psichiatria
Le porte chiuse del reparto psichiatrico
intervista a Piero Cipriano di Laura Antonella Carli
Nel 1978 la legge Basaglia metteva fine, in Italia, alla storia secolare e crudele dei manicomi. Trentacinque anni dopo uno psichiatra pubblica con Elèuthera un libro (La fabbrica della cura mentale) in cui fa i conti con quel che si è fatto e con quel che non si è voluto fare. In sottofondo un auspicio e un impegno: chiudere davvero i manicomi si può.
Se il manicomio ricordava un
campo di concentramento, l'attuale Servizio Psichiatrico di
Diagnosi e Cura ricorda una fabbrica, con i suoi tecnici specializzati
(il personale) e le sue macchine biologiche guaste (i pazienti).
Con La fabbrica della cura mentale Piero Cipriano, psichiatra
e psicoterapeuta romano, ci catapulta nella realtà scomoda
dei reparti psichiatrici ospedalieri. A farci da guida è
una sorta di alter ego dell'autore, uno psichiatra come lui,
come lui basagliano convinto e come lui riluttante, in
bilico tra il compromesso e l'aperta ostilità nei confronti
di un'istituzione che ha tradito la propria missione e di colleghi
che alle parole preferiscono i farmaci. Il suo personaggio ricorda
un po' il medico di Fabrizio De André (o di Edgar
Lee Masters), quello che voleva “guarire i ciliegi”.
Si è avvicinato alla psichiatria per rendersi utile e
si ritrova e veder legare i malati. Già, perché
non tutti sanno che ancora oggi i matti si legano. In media
un paziente su dieci. Una cosa, ci avverte Cipriano, che negli
anni della specializzazione si guardano bene dal dirti.
A trentacinque anni dall'approvazione della legge 180, la celebre
legge Basaglia che ha decretato la fine dell'istituzione manicomiale,
questo libro, in bilico tra il saggio, il reportage e l'opera
romanzesca, ci dice chiaramente e senza mezze misure che il
manicomio non è mai stato abolito: “è un
mostro che si è trasformato, che è stato geneticamente
modificato” e che sopravvive attraverso le pratiche di
contenzione, l'ignavia dei suoi tecnici e il silenzio imbarazzato
che avvolge ancora oggi la malattia mentale. E pensare che Franco
Basaglia lo diceva già qualche decennio fa: “Aprire
l'Istituzione non è aprire una porta, ma la nostra testa
di fronte a “questo” malato...”.
Iniziamo dalla struttura del libro, che è sicuramente
particolare: non è un romanzo, non è un reportage,
non è un saggio: “ciò che hai narrato è
realmente accaduto, però niente è accaduto come
hai narrato”. Sotto la dicitura “diario di uno psichiatra
riluttante” il libro raccoglie contributi di natura diversa:
un racconto, appunti per un romanzo, capitoli dal carattere
più saggistico. Come ha preso forma il progetto di coesione?
«Io, tutto sommato, prediligo la forma narrativa alla
forma saggio. Ho pubblicato un romanzo breve e ne ho scritti
altri (che rimangono per ora nel cassetto), in cui ho sempre
cercato una forma stilisticamente ibrida, un po' quella del
romanzo saggio (Julian Barnes, per fare il primo esempio che
mi viene in mente, o Antonio Pascale, per restare in Italia).
In questo libro ho semplicemente montato dei pezzi scritti in
questi ultimi anni, pezzi scritti forse per sopravvivere a questo
mestiere, il cui tema dunque è la difficoltà di
uno psichiatra ottimista costretto a lavorare con psichiatri
pessimisti.
È anche questo il motivo per cui i registri narrativi
sono così diversi: auto-fiction, saggio, reportage, diario,
pamphlet, racconto.»
Le critiche principali che muovi al sistema psichiatrico
sono due, entrambe metodologiche: quello che tu chiami “furore
nosografico” – ovvero la mania diagnostica, l'ansia
di classificare, di dare un'etichetta al malato – e, naturalmente,
le pratiche di contenzione. Sono due facce della stessa medaglia?
«Direi di sì. Nei SPDC (Servizi Psichiatrici di
Diagnosi e Cura), i luoghi che in Italia sono dedicati a risolvere
la crisi psichiatrica, ormai prevale una vera e propria ossessione,
fissazione direi, per la diagnosi. Ormai, quasi sempre e dovunque,
i tecnici psichiatrici dimenticano che fondamentale è
occuparsi dei vissuti, della relazione, e dimenticano che la
legge 180 è figlia del pensiero di Franco Basaglia, che
suggerì di mettere tra parentesi la malattia mentale
(e quindi la diagnosi) per occuparsi del malato, e si accaniscono
nell'incasellamento nosografico di quell'esistenza. La diagnosi
in medicina è importante, non dico di no, essa significa
conoscere attraverso, ma in psichiatria dobbiamo aver chiaro
che la diagnosi è un mero costrutto semantico, grammaticale;
è onomastica (come diceva il mio relatore di tesi, Alberto
Gaston), giacché i disturbi cui gli americani dell'American
Psychiatric Association, redattori dei DSM (Manuale diagnostico
e statistico dei disturbi mentali), hanno dato un nome,
non possono definirsi malattie (sono privi dei correlati eziopatogenetici
e anatomopatologici che le malattie devono avere), per cui dovremmo
togliere enfasi al potere della diagnosi. Che chiamare schizofrenico
una persona, o bipolare o borderline, poi gli struttura davvero
quell'identità.
La diagnosi in psichiatria, dunque, è un modo brutale
per annullare una biografia con una semplice etichetta. Dopodiché
lo schizofrenico sarà uguale a tutti gli altri schizofrenici.
Incomprensibile e inguaribile come tutti gli schizofrenici.
E non ricordo chi ha affermato che la diagnosi sta alla sofferenza
come la burocrazia alla società.
Per cui la diagnosi psichiatrica credo, tutto sommato, che sia
una semplificazione, un'operazione riduzionistica con cui costringere
una storia in un nome. Un fallimento della iatreia della
psiche (l'arte di curare l'anima). Invece la contenzione,
cioè l'immobilizzazione di un corpo umano con cui lo
psichiatra non è capace di relazionarsi, è un
fallimento dieci, cento, mille volte più eclatante. Quello
è un fallimento non solo sul piano medico, ma sul piano
umano.»
Nel libro si batte meno su questo aspetto, ma emerge chiara
anche la critica foucaultiana al concetto stesso di detenzione,
alla “singolare pretesa” di rinchiudere per curare.
«Foucault scrive, nella sua Storia della follia,
che la psichiatria nasce, nell'epoca dei lumi e della borghesia,
con la sostituzione del concetto di norma a quello di legge.
In quest'epoca ha inizio la segregazione della devianza, dei
non normali, e precisamente nel 1676, scrive il filosofo francese,
quando un editto prescrisse di ospitare, nel Grand Hospital
General di Parigi, tutti i mentecatti, sfaccendati, delinquenti,
stravaganti, alcolizzati, eccetera. Ma, sempre Foucault, ci
ricorda che è Philippe Pinel, un secolo più tardi,
nel 1793, che separando i folli dai delinquenti inventa ufficialmente
il manicomio. E nel manicomio di Pinel la reclusione, e l'isolamento,
avevano senso per due ragioni. Innanzitutto per proteggere la
società dalla pericolosità intrinseca del folle.
E poi perché si pensava che a lasciare il folle nella
società (e nella famiglia) là dove la sua follia
si era generata, questa si confondeva, invece era preferibile
isolarla in un ambiente staccato dalla società e neutro:
il manicomio appunto.
Ebbene, se pensi che l'80% dei 320 moderni SPDC d'Italia
sono a porte chiuse, vuol dire che siamo ancora fermi là,
all'ideologia del manicomio ottocentesco.
E poi c'è un altro motivo che ancora giustifica questa
primitiva cura per mezzo della detenzione, tuttora in voga.
Nell'ottocento si considerava che la follia fosse dovuta a una
volontà sconvolta, pervertita, che perciò doveva
incontrare una volontà retta, quella del medico, ovviamente,
che mediante un processo di lotta, di dominio, avrebbe infine
prevalso sulla volontà malata dell'alienato.
Per cui il manicomio ottocentesco è sì un luogo
di osservazione, ma è anche un luogo di scontro, perché,
sostiene Foucault, è tutta una questione di potere, bisogna
dominare il pazzo, ammaestrarlo, raddrizzarlo, esercitare un'ortopedia
mentale, o un'ortofrenia. E se ci pensi, è ancora ferma
lì la psichiatria, per tornare alla tua domanda sul rapporto
tra diagnosi e contenzione. Bisogna sia etichettarlo, il folle,
ma pure ammaestrarlo.»
Durante la presentazione del tuo libro hai detto che sta
tornando il “fascino discreto del manicomio”. Secondo
te si rischiano passi indietro rispetto alla legge Basaglia?
E in cosa la 180 non è stata applicata a dovere?
«La legge 180 è una legge unica al mondo. Che secondo
me non deve essere né riformata né perfezionata
(anche perché i nostri attuali governi la riformerebbero
di sicuro in peggio), ma va applicata, perché dov'è
applicata funziona. È una legge unica al mondo perché
è la sola che elimina il concetto di pericolosità
quale criterio per ricoverare le persone con crisi psichiatrica
in ospedale. Ed è la sola che abolisce il manicomio.
Con questa legge, sostenne Franco Basaglia, abbiamo voluto violentare
la società, costringendola a riaccogliere la persona
folle nel suo tessuto, ostacolando il processo di espulsione
e di reclusione in manicomio. Però, dico io col senno
di oggi, la società, e la maggioranza dei tecnici psichiatrici,
evidentemente, non si è fatta violentare, e, per lo più,
sono riusciti a riprodurre le vecchie logiche e dinamiche manicomiali
(etichettamento diagnostico, terapia esclusivamente farmacologica,
contenzione al letto, porte chiuse, giro letti, eccetera), in
posti come i SPDC che pure erano stati pensati come alternativa
al manicomio (il fatto che fossero reparti piccoli, massimo
sedici posti, e fossero collocati come tutti gli altri reparti
nell'ospedale generale, per esempio). Quindi la risposta è
sì, il fascino discreto del manicomio è subdolamente
tornato. E seppure i manicomi non esistono più, la manicomialità
invece sì.»
E cosa mi dici del trattamento sanitario obbligatorio?
«Il TSO è il nervo scoperto della legge 180: obbligare
una persona con disturbo psichico alla cura. È l'atto
non libertario di questa legge libertaria; atto delicatissimo,
che avrebbe dovuto essere l'ultima ratio, invece ormai i TSO
vengono proposti e convalidati in maniera facile e stereotipata,
per non perdere tempo a negoziare.»
La figura del riluttante (che, immagino, è almeno
in parte autobiografica) incarna un po' il tuo punto di vista:
lo psichiatra di un reparto – quindi interno al meccanismo
– eppure insofferente, fortemente critico. A volte sembra
ostentare una sorta di superiorità sdegnosa nei confronti
dei suoi colleghi, eppure colpisce molto anche il suo senso
di impotenza. A un certo punto si autodefinisce una pedina “che
qualche volta slega e qualche volta sceglie di farsi i fatti
suoi”. Insomma, in un certo senso è un rivoluzionario,
ma è anche una figura tormentata, con qualche contraddizione.
«Il riluttante è un moderno Sisifo. Uno che, per
dirla con le parole di Albert Camus, sente di essere un eroe
tragico e assurdo, forse inutile, il cui lavoro gli sembra vano.
Non è certo un tecnico tradizionale, di questi tecnici
psichiatrici che pur si credono moderni, perché sono
cultori delle neuroscienze, dell'epigenetica, del neuro-imaging,
della psicofarmacologia, eppure amministrano con disciplina
e rigore piccoli SPDC bunker, con porte sempre chiuse, fasce
sempre pronte, e dosi generose di farmaci per qualunque crisi;
tecnici sostenuti nella loro azione dal pessimismo della ragione.
Lui, il riluttante (che sì, mi assomiglia), è
un tecnico che agisce invece spinto dall'ottimismo della volontà.
Per cui, se lavorasse coi suoi simili, sarebbe felice, un basagliano
soddisfatto. Lavorerebbe al meglio. Invece, lavorando all'interno
di un'equipe tradizionale, insieme a colleghi con cui si sente
accomunato solo dal salario, è un basagliano insoddisfatto,
un riluttante, insomma. Eppure, probabilmente, è soprattutto
in questo essere solo la sua rivolta. Essere l'elemento dissonante
in un'equipe tradizionale (per non dire manicomiale). Forse
non sarebbe così rivoluzionario se lavorasse a Trieste.»
Dicevamo che la critica ai tuoi colleghi psichiatri è
molto dura. In questo atteggiamento io ho letto anche una critica
al potere tout court. Dipingi queste figure di medici e infermieri
come detentori di un sapere incerto, che pure hanno un potere
enorme nei confronti di individui che possono legare o slegare
a piacimento, umiliare, sedare, mettere a tacere. Chi è
abituato a un potere di questo tipo, quando nella vita di tutti
i giorni se ne trova privato, deve provare una grande frustrazione...
«Infatti. I tecnici tradizionali, paradossalmente, ti
parrà strano, lavorano più degli altri. Sono degli
stacanovisti. Hanno, alcuni, centinaia di ore in più
del dovuto. Io mi sono dato questa spiegazione: perché
fuori sono infelici. La loro vita più appagante è
là dentro. Nei loro bunker si sentono dei piccoli generali.
E alla lunga dà alla testa tutto 'sto potere. Tu hai
mai pensato di avere il potere di legare un uomo, impunemente?
No? E invece, se ti fossi specializzata in psichiatria, in questi
luoghi potevi farlo. Uno ti scoccia, ti provoca, ti risponde
male, ti urla, ti sputa, e tu ordini agli infermieri, che magari
nemmeno sono d'accordo con te, di legarlo. Non lo devi nemmeno
fare tu, non ti devi neppure sporcare le mani, hai gli infermieri,
che si occupano del lavoro sporco della contenzione. E dove
ti capita, fuori da un posto così, la stessa possibilità?
Capisci che, abituati a tanto rispetto, ossequio e disciplina,
fuori, nel mondo civile, le ferie, il tempo libero, oppure la
vita in famiglia con figli viziati o mogli bisbetiche o mariti
strafottenti, diventano più difficili da sopportare.
Risulta strano, fuori, affrontare una discussione, o una lite,
senza quel potere a disposizione. Come dico nel libro, c'è
chi quando non è in servizio si sente veramente inerme,
disarmato. E non vede l'ora di tornare al lavoro. Nel suo piccolo
impero.»
Il libro è ricchissimo di riferimenti letterari
(il mio preferito è la ripresa dell'incipit di Anna
Karenina). La letteratura ha per te un ruolo di conforto?
Rappresenta una chiave di lettura e interpretazione?
«È vero tutto ciò che hai detto. Probabilmente
mi sono curato con la letteratura, e col cinema. Ho lenito spesso
la mia rabbia di psichiatra riluttante in questo modo. I turni
in SPDC, spesso funestati da scelte altrui non condivise, o
da un lavoro routinario e senza scopo, le notti in attesa dell'arrivo
di qualche paziente in pronto soccorso, li ho resi sopportabili
con la lettura o la visione di film. In effetti, non me n'ero
accorto che il libro avesse così tanti riferimenti letterari
(Anna Karenina, Il fondamentalista riluttante, Io cammino
in fila indiana, Bartebly lo scrivano, Pastorale americana,
2666, Il castello, Il dottor Semmelweis, Dedalus, Moby Dick,
Il mito di Sisifo, eccetera), me l'ha fatto notare, ieri,
prima dell'intervista con te, Maria Grazia Giannichedda, la
storica collaboratrice di Franco Basaglia, che mi ha detto proprio
questo: il riluttante si salva dal suo lavoro con la letteratura.»
Sei uno psichiatra prestato alla letteratura o un letterato
prestato alla psichiatra?
«Disse Basaglia, nelle sue straordinarie Conferenze
brasiliane (a proposito, chiunque volesse avvicinarsi al
pensiero di Basaglia dovrebbe leggerle), che al mondo si è
o inventori o narratori. Dove i narratori raccontano le invenzioni
o le scoperte dei primi. E disse che forse sono importanti entrambi.
E disse pure che non dobbiamo essere così nichilisti
da pensare di poter scrivere solo bei libri. Io credo che alludesse
anche agli antipsichiatri (i Laing, i Cooper, i Szasz), che
nonostante i bellissimi libri che hanno scritto non hanno inciso
minimamente rispetto alle pratiche manicomiali dei loro paesi.
Per cui io, nel mio piccolo, vorrei provare a essere l'uno e
l'altro. Continuare a scrivere, però restando in questi
piccoli reparti, per provare ad aprirli, a liberarli.»
Nel libro hai deciso di inserire un capitolo dedicato
a Franco Mastrogiovanni, il maestro anarchico morto nel reparto
di psichiatria dell'Ospedale San Luca di Vallo della Lucania.
Sicuramente una vicenda emblematica e agghiacciante, che tu
scegli di raccontare in maniera molto narrativa, con un forte
coinvolgimento emotivo. Come mai era importante dare spazio
a questo personaggio, affidandogli addirittura la conclusione?
«Franco Mastrogiovanni è una figura simbolica,
per diversi motivi. Ancor di più per chi, come me, ha
una formazione anarchica. Gli anarchici, per quel socialista
reazionario che era Cesare Lombroso, erano dei degenerati, al
pari dei folli e dei delinquenti. Franco Mastrogiovanni, suo
malgrado, è queste tre cose insieme: anarchico, delinquente
e folle. Cioè il degenerato perfetto, secondo Lombroso.
Franco Mastrogiovanni ha subito un TSO, probabilmente ingiusto,
davvero persecutorio, che ha rappresentato l'ultimo anello di
una catena persecutoria che subiva già da molti anni;
egli, all'inizio, proprio in quanto anarchico, è stato
letteralmente esasperato dalle forze dell'ordine e dalla giustizia,
dopo è stato sottoposto a un TSO brutale anche per come
si svolge (e io lo descrivo), e infine è stato legato,
senza alcun motivo (o meglio, non c'è mai un motivo per
legare, ma nel suo caso non c'erano neppure i motivi che solitamente
vengono addotti: non era agitato, né aggressivo, né
violento). Della morte di Franco Mastrogiovanni, se oggi ne
stiamo a parlare, è soltanto perché, in quel reparto,
erano presenti le telecamere a circuito chiuso che hanno registrato
gli ultimi quatto giorni di vita che lui ha trascorso legato
al letto, la sua agonia, l'ignavia degli operatori, il suo permanere
tranquillo e comunque legato. Molti pazienti, come il maestro
di Vallo della Lucania, muoiono legati al letto, perché
l'immobilizzazione protratta determina la formazione di trombi
ed embolie fatali, ma di solito non lo si viene a sapere che
il paziente, nel momento della morte, era legato. Perché,
spesso, non c'è proprio traccia scritta della contenzione.
E non ci sono le telecamere a documentarlo.
Io spero che il sacrificio di Franco Mastrogiovanni non sia
stato vano, e mi auguro che anche grazie a lui, e alla condanna
inflitta ai medici di quel reparto, si possa arrivare ad avere
una legge che preveda il reato di tortura e che includa nella
tortura il legare le persone a un letto d'ospedale, e una legge
che renda la contenzione illegale, come illegale è, in
Italia, il manicomio.»
È importante, credo, sottolineare una cosa: le
critiche che tu muovi al sistema psichiatrico non sono puramente
distruttive, esistono degli esempi virtuosi che citi, come Trieste
o Merano. È possibile fare altrimenti.
«Sì, è possibile. Disse Basaglia (perdonami
se lo nomino un po' troppo spesso, ma è un faro, una
bussola, altrimenti mi perderei in questo mondo strano e fuori
legge che spesso è la psichiatria), nelle conferenze
che tenne in Brasile dopo l'approvazione della legge 180: abbiamo
dimostrato che l'impossibile può diventare possibile.
Prima era impossibile pensare all'abolizione del manicomio,
eppure ci siamo riusciti. Per cui si può fare. A Trieste,
dagli anni '70, le fasce le hanno buttate, l'arma che uccide
loro non ce l'hanno, fanno in un altro modo. E non solo a Trieste,
ma anche in altre realtà italiane, Mantova, Merano, Trento,
eccetera. Quindi la mia non è utopia. Si può fare.
È dimostrato che si può fare. E allora facciamolo.»
Laura Antonella Carli
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