Un futuro di persone sagge
Intervista a Paolo Maddonni di Renzo Sabatini
È quello che “sogna” l'intervistato, pensando alla figura di Giuseppe, come è descritta da De André. Come (sullo scorso numero) Raffaella Saba, anche Paolo Maddonni ha ascoltato e meditato su questa serie di interviste. Dopo un intenso impegno nell'area del disagio e delle disabilità psico-fisiche, dal 1986 ha lavorato in varie associazioni di volontariato, tra cui Legambiente. Uomo di teatro, nutre un profondo interesse per l'Africa, dove ha vissuto un'intensa esperienza professionale.
Sei sempre riuscito a coniugare la vita professionale con le idee e le passioni (lo dico con una certa invidia): il Servizio Civile Internazionale, Legambiente, i rifugiati in Burundi, il teatro... Le vacanze le dedichi ogni anno al volontariato. Cos'è, una forma di moderno francescanesimo?
Detta così sembra una vita vissuta in una dimensione
un po' epica! È difficile partire dagli inizi e forse
sarà bene cominciare dall'età: ho 46 anni e ho
cominciato a lavorare a 14 o 15 anni. Facevo il portamazze in
un circolo di golf. È stata un'esperienza formativa molto
interessante che mi ha introdotto al discorso della marginalità,
perché lì ho cominciato a frequentare ragazzi
della mia età che però avevano un'estrazione sociale
molto diversa dalla mia, perché io avevo comunque una
famiglia che mi faceva studiare, facevo qualcosa per il futuro,
mentre gli altri si dibattevano nel presente. Quando, a 22 anni,
ho scelto di fare il servizio civile come obiettore di coscienza,
ho scelto un'attività che mi portasse a contatto con
persone con problemi e ho lavorato per 20 mesi con persone affette
da distrofia muscolare. A 24 anni feci il mio primo campo di
lavoro internazionale all'estero e quella è stata l'esperienza
fondamentale che mi ha aperto a tutte le successive. I miei
anni con il Servizio Civile Internazionale (1)
sono stati un'esperienza formativa importantissima, per la dimensione
dell'associazione che è pacifista ma molto rivolta al
concreto, con lo strumento della condivisione del lavoro per
raggiungere obiettivi pratici, con la capacità di mettere
assieme persone di tanti paesi per farle lavorare assieme, piuttosto
che combattersi. L'esperienza in Burundi è stata quasi
una conseguenza naturale di questo impegno. Il paese all'epoca
era in un conflitto civile molto grave e io vi ho trascorso
un anno e mezzo come operatore umanitario.
Al rientro in Italia ho continuato a lavorare nell'ambito del
volontariato internazionale, sempre con l'obiettivo di promuovere
una coscienza pacifista, quindi promuovendo l'incontro, il dialogo,
la tolleranza. È quello che faccio da sette anni collaborando
con Legambiente (2): le attività
che promuovo sono ora, ovviamente, più legate all'ambientalismo,
ma sempre nell'ambito del volontariato internazionale e senza
rinunciare ad introdurre anche altri temi sociali.
Certo l'esperienza da “caddy” in un campo da golf qui in Australia sarebbe stata considerata una cosa normale ma nella Roma degli anni settanta doveva essere un'esperienza lavorativa decisamente originale. Qual è il filo rosso che lega tutte queste tue attività, fra pace, ecologia, solidarietà e rifugiati?
Probabilmente c'è un tipo di atmosfera in cui si decide di vivere quando, a un certo punto, si comincia a fare i conti con se stessi. Per esempio anche in quest'ultima, lunga esperienza di lavoro con Legambiente, all'inizio pensavo che avrei avuto qualche difficoltà ma in realtà, da subito, sono riuscito a integrare nel mio lavoro queste varie anime che mi porto dietro.
C'è stato un momento importante proprio all'inizio quando, durante una delle prime riunioni a cui ho partecipato, il presidente di Legambiente dell'epoca (eravamo nel 2002) aveva invitato tutto il personale a partecipare ad una manifestazione contro le leggi repressive che il governo stava pianificando contro l'immigrazione. Lui stesso di fronte alla perplessità di alcuni disse: “Capisco che ci sono tante cose che dobbiamo fare ogni giorno per l'ambiente, abbiamo tante emergenze, però non possiamo far finta di niente e vivere in compartimenti stagni perché, se anche come ambientalisti vincessimo, nel giro di cento anni, tutte le nostre battaglie e la Terra diventasse il pianeta più sostenibile dell'universo, non avremmo però fatto granché, se poi questo pianeta fosse pulito ma abitato solo da guerrafondai, mafiosi e razzisti”. Questo tipo di impostazione, che ho subito condiviso, è un po' quello che tiene assieme i vari aspetti delle situazioni in cui mi sono trovato a vivere e operare.
Con i rifugiati ruandesi
Te la cavi niente male con voce e chitarra e De André è sempre in cima al tuo repertorio nelle occasioni conviviali. Cos'è che ti ha portato verso il cantautore genovese?
Penso che sia stata proprio la chitarra, suonata in modo semplice dagli anni del liceo. Qualche amico mi ha portato queste canzoni e ho cominciato a suonarle. Nell'insieme degli stimoli che si potevano avere negli anni settanta De André rivestiva un ruolo importante e per chi riusciva a mettere assieme un po' di accordi quelle canzoni davano anche una certa soddisfazione. Poi ricordo una situazione legata a delle ragazze tedesche conosciute con un gruppo di amici un'estate. La ballata dell'amore cieco divenne il motivo di tutta quell'estate. A loro piaceva molto sia per il ritmo che per il significato, sebbene fosse così drammatico. Quindi per me l'esordio con De André è collegato a questo episodio. Dopo non l'ho mai lasciato, tanto che negli anni più recenti alcune canzoni di De André fanno parte del nostro repertorio familiare come canzoni della buonanotte, per cui con i miei figli spesso la sera si chiude con Marinella o con La guerra di Piero. Sono canzoni che fanno parte del nostro linguaggio familiare.
Come pacifista quanto ti sei identificato nel filone antimilitarista di De André?
Molto. Io ho proprio scelto di fare l'obiettore di coscienza. Non posso dire che lo abbia deciso per via delle canzoni di De André ma comunque quei testi hanno influito. Sullo sfondo quelle canzoni ci sono sempre rimaste.
Nel periodo che ho trascorso in Burundi, circa un anno e mezzo, fra il '96 e il '97, ho avuto occasione di vivere in un paese in guerra, lavorando con i rifugiati ruandesi e con gli sfollati della guerra civile. È stato un modo di vedere la guerra di tutti i giorni, proprio quella che ritroviamo in diverse canzoni di De André. Perché per chi è fortunato, come tanti di noi, chi non ha mai vissuto la guerra, pensa di solito che quando scoppia la guerra ci si trovi in una situazione in cui la guerra domina e non esiste nient'altro. In realtà durante la guerra la vita quotidiana continua e succede tutto quello che accade in tempo di pace, benché ci sia la guerra e ci siano tutti i pericoli di una guerra.
Vivere in un contesto di guerra civile, con una tensione alta e costante, mi ha fatto riflettere su questo fatto dell'uomo che riesce ad abituarsi a tutto, come del resto è capitato a me, perché mi sono abituato a vivere in un posto dove ogni due o tre chilometri incontravi un posto di blocco, con militari regolarmente ubriachi che ti puntavano il mitra addosso attraverso il finestrino e dovevi anche fare un sorriso di circostanza. Oppure sapevo che in città avevano messo le mine e avrei potuto anche passarci sopra e comunque uscivo, prendevo l'automobile e facevo quello che dovevo fare. Insomma in qualche modo in queste situazioni si abbassa il livello di percezione del pericolo o si diventa più fatalisti. E questo della vita quotidiana lo ritrovavo nelle canzoni di De André: ad esempio la donna che aspetta il ritorno del compagno o lo stesso Piero che, in fin dei conti, è una persona qualsiasi e mentre va verso il fronte ragiona delle cose quotidiane. È sicuramente qualcosa che mi sono portato sempre dietro.
In De André c'è un filone che mi sembra si possa accostare alla tua esperienza. Penso a quelle canzoni in cui si parla di indiani, rom, palestinesi, pastori sardi, ecc. Come lo vedi questo filone che parla di massacri, persecuzioni, culture dominate ed emarginate?
Può sembrare strano ma per me il ricordo più vicino a quelle canzoni è sempre quello della guerra civile in Burundi. Quella guerra è stata spesso troppo facilmente etichettata come “guerra etnica” fra Hutu e Tutsi, anche se in realtà, come sempre, dietro le guerre ci sono motivazioni economiche e interessi diversi. La guerra civile non è una guerra di posizione e in Burundi e Ruanda non c'erano neanche veri e propri eserciti a fronteggiarsi, ma gruppi, bande di vario tipo, e la guerra era una guerra che “passava”.
Passava su queste bellissime colline verdi, dove la gente vive tranquilla, un po' sparpagliata, neanche in veri e propri villaggi, ma in fattorie. La guerra passava spesso di notte, passavano gruppi armati, passava la repressione dell'esercito. E quando la guerra passava la gente non poteva far altro che scappare, chi riusciva a sopravvivere, senza neanche capire troppo bene da chi stesse scappando, chi fosse l'amico e chi il nemico. Si doveva scappare e poi cercare di raggrupparsi e sopravvivere. Così si formavano i campi di profughi, fatti di persone normali che magari fino a poco prima avevano vissuto solo con la propria famiglia in una campagna un po' isolata, magari a due chilometri dalla fattoria più vicina, e ora si trovavano a vivere in un campo assieme a tanta gente sconosciuta. Mi ricordo allora questa giornata particolare, il venerdì della settimana di Pasqua. Feci un giro in una certa zona con un collega e apprendemmo che durante la notte c'era stato il passaggio di gruppi ribelli e dell'esercito. Era una zona dove lavoravamo abitualmente ma quel giorno andammo a vedere il vuoto: per molti chilometri non c'era più nessuno.
Mi venne subito in mente Fiume Sand Creek di De André: le capanne rovesciate, i resti della vita quotidiana gettati all'aria, nessuna traccia delle persone, un clima irreale di paura. Il mio collega, che era un credente, si rese conto che quello era proprio il venerdì santo e disse: “in questo paese non si va avanti, si rimane sempre al giorno della passione, ma chissà se si arriverà mai alla domenica di riconciliazione”.
In Burundi ho avuto molto tempo a disposizione per riflettere su queste cose, perché alle sei di sera c'era il coprifuoco, bisognava stare chiusi in casa e questo mi ha dato modo di pensare, leggere, ascoltare musica. In De André ritrovavo proprio quegli elementi che stavo vivendo perché le sue canzoni parlano della vita quotidiana anche nella guerra: il palestinese che piange il bambino schiacciato dal carro armato, che piange la spiga di grano che non potrà più attecchire. Il bambino indiano nella capanna che sente i rumori distanti dei soldati che arrivano. I rom perseguitati che però continuano a vivere, ballare, giocare.
In quegli anni ho ragionato molto sul fatto di uccidere ed essere uccisi. Noi lavoravamo molto con i bambini, che in queste folate di guerra venivano spesso lasciati indietro; magari venivano affidati a qualche amico o parente e finivano per perdere completamente le tracce della famiglia, magari fuggita lontano, in un campo, senza possibilità di comunicazione. Incontravamo questi bambini, assieme a degli operatori locali, e spesso ci trovavamo a ragionare su quale fosse la cosa peggiore: se aver visto i propri genitori venire uccisi oppure averli visti uccidere. Entrambi i casi erano abbastanza frequenti, perché in una guerra senza eserciti è la gente comune che si combatte, gli uni contro gli altri. In entrambi i casi era un dramma infinito, quasi senza possibilità di recupero. Noi cercavamo di ricostruire in questi bambini una sorta di fiducia verso gli adulti perché, dopo quello di cui erano stati testimoni, per questi bambini gli adulti rappresentavano sempre degli esseri inaffidabili e pericolosi, esattamente il contrario di quello che poi è comune nelle società africane, dove i bambini sono sempre messi al centro, hanno un ruolo molto importante e qualsiasi adulto si fa sempre carico dei minori, molto più che nel mondo occidentale. Noi speravamo che questi bambini potessero diventare adulti migliori di quello che erano stati i loro genitori.
Vedere bene nella realtà
Parlando di volti, di storie, tu, che hai passato la vita a contatto con persone emarginate ricordi qualcuno che in qualche modo avresti potuto riconoscere nella galleria di De André?
Mi viene abbastanza facile pensare a situazioni nelle quali ho trovato direi proprio De André nella realtà che mi sono trovato a vivere. Mi viene in mente ancora una volta il Burundi, in particolare il periodo in cui lavoravo con i rifugiati ruandesi. Forse voi sapete che i rifugiati ruandesi, per la maggior parte, appartenevano al gruppo Hutu in fuga dalla reazione Tutsi al tentativo di genocidio da parte Hutu. Gli Hutu rappresentano la maggioranza della popolazione ruandese e nel 1994 ci fu questa campagna di odio contro i Tutsi, abilmente sobillata da potenze internazionali, che portò ad un vero e proprio tentativo di genocidio. Poi i Tutsi tornarono armati, anche loro aiutati da potenze internazionali, e gli Hutu fuggirono dalla rappresaglia. Fra i tanti che scapparono dal Ruanda e rimasero per molti anni nei paesi dei dintorni come rifugiati, ovviamente, e saranno stati tantissimi che si erano macchiati di crimini importanti, denunciando dei Tutsi o facendoli letteralmente a pezzi.
Questa situazione mi faceva venire in mente il Pescatore di De André, quando io stesso mi sono trovato nella condizione di lavorare con questa gente. Penso in particolare ad una persona alla quale avevamo conferito un incarico. Nei campi, come si sa, vengono fatte molte attività. Alcune sono di pura sussistenza, come distribuire il cibo, altre sono a carattere sociale, di animazione. Ovviamente come operatori si cercava di utilizzare anche gli stessi rifugiati, scegliendoli fra quelli che avevano magari maggiori capacità organizzative o conoscenze linguistiche. E tante volte, fra operatori, ci dicevamo che, chissà, magari proprio quelli potevano averne combinate tante, perché forse in Ruanda avevano avuto l'autorità di denunciare o stilare le liste delle persone da eliminare. Eppure io lì, come il pescatore della canzone, magari non con la stessa serenità, non ho chiuso quella porta. Non ho permesso al mio pregiudizio di intervenire, dire, chissà, questa persona probabilmente è un assassino. In quei giorni ci ho proprio pensato perché mi sentivo molto come la figura della canzone. Questa, come tante altre situazioni, mi è sembrata la rappresentazione evidente di come De André fosse riuscito a vedere bene nella realtà.
Tu hai potuto ascoltare alcune delle interviste che abbiamo realizzato per questa trasmissione. Che quadro ne viene fuori secondo te?
Mi ha colpito un comune stupore delle persone che rispondevano alle vostre domande. Intanto lo stupore di essere intervistati. Penso che sia un merito della trasmissione di essere andati a cercare delle persone che avessero qualcosa da dire rispetto al vissuto personale di certe situazioni. Mi pare che in qualche modo abbiate dato loro l'opportunità di sentirsi per la seconda volta importanti. Dopo essersi ritrovati, nella loro intimità, in una qualche canzone di De André, hanno trovato qualcuno che li ha cercati e ha avuto la sensibilità di domandar loro: “Che cosa hai provato, che cosa hai sentito”. È una cosa molto forte, molto significativa, che mi ha emozionato ascoltando alcune interviste. Ho avuto l'impressione che molti degli intervistati abbiano avuto non solo la forza, l'energia, ma anche il piacere di ritrovarsi a parlare di queste cose. Tutti sembrano avere una sorta di comunanza e, anche se ognuno ha parlato per conto proprio, della propria personalissima esperienza, in realtà ne viene fuori una sorta di coro. È come se fosse una conferenza in cui tutti si stessero guardando in faccia e ciascuno stesse facendo sì con la testa ogni volta che qualcun altro parlava.
Abbiamo realizzato queste interviste in modo da affrontare le tante tematiche care a De André e quindi, tu lo sai, abbiamo sentito la prostituta, il transessuale, il gay, gli ex detenuti, il prete cattolico e il pastore valdese, l'ex tossicodipendente, e così via. C'è qualche intervista che ti ha colpito particolarmente? O qualche affermazione che ha suscitato più di altre il tuo interesse?
Dal punto di vista dei miei interessi personali ho trovato molto interessante l'intervista con Alfredo Franchini perché ha avuto modo di frequentare a lungo De André cogliendo questo suo modo di essere umano e questa sua cultura, mettendo in luce aspetti che proprio non conoscevo della personalità del cantautore. È una testimonianza che mi ha avvicinato di più al De André uomo. Un'altra intervista molto coinvolgente è stata quella con Carla Corso, ex prostituta. Perché è una donna che offre la sua testimonianza su una vita vissuta senza mai dire di essere stata in qualche modo costretta a fare determinate scelte. Mi ha molto colpito questo affrontare serenamente e consapevolmente la storia della sua vita e di saperne fare un punto di forza anche per altre persone che si trovano nella stessa condizione. Sono due interviste, quelle a Franchini e quella a Carla Corso, che ricordo con emozione.
Dell'intervista a don Gallo ricordo una frase detta con molta emotività (perché lui era davvero molto coinvolto): don Gallo dice che De André riusciva a vedere attraverso le persone, come se fossero trasparenti. Questa affermazione mi ha dato un'idea precisa di quello che poteva essere De André nel confrontarsi con gli altri. Io sono una persona piuttosto timida, ho difficoltà anche a guardare le persone negli occhi, quindi pensavo anche con una certa invidia a De André che le persone non solo le guardava ma riusciva anche a vedere attraverso di loro, nell'intimità, a vedere più lontano, a vedere quel che erano prima e a scoprire tutta l'umanità che potevano avere o che avrebbero avuto. Questa cosa mi è rimasta molto impressa.
Canzoni d'amore
Torniamo a te. A parte La ballata dell'amore cieco,
che piaceva tanto alle ragazze tedesche di qualche anno fa e
che quindi ti piace per evidenti ragioni, tu a quale parte della
produzione di De André sei più affezionato? Vorrei
una risposta col cuore più che con la mente: quello che
ti esce più spontaneo.
Proprio con il cuore! Devo dire che sono rimasto colpito dal
fatto che gli altri intervistati, nel rispondere a questo tipo
di domanda, non hanno mai fatto cenno al De André che
canta canzoni d'amore. Invece nelle canzoni d'amore di De André
si trova tanto.
Qualcuno è anche andato a calcolare che la parola: “amore”
è la più frequente nel canzoniere di De André
(3) e se ci pensiamo troviamo che ci sono
delle canzoni sicuramente emozionanti, che toccano nel profondo,
proprio come canzoni d'amore. Sono canzoni che lasciano una
traccia e non parlo solo di quelle più vecchie, perché
nel tempo ha continuato a scriverne e penso che anche da questo
punto di vista De André abbia un ruolo importantissimo
nella canzone e nella poesia italiana. Una che mi capita spesso
di ascoltare e cantare è: Se ti tagliassero a pezzetti
(4) che, certo, ha anche altri significati
simbolici, ma che a me piace leggere come canzone d'amore e
dove c'è questo doppio rapporto con una donna: prima
di adesione totale, di condivisione di tutto, della natura,
della vita, del corpo, della mente, tutto indissolubilmente
intrecciato. Poi c'è un risveglio, un ritrovarsi con
una persona completamente diversa. In due parole traccia un
ritratto gelido di questa donna che è sempre bella, sempre
affascinante ma: “presa in trappola da un tailleur grigiofumo”
e ormai lontanissima da quello che può essere lui. Nelle
canzoni di De André spesso non c'è il tempo, le
situazioni sono sfumate, i riferimenti alle cose quotidiane
sono rari. Invece qui c'è la quotidianità della
stazione, dei giornali.
Mentre la prima parte potrebbe essere ambientata in qualsiasi
tempo e in qualsiasi luogo, la seconda parte è, evidentemente,
ambientata ai giorni di oggi e c'è una critica implicita
a questi tempi odierni, che lasciano poco spazio ai sentimenti
totali, importanti. Ecco io in questa canzone mi ritrovo, trovo
modo di nuotarvi dentro e di sentirmi a mio agio.
Un'altra canzone che mi ha sempre affascinato per i tanti significati
è Il testamento di Tito (5).
Mi colpisce anche a partire dalle mie esperienze teatrali perché
lo sviluppo della canzone attraverso i dieci comandamenti è
un po' come un percorso cinematografico. Ogni strofa è
una piccola storia e le strofe sono come singole scene, molto
nitide, che offrono alla fine un affresco. Mi ha molto colpito
la modalità, che dimostra anche la capacità di
De André di trasformarsi nelle diverse canzoni e io questa
l'ho sempre vissuta come una serie di sequenze cinematografiche.
Siamo arrivati alla fine di quest'intervista. Concludi
tu con un tuo pensiero, un ricordo, una speranza.
Intanto ho una piccola cosa da raccontarvi: pensando a questa
intervista due giorni fa mi sono ritagliato un articolo da uno
di questi giornalini gratuiti che distribuiscono nella metropolitana
qui a Roma. Mi sembrava un pezzo adatto a far capire l'attualità
di De André e il trafiletto dice così: “Stufe
di restare a casa da sole le mogli fanno chiudere il night”.
Si parla di un night club in un paesino vicino l'Aquila, in
una zona di montagna dove non ci sono in genere tanti divertimenti
e passatempi. Questo club aveva un nome che era da solo tutto
un programma: Bocca di Rosa, proprio come la canzone. Ma alle
donne di questo paesino proprio non andava giù che i
mariti passassero le serate tra i tavoli da gioco e gli altri
intrattenimenti e hanno denunciato il tutto ai carabinieri,
che hanno chiuso il locale perché: “Privo di regolare
licenza”. Insomma, tanti e tanti anni dopo ancora Bocca
di Rosa e le comari di un paesino fanno parlare di sé!
Una cosa su cui ho riflettuto è il fatto che De André
se n'è andato senza essere diventato vecchio. Così
non scopriremo mai se, col passare degli anni, avrebbe continuato
il suo percorso. Pensando a questo mi è venuto da pensare
alle canzoni in cui De André parla dei vecchi. Non è
che li ritroviamo come categoria o che siano protagonisti di
una canzone specifica, però viene fuori più volte
l'argomento degli anziani. Penso al vecchio professore de La
città vecchia, personaggio molto negativo per la
sua ipocrisia perbenista. Penso anche all'anziano di Delitto
di paese, che è invece una persona che ispira tenerezza,
che cerca con una prostituta: “l'ultima giovinezza”.
Ma due anziani in particolare del canzoniere di De André
sono personaggi eccezionali, superlativi: il pescatore, che
ho citato prima, e Giuseppe, nella Buona novella. Nella canzone
Il ritorno di Giuseppe ci sono momenti davvero molto
profondi, quando Giuseppe torna da Maria che ha lasciato bambina
e la ritrova donna e incinta: avrebbe dalla sua tutto il diritto
di sentirsi offeso e tradito. Avrebbe la legge dalla sua e il
diritto di scacciarla. Potrebbe avere una reazione violenta.
Invece immediatamente percepisce qualcosa più grande
di lui o accetta questa distanza generazionale e accarezza Maria
in maniera lievissima per testimoniarle questa sua accettazione.
Ecco, a me piacerebbe un futuro di persone sagge, che accettano
se stesse e accettano gli altri, come persone anziane che hanno
già vissuto una vita intera o come persone giovani che
però già ne intuiscono il senso.
Mi piacerebbe un futuro di persone come questo Giuseppe, e in
tutto questo De André è un po' il filo conduttore.
Renzo Sabatini
Note
- Movimento internazionale pacifista nato dall'intuizione
dell'obiettore di coscienza svizzero Pierre Ceresole che,
nel 1919, promosse il primo campo di lavoro internazionale
per la ricostruzione e la riconciliazione in Francia, a Verdun,
dove gli eserciti tedesco e francese si erano duramente confrontati
in una delle più lunghe, violente e sanguinose battaglie
della storia. Ceresole coinvolse alcuni volontari dei paesi
che erano stati nemici, piantando il seme di un movimento
che in seguito si diffuse in tutto il mondo. Per approfondimenti
si raccomandano i siti: sciint.org,
archives.sciint.org
(con raccolta di documenti storici) e sci-italia.it.
- La più grande associazione ambientalista italiana
(legambiente.it).
Dai tempi dell'intervista Paolo ha cambiato ancora ambito
di lavoro ed oggi è un educatore in un carcere italiano.
- La curiosità si trova nel libro di Paolo Ghezzi: “Il
Vangelo secondo De André” (Ed. Ancora, 2003).
- Dall'album conosciuto come “L'Indiano” (1981).
- Dall'album: “La buona novella” (1970).
(intervista realizzata via telefono nel marzo 2008. Registrata
presso gli studi di Rete Italia – Melbourne. Andata in onda
nell'ambito della trasmissione radiofonica settimanale: “In
direzione ostinata e contraria”, dedicata ai personaggi
delle canzoni di Fabrizio De André).
In
direzione ostinata e contraria
Con
questa intervista, prosegue la pubblicazione su “A”
di una parte significativa delle 27 interviste radiofoniche
realizzate da Renzo Sabatini e andate
in onda in Australia nel programma “In direzione
ostinata e contraria” sulle frequenze di Rete Italia
fra il maggio 2007 e l’agosto 2008. In tutto si
è trattato di sessanta puntate (ciascuna della
durata di circa quaranta minuti, per un totale di quasi
40 ore di trasmissioni), nel corso delle quali sono state
trasmesse le 27 interviste e messe in onda tutte le canzoni
di Fabrizio De André. Si tratta dunque della più
lunga e dettagliata serie radiofonica mai dedicata al
cantautore genovese.
Se proponiamo questi testi,
è innanzitutto per dare ancora una vlta spazio
e voce a quelle tematiche e a quelle persone che di spazio
e voce ne hanno poco o niente nella “cultura”
ufficiale. E che invece anche grazie all’opera del
cantautore genovese sono state sottratte dal dimenticatoio
e poste alla base di una riflessione critica sul mondo
e sulla società, con quello sguardo profondo e
illuminante che Fabrizio ha voluto e saputo avere. Con
una profonda sensibilità libertaria e – scusate
la rima – sempre in direzione ostinata e contraria.
Precedenti interviste
pubblicate: a Piero
Milesi (“A” 370, aprile 2012), a Carla
Corso (“A” 371, maggio 2012), Porpora
Marcasciano (“A” 372, maggio 2012), Franco
Grillini (“A” 373, estate 2012), Massimo
(“A” 374, ottobre 2012), Santino
“Alexian” Spinelli (“A” 375,
novembre 2012)); Paolo
Solari (“A” 376, dicembre-gennaio 2012-2013);
Gianni Mungiello,
Armando Xifai, Alfredo Franchini (“A”
377, febbraio 2013); Giulio
Marcon e Gianni Novelli (“A” 378, marzo
2013); Sandro
Fresi e Paola Giua (“A” 379, aprile 2013);
Luca Nulchis
(“A” 380, maggio 2013); don
Andrea Gallo (“A“ 381, giugno 2013; Paolo
Finzi (“A” 382, estate 2013); Gabriella
Gagliardo (“A” 383, ottobre 2013); Amara
Lakhous (“A” 384, novembre 2013); Raffaella
Saba (“A” 385, dicembre 2013-gennaio 2014).
la redazione di “A” |
Canzoni nascoste, storie segrete
Dopo
Il libro del mondo Walter Pistarini prosegue la
sua ricerca su Fabrizio De André con Canzoni
nascoste, storie segrete, in cui analizza e commenta
le canzoni meno conosciute che hanno visto il coinvolgimento
di De André a vario titolo: gli inediti apparsi
dopo la morte, le collaborazioni, le partecipazioni a
dischi di altri artisti. Il tutto arricchito da aneddoti
e testimonianze, per ricostruire nei dettagli la storia
dei singoli brani.
Oltre alle canzoni altre storie poco note intorno alla
vita e opere di Fabrizio De André: la sua prima
casa discografica, il suo romanzo scritto a quattro mani
con Alessandro Gennari, Un destino ridicolo; la
vera storia di Maureen Rix, con cui Faber duettò
nella canzone Geordie nel 1966; il significato
dei tarocchi usati come scenografia nel tour M'innamoravo
di tutto; la ricetta della “cima alla genovese“
come probabilmente la conosceva lui.
Per finire, un succinto, preciso inventario di tutto quanto
può essere recuperato e ascoltato di Fabrizio De
André.
Fabrizio
De André
Canzoni nascoste, storie segrete
di Walter Pistarini
Giunti editore, pp. 192, € 19,90 |
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