La dimissione della legge
Non c'è verso: questo
è un paese inventato dove quasi tutti quelli che hanno
un ruolo istituzionale pensano di vivere in un mondo di fantasia.
Si legge un quotidiano con lo stesso atteggiamento con il quale
si divora un fantasy. Gli ingredienti ci son tutti: l'oppressione,
la povertà, il capo corrotto e donnaiolo, le donnine
allegre, il nano, il regno da riconquistare e l'eroe sostenuto
dalle folle. Qualche spargimento di sangue qua e là,
sotto forma di manifestazioni finite male o di migrazioni concluse
anche peggio, aggiunge qualche ingrediente di pathos senza dubbio
necessario.
In altri termini, si legge il giornale senza aspettarsi di essere
informati sulla realtà, ma piuttosto per scoprire cosa
farà l'eroe e come uscirà dal garbuglio nel quale
si è imbrigliato con le sue proprie mani. Nella maggior
parte dei casi, la storia ha un lieto fine: l'eroe si salva,
infilandosi nelle maglie lasche di una burocrazia la cui coordinata
principale è l'interpretazione della legge.
Abbiamo un eroe (spesso più d'uno, per la verità).
La caratteristica principale dell'eroe è quella di essere
eroico, appunto, ma anche profondamente umano. Di questa umanità,
fa parte per esempio la tendenza a imbrogliare il fisco, frequentare
compagnie di dubbia moralità, resistere alle avversità
spesso determinate da un destino cinico e baro (che in molti
casi si chiama “magistratura”), coltivare privatamente
amicizie non compatibili col proprio ruolo. Insomma fare cose
che, sì, saranno anche negative, ma, parbleu,
sono parte della nostra comune e condivisa umanità. E
cosa c'è di più bello di un eroe capace di riconciliarci
con le nostre umanissime debolezze?
Così, se sono un politico e la mia condotta viene sanzionata
dalla legge, posso sostenere che il popolo è superiore
alla legge, e il popolo mi ama. Se la mia carica mi imporrebbe
una dimissione, be', posso sempre dichiarare di essere disposto
a dimettermi, se il popolo lo vuole.
E il “popolo” non lo vuole. Come faccio a saperlo?
Che domande! Perché sono l'eroe.
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Milano, Teatro delll'Elfo, Elena Russo Arman, durante lo
spettacolo La mia vita era un fucile carico (being Emily
Dickinson), di cui è autrice e protagonista |
L'entità “popolo” ha lo stesso coefficiente
di esistenza, e la stessa spiccata individualità del
coro di una tragedia greca: esprime un parere condiviso e spesso
gregario, nel quale la capacità di pensiero autonomo
è una nebulosa confusa e indeterminata, radunata dietro
parole d'ordine e frasi fatte. Il “popolo” segue
il suo capo, come che sia, dimenticandosi gioiosamente di pagare
anche le spese del suo capo, spesso in senso anche letterale:
moneta sonante sottratta al vivere quotidiano di ciascuno di
noi.
Ho la pretesa, chiaramente fantasy, di insegnare ai miei studenti
a pensare con la loro testa. Questa pericolosa consuetudine,
che pratico giudiziosamente da numerosi anni, si scontra contro
l'impossibilità di spiegare come condurre un ragionamento
lineare rispetto alla realtà nella quale viviamo immersi.
Confesso pertanto la mia difficoltà: non riesco a spiegare
come mai la legge abbia una configurazione stratificata e la
sua interpretazione sia ammanettata alla quantità di
potere che ciascuno di noi gestisce, volente o nolente, nel
ruolo che riveste.
Mi viene meglio costruire parallelismi, senza dubbio pericolosi,
tra il reale e un'opera chiaramente di fantasia. Prendiamo Ghiaccio-nove,
per esempio. Kurt Vonnegut Jr ci racconta la storia di San Lorenzo,
un'isola totalmente inventata, nella quale, ad esempio, uno
prima viene eletto presidente e poi lo si vota perché
diventi tale. È il posto in cui la mano che rifornisce
i negozi è la stessa mano che governa il mondo. È
anche il posto in cui un presunto profeta alla fine informa
i fedeli che il loro dio si è scocciato e perciò
a questo punto i fedeli dovrebbero fare la cortesia di togliersi
di torno (morire, per la precisione) perché la loro fede
non è più necessaria.
Vonnegut inventa, naturalmente. Ma inventa bene, morte a parte.
Ci sono stati numerosi momenti nei quali, nella storia italiana
recente, al “popolo” è stato cortesemente
– o neanche tanto cortesemente – invitato a togliersi
di torno. E la cosa curiosa è che il “popolo”
lo ha fatto, tacendo e sopportando, spiando la corruzione e
intendendola come, appunto, la manifestazione di una condivisa
umanità. Che il leader è autorizzato a non pagare.
Al massimo, minaccia di dimettersi. Se poi lo prendono sul serio,
be', c'è sempre l'interpretazione della legge. Che non
autorizza l'eroe a dimettersi da tale: uno mica si può
dimettere dal carisma.
Ho la pretesa di spiegare che, sebbene ci siano tutti gli ingredienti
del fantasy, il nostro non è un mondo immaginario. La
gente – vogliamo chiamarla il “popolo”? –
fatica sul serio a vivere. Paga le tasse, riceve una multa se
parcheggia nel posto sbagliato, deve compilare dichiarazioni
dei redditi fedeli, si ammala, muore, insomma fa tutte queste
cose qui, che sono reali, tanto quanto reale è la corruzione
di chi governa. Ho la pretesa di cercare di far capire che il
“popolo” è una collettività pensante,
individualmente tale, e che non essere consapevoli di quel che
si vive è come dimettersi da essere umano.
Ma poi i miei studenti mi guardano e rispondono: “Scusi,
ma lei poi non potrebbe rifiutare le nostre dimissioni? È
così che fanno, no?” E io, lo ammetto, mi arrendo.
Nicoletta Vallorani |