Contro
il concetto di potere
Il principio di ragione del Potere, la sua essenza, è
l'esercizio di se stesso, il suo perpetuarsi al di là
delle contingenze e delle determinazioni storiche, nelle quali
comunque si esplica. Il Potere è un'immobilità
che basta a se stessa e che comprende al suo interno anche tutta
una serie di movimenti. Seguendo la sua legge di sussistenza,
dispiega all'interno della sua estensione tutta una serie di
valori, a lui stesso funzionali, tracciando in questo modo i
confini del lecito e dell'illecito, disegnando le linee della
normalità. Uno dei modi del dispiegarsi del Potere è
proprio il porre dei limiti, e conferendo dei nomi a ciò
che limita, in un certo senso blocca tutta una serie di movimenti,
che vediamo ora essere apparenti. Parliamo ovviamente di tutti
i movimenti di opposizione politica ed etica ai valori da esso
creati, al suo perpetuarsi reale. Anche quei movimenti che individualmente
nascono in perfetta buona fede, come opposizione al Potere stesso,
finiscono per diventare delle rivolte previste, e per
ciò sotto controllo. La loro carica rivoluzionaria viene
disinnescata. Come può realizzarsi ciò?
Un'altra modalità di dispiegamento del Potere, come dicevamo,
è quella di creare valori; questa modalità è
strettamente connessa al creare limiti, poiché tali valori,
una volta creati, rappresentano proprio il contenuto concreto
dei limiti, e in questo modo viene a disegnarsi il confine tra
ciò che ha valore e ciò che non lo ha, e quindi
ciò che è ammesso o meno. Poco importa al Potere
se questi valori – che spesso restano nell'ombra in rapporto
alla vita quotidiana dei suoi sudditi – siano condivisi
dai singoli nel loro vivere questa quotidianità. Ciò
che per il Potere è importante è questi valori
facciano quadrato nel momento in cui nascono dei movimenti
di opposizione, affinché le masse gli rimangano fedeli,
ed esso a sua volta, rafforzato e legittimato da questa
fedeltà “forzata”, possa da un lato reprimere
tali movimenti – poco importa se con la violenza che gli
è connaturata – e dall'altro ricomprenderli all'interno
di se stesso, cambiandone la polarità e il contenuto
valoriale, e rendendoseli dunque funzionali.
La creazione di valori da parte del Potere è un'operazione
talmente tanto vasta e pianificata che riesce a porre sotto
controllo valori singoli tra loro apparentemente opposti. Come
può essere possibile? Niente di più semplice:
il Potere è una totalità superiore alle sue parti:
esso si pone come terreno unitario sul quale germogliano i movimenti
della vita quotidiana, tra loro in opposizione. Quello che per
il Potere è fondamentale è essere questo terreno
unitario. In altre parole, un movimento di opposizione per quanto
apparentemente si scagli contro uno o più aspetti singolari
del Potere, ivi compreso un intero singolo potere storico, perde
la sua carica rivoluzionaria quando germoglia sul terreno unitario
del Potere, quando cioè non si scaglia contro il concetto
di Potere. Quando un qualsiasi movimento di opposizione rivoluzionaria
ad aspetti singolari del potere, accetta il concetto di Potere,
è destinato ad essere da esso disinnescato, e quindi
votato al fallimento.
Cerchiamo di esplicitare meglio questo discorso. Il Potere è
il concetto di Potere, che precede ogni dispiegamento
concreto di poteri singoli, particolari. Ogni potere particolare
crea i propri valori, il proprio bene e il proprio male.
Ma l'essenza di ciascun potere particolare è il concetto
di Potere: tale concetto sta-dietro anche a quei movimenti di
protesta/ribellione/opposizione che, schierandosi contro un
certo potere particolare, si prefiggono di crearne un altro,
di rimpiazzarlo con il loro potere particolare, che si creerà
una nuova gamma di valori, che verranno ricompresi nella totalità,
nel terreno unitario del Potere. La maggior parte dei movimenti
di opposizione politica sono di questo tipo; mettono in discussione
il potere come potere particolare – non importa se in
singole manifestazioni o nella sua intera struttura –
ma non il Potere in quanto concetto, che rimane di nuovo il
terreno unitario sul quale si svilupperanno le loro evoluzioni
storiche concrete. È per questo motivo che tali movimenti,
seppur sedicenti rivoluzionari, possono magari apparire tali
solo agli occhi del potere particolare, singolare – o
di più poteri particolari – che contestano, mentre
sul piano del concetto di Potere essi sono totalmente integrabili,
perché lo portano al loro interno come fondamento. Sono
solo, agli occhi di esso, dei falsi movimenti, dei movimenti
apparenti.
Questa è anche una delle cause per cui molte volte questi
movimenti, ricompresi in seno al concetto di Potere, vengono
storicamente sconfitti dal potere particolare che contestano,
che si prefiggono di abbattere. Sul terreno del Potere, un potere
particolare – in rapporto al movimento di opposizione
che lo contesta – è posto(-si) in essere prima
che nasca il movimento di opposizione, e detiene quindi una
certa stabilità e una certa organizzazione che rappresentano
le armi con cui schiaccia tale movimento: la sua presenza al
mondo (essere-nel-mondo) già stabilita, è
la fonte di quella legittimità per la quale molti singoli
si porranno comunque a favore del potere particolare stabilito
anziché nel movimento di opposizione, in virtù
di quelle formazioni valoriali – anche inconsce –
col quale il potere in essere si è imposto ai suoi sudditi.
Nei casi in cui un movimento di opposizione particolare ha concretamente
e storicamente sconfitto e abbattuto un potere particolare,
edificando al suo posto un nuovo potere, con valori e finalità
nuove rispetto a prima, questi movimenti si dice che abbiano
compiuto una rivoluzione politica.
Ebbene, questi movimenti hanno compiuto solo una rivoluzione
apparente, in quanto la nuova condizione storico-politica si
edifica sulla base, sul terreno del concetto di Potere, e i
valori che il nuovo potere particolare crea ricalcano la creazione,
il dispiegamento e lo sviluppo di quelli del potere precedente,
anche se con contenuti particolari apparentemente differenti,
in quanto sono scritti sulle pagine della storia con l'inchiostro
del Potere.
Il vero atteggiamento rivoluzionario è quello che va
oltre i poteri particolari per scagliarsi contro il Potere,
il concetto di Potere. Questo non vuol dire ridurre la lotta
di liberazione ad una disputa astratta e teoretica, e astenersi
dal contestare i poteri particolari e dall'opporvisi, ma vuol
dire invece porsi in maniera autenticamente rivoluzionaria anche
e soprattutto verso quel concetto di Potere che è il
fondamento ontologico, la condizione trascendentale e il terreno
onnicomprensivo funzionale alla formazione dei singoli poteri
particolari: l'essenza che precede l'esistenza di essi.
L'unico modo per combattere il Potere è il costruire
valori nuovi e veramente rivoluzionari che scardinino questo
concetto di base, questa totalità, questo terreno unitario
della vita sociale. Ben prima dei singoli valori e delle singole
manifestazioni dei poteri, è il Potere stesso come concetto
astratto, immobile e immutabile, che va eliminato, distrutto,
a partire dal singolo fino alla collettività.
Andrea Mincigrucci
Strasburgo (Francia)
Inizia il dibattito su
movimenti e potere
Pubblichiamo
qui di seguito i primi due interventi pervenuti, con cui
si apre il dibattito, sollecitato da noi della redazione
e aperto a tutte/i, sulle tematiche toccate nei quattro
articoli di Antonio Senta (“potere e movimenti”)
pubblicati sulla nostra rivista tra l'ottobre 2013 (“A”
383) e il febbraio 2014 (“A” 386). Ricordiamo
che, come in occasione del precedente dibattito sul libro
“Libertà senza rivoluzione” di Giampietro
“Nico” Berti, gli interventi non possono superare
le 6.000 battute (spazi compresi).
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Dibattito
Movimenti e potere/1
Andrea Papi/Autogestione o lotta di classe?
Ciò che Antonio Senta scrive sulle diverse rivolte
che stanno costellando il mondo è interessante per la
ricerca puntuale, la volontà di cogliere un nesso di
lotta comune e lo sforzo di comprendere le caratteristiche spontanee.
Stimolante l'interpretazione che aleggia nei quattro articoli,
secondo cui i movimenti contemporanei non intendono la rivoluzione
come evento traumatico in grado di liberare definitivamente
l'uomo, ma intendono la rivoluzione o meglio le rivoluzioni
come rotture, di diversa entità e intensità…
in cui il potere è così diffuso da neutralizzare
il dominio. (“A”
386, pag. 37, Occupiamo il presente). Aspetti evidenziati
anche da ricercatori che lui stesso cita.
Ciò che non capisco è perché fin dalle
prime parole ha inquadrato il tutto sotto l'egida ideologica
di una datata “lotta di classe”, non più
tra proletariato e borghesia si badi bene, ma tra i ricchi da
una parte e i poveri dall'altra. Fra l'altro, ben chiaro fin
dal titolo del primo articolo, si tratterebbe di una guerra
dichiarata dai ricchi contro i poveri, ben diversa da quella
classica in cui sarebbe il proletariato ad attaccare la borghesia.
Una rappresentazione che rischia di essere stonata perché
è azzardato usare il concetto di classe per le due categorie
sociologiche dei ricchi e dei poveri, impiegato non tanto per
classificare differenze sociali, ma per esplicitare una vera
lotta rivoluzionaria. Un'interpretazione fra l'altro che non
mi sembra in sintonia con quella data alle lotte, giustamente
caratterizzate da una tensione che definisce autogestionaria.
Per ragioni di spazio non è possibile spiegare adeguatamente
sia le classi sia la lotta di classe. Mi limito a dire che in
sociologia il concetto di classe è difficilmente definibile,
applicabile più o meno ad ogni gruppo di persone in una
posizione simile nell'ambito della struttura governata dalle
relazioni economiche e politiche di una società, in genere
comunque strutturate gerarchicamente.
Cosa ben diversa dalla visione “lotta di classe”,
derivata dalla concezione ideologica marxista, che le attribuisce
invece una collocazione ben precisa, intendendo per classe un
insieme di individui che hanno lo stesso posto nella produzione
sociale e lo stesso rapporto con i mezzi di produzione. Quando
Marx parla di lotta di classe intende la guerra che i proletari
fanno ai borghesi, ritenuta insita nel rapporto strutturale
tra gli uni e gli altri, inevitabile perché sono tra
loro inconciliabili. Del resto un simile conflitto non avrebbe
senso se non fosse per distruggere il potere borghese e impossessarsene
per impedire che ritorni (Lenin è molto chiaro in proposito).
La lotta di classe è stata impostata e pensata affinché
la classe sottomessa prendesse il potere.
A suo tempo Marx e Lenin prospettavano una borghesia al potere
sempre in qualche modo legata allo stato nazionale. Proprio
dal punto di vista economico la situazione attuale è
completamente differente. Da una parte, che dovrebbe essere
quella dei ricchi, domina una rete finanziaria sopranazionale
e globale, non strutturata in classe perché non determinata
dai rapporti di produzione. Al posto della borghesia non c'è
nessuna struttura sostitutiva. L'accumulazione capitalista egemone
non è quella proprietaria, non deriva dal sistema produttivo,
non si basa sul profitto ma sulle rendite.
Dall'altra parte, quella dei poveri, abbiamo un insieme sociale
molto disomogeneo. La condizione di povertà, differente
per strati e categorie, ha molte cause e una molteplicità
di condizioni esistenziali, alla fin fine dovute tutte alla
cappa plumbea della rete della speculazione finanziaria ai cui
interessi è ormai asservito l'intero sistema produttivo.
Oggi è attivo un dominio diffuso non strutturato ed extrastrutturale,
che agisce determinando circostanze che influenzano e creano
situazioni che s'impongono. È un dominio non localizzabile,
sempre più avvolgente e inafferrabile, che induce a fare
e non ha bisogno di nessuna classe per prevalere. In definitiva
non c'è nessun potere di classe da prendere o da abbattere.
Le varie rivolte che a ondate si stanno proponendo in tutto
il mondo sembrano determinate da condizioni esistenziali più
che di classe. I bisogni, individuali e collettivi, che da più
parti si stanno manifestando mettono sempre più in evidenza
il rifiuto degli imperanti modelli di sviluppo nocivi e aberranti,
l'esigenza di una qualità di vita completamente diversa
da quella che subiamo, il desiderio di conquistare autonomia
di decisioni nelle scelte del modo di vivere e nel tipo di condizioni
ambientali e sociali. Insomma, la tendenza in atto ha sempre
di più l'aspetto di una vera e vibrante voglia di rivoluzione
sociale ed esistenziale per prendere in mano le sorti delle
proprie vite, più che un riduttivo riscatto di classe.
È probabilmente in conseguenza di questa lettura ideologica
degli accadimenti che nel racconto espositivo di Senta c'è
a tratti una rischiosa sottovalutazione dell'intervento avanguardistico
degli illusi dell'insurrezione. In più occasioni, infatti,
hanno provato ad agire dall'interno delle proteste di piazza
per indurre e trascinare i manifestanti allo scontro fisico
con le varie polizie. Come se già non ci pensassero queste
da sole a creare simili occasioni che controllano perfettamente,
una tale scelta prioritaria d'attacco non può che distogliere
la ribellione dai tentativi di costruzione autogestionaria di
un'alternativa esistenziale, politica e sociale. Soprattutto,
questi neofiti del modello insurrezionale non tengono conto
che è diventato praticamente impossibile l'abbattimento
manu militari del nemico, perché abbiamo a che
fare con un potere imprendibile che sfugge e da cui ci si vorrebbe
liberare.
Andrea Papi
Dibattito
Movimenti e potere/2
Andrea Aureli/Ma chi ha detto che c'è?
Seduta di fronte a me, dall'altra parte del tavolo le mani
in tasca, poco prima di natale una mia amica rifletteva che
gli anarchici son moralisti. Incontrarla questa mia amica è
sempre una festa, anche quando siamo seduti in panchina ai giardinetti
senza far niente, a volte dice cose intelligenti che lì
per lì mi sembrano stupide, poi ci ripenso e mi accorgo
che non lo sono. Questa mia amica faceva riferimento ai comportamenti
privati degli anarchici in quanto persone (maschi?), ma io estenderei
la sua osservazione agli anarchici, come dire, in società.
In che senso noi anarchici tendiamo ad essere moralisti? Nel
senso che ci diamo le risposte ancor prima di porci le domande.
Un problema non da poco per chiunque desideri cambiare la società.
L'anarchismo per me è senso della possibilità,
una prospettiva interlocutoria nei confronti di se stessi e
degli altri. Quasi un grattarsi la testa collettivo nel tentativo
di capire di volta in volta come vivere insieme senza comandare
né essere comandati, se possibile col sorriso sulle labbra.
In una situazione del genere sono le domande che fanno la differenza
e le risposte, se e quando ci sono, hanno una loro validità
contingente e mai risolutiva.
È questo l'anarchismo che mi divertirebbe condividere
e praticare e in questa interlocutoria prospettiva che propongo
alcune riflessioni. L'occasione è la serie di articoli
di Antonio Senta recentemente pubblicati da A (potere e movimenti).
Dei quattro articoli il primo (La
lotta di classe dei ricchi contro i poveri) e l'ultimo (Occupiamo
il presente) mi sembrano quelli più importanti. Il
primo è un sintetico riepilogo della rivoluzione neoliberista.
Antonio legge questo processo con le lenti della lotta di classe,
dei ricchi contro i poveri. Una lettura che in larga parte condivido
anche se con qualche perplessità.
La mia impressione è che una simile lettura tenda a non
prendere in considerazione un tratto propriamente rivoluzionario
del paradosso neoliberista: la scomparsa delle classi sociali
non solo come soggetti politici ma come luoghi dell'identità
collettiva. Questo è avvenuto, e qui sta il paradosso,
di pari passo alla reale proletarizzazione della maggioranza
assoluta della popolazione mondiale. Viviamo in società
talmente polarizzate in termini di disuguaglianza delle condizioni
di vita materiali che la previsione marxiana di una società
duale sembrerebbe oggi essersi pienamente realizzata.1
A fronte di questa situazione non solo la rivoluzione non sembra
all'ordine del giorno nelle strade,2
ma neanche nei discorsi e nei comportamenti dei movimenti,
la cui combattività e il consenso di cui godono sono
inversamente proporzionali alla radicalità delle loro
istanze. Le lotte per la difesa del territorio, per il diritto
all'abitare, per i diritti dei migranti, contro la precarietà
non sono di per sé rivoluzionarie; se a volte possono
assumere forme radicali, raramente si pongono nella prospettiva
di una complessiva trasformazione sociale. Più che criticarli
dal punto di vista “nostalgico”, sarebbe più
interessante leggerli come “sintomi” degli effetti
della rivoluzione neoliberista. Dire che il neoliberismo è
la sussunzione al mercato di ogni ambito della vita, la sua
messa a valore, è retoricamente efficace ma di poca utilità
analitica. Se non altro perché rende difficile capirne
un altro tratto distintivo, l'emergere di un'umanità
superflua. Superflua perché tendenzialmente deprivata
di quel tratto che la renderebbe potenzialmente “produttiva”:
la facoltà di cooperare che costituisce come dire il
“grado zero” della vita umana.3
È un ipotesi di lavoro, niente più. Ma se questa
ipotesi ha una qualche corrispondenza con la realtà,
tutti i discorsi sulla rivoluzione (più o meno violenta),
sulla resistenza (e relative prefigurazioni eterotopiche più
o meno durature) o sull'esodo, rischiano non solo di lasciare
il tempo che trovano ma di immaginarsi un tempo che non c'è,
liquefatto insieme al “sociale”. A questo punto
potremmo interpretare i movimenti anche come espressione
sintomatica dell'entropia che sta investendo la società;
che sono sì movimenti di resistenza che prefigurano un
mondo altro ma lo fanno sulla base un sostrato “antropologico”
in via di dissoluzione. Dato che il sintomo non è
la malattia ma la sua manifestazione, leggere i movimenti in
questo modo (anche in questo modo) implicherebbe la necessità
di ripensare sia l'anarchismo “classico” che il
post-anarchismo. Che la necessità ci sia mi sembra evidente
in ciò che scrive Antonio nel suo articolo conclusivo
quando, per sottolineare la perdurante vitalità dell'anarchismo,
fa contemporaneamente riferimento al volontarismo Malatestiano
(l'arbitrarietà dell'anarchismo) e allo “spontaneismo”
antropologico di Graeber (la cooperazione e il mutuo appoggio
come sostrato universale dell'anarchismo). Ora, che si pensi
l'anarchismo come una scelta fondamentalmente arbitraria (Malatesta,
così per dire) o come antropologica realizzazione (Graeber,
tanto per non far nomi) si da comunque per scontato che esista
qualcosa come un legame sociale in grado di mediare la volontà
di libertà ed eguaglianza o altrimenti fungere da suo
più o meno “primitivo” fondamento. E se così
non fosse?
Andrea Aureli
Note
- Cf. Göran Therborn, “A New Class Politics”
in New Left Review 78 (Nov/Dic 2012), ma anche Luciano
Gallino, per esempio La lotta di classe dopo la lotta di
classe, Laterza, 2012.
- Cf. per esempio Nancy Fraser, “Crisis Politics”
in New Left Review 81 (May/June 2013).
- Sarebbe forse il caso di ricordarsi che lo Stato sociale con
le relative garanzie e tutele se da una parte è stato
frutto della combattività delle classi subalterne è
stato anche un processo che ne ha disarticolato la sociabilità.
Cf. Zygmunt Bauman, Memorie di classe, Einaudi, 1987,
per quanto riguarda il caso italiano, cf. Pino Ferraris, Ieri
e domani, Edizioni dell'asino 2011.
Il bonobo e l'anarchico
Lo scimpanzé è di destra, il bonobo è
di sinistra. Si sa. Lo scimpanzé, machista, aggressivo
e intollerante dello straniero, è il classico portatore
della mentalità Law and Order. Il bonobo no. Questa
scimmia antropomorfa, che vive in una pacifica società
matriarcale e che regola le questioni col sesso piuttosto che
con la guerra, è l'idolo della nuova sinistra etologica.
Tra l'altro, pare che non si faccia problemi di orientamento
sessuale. È curioso quali connessioni improbabili possa
attivare la lettura pressoché simultanea di libri diversissimi.
Un esempio di ciò sono proprio le riflessioni sugli animali
umanizzati che mi si sono prodotte dalla presentazione “sinottica”
di tre testi. Il primo è quello del primatologo olandese
Frans de Waal (Il bonobo e l'ateo. In cerca di umanità
fra i primati, Raffaello Cortina editore, Milano, 2013),
il secondo, uno dei tanti libri del sociologo polacco Zygmunt
Bauman (Modus vivendi. Inferno e utopia del mondo liquido,
Bari, Laterza, 2007) e, l'ultimo, un manuale di psicoterapia
(S. Sassaroli, R. Lorenzini, G.M. Ruggiero (a cura di), Psicoterapia
cognitiva dell'ansia, Raffaello Cortina, Milano, 2006).
Triade azzardata, lo so. Fatto è che il sociologo della
società liquida, Bauman, cita Isahia Berlin che, a sua
volta, riprende Archiloco. Quest'ultimo scrisse una favola intitolata
“La volpe e il riccio” la cui morale è che,
per quanto si possano conoscere molte vie e molti trucchi, come
la volpe, nulla si può contro una sola idea che funziona
(quella del riccio).
Berlin propone una rilettura del testo di Archiloco finalizzata
a caratterizzare e dividere in due gruppi gli scrittori e i
pensatori più famosi della storia, ma, in fondo, gli
uomini tutti. Platone, così, sarebbe un esponente della
squadra dei “ricci”. Questi sono coloro i quali
“riferiscono tutto a una visione centrale, a un sistema
più o meno coerente e articolato, con regole che li guidano
a capire, a pensare e a sentire – un principio ispiratore,
unico e universale, il solo che può dare un significato
a tutto ciò che essi sono e dicono». Sanno una
cosa sola, ma è quella giusta, direbbe Archiloco. Sono
guidati dall' etica del principio, direbbe, invece, il
buon vecchio Max Weber. Si tratta di quel modo di agire che
nasce da principi giusti a-priori e si preoccupa poco degli
esisti dell'azione. In parole povere, il tipo di ragionamento
di quel chirurgo che disse che l'operazione era perfettamente
riuscita, ma il paziente era deceduto. Ci sono poi le “volpi”,
come Aristotele. Questi non hanno certezze assolute e le loro
azioni non sono unificate da un principio morale o estetico.
Sono, insomma, pragmatici, talvolta incongruenti e, quindi probabilmente
più propensi ad agire in base all'etica della responsabilità,
cioè giudicando l' appropriatezza di una azione a posteriori,
sulla base dei risultati.
Berlin definisce “monismo” la prima condizione psicologica,
quella del riccio, e “pluralismo” la seconda”,
quella della volpe. Egli non esita a dare al monismo la responsabilità
di tutte le feroci dittature che hanno funestato il XX secolo.
Il monismo è fede in un principio, quindi è popperianamente
infalsificabile, è certezza. La certezza diviene sempre
zelo messianico. Lo zelo messianico produce cataste di cadaveri.
Un comportamento da scimpanzè, diciamolo. Non solo perché
strettamente legato all'intolleranza, ma perché connesso
perfino con la territorialità. Ed eccoci alla psicologia.
Berlin stesso, del resto, aveva già instaurato un parallelismo
tra monismo, che è ricerca d'unità e sicurezza,
e agorafobia, che è ricerca di un luogo chiuso
e rassicurante. Il monista è chi cerca la sicurezza.
Come l'agorafobico. Questi diffida dell'aria aperta e chiede
porte chiuse (salvo lamentare mancanza d'aria). Al contrario,
il pluralismo soffre di claustrofobia. Chiede aria, porte
aperte, luce. Il pluralista sperimenta nuove idee e nuove soluzioni.
Ciò lo porta ad essere molto più tollerante. Quello
di cui l'umanità abbisogna, dunque, probabilmente, non
è unità, perfezione, certezza, bensì scetticismo,
pluralità, vale a dire incertezza e claustrofobia. Meno
scimpanzé e più bonobo. Si, perché il bonobo
è claustrofobico.
Ipocondria securitaria e agorafobia liquida
La paura implica prudenza. Il mio manuale di psicologia definisce
“strategia iperprudenziale” quel comportamento che
i sociologi scoprono solo ora. Esiste, infatti, un chiarissimo
correlato di massa fra agorafobia di interesse clinico e i comportamenti
da angoscia sociale contemporanea. Bauman ne fa il tema del
suo libro. La società contemporanea è “ossessionata”
dal problema della sicurezza. Gli occidentali contemporanei
hanno strutturato dei circoli viziosi tali da produrre una mole
di rituali compulsivi a carattere assicurativo e preventivo
di chiara marca ossessiva. Eppure, il sociologo Robert Castel
lo dice chiaramente nella sua analisi sull'angoscia sociale:
“viviamo senza dubbio – perlomeno nei paesi sviluppati
– nelle società più sicure finora mai conosciute”.
Gli individui più viziati di ogni tempo, invece, approcciano
l'informazione mediatica con lo stesso spirito con cui un ipocondriaco
legge un testo di patologia medica. Vi trova tutte le ragioni
per sentirsi vicino all'olocausto. Terrorismo islamista, immigrazione
clandestina, microcriminalità, sono tutti segni del dramma
prossimo ed ineluttabile. Il bisogno di controllo che l'ansioso
percepisce è basato su un' idea di fondo irrazionale,
cioè che, oltre che utile, possedere il controllo sia
doveroso e, soprattutto, possibile. Si legge nel manuale che
“ciò che determina la patologia non è il
desiderio di controllare “per quanto possibile”
l'andamento delle cose, ma la certezza di poterlo fare”
. Se ne deduce che, se non si riesce a raggiungere la certezza,
si ritiene giocoforza che il problema sia il non essersi applicati
abbastanza oppure la propria incapacità. L'effetto sarà
quindi l'aumento del controllo con aumento della frustrazione
e dell'ansia. Scrive a proposito dell'ansia sociale Z. Bauman,
che psicologo non è, che “L'acuta e inguaribile
esperienza dell'insicurezza è un effetto collaterale
della convinzione che la sicurezza assoluta sia raggiungibile,
con le giuste capacità e con uno sforzo adeguato (“si
può fare”, “possiamo farcela”). E così,
se viene fuori che non ce la si è fatta, l'insuccesso
si può spiegare soltanto con un atto malvagio e malintenzionato.
In questo dramma, un cattivo ci dev'essere”. L'effetto
è l'aumento del controllo con aumento della frustrazione
e dell'ansia. la sovrapponibilità dell'osservazione del
sociologo a quella dello psicologo è totale. Qui, in
più, c'è la costruzione di quelle che in criminologia
si chiamano le “nuove classi pericolose” (immigrati
extracomunitari, soprattutto). Come si ottiene, dunque, protezione
da tutto ciò? Chiudendosi, separandosi. L'ipocondria
securitaria sfocia nell'agorafobia sociale. L'alienazione urbana
della Los Angeles descrittaci anni fa da Davis (M. Davies, L'agonia
di Los Angeles, Datanews, 1994) come vero laboratorio della
medievalizzazione dei tessuti metropolitani, con tanto di cittadelle
indipendenti, ponti levatoi, bravi prezzolati e telecamere ad
ogni angolo a definire l'avverarsi della distopia del “panoptikon”,
è ormai dilagata al resto delle metropoli. San Paolo
del Brasile ne è uno degli esempi più eclatanti,
ma la parcellizzazione armata è processo dal quale nessuna
città è immune. I muri e l'orientamento delle
telecamere distinguono “noi” da “loro”,
dividono l'ordine dalla natura selvaggia. Si tratta di una spinta
verso delle comunità di simili, allontanamento agorafobico
dall'alterità esterna e, al contempo, rinuncia all'interazione
interna, riducendosi l'interno ad essere un blob uniformato
e indifferenziato. La “comunità degli identici”
è una polizza assicurativa contro i rischi del plurale,
della polifonia del mondo esterno, ma anche, ci ricorda Berlin,
assicurazione di eccesso di zelo. Ad esempio, zelo nell'allontanare,
in base allo ius excludendi alios connesso alla proprietà.
Anarco-ricci fra inferno e utopia
In Italia certo sedicente “anarcocapitalismo” secessionista,
commistione di reazione e rivoluzione, di autodeterminazione
western e culto identitario, è l' espressione strapaesana
di questi fermenti metropolitani. Qui gli spazi da delimitare
diventano quelli di indefinite “nazioni per consenso”
(concetto mutuato dall'ultimo, contraddittorio, Rothbard), compattate
artificialmente della provinciale paura agorafobica. “Mixofobia”
è il termine utilizzato da Zygmunt Bauman per definire
questa reazione “iperprudenziale” per gestire l'ingestibile,
ossia la connaturata diversità dell'umano. Una utopia,
come tutte le utopie destinata a produrre molte infelicità,
come ben sa l'agorafobico. La mixofobia, quindi, è l'agorafobia
del mondo liquido, di quel mondo, cioè, in cui
la velocità dei processi è tale da impedire la
cristallizzazione dei fatti sociali in dati strutturali, in
cui le modalità sono cangianti e inafferrabili e nel
quale sono venute meno le agenzie collettive di sicurezza (welfare
state ecc.). Che a produrre tale forma di “chiusura a
riccio” – espressione che qui è proprio il
caso di usare - sia un aggregato di individui che si rifanno
alla cultura “libertarian” è decisamente
paradossale, visto che questa si propone quale forma estrema
e compiuta dell'idea “liberale”, un'idea, cioè,
che si fonda proprio sul confronto e la libera sperimentazione
in assenza di verità universali. Proprio la cultura liberale,
intesa come ethos, ha prodotto, con la caduta degli assoluti,
“le società più sicure di sempre”
di cui parla Castel. E la globalizzazione di cui cantano le
lodi è lo stesso fenomeno da cui si difendono. Dimentichi
del passato da volpe, i nostri “libertari” si palesano
quali ricci ben colmi di aculei e si fanno cartina di tornasole
della deriva liberale. Significativo, ed estremamente esplicativo,
notare che, al suo primo affacciarsi, sul finire degli anni
settanta, il libertarismo di mercato italiano si presentava
con una rivista intitolata Claustrofobia. Al suo ripresentarsi,
il think thank anarco-capitalista ha propagandato il proprio
pensiero, orgogliosamente politicamente scorretto, da una rivista
denominata Enclave...
La reazione allo stato di cose prodotte dalla modernità,
infatti, può essere di tipo regressivo o progressivo.
Nel primo caso, si può cadere in una romantica nostalgia
per un mondo premoderno in cui la comunità era la sicura
cornice dell'attività umana. Vi rientra lo stesso Bauman,
col suo disdegno dell'individualismo “moderno” e
la sua fiducia nel socialismo, ma, paradossalmente, e per gli
stessi motivi, anche una parte non piccolissima dell'anarchismo.
Poi c'è il sistema della volpe (e, un po', del bonobo).
Quello del pluralismo, del meticciato, del confronto, della
libera sperimentazione. Questa è l'opzione, in senso
lato, libertaria. Intendo sotto questa etichetta una concezione
trasversale che contiene ogni pensare “liquido”,
nemico, cioè, della scelerotizzazione, e che può
ritrovarsi nell'ethos anarchico come in quello liberale delle
origini. I nostri anarcocapitalisti “paleolibertari”
(così si chiamano), pur affermando di richiamarsi a quell'ethos,
sia in quanto “anarchici”, sia in qualnto “liberali”,
rischiano spesso di utilizzare la prima delle due scelte proposteci
da Italo Calvino nel suo Le città invisibili:
Due modi ci sono per non soffrire. Il primo riesce facile
a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto
di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed
esige attenzione e apprendimento continui: cercare e sapere
riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno,
e farlo durare, e dargli spazio.
Affiancare secessionismo para-leghista, mixofobia, urbanistica
securitaria privata, rivolta fiscale e integralismo cattolico
è sicuramente la scelta di diventare parte dell'inferno.
Forse di alimentarlo. La seconda opzione spetta a chi non vuole
contribuire a questa causa. Coloro, poi, che vogliono sostituire
all'inferno il paradiso seguendo scrupolosamente il loro catechismo
non fanno che denunciare il loro monismo. Hanno una soluzione
sola, ma è quella giusta, quindi essi sono l'inferno.
Ricci e volpi possono non essere così riconoscibili al
primo sguardo. E fino a pochi anni fa il bonobo era considerato
una specie di scimpanzè.
Luigi Corvaglia
Casarano (Le)
Arrestati no-Tav/Chi non volta lo sguardo
Ospitiamo qui due lettere, relative alle vicende giudiziarie
e carcerarie di quattro arrestati lo scorso dicembre per episodi
connessi con la lotta no-Tav in val di Susa nel maggio 2013.
Una l'hanno scritta i familiari di Chiara Zenobi, Claudio Alberto,
Niccolò Blasi e Mattia Zanott, l'altra tre loro avvocati.
I familiari/Un Paese in crisi di credibilità
In queste settimane avete sentito parlare di loro. Sono le persone
arrestate il 9 dicembre con l'accusa, tutta da dimostrare, di
aver assaltato il cantiere Tav di Chiomonte. In quell'assalto
è stato danneggiato un compressore, non c'è stato
un solo ferito. Ma l'accusa è di terrorismo perché
“in quel contesto” e con le loro azioni presunte
“avrebbero potuto” creare panico nella popolazione
e un grave danno al Paese. Quale? Un danno d'immagine. Ripetiamo:
d'immagine. L'accusa si basa sulla potenzialità di quei
comportamenti, ma non esistendo nel nostro ordinamento il reato
di terrorismo colposo, l'imputazione è quella di terrorismo
vero e volontario. Quello, per intenderci, a cui la memoria
di tutti corre spontanea: le stragi degli anni 70 e 80, le bombe
sui treni e nelle piazze e, di recente, in aeroporti, metropolitane,
grattacieli. Il terrorismo contro persone ignare e inconsapevoli,
che uccideva, che, appunto, terrorizzava l'intera popolazione.
Al contrario i nostri figli, fratelli, sorelle hanno sempre
avuto rispetto della vita degli altri. Sono persone generose,
hanno idee, vogliono un mondo migliore e lottano per averlo.
Si sono battuti contro ogni forma di razzismo, denunciando gli
orrori nei Cie, per cui oggi ci si indigna, prima ancora che
li scoprissero organi di stampa e opinione pubblica. Hanno creato
spazi e momenti di confronto. Hanno scelto di difendere la vita
di un territorio, non di terrorizzarne la popolazione. Tutti
i valsusini ve lo diranno, come stanno continuando a fare attraverso
i loro siti. È forse questa la popolazione che sarebbe
terrorizzata? E può un compressore incendiato creare
un grave danno al Paese?
Le persone arrestate stanno pagando lo scotto di un Paese in
crisi di credibilità. Ed ecco allora che diventano all'improvviso
terroristi per danno d'immagine con le stesse pene, pesantissime,
di chi ha ucciso, di chi voleva uccidere. È un passaggio
inaccettabile in una democrazia. Se vincesse questa tesi, da
domani, chiunque contesterà una scelta fatta dall'alto
potrebbe essere accusato delle stesse cose perché, in
teoria, potrebbe mettere in cattiva luce il Paese, potrebbe
essere accusato di provocare, potenzialmente, un danno d'immagine.
È la libertà di tutti che è in pericolo.
E non è una libertà da dare per scontata.
Per il reato di terrorismo non sono previsti gli arresti domiciliari
ma la detenzione in regime di alta sicurezza che comporta l'isolamento,
due ore d'aria al giorno, quattro ore di colloqui al mese. Le
lettere tutte controllate, inviate alla procura, protocollate,
arrivano a loro e a noi con estrema lentezza, oppure non arrivano
affatto. Ora sono stati trasferiti in un altro carcere di Alta
Sorveglianza, lontano dalla loro città di origine. Una
distanza che li separa ancora di più dagli affetti delle
loro famiglie e dei loro cari, con ulteriori incomprensibili
vessazioni come la sospensione dei colloqui, il divieto di incontro
e in alcuni casi l'isolamento totale. Tutto questo prima ancora
di un processo, perché sono “pericolosi”
grazie a un'interpretazione giudiziaria che non trova riscontro
nei fatti.
Questa lettera si rivolge:
ai giornali, alle Tv, ai mass media, perché recuperino
il loro compito di informare, perché valutino tutti gli
aspetti, perché trovino il coraggio di indignarsi di
fronte al paradosso di una persona che rischia una condanna
durissima non per aver trucidato qualcuno ma perché,
secondo l'accusa, avrebbe danneggiato una macchina o sarebbe
stato presente quando è stato fatto;
agli intellettuali, perché facciano sentire la loro voce.
Perché agiscano prima che il nostro Paese diventi un
posto invivibile in cui chi si oppone, chi pensa che una grande
opera debba servire ai cittadini e non a racimolare qualche
spicciolo dall'Ue, sia considerato una ricchezza e non un terrorista;
alla società intera e in particolare alle famiglie come
le nostre che stanno crescendo con grande preoccupazione e fatica
i propri figli in questo Paese, insegnando loro a non voltare
lo sguardo, a restare vicini a chi è nel giusto e ha
bisogno di noi.
Grazie.
I familiari di Chiara, Claudio, Mattia
e Niccolò
Gli avvocati/Trattamento inumano e degradante
Chiara Zenobi, Claudio Alberto, Niccolò Blasi e Mattia
Zanotti, i giovani No Tav arrestati all'inizio di dicembre 2013
e accusati dell'assalto al cantiere dell'alta velocità
di Chiomonte, avvenuto il 13-14 maggio 2013, sono stati trasferiti
nelle scorse settimane dal carcere di Torino nei reparti ad
Alta sicurezza delle case circondariali di Roma, Ferrara e Alessandria.
Il regime detentivo a cui sono attualmente sottoposti è
più rigido rispetto a quello previsto per gli altri detenuti
in regime di Alta sicurezza, che prevede già, come è
noto, una forte attenuazione delle opportunità trattamentali
ed un regime di socialità specifico e più ridotto
rispetto a quello dei detenuti definiti “normali”.
Nessuno di loro ha la possibilità di avere colloqui con
i rispettivi conviventi. La loro posta in entrata e uscita è
sottoposta a censura.
Nonostante fino a poche settimane si incontrassero regolarmente
in sezione e ai colloqui con i difensori, Blasi e Zanotti hanno
attualmente un divieto di incontro tra loro. Questo divieto
ha come conseguenza una sensibile riduzione delle loro ore d'aria
(visto che sono costretti a farle a turno), che da sei sono
diventate tre.
Claudio Alberto si trova nella situazione più preoccupante.
A causa del divieto di incontro con due dei tre detenuti presenti
nella sezione ad Alta sicurezza, e della scelta del terzo di
svolgere la socialità unitamente agli altri due, Claudio
Alberto, dalla data del suo trasferimento, avvenuto a fine gennaio,
si trova in una situazione di completo isolamento, tanto più
grave se si pone mente alla sua giovane età e alla circostanza
che si tratta della sua prima esperienza carceraria.
In più occasioni la Corte europea dei diritti dell'uomo
e il Comitato europeo per la prevenzione contro la tortura hanno
sostenuto che l'isolamento carcerario, in considerazione della
grave sofferenza psichica che ne deriva, può configurare
un un trattamento inumano e degradante che viola l'art. 3 della
convenzione europea dei diritti dell'uomo. Perché ciò
non si verifichi, tale misura deve essere contenuta nel tempo
(non superare mai i 14 giorni), essere giustificato da comportamenti
straordinari e specifici del soggetto e non essere totale, vale
a dire che non è possibile vietare al detenuto qualsiasi
contatto sociale con gli altri soggetti ristretti in carcere.
L'isolamento e le altre restrizioni a cui sono sottoposti i
nostri assistiti vengono giustificate dalla Procura di Torino
con ragioni investigative, che, peraltro, nessuna autorità
giudiziaria si è preoccupata di vagliare e verificare.
Ma l'ordinamento penitenziario, all'art. 33, ammette l'isolamento
degli imputati solo durante la fase delle indagini. Nel nostro
caso, le indagini sono da tempo concluse e gli imputati sono
stati già rinviati a giudizio per il dibattimento, fissato
per il prossimo 14 maggio.
Il regime detentivo a cui sono attualmente sottoposti gli imputati
si risolve in un inasprimento generalizzato del grado di afflittività
della misura cautelare a loro imposta e in una compressione
dei loro diritti, in contrasto con l'insegnamento della Corte
di cassazione, che ha più volte affermato come sia “principio
di civiltà che a colui che subisce una restrizione carceraria
... sia garantita quella parte di diritti della personalità
che neppure la pena detentiva può intaccare”.
Avvocati Eugenio Losco, Claudio Novaro,
Giuseppe Pelazza
Torino – Milano, 19 febbraio 2014
I
nostri fondi neri
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Sottoscrizioni. Biblioteca Comunale (Fino
Mornasco – Co) 40,00; Aurora e Paolo (Milano)
ricordando Amelia Pastorello e Alfonso Failla, 500,00;
Carlo Capuano (Roma) 45,00; Attilio A. Aleotti (Pavullo
nel Frignano – Mo) 10,00; Fulvio Casara (Venasca
– Cn) 10,00; Santi Rosa (Novara) 10,00; Saverio
Nicassio (Bologna) 10,00; Claudio Stocco (Saonara
– Pd) 10,00; Alessandro Natoli (Cogliate –
Mb) 10,00; Dino Delcaro (San Francesco al Campo –
To) 10,00; Sergio Pozzo (Arignano – To) 10,00;
Danilo Vallauri (Dronero – Cn) 10,00; Gualtiero
Mannelli (Pistoia) 10,00; Maria Teresa Giorgi Pierdiluca
(Senigallia – An) 10,00; Aldo Curziotti (San
Andrea Bagni – Pr) 20,00; Luigi Vivan (San Bonifacio
– Vr) 10,00; Gianni Ricchini (Verbania) 10,00;
Marvi Maggio (Firenze) 40,00; Romeo Muratori (Rimini)
20,00; Roberto Barison (Montechiaro d'Asti –
At) 50,00; Davide Giovine (Luserna San Giovanni –
To) 15,00; Giuseppe Galzerano (Casalvelino Scalo –
Sa) 40,00; Franco Frascolla (Olgiate Molgora –
Lc) 150,00; Giorgio Bigongiari (Lucca) 10,00; Pietro
Steffenoni (Lodi), 40,00; Mirko Piras (Nulvi –
Ss) 10,00; Alberto Ciampi (San Casciano Val di Pesa
– Fi) 20,00; Collettivo d'Agraria dell'Università
(Firenze) 10,00; Rino Quartieri (Zorlesco –
Lo) 100,00; Libreria San Benedetto (Genova Sestri
Ponente) 4,70; Milena Morniroli (Clermont-Ferrand
– Francia) ricordando Paolo, Marina e Fiorenzo,
100,00; Davide Gherardi (Blogna) 20,00; Pasquale Messina
(Milano) “ricordando mio padre”, 50,00.
Totale € 1.374,70.
Abbonamenti sostenitori. (quando non altrimenti
specificato, trattasi di euro 100,00). Carlo
Brunati (Como); Giuseppe Lo Piccolo (Pully –
Svizzera); Francesco Barba (Villanuova sul Clisi –
Bs) 200,00; Roberto Panzeri (Valgreghentino –
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– Lc) ricordando Pierluigi Magni e Franco Pasello,
saluti a tutti: amore, antimilitarismo, antiautoritarismo,
anticlericalismo, autogestione; Gianluigi Tartaull
(Ravenna); Lucio Brunetti (Campobasso); Michele Pisicchio
(Roma); Michele Piccolrovazzi (Rovereto – Tn);
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Ap); Luca Vitone (Milano); Claudio Venza (Trieste);
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Ra); Andrea Pasqualini (Vestenanuova – Vr);
Oreste Roseo (Savona) ricordando Umberto Marzocchi,
Ugo Mazzucchelli e Mario Mantovani, 150,00. Totale
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