TTrentasette anni non sono pochi
e negli ultimi trentasette anni di acqua ne è passata
sotto i ponti. In Italia e nel mondo. Eppure ci piace rilevare
una continuità tra le riflessioni di Luciano Lanza “Ascia
di guerra e P38 contre lo Stato” (in “A” 55,
aprile 1977) e lo scritto di Andrea Papi
che apre questo numero di “A” che hai in mano.
Lanza, che allora era un redattore di questa rivista, analizza
nel suo scritto i “fatti di Bologna”, quella discesa
in piazza di decine di migliaia di persone nel capoluogo emiliano
che sarebbe poi stata ricordata per due ragioni principali:
l'esser stata il detonatore del cosiddetto “movimento
del '77” e la comparsa, per la prima volta, di alcuni
carri-armati in funzione repressiva, o per lo meno dissuasiva.
Il movimento si presenta subito con caratteristiche diverse,
per esempio, da quello di nove anni prima. Al di là
dell'apparente confusione – si legge alla fine dello
scritto – i fatti che stiamo vivendo stanno facendo
chiarezza: molti luoghi comuni, molte illusioni stanno cadendo,
l'acuirsi della crisi sta tracciando una linea di demarcazione
tra veri e falsi rivoluzionari. È importante quindi affrontare
un serio e approfondito ripensamento della nostra azione rivoluzionaria,
del nostro modo di essere nella conflittualità sociale.
Questo presuppone anche un esame critico della situazione sociale
per riconfermare o modificare la nostra prospettiva strategica,in
riferimento ai nostri interlocutori. Non è una cosa semplice,
ma è indispensabile se non vogliamo correre il rischio
di portare avanti delle lotte che potrebbero quanto prima rivelarsi
arretrate. Mentre nostro compito è provocare i provocatori
per impedire che anche i nuovi ribelli cadano nella logica autoritaria.
Un bisogno di riflessione critica da parte di chi sta già
dentro i movimenti, che 37 anni dopo trova una sua conferma
e uno sviluppo nell'analisi e nelle considerazioni che da anni
va portando avanti (su “A” e nei vari libri che
ha scritto) il nostro collaboratore Andrea Papi. Anche su questo
numero, a nostro avviso.
Ma grande era la confusione sotto il cielo e nel primo interno
di copertina di quello stesso numero, nel ricordare la banda
del Matese 100 anni dopo, il testo redazionale contiene queste
considerazioni: ricordare la banda del Matese oggi non vuol
dire fare la solita commemorazione. Per noi il significato di
quel tentativo insurrezionale è quanto mai valido ed
attuale – pur nel mutato contesto storico. Ancora oggi,
infatti, i riformisti deridono e calunniano tutti coloro che
scelgono la via dell'insurrezione armata contro lo stato e tentano
in ogni modo di neutralizzare l'effetto positivo che queste
lotte possono esercitare sugli sfruttati, spingendoli sulla
strada dell'azione diretta.
Un errore di prospettiva clamorosamente confermato dagli sviluppi,
in quei mesi e in quegli anni, delle varie forme di lotta armata.
Ben diversamente che un “effetto positivo” sulle
lotte degli sfruttati, la lotta armata contribuì all'imbarbarimento
del tessuto sociale, specularmente e in sostanza concordemente
con le politiche securitarie e repressive che innescò.
E la nostra rivista, nell'insieme sviluppando quella riflessione
auspicata da Lanza, sempre in un dialogo profondo e non sempre
facile con i “movimenti”, già in quegli anni
riorienta il proprio interesse di fondo dai movimenti “clamorosi”
e avanguardisti dello scontro armato ai filoni più profondi,
a volte quasi sommersi, spesso sottaciuti, della critica “pratica”,
solidale, autogestionaria al modello di produzione e di sviluppo
dominante.
Trentasette anni fa, alle soglie del massimo sviluppo –
concreto e al contempo mediatico – delle Brigate Rosse,
di Prima Linea e degli episodi in genere di lotta con le armi,
“A” non senza sussulti né senza alcuni cedimenti
al clima esasperato dell'epoca, diventa sempre più voce
e palestra di dibattito di idee, pratiche, movimenti, esperienze
concrete che allo scontro armato con lo stato oppongono un modo
di essere, di relazionarsi, di lottare che ci piace definire
“libertari” (per non dire anarchici), radicalmente
“altri” (come si diceva allora) rispetto alle concezioni
e alle pratiche autoritarie, eticamente inaccettabili, intimamente
militariste (e maschiliste, si può aggiungere) di chi
da una parte e dell'altra sta “dalla parte del fucile”.
Altro il percorso dentro cui si colloca, criticamente, “A”.
E lo vedremo nel riprendere in mano i successivi numeri della
rivista.
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