manifestazioni
Forconi d'Italia la piazza s'è desta
di Maria Matteo e di Andrea Papi / foto AFA - Archivi Fotografici Autogestiti
Bandiere italiane al vento, rifiuto della politica, basta
pagare le tasse, no al signoraggio delle banche, Europa merda,
ecc.
E anche (a volte) basta immigrati. E occhio agli ebrei.
Eppure a sinistra c'è chi ha creduto di poterli “cavalcare”.
La grande paura
di Maria Matteo
Torino. È qui che il movimento dei forconi ha fatto più casino. E che una parte dell'estrema sinistra....
Era la fine di luglio del 1789, pochi giorni dopo la caduta della Bastiglia. Le campagne francesi, piegate dalla carestia, vennero attraversate da un'ondata di panico. Tra i contadini si diffuse la convinzione che l'aristocrazia avesse ordito un complotto ai loro danni. Questa convinzione non aveva reale fondamento, tuttavia il diffondersi di questa voce, che passando di paese in paese si amplificò, fu all'origine di un moto insurrezionale molto ampio.
Un vecchio ma importante studio dello storico francese Georges Lefevre La grande paura del 1789 ricostruisce i fatti di quell'estate. Lo storico rilevò che la carestia ingigantiva il timore di attacchi di briganti. La rivoluzione aveva suscitato grandi speranze: nel timore che venissero frustrate dalle resistenze nobiliari, briganti e vagabondi venivano considerati strumenti di un complotto aristocratico la cui reale consistenza e pericolosità fu sopravvalutata dai contadini.
La “grande paura” fu, quindi, un fenomeno di suggestione collettiva destinato ad amplificarsi via via che si propagava. Con una ricerca minuziosa Lefebvre dimostrò il carattere spontaneo e non premeditato della sollevazione. I contadini, armatisi in un primo tempo contro un pericolo illusorio, si spostarono poi su un fronte di lotta di classe ben più reale assaltando i castelli dei nobili e distruggendone gli archivi. La “grande paura” si trasformò così in una reazione punitiva contro l'aristocrazia, che portò all'abolizione dei diritti feudali.
Lessi il libro di Lefevre diversi anni fa e, contrariamente ad altre letture presto dimenticate, le suggestioni che me ne derivarono sono rimaste molto forti. La rivoluzione delle campagne francesi, dove certo nessuno aveva letto né Voltaire né Rousseau, fu un fenomeno reattivo. La miseria delle campagne non sarebbe bastata a fare da detonatore, mentre la diceria di un complotto aristocratico per affamare i contadini, vendendo all'estero il grano, portò all'assalto di castelli e abbazie. In assenza di un immaginario utopico, la paura del peggio diventa esplosiva.
Il timore che la ferocia dell'oppressione nelle campagne potesse peggiorare, il timore della reazione, fece scattare la rivoluzione. L'idea di un complotto per realizzare obiettivi abietti, come impadronirsi del mondo, non importa che sia vera, conta invece che sia credibile, che dia senso, all'interno di un orizzonte culturale dato, ad una situazione ritenuta intollerabile e passibile di ulteriore peggioramento.
Quando sei o credi di essere sull'orlo del baratro hai ancora qualcosa da perdere e temi la spinta che ti butterà giù.
Solo per le partite della Nazionale...
Mi è capitato di ripensare alle pagine di Lefevre nei giorni immediatamente
successivi alla settimana dei “forconi”.
La paura mi è parsa il detonatore potente che ha portato
in strada gente che non c'era mai stata né mai aveva
pensato di andarci.
La paura di perdere lo spicchio di futuro al quale si pensava
di avere diritto, la paura di un moloch che ingoia tutto, un
blob amorale e affamato. Un grande complotto dove le banche
e la casta politica sono i nemici del popolo, il popolo inteso
come insieme delle persone perbene, dove non c'é distinzione
tra sfruttati e sfruttatori. Chi lavora e chi sfrutta il lavoro
stanno sulla stessa barca.
Nella sinistra torinese si è sviluppato un dibattito
molto ampio, spesso anche aspro. Diversamente ad altre città
italiane a Torino era difficile che il mestolo stesse in mano
alla destra cittadina. A Torino sia la destra istituzionale
– Fratelli d'Italia – sia chi – come Forza
Nuova e CasaPound – vive nel limbo tra istituzioni e velleità
rivoluzionarie – non avrebbero un peso e una capacità
organizzativa tali da poterlo fare.
Un fatto è certo: nelle piazze di Torino e dintorni i
fascisti si sono fatti vedere più volte accolti dagli
applausi della gente. Come è certo che buona parte delle
tifoserie torinesi, ben presenti nei giorni più caldi,
siano ormai da lunghi anni egemonizzate dall'estrema destra.
Da che ho memoria le piazze di Torino pavesate di tricolori
le avevo viste solo per le partite della nazionale di calcio.
Vedere studenti, disoccupati e mercatari con la bandiera tricolore,
non era cosa di tutti i giorni. Non solo. Le serrate dei mercati
e dei negozi, i blocchi delle strade e dei mercati generali,
l'occupazione delle stazioni, la sassaiola al Palazzo della
Regione avevano un carattere esplicitamente eversivo. Sui siti
del “coordinamento 9 dicembre” si parlava di “rivoluzione”,
“tutti a casa”, “via il governo”, “fase
di transizione con militari al timone”. Roba forte.
La protesta contro la pressione fiscale, che aveva segnato qualche
settimana prima le lotte dei mercatari, resta sullo sfondo:
chi scende in piazza non si accontenta di uno sconto sulle tasse,
vuole dare il giro a tutto, farla finita con la “casta”
politica che si ingrassa sulle fatiche di chi lavora. Il governo
aveva intuito che in pentola c'era un minestrone molto piccante.
La settimana precedente quella del 9 dicembre l'esecutivo guidato
da Enrico Letta ha concesso tutto quello che volevano alle organizzazioni
degli autotrasportatori, che avevano proclamato una settimana
di sciopero e blocchi per protestare contro l'aumento delle
accise e delle tasse. Dal canto suo la Coldiretti ha organizzato
la manifestazione al Brennero, dove venivano bloccati e perquisiti
i camion con la benedizione del ministro.
Queste mosse hanno tagliato le gambe alla protesta del “Coordinamento
9 dicembre”, allontanando lo spettro di un blocco nazionale
analogo a quello che l'anno precedente aveva paralizzato la
Sicilia. Queste abili giocate non sono bastate ad impedire che
la protesta avviluppasse Torino, con un'eco profonda che ha
scosso la città.
I protagonisti delle giornate di dicembre sono i figli del deserto
sociale degli ultimi trent'anni. Gente che credeva di avere
ancoraggi e certezze e oggi si trova sospesa sul nulla.
Con i compagni a me più vicini abbiamo tentato un'analisi
di questo movimento, della sua natura popolare, periferica,
perché avvertivamo forte la necessità di capire
e intervenire per poter fermare l'onda lunga di destra che ha
messo a loro disposizione un lessico comune, una chiave di lettura
e un orizzonte progettuale.
I protagonisti di quelle giornate sono ceti impoveriti e rancorosi:
l'Italia delle clientele prima democristiane e socialiste, poi
forza italiote, oggi piegata dalla crisi, dalla pressione fiscale,
dall'indebolirsi della compagine berlusconiana e della Lega,
partiti politici di riferimento per oltre vent'anni.
Il loro programma – esplicitamente delineato nei volantini
tricolori distribuiti in ogni dove – era chiaro: far cadere
il governo, sostituirlo con un esecutivo forte e onesto, capace
di traghettare l'Italia fuori dall'euro, fuori dall'Europa delle
banche, garantendo significative misure protezioniste.
Il tutto all'insegna di una deriva identitaria di segno nazionalista
dove la nazione è descritta e vissuta come un corpo sano
attaccato da agenti esterni che si ricompone intorno all'alleanza
interclassista dei produttori.
Un programma di destra. Di destra radicale. La retorica dei
lavoratori della polizia, sfruttati e vittime di una classe
politica corrotta e parassitaria, ne è il degno corollario.
Siamo andati nelle piazze e nei bar ad ascoltare e capire il
vento che stava cambiando, perché in periferia, tra i
mercati e le strade attraversate dai cortei per l'ordine e la
legalità, tra la gente che fatica a campare e non vede
prospettive, ci siamo da anni. Da anni sappiamo che l'incapacità
di parlare con gli italiani poveri, quelli che guardano con
simpatia alla destra xenofoba e razzista, quelli che avevano
qualcosa e ora hanno solo paura, avrebbe aperto la strada a
chi predica il governo forte, la polizia ovunque, la nazione
contro la globalizzazione, l'unione degli italiani, sfruttati
e sfruttatori contro il grande complotto internazionale delle
banche. Oggi lo chiamano signoraggio: non puntano il dito sugli
ebrei* ma la melodia della
canzone è la stessa dagli anni Trenta del secolo scorso.
Gli stranieri di seconda generazione che sventolavano il tricolore
con i loro colleghi del mercato non ci stupiscono: li abbiamo
visti inveire contro altri stranieri, ultimi arrivati che “delinquono”.
Molti di loro assumono giovani connazionali poveri e li sfruttano
senza pietà così come gli italiani doc. Il gioco
del capitalismo ha le stesse regole feroci ad ogni latitudine.
Non conta il colore della pelle ma solo quello dei soldi.
Ma chi è contro il “sistema” è un nostro alleato?
Sono anni che la sinistra radicale si chiede le ragioni di un'assenza incomprensibile.
Il conflitto sociale, nonostante la dura materialità
che schiaccia le vite di tanti, langue. I movimenti di controglobalizzazione
dal basso che avevano segnato il primo scorcio del secolo si
sono infranti nell'incapacità di radicare il conflitto
nei territori, di dare fiato ad un programma incompatibile con
l'ordine esistente.
Di fronte ai forconi c'é chi ha teorizzato la necessità
di mescolarvisi, per capire e riorientare le piazze. A Torino
parte della sinistra radicale si è crogiolata nell'illusione
che la gente in piazza fosse priva di capi, di organizzazione,
di reale comprensione delle ragioni che li avevano condotti
lì. Una creta che chiunque avrebbe potuto plasmare e
dirigere. Qualcuno ha carezzato invece il sogno di poter governare
o alimentarsi delle jacquerie. È ingeneroso sostenere
che la gente “comune” che ha partecipato alle serrate
dei negozi e ai blocchi del traffico non capisse la portata
simbolica e reale di un movimento esplicitamente eversivo dell'ordine
esistente.
È la solita miscela di orgoglio intellettuale e arroganza
che ha accecato la sinistra – sia quella radicale che
di governo – in tutti questi anni.
Arroganza della ragione nella convinzione che la povertà
della narrazione che ha sostenuto le piazze dei “forconi”
potesse essere facilmente reindirizzata altrove. I tentativi
di spostare le piazze, di spingerle verso azioni più
radicali non hanno funzionato. Sappiamo bene quanta forza abbiano
i momenti di rottura, la scelta di uscire di casa, di spezzare
l'ordine che ci piega alla quotidianità scandita dai
ritmi di una vita regolata altrove, tuttavia in quelle piazze
questa forza si è alimentata di simboli che portano lontano
da una prospettiva di emancipazione sociale e di libertà.
L'interruzione della quotidianità agita da chi normalmente
affida il proprio futuro all'eterna ripetizione del proprio
presente è un evento raro, talora foriero di una rottura
radicale. Tuttavia la rottura di un ordine non prefigura necessariamente
che la strada intrapresa sia quella desiderata da chi vorrebbe
libertà e uguaglianza.
È vecchia ma dura a morire l'attitudine a ritenere che
chiunque esprima contenuti antisistema possa essere nostro compagno
di viaggio. È lo stesso schema che ha portato a sostenere
le peggiori dittature, i regimi più feroci nel segno
dell'unità antimperialista.
La sinistra civilizzata, nei periodi in cui è riuscita
a saltare in sella al destriero governativo ha garantito la
vita facile alla grande industria, facilitando la demolizione
mattone su mattone di ogni forma di tutela per il lavoratori
dipendenti e collaborando attivamente nella trasformazione di
tanti di loro in lavoratori indipendenti ma di fatto subordinati.
In tempi di crisi il popolo delle partite IVA si ritrova nella
stessa condizione dei mercatari torinesi cui il comune chiede
500 euro al mese per la pulizia dei mercati. A tutti questi
si aggiungono i tanti giovani – uno su quattro dicono
le statistiche – che non hanno né un lavoro né
un percorso formativo. Per non dire dei ragazzi degli istituti
professionali che sanno di essere parcheggiati in attesa di
disoccupazione.
Nelle piazze torinesi animate dal popolo delle periferie, quello
cresciuto tra facebook e il bar sport, si sono ritrovati quelli
dei banchi dei mercati, qualche disoccupato, i ragazzi degli
istituti professionali. Il loro referente politico negli ultimi
vent'anni li aveva recuperati in extremis con la promessa di
cancellare l'IMU. Ora non ci crede più nessuno: sempre
più gente che credeva di avercela fatta, di essere passata
dal popolo degli affittuari al piano alto dei proprietari, teme
di perdere tutto, di affondare nella melma. Fratelli e figli
del berlusconismo, rimasti orfani, temono il nulla. Temono che
la fame dell'altro mondo non si fermi oltre le frontiere della
Fortezza Europa, hanno imparato di non avere né tutele
né garanzie. Le regole del gioco sfuggono, come sfugge
che il ruolo degli stati nell'economia si è rafforzato.
Non credono nell'eguaglianza, ma nel merito e si sentono defraudati
da un sistema che li esclude. I figli degli immigrati di ieri,
che lavorano al mercato con padri e madri, sanno che il benessere
conquistato dai genitori per loro non c'è. Tra chi sta
al banco della frutta ci sono giovani laureati che vivono la
vita dei poveri istruiti ma senza appoggi: precarietà,
call center, umiliazioni sono pane quotidiano. Sono gonfi di
rabbia. Li ho sentiti gridare nei bar, al mercato, la paura
gli urla dentro.
Il complotto delle banche spiega tutto, risolve tutto. La destra
estrema li ha generati solo in parte ma se ne alimenta: il sogno
della sovranità monetaria, l'immagine dell'Italia come
fortezza chiusa, il governo forte ed onesto, la polizia che
difende i giusti, le bandiere al vento. Non è avvenuto
per caso e non successo in un giorno.
La sinistra non ha saputo emanciparsi dall'illusione di una
ricostruzione del welfare, dello stato che tutela, della governabilità
del capitalismo, dell'attenuazione della sua ferocia.
Che significato poteva avere la debolissima difesa dell'articolo
18 dello Statuto dei lavoratori per i giovani precari che fanno
gli apprendisti a 29 anni e a 30 sono per strada?
La frantumazione sociale costruita scientemente negli ultimi
trent'anni ci consegna un quadro dove la solidarietà
non trova le proprie basi materiali, dove l'aspirazione ad un
oltrepassamento dell'istituito in senso di uguaglianza e libertà
non ha il potere seduttivo necessario.
La crisi evidente della seconda repubblica, il disfacimento
della classe politica, sta poco a poco raggrumandosi in un'onda
reattiva e rivoluzionaria. Difficilmente oggi potrà assumere
la forma del fascismo storico, tuttavia la forza che la spinge
è potente. Si alimenta dell'idea di un complotto inesistente
ma più semplice da comprendere delle reali dinamiche
della finanziarizzazione dell'economia. Il padrone, che grazie
alla finanza non possiede più nulla di materiale e può
con leggerezza muovere le proprie pedine, diventa la parte sana
da difendere, contro le mani invisibili che usano tutti, sfruttati
e sfruttatori, come burattini.
Sentiremo ancora parlare dei forconi. Il loro coordinamento
cialtrone si è spezzato e sfaldato ma la paura, la grande
paura che ha riempito le piazze della città vetrina della
sinistra perbene, continua a urlare nelle periferie, tra i banchi
dei mercati, tra i ragazzi senza futuro.
Maria Matteo
* Ma c'è chi l'ha fatto. Andrea
Zunino, uno dei leader dei Forconi, in un'intervista a la Repubblica
del 13 dicembre scorso, ha affermato: “Vogliamo le dimissioni
del governo. Vogliamo la sovranità dell'Italia, oggi
schiava dei banchieri, come i Rotschild: è curioso che
5 o 6 tra i più ricchi del mondo siano ebrei, ma è
una cosa che devo approfondire. Non ho le prove. Ma penso che
Hitler, che probabilmente era pazzo, si sia vendicato con l'antisemitismo
del voltafaccia dei suoi iniziali finanziatori americani. Personalmente
non mi interessa”.
Il fallimento
della democrazia
di Andrea Papi
Sarebbe errore gravissimo limitarsi a ridurre il
tutto a mero incombente estremismo di destra. Vorrebbe dire non
saper leggere cosa monta dal basso per lo sconforto e le frustrazioni
sociali che siamo costretti a subire.
Guardando da un'angolatura libertaria
ciò che sta succedendo appare chiaro che le istituzioni
statali si comportano da nemiche. Non difendono i cittadini
né li tutelano, come vorrebbe l'illusione liberaldemocratica.
Le continue ingiustizie e vessazioni propinate con sistematica
maniacalità, oltre a sapere di sadismo istituzionale,
sortiscono invariabilmente l'effetto di rovinare tantissime
vite, mentre aumentano benessere e ricchezza di un'esigua minoranza
al contrario coccolata nei suoi privilegi.
Costretto in questa fase da sistemi di potere sovrastatali,
l'apparato statale è ulteriormente indotto a vessare
gli esclusi da ogni potere in favore della ristretta cerchia
dell'oligarchia globale dominante. È una dimostrazione
efficiente, offerta con dovizia dallo sfacelo imperante, che
lo stato non “siamo noi”, come amavano sostenere
i tecnoburocrati dell'estinto Pci, e che non si fonda affatto
sull'erogazione dei servizi, come continua a sostenere la nomenclatura.
Da questa condizione diffusa vengono alla luce i cosiddetti
“forconi”, ultimo fenomeno di rivolta sul quale
non ci son poi da spender troppe parole. Si tratta dell'ennesima
reazione dal basso, a tratti disperata e rabbiosa, da parte
di uomini e donne che non ne possono più, socialmente
impoveriti e deturpati da una politica spietata, espressione
criminale di un'assillante oppressione finanziaria. Piccoli
imprenditori, lavoratori autonomi, camionisti in grossa difficoltà
economica per la crisi incombente e per l'insopportabile pressione
fiscale, hanno inizialmente dato avvio a forme di proteste che
nelle intenzioni dichiarate vorrebbero essere avulse dalle classiche
violenze di piazza.
In breve si è accodata un'umanità varia, fatta
di disperati sociali, di operai senza lavoro, di gente ai margini,
di incazzati contro l'esistente. Di ragioni ne hanno tutti ben
d'onde, sia chiaro. Una tale abbondanza di persone, giustamente
furenti contro il politicantismo dominante, è stata da
subito un piatto succulento per un'ampia congerie di fanatismi
di un dilagante autoritarismo destrorso. Invogliata, ha trovato
fin troppo spazio l'accozzaglia di un impenitente fascistume
ingrassato ai margini dello scontento sociale, favorito ampiamente
da contenuti anonimi e generici, conditi di stereotipi antisistema
privi di proposivitività.
Ci hanno poi pensato i fascistoidi entrati in azione a condire
la pietanza già pronta con la bandiera italiana unica
ammessa, slogan nazionalisti, inno di Mameli colonna sonora
delle manifestazioni… e via di questo passo “nazional/popolare”,
che in varie occasioni ha avuto il sapore di nostalgie ducesche.
È sicuramente per questa assillante presenza identitaria
che l'annunciata “marcia su Roma” del 19 dicembre
si è dimostrata un fallimento, senza due leader fondatori,
Ferro siciliano e Chiavegato veneto, che non hanno avuto lo
stomaco di trovarsi attorniati dalla marmaglia fascista di CasaPound,
ben accetta invece dal leader dei forconi del Lazio Danilo Calvani.
Il comico ed esilarante teatrino della politica
Sarebbe errore gravissimo limitarsi a ridurre il tutto a mero
incombente estremismo di destra. Vorrebbe dire non saper leggere
cosa monta dal basso per lo sconforto e le frustrazioni sociali
che siamo costretti a subire. Che sia una protesta praticamente
vuota di contenuti e proposizioni alternative, limitantesi a
minacciare di far piazza pulita del parlamento volendone azzerare
le “onorevoli” presenze (per sostituirle con chi
e cosa non si sa), è un dato di fatto.
Sbaglieremmo però se supponessimo che si tratti meramente
di destra extraistituzionale, dal momento che è una rivolta
sorta per le devastanti condizioni sociali cui siamo costretti.
Se i forconi a breve esauriranno la loro propulsione fino a
scomparire, come molti elementi inducono a pensare, nulla sarà
veramente finito, proprio perché le condizioni sociali
e politiche che li hanno alimentati sono vive più che
mai. Sorgerà qualcos'altro di simile che propugnerà
di disintegrare l'ingrato esistente.
Al contempo la vicenda dei forconi evidenzia che destra e sinistra,
categorie interpretative della politica, sono ormai svuotate
di significato. Da un pezzo non rappresentano più visioni
della società l'un l'altra alternative, ma mere collocazioni
di schieramento politico. Oggi sono soltanto due espressioni
speculari di una volontà di dominio tesa soprattutto
ad annientare l'autonomia, sia degli individui sia degli insiemi
comunitari.
Conseguenza della profonda crisi della democrazia rappresentativa,
che sta viaggiando verso derive fallimentari, nei contenuti
di volta in volta più poveri delle varie rivolte sono
ormai annullate le differenze distintive, mentre la sovversione
tende ad essere incanalata in un unicum indistinto e privo di
sbocchi. Destra e sinistra hanno infatti senso, sia concreto
sia teorico, dentro dinamiche autentiche all'interno dei processi
politici. Nel momento in cui, per spinte autodistruttive, la
democrazia si consuma fino ad annichilirsi in un impoverimento
a tratti farsesco, tendono a scomparire anche le differenze
di senso che la caratterizzavano.
Basti guardare il comico ed esilarante teatrino del politicantismo
di casa nostra. Valga per tutto il dibattito politico sulle
regole della democrazia, in particolare sul tipo di elezione
da adottare dopo che la Corte Costituzionale ha sentenziato
che il “porcellum” in vigore è illegittimo
perché non costituzionale. Giù allora a prender
foga uno sciame di esperti, sostenendo gli uni che il parlamento
attuale è legittimo gli altri che non lo è affatto,
con tanto di scontri nelle “sacre” aule parlamentari.
Spettatori divertiti da tanta efferata inconcludenza, ci limitiamo
a suggerire che il problema sta a monte. È l'impianto
nel suo complesso e il senso stesso della democrazia rappresentativa
che fanno acqua da tutte le parti.
Se l'anarchismo vuol essere incisivo...
La sua applicazione mostra invariabilmente un'intrinseca inadeguatezza
politica. Come fa ad esser rappresentativa una compagine senza
mandato che, al di là delle roboanti dichiarazioni, nei
fatti rende conto alle oligarchie dominanti, alle lobbie di
potere, a chi ha l'egemonia finanziaria e militare, non a chi
la elegge? Le sue promesse originarie, scaturenti dai principi
addotti e dalle affermazioni costituzionali su cui dovrebbe
fondarsi, non corrispondono affatto alla risultante dei suoi
atti. Totalmente affidata alle interessate dirigenze dei partiti,
clientelari e facilmente spinte da tensioni ideologiche, la
democrazia rappresentativa applicata ha tradito se stessa. In
breve si è trasformata in una non democrazia. Estorce
il consenso a comandare per poi escludere il corpo elettorale
dall'area e dalle possibilità delle decisioni che tutti
ci riguardano. Ridotta a un inganno istituzionalizzato oggi
è di fatto al servizio delle lobbies di dominio globali.
Proprio lo stato comatoso della democrazia applicata dimostra
il non senso di un assunto fondamentale di Nico Berti. Nel saggio
Libertà senza rivoluzione, asserendo che il liberalismo
ha storicamente vinto sul comunismo e che la democrazia liberale
è tuttora la realizzazione possibile della libertà,
sostiene con forza che se l'anarchismo del futuro vuole “...costituire
realmente una delle grandi alternative politiche della modernità”
si deve agganciare al carro della per lui vittoriosa liberaldemocrazia,
nella convinzione che il liberalismo, avendo vinto sul comunismo,
rappresenti un progresso di libertà politica e sociale,
costituendo perciò un'effettiva “luce del mondo
sul mondo”. Questa rappresentazione non ha senso.
Il liberalismo applicato dimostra quotidianamente il proprio
fallimento come mezzo di emancipazione ed è fuorviante
dire che ha vinto sul comunismo. Non ha vinto né perso.
Non il comunismo, che è una visione generale di condivisione
sociale, ma il bolscevismo è imploso perché incapace
a sussistere, mentre il liberalismo è fallito perché
ha aperto il fianco a nuovi terrificanti sottomissioni, sfruttamenti
e schiavismi, che nulla hanno a che fare con gli assunti che
lo avevano definito come pensiero di liberazione.
Per noi anarchici è importante capire prima di tutto
che se l'anarchismo vuole essere incisivo rimanendo coerente,
deve andare oltre i paradigmi della modernità, ormai
obsoleti e stantii oltre che reazionari, che fece suoi quando
sorse. In particolare quelli sia liberaldemocratici sia marxisti.
La sua forza risiede in una rinnovata radicalità, mutuale
cooperativa e sperimentale, capace di andare oltre gli orpelli
che ci tengono incatenati a un mondo in decomposizione.
Andrea Papi
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