste a qualche
lezione. Adesso ha scoperto l'albero. C'è sempre stato
l'albero, solo che adesso H. lo vede. Questa scoperta è
potuta accadere perché l'albero è divenuto per
lui un pretesto per poter apprendere e contemporaneamente insegnare
qualcosa agli altri.
Il confronto seguito a questi due racconti ha sottolineato quanto
questi esempi descrivano bene il significato che un percorso
di autoeducazione assume per dei ragazzi, oltre a chiarire quanto
l'esperienza di autoeducazione sia prevalentemente incidentale.
Si è anche detto che questi racconti ci ricordano l'importanza
della libera scelta.
Libertà di scelta e apprendimento incidentale sono entrambi
principi cardine di un contesto educativo libertario e la possibilità
che vengano concretamente vissuti da bambini e ragazzi è
un punto fermo per ogni esperienza educativa che si dica libertaria.
Il legame con la vita produce curiosità, sviluppa interessi
propri, porta a promuovere da sé un autonomo apprendimento,
porta bambini e ragazzi a scoprire che ciò che apprendono,
prima di essere interessante, li trova pienamente interessati.
Questo è certamente il tratto comune delle storie di
Makhmud, ragazzo afghano, e di H. ragazzo che vive sulle colline
di Avesa nel piccolo gruppo libertario di autoeducazione Kether.
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Pierpaolo Casarin |
Relazione reciproca
Anche Simone Piazza, insegnante in una scuola elementare nella provincia di Vicenza e dottorando in scienze pedagogiche a Padova, ha proposto il racconto di alcune esperienze. Simone ha avuto modo di incontrare bambini e ragazzi della Colombia che erano venuti in Italia a testimoniare la loro esperienza nel movimento dei NATs (Niños y Adolescentes Trabajadores), ossia dei bambini e adolescenti lavoratori. A seguito di questo incontro si è recato prima in una scuola comunitaria alla periferia di Salvador de Bahia, e poi nella periferia di Bogotà, in Colombia, presso una scuola popolare che accompagna bambini e adolescenti lavoratori.
Per vari mesi si è immerso in una realtà che lo ha portato a vedere cose diverse da quelle cui era abituato in Italia. Bambini e ragazzi apparivano molto più incuriositi, presi dalle cose che andavano facevano in questi spazi educativi. Che cosa facilitava un apprendimento attivo ed integrale in queste scuole-non scuole?
Innanzitutto la relazione autentica e di reciproca fiducia esistente tra adulti e bambini e ragazzi. Una relazione capace di dichiarare e nominare reciprocamente, nel contesto, cosa metteva in discussione l'adulto o che cosa faceva soffrire bambini e ragazzi. Una relazione capace anche di generare spazi di condivisione, di mediazione tra le diversità, per risolvere i problemi di ognuno.
Un altro fattore che facilitava la promozione di sé nel gruppo era sicuramente il fatto che le porte degli spazi, delle aule, erano sempre aperte alla vita, al vissuto della comunità. Il contesto educativo era quindi aperto a tutto quello che bambini e ragazzi portavano dalla vita di ogni giorno, principalmente problemi materiali, difficoltà quotidiane, ma anche sogni e speranze.
Il quotidiano entrava principalmente con richieste urgenti, come la vicenda di un bambino che ha trovato il coraggio di confidare nel gruppo la propria condizione ponendo pubblicamente una domanda: “Perché mio papà è alcolizzato, viene a casa e mi picchia tutte le sere?” Dalla manifestazione di un primo stupore bambini e ragazzi hanno presto scoperto che la situazione del loro compagno era purtroppo simile a quella di molti di loro. La condivisione di questa condizione li ha portati a decidere insieme, in modo libero e spontaneo, di scrivere una lettera al padre di questo compagno per comunicargli quanto soffrisse suo figlio e invitarlo a scuola per parlare insieme a loro.
Questa lettera è stata poi molto di più. Ha dato
avvio all'esperienza della scuola per i loro genitori. Bambini
e ragazzi si sono detti che in fondo anche i propri genitori
avevano bisogno di un contesto educativo che li aiutasse; “noi
ci troviamo tra di noi, ci capiamo. I nostri genitori no, non
hanno tempo. Lavorano per strada, si ubriacano o che...”
Così è nata la scuola per i genitori. Gli educatori
hanno accompagnato gli adulti in questo esperimento e si è
avviata un'esperienza autoeducativa per i genitori con la stessa
modalità di quella dei loro figli: trovarsi in cerchio,
condividere i problemi della vita, avere il sostegno di una
guida che fornisca strumenti, che aiuti a rintracciare fonti
di informazione per sé stessi utili.
Un altro ingrediente che compone queste esperienze è la partecipazione attiva dei bambini anche alla vita della scuola dal punto di vista dell'organizzazione, della definizione delle attività, delle scelte di come organizzare e regolare la reciproca convivenza. A inizio anno si realizza un accampamento, un campeggio di tre quattro giorni, appena fuori della città, dove tutti i bambini e gli adulti accompagnatori decidono insieme, per l'anno che sta per iniziare, a che cosa dedicarsi, che cosa si vorrebbe imparare, quali temi affrontare. In questo modo nasce la prima grande mappa delle conoscenze, dei laboratori, dei percorsi. Simone conclude considerando che tutti questi ingredienti sono di fatto politici perché offrono a bambini e ragazzi la possibilità di formarsi una propria lettura del mondo in cui vivono, una lettura personale e critica. Ed anche perché questa esperienza autoeducativa li aiuta a costruire insieme soluzioni possibili ai loro problemi reali. Soluzioni che molto spesso vanno contro il pensiero dominante anche solo per il fatto che i soggetti scoprono quanto la propria condizione sociale non è necessariamente un destino ineluttabile.
Nella discussione che si è sviluppata dopo il racconto di Simone si è ribadito che le esperienze che mantengono uno stretto rapporto tra apprendimento e vita, che privilegiano un'educazione incidentale, realizzano concretamente la possibilità che “bambini e ragazzi siano al centro della loro esperienza educativa, siano gli attori principali di tale esperienza”. I racconti di Giulio e Simone mostrano quanto bambini e ragazzi siano soggetti attivi capaci di progettare, ideare e in parte realizzare anche da soli, la trasformazione del proprio presente.
I contesti educativi libertari si reggono sulla fiducia profonda che bambini e ragazzi, accompagnati nel gruppo a leggere la loro realtà, sono in grado di autorganizzarsi e di impegnarsi nella possibile trasformazione dell'esistente in modo costante, senza noia; e se si tratta di vivere la fatica, di avere la forza di reggere questo impegno facendo anche ricorso al gruppo.
Da qui si apre la possibilità di elaborare, insieme o da soli, idee, proposte, cercando il proprio pane, quello che loro serve. E questo accade che si trovino in Afghanistan, in Colombia o in Italia.
Nel segno della felicità
La serata di sabato 18, aperta al pubblico, organizzata da Cmel e dalla Scighera, metteva a tema il possibile rapporto tra educazione e felicità a partire da una domanda: “In che modo secondo te la felicità ha a che fare con l'educazione?” Gli organizzatori hanno distribuito al pubblico fogliettini e penne in modo da consentire a ciascuno di scrivere una possibile risposta. Sullo schermo sono state poi proiettate anche le risposte che i componenti di Cmel si erano dati precedentemente all'incontro.
Non possiamo qui restituire tutti i contributi, molto ricchi e vari. Emerge però una visione comune positiva. L'idea generale è che la relazione educativa possa essere vissuta nel segno di una felicità possibile, di un primato dello “star bene” nel presente, di un'esperienza di apprendimento che conta per il soggetto che la compie mentre la sta compiendo e non solo in virtù di una realtà differita nel tempo, di una utilità tutta sbilanciata sul futuro, per l'uomo o la donna che saranno domani.
Qui e ora è possibile essere felici e anche l'esperienza di apprendimento, insieme ad altre esperienze, può essere occasione di felicità. Questa si compie quando il soggetto è consapevole di sé, riconosciuto da altri e messo nelle condizioni di riconoscere liberamente altri; di scegliere con chi, come e quando accompagnarsi in un'esperienza di apprendimento per se significativa, senza rinunciare al proprio corpo, alla propria unicità, come al piacere di sentirsi parte di un gruppo.
Queste sarebbero state parole un po' vaghe se non fossero state accompagnate dalla presenza di Gabriella Prati de I saltafossi, e di Giulio Spiazzi di Kether, che in modo molto generoso hanno risposto a tante domande poste dal pubblico. Il senso di realtà e non di mero vagheggiamento di una possibilità lo hanno restituito soprattutto le immagini di bambini e ragazzi all'opera nella loro realtà di autopprendimento libero nell'esperienza di Kether.
La relazione tra sé e gli altri
L'ultimo tema del seminario, il tema del conflitto, è stato affrontato domenica mattina. A condurlo sono stati Silvia Bevilacqua e Pierpaolo Casarin, entrambi impegnati da anni nella pratica educativa della Philosophy for children (P4c). Silvia è anche una componente attiva della Rel in Liguria.
Entrambi hanno raccontato di sé e della loro esperienza con la P4c, una pratica che intende rivalutare la filosofia come possibilità per ognuno di essere generativo rispetto al proprio pensiero e al proprio pensare. Questo tipo di pratica è in rapporto anche con una prospettiva di tipo libertario perché mette in discussione il tradizionale rapporto fra insegnante e studente che destina quest'ultimo a ricettore passivo di saperi predeterminati, detenuti dal solo insegnante.
Nella P4c l'insegnante è facilitatore di un contesto dialogico. Favorisce una dimensione interrogativa invitando la classe a diventare comunità di ricerca. In concreto, in classe o nel gruppo, si parte dalla lettura di un testo. Una volta letto l'adulto invita bambini e ragazzi a formulare delle domande. Queste domande diventano la sollecitazione che la comunità di ricerca si pone come possibile strada di riflessione. L'attività è di dialogo, partendo da dei pre-testi che nella tradizione della P4c sono in forma dialogica, non hanno un tema direttivo e hanno un orizzonte di tematiche rispetto alle quali non è data alcuna modalità di esplorazione prestabilita. Sono quindi bambini e ragazzi ad attivarsi liberamente nel dialogo interagendo tra loro e con gli adulti sulle questioni che si pongono.
Si tratta di una pratica che se sottopone a critica il potere dell'insegnante d'altro canto evidenzia le varie modalità di interazione interne al gruppo di ricerca. Pratica che espone la diversa distribuzione e articolazione dei poteri che attraversano l'intero gruppo a partire dal contesto in cui ci si trova. Una pratica quindi in grado di mostrare come e quanto un certo regime e una certa articolazione di verità influenzano il dialogo tra i presenti.
Raccontando della loro esperienza nella P4c Silvia e Pierpaolo ci hanno fatto intendere quanto il tema del conflitto sia centrale in ogni contesto educativo e ancor più in contesti che si vogliono libertari.
Come stare nel conflitto?
Silvia e Pierpaolo ci hanno quindi proposto il tema del conflitto
in modo particolare. Comunemente la parola conflitto porta con
se l'idea che questo debba essere superato, appianato, risolto
in qualche modo. Ancora più comune e diffuso è
il desiderio di rimozione del conflitto stesso. Silvia e Pierpaolo
ci hanno invece proposto l'ipotesi che il conflitto possa essere
modalità attraverso la quale interagiamo con l'altro
e ci poniamo all'interno della differenza.
I riferimenti da cui hanno preso le mosse sono due testi. Uno
di questi è il saggio di Miguel Benasayag e Angélique
Del Rey, Elogio del conflitto. Il testo è critico
rispetto alla possibilità di superare il conflitto e
mette in luce quanto questa “soluzione” sia motivata
in realtà dal timore e dalla necessità di una
sicurezza costruita artificialmente. I due autori assumono il
conflitto come condizione del divenire delle cose e della vita
e di una società ricca di complessità e di differenze
che non possono essere appianate, o sedate, da una pacificazione
fittizia.
La domande urgenti divengono allora: “come pensare il
conflitto altrimenti che nella prospettiva del suo superamento?
Come pensare la permanenza del conflitto stesso?” Sorgono
considerazioni che integrano pienamente il conflitto nello statuto
del vivente. Così dal testo di Benasayag e Del Rey: “In
una civiltà che non tollera i conflitti (...) si tratta
di capire in che modo l'essere umano, così com'è,
con il suo fondo di costitutiva oscurità, possa costruire
le condizioni di un vivere comune malgrado il conflitto
e anzi attraverso il conflitto, mettendo fine al sogno
o all'incubo di chi vorrebbe eliminare tutto ciò che
vi è, in lui, di ingovernabile. L'ingovernabile è
parte essenziale dell'uomo. Per questo imparare a pensare insieme
il conflitto e la civiltà è decisivo.”
Il problema del conflitto, in questo senso, viene assunto non
tanto al fine di individuare possibili strategie per risolverlo,
per superarlo. Sembra semmai che il conflitto, nelle sue determinazioni
contingenti e materiali, sia una delle possibili manifestazioni
dello spirito critico, ossia dell'“arte di non essere
eccessivamente governati”.
Non si tratta allora di mettere a punto e sviluppare pratiche
di educazione alla risoluzione dei conflitti, quanto piuttosto,
di comprendere, ragionando assieme, quali siano nel conflitto
le possibilità che questo stesso divenga generativo e
trasformativo del presente. Silvia ha fatto giustamente notare
che questa possibilità è da proporre 'in
punta di piedi', ossia con estrema cautela e rispetto del vissuto
di ognuno; nella consapevolezza che nel conflitto il dolore
e la sofferenza sono spesso così forti e così
reali da non consentire di proporre con troppa leggerezza l'idea
di conflitto come processo generativo in grado di “costruire
le condizioni di un vivere comune”, come se fosse cosa
facile.
Il secondo riferimento testuale è il saggio di Judith
Butler, Critica della violenza etica. La questione che
Butler pone in questo testo è legata a una domanda che
Silvia e Pierpaolo ritengono importante nell'affrontare il tema
del conflitto e della relazione: com'è possibile parlare
di etica nel quadro della società contemporanea? In questa
direzione Butler apre una riflessione sull'esperienza con e
verso l'altro a partire da una domanda: “chi sei tu?”;
domanda che l'autrice mutua da una filosofa italiana, Adriana
Cavarero. Un tu che resta “mai totalmente conosciuto
e conoscibile”, nemmeno attraverso una relazione empatica.
Ciò comporta una doppia condizione, da un lato il soggetto
si espone al rischio del disconoscimento, dall'altro scopre
che l'esperienza del “dar conto di sé” è
fallimentare. In questa duplice condizione la prima esperienza
che ciascuno di noi vive nella relazione è che “proprio
nella vulnerabilità e singolarità che ci contraddistinguono
siamo esseri necessariamente esposti uno all'altro”.
In questo senso la domanda al centro del riconoscimento di sé
non può essere quella riflessiva che possiamo rivolgere
a noi stessi, “che cosa” siamo, o cosa possiamo
divenire. La domanda davvero al centro del riconoscimento è
diretta, rivolta all'altro: “Chi sei tu?”.
A partire da questa consapevolezza Judith Butler consegue che
“io non sono un soggetto 'interiore', solipsistico e autocentrato,
che si interroga da solo” e “se non ho un 'tu' a
cui rivolgermi, allora ho perso me stessa”.
Questa domanda, “chi sei tu?”, è il riconoscimento
che vi è sempre qualcosa che eccede il soggetto, che
lo trascende, ed è probabile che questa eccedenza sia
il cuore di ciò che mette in moto il conflitto. Le parole
riportate da Judith Butler toccano quindi il nostro tema in
modo particolare, coniugando il tema del conflitto a quello
del reciproco riconoscimento e dando a questo intreccio non
tanto una soluzione quanto una tensione, l'aspetto di una possibile
verità.
Questi alcuni passaggi del testo in questo senso indicativi:
“Sospendere la pretesa di una identità propria
o, più specificamente, di una assoluta coerenza con se
stessi mi sembra un buon antidoto a un certo tipo di violenza
etica”. “Si può dare e ricevere riconoscimento
solo a condizione che qualcosa che non siamo noi ci disorienti
da noi stessi, che si sia sottoposti a un decentramento e si
'fallisca' nel conseguire una propria identità.”
“Solo (...) lasciando che la domanda resti aperta, che
addirittura continui ad insistere, noi lasceremo davvero vivere
l'altro (...).” “Come suggerisce Cavarero, il 'vero'
atteggiamento etico consiste nel porsi la domanda 'chi sei tu?'
e nel continuare a domandarselo senza mai aspettarsi una risposta
piena e definitiva.”
Questa tensione è forse una chance che nel conflitto
può essere giocata, aperta, e che forse potrebbe far
diventare la situazione di conflitto generativa, nell'auspicio
che ci aiuti a trasformare positivamente il presente.
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Lo spazio gioco offerto dalla Scighera. “Mentre parlano
noi giochiamo.” |
Tra soggettività e assoggettamento
A seguito di queste sollecitazioni si è aperto il dialogo che ha visto un susseguirsi di interventi prevalentemente interrogativi. Alcuni hanno insistito nel chiedere chiarimenti sull'idea di conflitto generativo chiedendo che cosa ci aspettiamo dal conflitto? Come entriamo in esso nella pratica? Le domande si sono susseguite fitte: come sperimentare nella pratica il conflitto? come si può evitare di consolare e moderare, di stabilire un ordine? come intervenire nel conflitto?
Queste domande ripropongono il rapporto fra soggettività e assoggettamento. Si cerca con ciò di indagare come particolari forme di relazione possano generare stati di dominio che bloccato le possibilità di espressione. Altri sottolineano come il conflitto fra i bambini ha forma differente sia nel senso sia nelle modalità, di quello fra adulti. Come gestire il conflitto fra adulti? È possibile costruire una pluralità di strade da percorrere? Queste domande investono soprattutto, nelle esperienze in atto, il rapporto tra educatori/accompagnatori e genitori. Altri tornano sulla pratica della P4c chiedendo se anch'essa non sia un esercizio di potere sui bambini. Con questa domanda si vuole indagare quanto la pratica della P4c generi concretamente la possibilità che le dinamiche di potere presenti nel gruppo non determinino forme di assoggettamento. Domanda metariflessiva che invita a non sottovalutare il potere che noi stessi generiamo nella relazione.
Qualcuno fa presente l'importanza del corpo, chiedendo se non sia vero che il conflitto sia agito e vissuto prima ancora nel corpo che non nella parola. Se il corpo può essere inteso come sensibilità e esperienza del conflitto in quale rapporto sono corpo e conflitto nella relazione educativa, dato che soprattutto nel corpo l'altro ci mette continuamente sotto scacco? In questo senso è importante non negare l'esistenza del conflitto anche nel rapporto di amicizia e di amore.
Si è anche considerato che nella vita, nei rapporti quotidiani, esiste una sensazione di paura del conflitto. In questo senso è legittimo pensare che nel conflitto assistiamo a un “errore”? E se è così vuol dire che qualcuno ha colpa?
Infine, come porre attenzione allo stare nella relazione senza sostituirsi all'altro? Possiamo sperare di indovinare ciò di cui l'altro ha bisogno o dobbiamo lasciare che sia questi a chiedere, a esporsi?
A questo punto si fa riferimento anche al problema del senso del limite. Nel conflitto e nelle relazioni di potere e dominio il senso del limite dell'autolimitazione gioca un ruolo essenziale anche nella stessa espressione della libertà.
Vari interventi veloci, sovrapposti e confusi, spostano il tema sulla necessità o meno di intervenire in caso di conflitto tra bambini e ragazzi. Emerge un disaccordo. Alcuni preferiscono 'lasciar fare', evitando quindi ogni forma di mediazione e di intervento. Altri invece ribadiscono la necessità di intervenire anche con modi impositivi.
In forma di non conclusione
Il seminario si è poi concluso con i saluti, i ringraziamenta
al circolo La Scighera e al Cmel che hanno reso possibile questo
primo seminario della Rel anche ospitando per la notte molti
dei partecipanti.
Non sono state tratte conclusioni particolari. Di certo si è
detto che il seminario è risultato ricco di stimoli e
di spunti, di questioni appena accennate che sarà necessario
riprendere. Ritornando alla propria esperienza ciascuno cercherà
di sviluppare e di articolare ulteriormente nella pratica quotidiana
insieme a bambini e ragazzi le tante domande che ci siamo posti.
Magari aggiungendo ad esse altre questioni aperte, non risolte,
da rilanciare alla prossima occasione.
L'essere in divenire delle singole esperienze resta materia
feconda che lascia intravedere, in tutti i presenti, la necessità
anche per il prossimo anno di dare vita ad altri seminari di
autoformazione. Su questa promessa ci siamo lasciati con un
arrivederci all'anno prossimo e con l'impegno, da parte della
Rel, di far sì che le varie realtà divengano sempre
più da isole arcipelago.
Maurizio Giannangeli
Per saperne di più
Bibliografia
Pedagogia Libertaria
- Marcello Bernardi, Educazione e libertà, Rizzoli,
2009, pp. 192, € 15,00
- Lamberto Borghi, La città e la scuola,
a cura di Goffredo Fofi, Elèuthera copyleft (eleuthera.it/scheda_libro.php?idlib=129)
- Francesco Codello, La buona educazione. Esperienze libertarie
e teorie anarchiche in Europa da Godwin a Neill, intr. Giampiero
Berti, Franco Angeli Editore, 2a ristampa 2013, pp. 704, €
48,00
- Michael P. Smith, Educare per la libertà. Il metodo
anarchico, Elèuthera, 1990, pp. 192, € 13,00
- Filippo Trasatti, Lessico minimo di pedagogia libertaria,
Elèuthera 2004, pp. 168, € 12,00 (nuova edizione
nel 2014)
Pedagogia Libertaria – esperienze
- Francesco Codello, Irene Stella, Liberi di imparare. Le
esperienze di scuola non autoritaria in Italia e all'estero
raccontate dai protagonisti, Terra Nuova Edizioni, 2011,
pp. 185, € 12,00
- Grazia Honegger Fresco, Dalla parte dei bambini. Fare scuola
dall'obbligo all'oblio, l'ancora del mediterraneo, ed. 2011,
pp.156, € 15,00
- Andrea Papi, Quando ero “la dada coi baffi”.
Educare e autoeducarsi, Presentazione di Grazia Honegger
Fresco, Prefazione di Francesco Codello, Edizioni La Fiaccola,
2011, pp. 174 € 14,00
Alcuni testi riportati nel seminario
- Miguel Benasayag, Angélique Del Rey, Elogio del
conflitto, Feltrinelli, 2008, pp. 206, € 16,00
- Judith Butler, Critica della violenza etica, Feltrinelli,
2006, pp. 182, € 18,00
- Adriana Cavarero, Tu che mi guardi, tu che mi racconti.
Filosofia della narrazione, Feltrinelli, 2001, pp. 192,
€ 13,50
- Disattendere i poteri. Pratiche filosofiche in movimento,
a cura di Silvia Bevilacqua e Pierpaolo Casarin, Mimesis Edizioni,
2012, pp. 164, € 14,00
- Gruppo Le Libre, L'ascolto dalla parte delle radici,
Bacchilega Editore, 2013, pp. 96, € 10,80
- Simone Piazza, Il coraggio di insegnare. Diario di viaggi
dove la Scuola, e la Vita, hanno ancora valore, edizioni
creativa, 2012, pp. 182, € 15,00
Sitografia
Rel, Rete per l'educazione libertaria (educazionelibertaria.org)
Le realtà e i gruppi che hanno partecipato al seminario
Lazio: Associazione Soqquadro per l'educazione libertaria
(maninpiedi.it)
Liguria: Mareggen (mareggen.jimdo.com)
Lombardia: Cmel (su Facebook: Collettivo Milanese per
l'Educazione Libertaria)
Emilia-Romagna: I Saltafossi (associazionemerzbau.wordpress.com/2012/01/19/i-saltafossi)
Marche: Serendipità
(lilliput-osimo.blogspot.it)
(snacksofmarketing.wordpress.com/2013/08/07/educazione-cambiamento-scuola-serendipita)
(lefunkymamas.com/e-se-sognassimo-una-scuola-diversa)
Puglia: Scuola di paglia (scuoladipaglia.blogspot.it)
Umbria: Il genio selvatico (genioselvatico.org)
Veneto: Kiskanu (kiskanu.org)
Kether (kether.it).
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