società
Partecipazione pubblica ed eguaglianza
di Marvi Maggio
Non si può parlare di partecipazione pubblica senza parlare di uguaglianza, di giustizia sociale e di libertà.
E la questione determinante è trovare metodi di decisione e dibattito capaci di coinvolgere chi solitamente non ha voce in capitolo.
La domanda e l'offerta di partecipazione pubblica nei processi decisionali relativi alle trasformazioni territoriali sono entrambe in crescita: la questione centrale è l'indagine su quali siano le condizioni per dare davvero voce alle persone e ai gruppi sociali, alle classi che sono escluse marginalizzate oppure ridotte a credere di partecipare mentre il loro punto di vista non conta perfino quando si tratta di decidere le trasformazioni dei territori in cui vivono o che attraversano. La questione è chi debba promuovere la partecipazione e secondo quali modalità, quando l'obiettivo è una maggiore giustizia sociale e ambientale.
La partecipazione pubblica nasconde in sé delle ambiguità. Quando è proposta dall'alto, per esempio dai governi locali, emerge forte il timore che sia di facciata, che serva per attutire i conflitti senza affrontarli e risolverli, che prenda posizione a favore del più forte. Quando nasce dal basso è più simile a un movimento sociale e a una azione politica che a un processo strutturato a cui i metodi e strumenti partecipativi ci stanno abituando.
Fra questi due estremi si situa una questione cruciale per qualsiasi movimento che voglia essere inclusivo e creda nella possibilità di generare ed esprimere intelligenza collettiva; per qualsiasi governo che voglia essere democratico, trasformativo e capace di lottare contro le tante ineguaglianze che connotano le nostre società, fra cui emerge quella di potere.
La questione cruciale è quella di trovare metodi di decisione e di dibattito capaci di dare spazio a tutti quelli che di spazio non ne hanno, e capace di far crescere la consapevolezza delle persone e la conoscenza dei processi di trasformazione territoriale: conoscere per cambiare la realtà, in una direzione di maggiore giustizia sociale ed ambientale.
Vale la pena quindi di ragionare di potere, di comunicazione, di mancanza o sperequazione di risorse, di rapporti sociali, di discriminazioni, di libertà, di diritti, di eguaglianza. E vale la pena di inventare e sperimentare, con mente libera e aperta, metodi e strumenti che facilitino la comunicazione e lo scambio. E che siano capaci di contrastare le sperequazioni di potere e le ineguaglianze. Ci troviamo a trattare di partecipazione pubblica perché manca e la dobbiamo attivare, perché non è prassi comune ma va ogni volta conquistata. E questo è un problema solo per le classi subalterne. I potenti, le classi al potere hanno sempre voce in capitolo, dispongono di lobby, hanno l'influenza che nasce dal disporre di tutte le risorse che rendono efficace e pesante il loro punto di vista. Per questo la partecipazione pubblica è un problema e una conquista per le classi, i soggetti e i gruppi che sono esclusi, a cui è sottratto o sminuito il potere decisionale.
Per questo la partecipazione pubblica è una questione di eguaglianza, perché chiama in causa le diseguaglianze e le vuole guardare in faccia, per demolirle pezzo per pezzo. Ovviamente si tratta di una lotta che non si gioca solo con i metodi partecipativi, ma con tutti i mezzi necessari.
Dobbiamo costruire nuovi rapporti sociali, nuovi modi di decidere, nuovi progetti, nuovi mondi. E dobbiamo farlo a partire da qui e ora: decidere insieme da subito in modo corretto, inclusivo, creativo, collettivo e comune è uno dei frammenti del nostro progetto di un mondo più giusto.
Quale partecipazione, di chi e per cosa?
Ma di quale partecipazione stiamo parlando e di chi, con quali
mezzi e strumenti, con quali obiettivi e a partire da quali
contesti politici, sociali e territoriali?
La risposta non può essere univoca perché esistono
motivazioni, scopi, metodi divergenti e opposti che vanno proprio
in direzioni differenti. Agli estremi, possono essere individuati
due insiemi opposti di teorie e pratiche di partecipazione:
quelle di “mantenimento del sistema”, che pongono
in essere forme di interazione sociale finalizzate al mantenimento
della società e della città esistenti e a una
maggiore efficienza e consenso; e quelle di “trasformazione
del sistema”, che comprendono le forme di coinvolgimento
degli abitanti che puntano a modificare la distribuzione esistente
del potere, della ricchezza e della felicità.
Queste due tipologie utilizzano la partecipazione per ragioni
opposte. Le prime intendono rispondere a possibili o a esistenti
fronti di opposizione e di conflitto, le seconde riconoscono
che nelle nostre società gli interessi e le domande delle
classi subalterne non sono rappresentati e vanno invece trovate
delle risposte. Le prime vorranno decostruire il conflitto per
ricomporlo a vantaggio delle classi al potere; le seconde vogliono
contribuire a modificare la situazione esistente in una direzione
di maggiore giustizia sociale e ambientale.
Questa dicotomia fra tipologie mostra tutta la complessità
del tema e le poste in gioco in termini di democrazia reale
e concreta e di giustizia sociale. Questa complessità
determina la centralità del contesto sociale e politico,
economico e territoriale nella comprensione dell'entità
di cui stiamo parlando quando trattiamo la partecipazione pubblica.
Non possiamo parlare di potere e rapporti di potere in astratto
senza sapere in cosa si sostanziano in ogni specifico luogo.
In altri termini, abbiamo bisogno di mediazione fra teorie e
realtà.
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Wupatki pueblo è un insediamento dei nativi americani
costruito dai Sinagua nel 1100 dC e abitato fino al 1225. Si trova a Flagstaff, Arizona (USA) ed è un sito archeologico
di grande importanza.
Lo spazio circolare è lo spazio comunitario di autogoverno |
Le ragioni della domanda e dell'offerta di partecipazione
Prima di tutto da cosa deriva la crescente domanda e offerta
di partecipazione pubblica ai processi decisionali che riguardano
le trasformazioni territoriali e urbane?
Una risposta riguarda il prevalere generalizzato delle logiche
di rendita urbana e profitto immobiliare nel dare forma alle
trasformazioni urbane, come se le altre logiche si fossero indebolite.
John Friedmann parla di scontro fra razionalità economica
e razionalità sociale e sembra che nelle nostre società
proprio la razionalità sociale abbia perso forza e sostegno.
Il discorso sulla competizione fra le città, l'idea dell'imprenditorialismo
urbano sul modello delle coalizioni di crescita americane sono
diventate il discorso egemone delle élite del governo
urbano. E nuovi movimenti sociali urbani, nuovi comitati e nuove
proteste nascono proprio per opporsi ai progetti urbani pensati
per promuovere l'immagine della città, dimenticando i
bisogni legati alla vita quotidiana delle classi subalterne.
Sembra verificarsi una relazione fra il ruolo giocato dallo
Stato e la lotta per il potere da parte di coalizioni di governo
delle diverse città. Secondo Le Galès “la
competizione fra città è espressione del declino
della regolazione di Stato e del fatto che le città (nel
senso delle coalizioni che le governano) stanno cercando di
posizionarsi, per come meglio possono, nel contesto di questa
competizione… e questo vale soprattutto per le città
più importanti”.
Le coalizioni che governano le città lottano per conquistarsi
un ruolo nel contesto della divisione internazionale dei compiti,
utilizzando relazioni sociali e l'organizzazione della pianificazione
del territorio; lottano per affermare la loro città come
centro di consumo, accrescendone status e prestigio; lottano
per entrare nella competizione perché le proprie città
diventino sede di compagnie transnazionali, di uffici pubblici
di prestigio, o di altre forme di investimento pubblico e privato:
“la competizione ha a che fare con il controllo di risorse
limitate: classi medie, consumatori e imprese. La competizione
tra le città ha portato a una rapida reazione di imitazione/distinzione
tra le autorità locali urbane. Le seguenti azioni, per
esempio, hanno avuto inizio in molte città: grossi progetti,
sviluppo di piani strategici, creazione di parchi scientifici,
investimenti in eventi prestigiosi da un punto di vista culturale
e in spettacoli, politiche di marketing, sistemi di trasporto
pubblico più moderni (metro o tramvie), progetti di particolare
rilievo firmati da architetti di fama internazionale, nuovi
centri di uffici di alta tecnologia, nuove costruzioni pubbliche
quali stazioni dei treni, centri di ricerca, teatri e sale da
concerto, musei…”.
Questa omologazione che deriva dalla competizione è molto
importante ai fini di un dibattito sulla questione della partecipazione
pubblica perché è una delle ragioni implicite
o esplicite, occulte o palesi, delle proteste da parte degli
abitanti e della crescente domanda di partecipazione alle scelte
relative alle trasformazioni urbane e territoriali. Le élite
urbane decidono in base ai loro interessi e le ragioni degli
esclusi dal mercato per questione di reddito (laddove è
la retorica del lusso a predominare) o di valori (domanda di
spazio pubblico e comune e di valori d'uso fuori, oltre e malgrado
il mercato), non trovano espressione, a meno che non si ottenga
il diritto “speciale” di partecipare.
Vi è poi una ragione che riguarda la politica. Nella
letteratura nazionale e internazionale vengono discusse le ragioni
che si ritengono alla base dell'emergere di una domanda e di
una offerta di partecipazione che è in stretta relazione
con lo stato della politica e dei partiti che la rappresentano.
Le ragioni possono essere tracciate attraverso le lettura di
due traiettorie storiche: le competizioni elettorali fra coalizioni
politiche che sono sempre più simili nei propositi e
che non rappresentano interessi di classe contrapposti, ma il
neoliberismo e il pensiero unico, in modo tale da lasciare una
vasta compagine sociale priva di rappresentanza, dimostrata
dall'astensionismo dilagante, e l'emergere con sempre maggiore
chiarezza di una corruzione strutturale delle élite e
delle classi dirigenti sempre più pervasiva, se possibile
ancora più estesa di quella scoperta con tangentopoli
nei primi anni '90, che restituisce un sistema di disuguaglianze
e ingiustizie senza pari che emerge dai dati: su ricchezza e
povertà, sull'estensione della evasione fiscale da parte
dei più ricchi, sull'estensione dell'economia criminale,
dove il confine fra legale e illegale è offuscato. La
partecipazione pubblica in questo contesto è un tentativo
istituzionale di recuperare terreno mentre tutto frana. E per
i movimenti di base un modo per chiedere giustizia, non in astratto
ma nelle sue varie concretizzazioni.
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Lisbona, 2013. Centro sociale Espaço RDA: incontro
dell'INURA (Rete Internazionale per la Ricerca e l'Azione Urbana) |
Dialogo e rapporti di forza
Gli strumenti e le tecniche partecipative possono essere collocate
in due grandi classi.
Una prima classe comprende gli strumenti volti a favorire il
dialogo, la creatività collettiva, nei casi estremi a
creare comunità dove prima c'era divisione e conflitto,
come descritto da Podziba. Questo tipo di tecniche affrontano
la questione dei linguaggi, degli atteggiamenti, degli stili
di argomentazione, della contrapposizione fra emotività
e razionalità; propongono il dibattito in piccoli gruppi,
mettono in rapporto il sapere esperto e il sapere contestuale,
vogliono far emergere il sapere contestuale; ritengono di poter
mettere fra parentesi i rapporti di potere operando opportunamente
sul contesto del dialogo e della discussione (cfr. Habermas).
Una seconda classe comprende gli strumenti che affrontano i
rapporti di forza, non tentando di metterli fra parentesi, ma
cercando di far ottenere maggiore potere a chi ne ha meno, per
equilibrare la situazione. Presuppongono di scoprire e rendere
trasparenti gli elementi costitutivi e caratterizzanti del potere:
la mancata leggibilità e l'oscurità dei processi
può essere contrastata con la conoscenza, il re nudo
ha meno prestigio; i network di relazione e di potere delle
élite, vanno resi noti ed espliciti, mostrando i legami
privilegiati fra specifiche imprese, politici, investitori e,
spesso, troppo spesso, criminalità più o meno
legale; l'accumulazione di ricchezza per pochi si contrasta
rendendo trasparenti i conti economici che mostrano a vantaggio
di chi avviene la distribuzione di profitti e rendite e più
in generale la re-distribuzione di quanto viene collettivamente
prodotto; individuazione di chi guadagna e chi perde, in termini
economici, in termini ambientali, in termini di opportunità;
accesso socialmente differenziato al sapere legale, pianificatorio,
economico; accesso differenziato ai network; accesso differenziato
all'amministrazione pubblica come risorsa. In sintesi il potere
è fatto di disponibilità di risorse economiche,
di prestigio, di accesso al processo decisionale, di potere
di decisione, di accesso a network, accesso al sapere esperto,
accesso ai centri decisionali amministrativi. La soluzione sta
nell'offrire queste risorse a chi non le ha (cfr. Michel Foucault).
Nick Wates, autore di uno dei più noti e interessanti
manuali di partecipazione intitolato Community Planning,
individua quattro livelli di coinvolgimento della comunità:
informazione (flusso di informazioni unidirezionali); consultazione
(le autorità chiedono l'opinione della comunità);
partnership (lavoro e processo decisionale condiviso); self
help (controllo della comunità). Il rapporto è
fra le autorità pubbliche e la comunità.
Non va dimenticato che molti strumenti e metodi di partecipazione
non sono nati al chiuso di studi di professionisti o accademici
o funzionari pubblici, ma nelle lotte sociali, nei movimenti
sociali, in quelli che sono da sempre i produttori di ciò
che è significativo, che conta, che cambia davvero lo
stato delle cose. Molti degli strumenti partecipativi oggi utilizzati
anche in campo istituzionale sono nati nelle lotte per la casa,
per il diritto alla città, contro la costruzione di autostrade
o di quartieri di lusso, di infrastrutture dannose. Nelle lotte
sono nati il bilancio partecipativo brasiliano e la società
autogestionaria degli zapatisti (EZLN) nel Chiapas, che tanto
interesse hanno suscitato in tutto il mondo. L'autogoverno praticato
dagli zapatisti può fornirci utile ispirazione per i
nostri processi decisionali. E ci aiuta a chiarire anche il
rapporto fra forma di governo e partecipazione pubblica: parliamo
di partecipazione pubblica come supplemento della democrazia
rappresentativa ma in realtà avremmo solo bisogno di
un diverso tipo di (auto)governo, ben più democratico
ed inclusivo di quelli attuali, che si definiscono democratici,
ma non lo sono neppure formalmente.
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Messico, 21 dicembre 2012. La marcia degli zapatisti |
Partecipazione e giustizia sociale
Rimettere i processi decisionali nelle mani della collettività.
E in primo luogo dei soggetti e gruppi che ne sono esclusi,
dei bisogni e delle rivendicazioni che puntano alla produzione
e riproduzione dei beni comuni, del valore d'uso contrapposto
al valore di scambio, della razionalità sociale contrapposta
a quella economica. Si tratta di un ribaltamento della situazione
attuale che vede oggi il prevalere degli interessi e delle logiche
del mercato finanziario e immobiliare e dei desiderata delle
classi dominanti.
La partecipazione fa parte del bagaglio di molti movimenti urbani
e sociali, ne è uno dei fondamenti: come si decide se
non c'è un governo, uno stato, delle istituzioni ma liberi
individui uniti da un progetto comune? Nuovi modi di operare
e nuove istituzioni prendono forma nel concreto dell'azione.
Eppure oggi sono molti i casi in cui le amministrazioni pubbliche
mettono in atto processi partecipativi, spesso in collaborazione
con aziende preposte allo scopo. Il loro obiettivo è
nella maggior parte dei casi guadagnare popolarità e
consenso, in un momento di crisi della (loro) politica, e attutire
i conflitti territoriali senza tuttavia affrontarli e risolverli.
In particolare il rischio è che nei conflitti queste
stesse amministrazioni invece di scegliere di difendere i beni
comuni scelgano di sostenere gli interessi economici, spesso
significativamente immobiliari e finanziari, che promettono
posti di lavoro, senza nemmeno offrirli davvero, in cambio della
privatizzazione oppure della devastazione del territorio. Gli
interventi che nascono dalla ricerca di profitto immobiliare
e finanziario sono sempre più significativamente differenti
da quelli che potrebbero rispondere ai bisogni sociali e culturali
della maggioranza della popolazione. In un momento di crisi
poi si tende a predisporre progetti finalizzati a rispondere
alla domanda di lusso, a quelle classi che si stanno arricchendo
proprio grazie, e non solo malgrado, la crisi.
La sfida è creare gli strumenti per rendere efficace
la partecipazione delle classi subalterne.
Classi subalterne è un termine forse desueto ma che rappresenta
lo stato in cui ci stanno riducendo. Non è un destino
ineluttabile, ma vanno intraprese contromisure. Sono tanti i
gruppi e i soggetti che ne fanno parte e non sono omogenei,
ma molto differenziati. Nessuno può pensare a punti di
vista comuni oppure bisogni comuni e speranze condivise. Ma
di certo esiste uno stato dei fatti condiviso, sebbene vissuto
in modi differenti e diversi: uno stato di deprivazione e di
mancanza e riduzione dei diritti fondamentali, diritti umani
e sociali. Un motivo in più per rivolgersi a chi si è
posto i problemi dei conflitti, delle difficoltà di esprimere
i propri pensieri, di comunicare e di discutere collettivamente
sulle trasformazioni dei territori. Lo scopo è di porre
le questioni e le condizioni perché la partecipazione
pubblica si diffonda come modalità decisionale e migliori
la sua inclusività e la capacità di trattare i
conflitti in modo equo, ricordando che ci sono diritti inderogabili
(autodeterminazione) e pretese inaccettabili (non si possono
avere diritti su altri esseri umani).
Per favorire e facilitare le discussioni e le prese di decisione
collettive, comuni e motivate, è necessario conoscere
i problemi che ostacolano il lavoro comune, che impediscono
la fiducia e quelli che provocano conflitto; per questo le ineguaglianze
e le ingiustizie giocano un ruolo cruciale, perché caratterizzano
e pesano sulle nostre società, sulle nostre vite quotidiane,
sulle trasformazioni che incessantemente danno forma ai nostri
luoghi di vita, quelli vicini e quelli lontani, quelli areali
e quelli a rete: segregazioni, confini, esclusione, squilibri,
espulsione, saccheggio dei beni comuni e loro privatizzazione.
Quindi si tratta di andare verso decisioni condivise e trasparenti,
fondate sui diritti: l'opposto di quelle a cui ci hanno abituato
clientelismo e nepotismo, con i vantaggi occultati, le tangenti
e i favori ottenuti dai potenti in cambio della cessione di
beni e fondi pubblici che apparterrebbero a tutti noi.
Non si può parlare di partecipazione pubblica senza parlare
di uguaglianza, di giustizia sociale e ambientale, di libertà,
di felicità. Si tratta di decidere di sé e della
propria vita per conto proprio e di decidere collettivamente
di quel territorio, materiale e immateriale, reale e metaforico,
che abbiamo in comune con tutti gli altri, dal locale al mondo
intero. La partecipazione pubblica non deve essere ridotta a
strumento di politica locale, perché si pone in modo
sempre più pressante la necessità di scambio e
confronto di livello internazionale, come ben avevano compreso
i social forum lanciati all'inizio degli anni 2000 e prima di
loro gli incontri internazionali proposti dagli zapatisti nel
1994. Esistono numerose sperimentazioni di interscambio che
vanno in questo senso.
La partecipazione pubblica nella sua versione più valida
e utile, è politica, nel suo significato migliore, e
il suo soggetto deve essere tutta la collettività. Decidere
è una questione troppo importante per lasciarla alle
élite e alle istituzioni statali esistenti.
Marvi Maggio
(International Network for Urban Research and Action)
Bibliografia
Friedmann, John, (1987) Planning in the public Domain. From
Knowledge to Action, Princeton University Press, Princeton,
Ney Jersey, 1987.
Le Galès, Patrick, (2002), “Government e governante
urbana nelle città europee: argomenti per la discussione”,
Foedus, n.4.
Maggio, Marvi, (2005a), “Movimenti urbani a Firenze: una
mappa sociale dello spazio conteso”, Archivio di Studi
Urbani e Regionali, n.83, pagg.131-140.
Maggio, Marvi, (2005b), “Movimenti urbani e partecipazione”,
Archivio di Studi Urbani e Regionali, n.82.
Wates, Nick, (2000), The Community Planning handbook. How
people can shape their cities, towns & villages in any part
of the world, Earthscan, London.
Podziba, Susan L., (1998), Social Capital Formation, Public-building
and public mediation: the Chelsea Charter consensus process,
An occasional paper of the Kettering Foundation, Publisher Edward
J. Arnone. |