antifascismo
anarchico
Dagli
articoli pubblicati nelle pagine 5-12 di questo numero della
rivista si può avere una idea di come gli anarchici abbiano
inteso e condotto la lotta contro il fascismo, dal suo nascere
alla sua caduta. Dalle vicende dei giovani anarchici Marini
di Salerno (cf., sempre su questo numero, gli articoli di pag.3
e 4) e Gaviglio di Vercelli, si può vedere che la combattività
degli anarchici nei confronti delle carogne squadriste non è
solo ricordo d'altri tempi. Il primo ha mandato un teppista
di Almirante al cimitero, il secondo ne ha mandato un altro
all'ospedale.
Quello che è necessariamente mutato rispetto a cinquant'anni
fa è l'importanza attribuita al fascismo e dunque alla
lotta contro di esso. Allora, giustamente, gli anarchici si
opposero al fascismo con tutte le loro forze e con tutto il
loro coraggio, perché vedevano in esso il principale
nemico tattico, perché avevano compreso la sua funzione
controrivoluzionaria. L'avevano addirittura prevista, questa
funzione. Malatesta, nel '20, esortando gli operai a non disarmare
e a non lasciare le fabbriche occupate li ammoniva che avrebbero
pagato molto cara la paura fatta alla borghesia. Il fascismo
infatti negli anni '20 espresse in modo ferocemente efficiente
la risposta impaurita dei padroni alla rivoluzione mancata del
primo dopoguerra (mancata per il tradimento vergognoso di socialisti
e della C.G.L.). La paura era stata grande e grande doveva essere
il giro di vite restauratore dell'“ordine”: il fascismo
appunto.
Oggi la cosiddetta “svolta reazionaria” risponde
ad una piccola paura dei padroni, all'exploit extraparlamentare
degli studenti ed al risveglio extra-sindacale di alcuni settori
operai ed infatti sono bastati un Andreotti ed un centro destra.
Né è prevedibile un ulteriore spostamento a destra
dell'asse politico; anzi, appena l'economia nazionale accennerà
ad uscire decisamente dalla crisi, probabilmente si avrà
di nuovo uno spostamento “a sinistra”. Il neofascismo
non è e non può essere una prospettiva politica
perseguita altro che da gruppi economici minori e circoscritti
geograficamente. I padroni che contano (nell'industria privata
ed in quella pubblica e mista) vedono i loro interessi validamente
rappresentati dai cosiddetti partiti dell'arco costituzionale.
Oggi dunque il fascismo in Italia non costituisce un reale pericolo,
ma solo un fastidio. I mazzieri del M.S.I. ed i dinamitardi
della destra ultrà svolgono un ruolo para-poliziesco
ausiliario ed occasionale in funzione di provocazione e di terrorismo
spicciolo. Essi sono strumenti non tanto di un rinascente fascismo
quanto della pseudo democrazia dominante. Il M.S.I. - Destra
Nazionale è dunque un falso obiettivo, attaccando il
quale si disperdono forze preziose e si fa il gioco del sistema
che per l'appunto ha interesse a deviare su falsi obiettivi
le tensioni sociali e la combattività delle minoranze
ribelli, che ha interesse a reinventare un “estremismo
di destra” per contrapporlo all'“estremismo di sinistra”
annullandoli algebricamente.
Solo l'affannosa ricerca di temi pubblicitari demagogici può
spiegare il “boom” della tematica anti-missina nella
sinistra extraparlamentare che scimmiotta l'antifascismo parlamentare
di maniera. Gli anarchici non cercano fasulle adesioni “di
massa” sollecitate agitando fantasmi di sicura presa sentimentale
(giustamente e fortunatamente i proletari italiani non hanno
dimenticato l'odio per il fascismo).
Nel trentennale della Resistenza gli anarchici si rifiutano
di unirsi al coro delle trombe antifasciste che con il loro
clamore retorico “democraticista” coprono le dissonanze
dello sfruttamento e dell'oppressione reale di oggi.
Allo stesso modo, per quanto riguarda i miserabili picchiatori
e provocatori neofascisti, gli anarchici non hanno tempo ed
energie da perdere per dare la caccia ai topi di fogna, purché
però non li molestino direttamente. Altrimenti, Salerno
e Vercelli insegnano.
|
Tornati chi dall'esilio, chi dal confine e dalla galera,
gli anarchici parteciparono attivamente alla resistenza partigiana
armata contro i nazi-fascisti. Solo in alcune località
(Carrara, Milano, ecc.) furono costruite formazioni dichiaratamente
anarchiche, che oltre alla lotta armata svolsero opera di propaganda
rivoluzionaria |
gli anarchici contro il fascismo
Nelle pagine che seguono sono ricordati alcuni episodi della
resistenza opposta dagli anarchici al fascismo, con particolare
riguardo alla lotta contro lo squadrismo delle camicie nere
all'inizio degli anni '20 ed alla resistenza armata contro i
nazifascisti (1943-45). Alcuni episodi, dicevamo: non pretendiamo
infatti in queste poche pagine di fare la storia della resistenza
anarchica al fascismo né di segnalarne tutte le fasi
salienti. Tanto più che noi stessi della redazione ci
troviamo costretti, per ragioni di spazio o per eccessiva frammentarietà,
a non pubblicare tutte le testimonianze e le informazioni che
ci sono giunte da compagni di molte regioni italiane.
Vogliamo sottolineare inoltre che è difficile inquadrare
questi episodi in uno schema storico preciso, per il semplice
motivo che tale storia non è mai stata scritta. Siamo
certi comunque che scavando accuratamente nel passato, ricercando
documenti e pubblicazioni dell'epoca raccogliendo altre preziose
testimonianze di chi allora visse e combatté contro il
fascismo, sarebbe possibile riportare alla luce altri episodi
di lotta, altre figure di compagni. Il nostro scopo è
semplicemente quello di contribuire a rompere quel “muro
del silenzio” che circonda la partecipazione degli anarchici
a quella lotta antifascista che la falsa retorica della Repubblica
Conciliare vorrebbe attribuire solo alle forze rappresentate
in Parlamento.
Nel '20 gli anarchici in Italia erano una forza rivoluzionaria
con cui si dovevano fare i conti, una forza con cui dovevano
fare i conti padroni, governo e fascisti. Essi avevano un quotidiano,
Umanità Nova, che tirava cinquantamila copie e
numerosi periodici. L'U.S.I., il sindacato rivoluzionario influenzato
dagli anarchici (segretario ne era l'anarchico Armando Borghi),
contava centinaia di migliaia di iscritti.
Dopo il fallimento dell'occupazione delle fabbriche, gli anarchici
riconoscendo nel fascismo la “contro-rivoluzione preventiva”
(come la definì bene Luigi Fabbri) con cui i padroni
avrebbero cercato di impedire il ripetersi di una situazione
pre-rivoluzionaria, gettarono tutte le loro energie nella mischia
contro il giovane ma già robusto figlio bastardo del
capitalismo. La volontà ed il coraggio degli anarchici
non potevano però bastare di fronte allo squadrismo,
potentemente dotato di mezzi e di armi e spalleggiato dagli
organi repressivi dello stato. Tanto più che anarchici
ed anarcosindacalisti erano presenti in modo determinante solo
in alcune località ed in alcuni settori produttivi. Soltanto
una analoga scelta di scontro frontale da parte del Partito
Socialista e della Confederazione Generale del Lavoro avrebbe
potuto fermare il fascismo.
il
disfattismo riformista
Purtroppo la politica disfattista, capitolarda del Partito e
del sindacato riformisti, che già aveva ostacolato lo
sviluppo rivoluzionario e dunque contribuito al fallimento dell'occupazione
delle fabbriche, seminò confusione ed incertezza nel
movimento operaio in un momento che già era per molti
aspetti di riflusso delle lotte. E questo proprio di fronte
al moltiplicarsi ed aggravarsi delle violenze fasciste, soprattutto
dopo il '21.
Ovunque in Italia le squadracce di Mussolini assaltavano le
sedi politiche, le redazioni, i militanti più attivi,
tutto quanto “puzzasse” di “sovversivo”.
Lo stato liberale fu diretto complice sia delle attività
criminali sia dell'intera strategia politica del fascismo nella
comune lotta contro la combattività dei lavoratori.
Pur essendo essi stessi vittime delle violenze squadriste, i
socialisti si limitarono a denunciare le “illegalità”
fasciste, senza dedicare tutte le loro energie alla lotta popolare
rivoluzionaria contro il terrorismo padronale. Non solo, ma
il PSI giunse al punto di stipulare con i fascisti un Patto
di Pacificazione (agosto 1921) che contribuì a disarmare
il movimento operaio sia psicologicamente sia materialmente,
nel momento stesso in cui si intensificavano le violenze squadriste
(che continuarono a crescere... in barba al patto!).
Quello che ci interessa sottolineare è che, mentre i
vertici politici sindacali invitavano alla “calma”
e alla non violenza, furono gli stessi lavoratori, organizzatisi
autonomamente, a dare alcune storiche lezioni ai fascisti. Le
insurrezioni di Sarzana (luglio '21) e di Parma (agosto '22)
sono due esempi della validità della linea politica sostenuta
dagli anarchici, allora, sulla stampa e nelle lotte: contro
il disfattismo delle burocrazie riformiste, gli anarchici sostenevano
infatti l'urgente necessità di battere con la lotta il
movimento fascista, stimolando la combattività dei lavoratori.
Coerentemente con questo programma gli anarchici si batterono
sino in fondo senza quei tentennamenti e quella ricerca di compromessi
che caratterizzarono l'attività dei socialisti. Significativa
al riguardo la differente posizione assunta da socialisti e
comunisti da una parte ed anarchici dall'altra, di fronte al
movimento degli Arditi del Popolo.
|
1933 – un foglio del Bollettino delle ricerche dei
sovversivi: i primi due in alto sono gli anarchici Bonora e
Baldi. Quasi presagendo il fenomeno fascista, gli anarchici
avevano invitato gli operai a non mollare durante l'occupazione
delle fabbriche (settembre 1920), poiché la grande paura
fatta passare alle classi dominanti sarebbe stata da loro duramente
pagata. La «controrivoluzione preventiva» del fascismo
confermò presto le previsioni degli anarchici, sbaragliando
in breve tempo l'intero movimento operaio italiano |
gli
arditi del popolo
Questo movimento, sorto nel 1920 per iniziativa di elementi
eterogenei, si sviluppò rapidamente assumendo caratteristiche
marcatamente antifasciste ed antiborghesi, e fu caratterizzato
da un marcato decentramento autonomo delle organizzazioni locali.
Gli Arditi del Popolo assunsero quindi colorazioni politiche
talvolta differenti da un posto all'altro, ma sempre li accomunò
la coscienza della necessità di organizzare il popolo
per resistere violentemente alla violenza delle camicie nere.
Gli anarchici aderirono entusiasticamente alle formazioni degli
Arditi e spesso ne furono i promotori individualmente o collettivamente;
per restare ai due episodi già accennati basti pensare
che in maggioranza anarchici furono i difensori di Sarzana e
che a Parma, fra le famose barricate erette per resistere agli
assalti delle squadracce di Balbo e Farinacci, ve n'era una
tenuta dagli anarchici.
Completamente diverso fu l'atteggiamento sia dei socialisti
sia dei comunisti (questi ultimi costituitisi in partito nel
gennaio 1921). Nonostante la vasta e spontanea adesione di molti
loro militanti agli Arditi del Popolo, entrambe le burocrazie
partitiche presero le distanze e cercarono di sabotare lo sviluppo
di quel movimento. Gli organi centrali del neonato P.C. d' I.
giunsero al punto di imporre ai propri iscritti di evitare qualsiasi
contatto con gli Arditi, contro i quali fu imbastita anche una
campagna di stampa a base di falsità e di calunnie. Intervistato
pochi mesi fa alla televisione il comunista Umberto Teraccini
ha cercato ancora di giustificare quella scelta politica. E
ancora oggi noi, come già cinquant'anni fa i nostri compagni,
vediamo proprio in quella scelta un esempio tipico della volontà
comunista di subordinare la lotta antifascista alla coincidenza
con le proprie mire di egemonia sul movimento operaio. È
evidente che questa dura critica alla politica dei vertici dei
partiti di sinistra di fronte alle violenze fasciste non coinvolge
i militanti di base, che - anche se su posizioni da noi molto
differenti - dettero il loro contributo di lotta e di sangue
alla lotta contro il fascismo.
Il disfattismo social-riformista ed il settarismo comunista
resero impossibile una opposizione armata generalizzata e perciò
efficace al fascismo ed i singoli episodi di resistenza popolare
non poterono unificarsi in una strategia vincente.
il confino
e l'esilio
Gli anarchici che, in prima fila nella resistenza al fascismo,
s'erano esposti generosamente senza calcoli personali o di partito,
subirono più duramente degli altri antifascisti (in proporzione
alle forze) le violenze squadriste prima e quelle legali poi.
All'incendio delle sedi anarchiche e delle sezioni U.S.I., alle
devastazioni di tipografie e redazioni, agli ammazzamenti, seguirono
i sequestri, gli arresti, il confino.... Ai superstiti, perseguitati,
disoccupati, provocati, spiati, non restava che la via dell'esilio.
Si può dire che nel ventennio fascista ben pochi militanti
anarchici (esclusi gli incarcerati ed i confinati) rimasero
in Italia e quei pochi guardati a vista ed impossibilitati per
lo più anche a svolgere attività clandestina.
Continuano singoli episodi di ribellione a testimoniare, nonostante
tutto, l'indomabilità dello spirito libertario. Bastano
alcuni esempi.
Il 21 ottobre 1928, l'anarchico Pasquale Bulzamini, a Viareggio,
mentre rincasa, viene aggredito da un gruppo di fascisti e ferocemente
bastonato. In un caffè, aveva poco prima deplorato la
fucilazione dell'antifascista Della Maggiora. Muore tre giorni
dopo, all'ospedale.
Il 7 ottobre 1930, il compagno Giovanni Covolcoli spara contro
il Podestà e il segretario del suo paese - Villasanta
(Milano) - che lo hanno a lungo perseguitato fino a farlo internare
nel manicomio. Riconosciuto sano di mente e rilasciato in libertà,
ha voluto vendicarsi contro i suoi tenaci persecutori.
Nell'aprile del 1931, a La Spezia, il giovane anarchico Doro
Raspolini spara alcuni colpi di rivoltella contro l'industriale
fascista De Biasi per vendicarsi contro uno dei maggiori responsabili
dell'assassinio di suo padre, Dante, attivo anarchico, massacrato
nel 1921 a Sarzana colpito da innumerevoli revolverate e da
21 colpi di pugnale e quindi - legato ancor prima che morisse
ad un'automobile - era stato così trascinato per diversi
chilometri). Doro Raspolini muore nelle carceri di Sarzana in
conseguenza delle sofferenze e torture inflittegli dai fascisti.
Il 16 aprile 1931, i compagni Schicchi, Renda e Gramignano vengono
condannati dal Tribunale Speciale, a Roma, rispettivamente ad
anni 10, 8 e 6 di reclusione. Erano imputati di essere rientrati
dall'estero per svolgere attività contro il fascismo.
la
resistenza
Il '43 vede dunque gli anarchici della generazione pre-fascista
sparsi tra esilio, confino e galere. Poche tracce sono rimaste
dell'influenza anarchica ed anarco-sindacalista. I pochi militanti
liberi dapprima e gli ex confinati poi riprendono con immutato
vigore i loro posti di combattimento, chi nella lotta armata,
chi nell'organizzazione della resistenza operaia, chi nella
propaganda clandestina al nord e semi-clandestina al sud, nelle
zone “liberate” (si fa per dire), dove gli alleati
non concedono la libertà di stampa agli anarchici, preoccupati
(giustamente dal loro punto di vista) che la lotta antitedesca
ed antifascista potesse diventare rivoluzione sociale.
Per quanto riguarda la partecipazione degli anarchici alla lotta
armata partigiana, essa avvenne per lo più all'interno
di formazioni politicamente miste. Solo in quelle poche località
in cui la presenza di anarchici e simpatizzanti era nonostante
tutto sufficientemente numerosa, i compagni organizzarono formazioni
proprie, inquadrate però anch'esse, spesso a seconda
della situazione locale, nelle divisioni Garibaldi (controllate
dai comunisti), Matteotti (socialisti) e Giustizia
e Libertà (espressione dei “liberal-socialisti”
del Partito d'Azione).
La mancata autonomia (che quasi sempre, dati i rapporti di forza,
significò dipendenza) dalle formazioni partigiane partitiche
fu dovuta non solo alla quasi generale esiguità numerica
del superstite movimento anarchico, ma anche al fatto che gli
alleati si rifiutavano (sempre giustamente, dal loro punto di
vista) di rifornire di armi e munizioni le formazioni anarchiche.
In questo contesto il valore e spesso l'estremo sacrificio di
tanti anarchici furono sfruttati da altre forze politiche e
poterono così servire ben poco alla radicalizzazione
rivoluzionaria del movimento partigiano. Scarsa risultò
in definitiva l'influenza politica anarchica nella Resistenza,
che venne incanalata dai partigiani ufficiali (dai liberali
ai comunisti) verso quella squallida restaurazione “democratica
borghese” che è ancor oggi sotto i nostri occhi.
Gli
attentati a Mussolini
La
lotta al fascismo, come abbiamo visto, si risolveva molte
volte in azioni individuali, azioni pagate con la vita.
Ricordiamo qui brevemente i tre nostri eroici compagni:
Gino Lucetti, Angelo Sbardellotto e Michele Schirru. Essi
tentarono la via individuale per giustiziare quel maiale
di Mussolini, ma sfortunatamente non ci riuscirono.
Il primo tentativo (1926) non riuscì proprio
per sfortuna (la bomba di Lucetti finì oltre la
macchina del boia); Lucetti fu processato con i complici
(anch'esse anarchici) Stefano Vatteroni e Leonardo Sorio:
Lucetti fu condannato a trent'anni, gli altri a sette
e sedici anni. Gli altri due tentativi purtroppo non ebbero
nemmeno esecuzione pratica per l'arresto preventivo sia
di Schirru (1931) che di Sbardellotto (1932). Questi ultimi
due dopo un processo sommario furono entrambi fucilati.
La sorte di Lucetti fu anch'essa tragica: liberato
nel 1943, dopo la caduta del fascismo, morì sotto
un bombardamento appena uscito dal carcere!
Particolarmente significativo il “Testamento”
di Michele Schirru, in cui l'anarchico sardo racconta
la sua maturazione politica e spiega le ragioni di ordine
morale e politico che l'hanno convinto della necessità
di eliminare il “duce”.
|
I cavalieri erranti
La
diaspora dell'esilio non ferma la lotta antifascista
Primissimo pensiero degli anarchici nell'esilio fu la stampa
per continuare anche dall'estero gli attacchi al regime fascista.
Il I maggio del '23 esce a Parigi “La voce del profugo”,
ed il 3 giugno il quindicinale “Il profugo”.
Cominciarono intanto le provocazioni criminali dei fascisti:
il 3 settembre a Parigi il giovane anarchico Mario Castagna
viene aggredito da una banda di fascisti e nella colluttazione
contro i suoi aggressori ne uccide uno.
Pochi mesi dopo, il 20 febbraio 1924, il giovane anarchico Ernesto
Bonomini uccide, in un ristorante di Parigi, con alcuni colpi
di rivoltella, il gerarca fascista Nicola Bonservizi, segretario
dei fasci all'estero, corrispondente del “Popolo d'Italia”
e redattore del giornale fascista di Parigi “L'Italie
Nouvelle”. Il nostro compagno dichiarerà di aver
voluto protestare contro i delitti impuniti dei fascisti e dei
loro complici. Verrà condannato a otto anni di galera.
Un altro giornale vedrà la luce il Primo Maggio, sempre
a Parigi, a cura di compagni italiani: “L'Iconoclasta”;
inoltre sempre in quell'anno alcuni anarchici danno vita ad
un giornale clandestino intitolato “Compagno, ascolta!”
dove vengono date indicazioni per una lotta energica e spietata,
nell'eventualità di una insurrezione in Italia.
Dopo pochi giorni dal delitto Matteotti si costituisce a Parigi
un comitato animato dagli anarchici e che darà vita in
seguito ad un'altro giornale dal titolo “Campane a stormo”,
la cui redazione verrà affidata al compagno Alberto Meschi.
Per il delitto Matteotti gli anarchici italiani in Francia danno
inizio anche ad una campagna nazionale generale che culmina
nella distribuzione di migliaia e migliaia di volantini in cui
vengono denunciati i crimini dei fasci (luglio 1924).
Durante l'anno 1925 gli anarchici italiani continuano la loro
attività antifascista, mentre prosegue la pubblicazione
di giornali e riviste; basterà qui ricordare “La
tempra” e “Il monito”.
In questi anni le persecuzioni, le privazioni di ogni genere,
le più vili angherie nei confronti degli anarchici continuano
da parte di agenti fascisti in Francia.
Comunque essi non si piegarono. Proprio in quei giorni (11 ottobre
1927) Luigi Fabbri, insegnante, dopo essersi rifiutato di prestare
giuramento al fascismo ed essere riuscito a rifugiarsi in Francia,
pubblica a Parigi, con Berneri e Gobbi, il giornale “Lotta
umana”.
Continuano intanto le persecuzioni e gli arresti e le espulsioni.
Nel marzo del 1928 a Parigi viene arrestato il compagno Pietro
Bruzzi; altri due compagni Carlotti e Centrone (che morirà
valorosamente in Spagna) vengono prima arrestati e dopo espulsi.
La risposta il più delle volte è opera di coraggiosi
militanti che agiscono sempre in via individuale. Il 22 agosto
a Saint-Raphael (Francia) il console, noto fascista, marchese
Di Mauro viene fatto segno di un attentato. Pochi mesi dopo,
l'8 novembre, il giovane anarchico Angelo Bartolomei, con un
colpo di rivoltella, uccide il prete fascista don Cesare Cavaradossi.
Questi, vice Console, gli aveva proposto, per evitare l'espulsione
dalla Francia, di tradire i compagni e di diventare suo confidente.
Il Bartolomei riesce a fuggire da Nancy e a rifugiarsi in Belgio,
dove però verrà arrestato nel gennaio del 1929.
Anche in altri paesi gli anarchici italiani continuano a subire
persecuzioni ed arresti per la loro attività antifascista.
Nel luglio del 1928 in Belgio l'anarchico Gasperini ricorre
allo sciopero della fame per ribellarsi all'estradizione chiesta
dal governo italiano (aveva ferito assieme ad altri compagni,
alcuni fascisti nel 1921). Il governo belga concederà
invece l'estradizione del compagno Carlo Locati.
L'espulsione è una sorte che colpirà moltissimi
compagni. Infatti pochi mesi dopo, il 13 agosto, a Liegi, il
compagno Gigi Damiani viene prima arrestato e poi espulso (Tunisia).
A questa ondata di persecuzioni che vede gli anarchici italiani
colpiti sempre in prima fila, il movimento cerca di rispondere
come può.
Ormai, però, diventa difficile anche la pura sopravvivenza,
per le continue espulsioni che colpiscono chiunque faccia una
energica attività antifascista: nel gennaio del '29 i
compagni Gobbi, Berneri, Fabbri e Fedeli, in seguito alle forti
pressioni del governo italiano, vengono arrestati a Parigi e
condotti alla frontiera con il Belgio. È questo l'inizio
della Odissea di Berneri e di tanti altri compagni. Arrestati
in una parte ed espulsi, non resta che cambiar nome e attività,
attraverso la Francia, il Belgio, il Lussemburgo, la Svizzera,
sempre braccati e senza posa.
Nel settembre del 1929 a Saarbrucken (Germania) il giovane anarchico
Enrico Manzoli (Morano), aggredito da un gruppo di fascisti
appartenenti ai “caschi di acciaio”, si difende
e ne uccide uno. Altri anarchici, però, cadranno sotto
i colpi dei fascisti: nel gennaio del 1930, a Nizza, è
ucciso da un ex-carabiniere il compagno Vittorio Diana, a causa
del suo intransigente atteggiamento in occasione delle manifestazioni
fasciste per l'inaugurazione di un gagliardetto. Pochi mesi
prima era morto in seguito ai patimenti e privazioni, presso
Parigi il giovane anarchico Malaspina, braccato senza posa dalle
polizie di vari paesi. Era stato imputato di aver lanciato una
bomba contro la Casa del fascio di Juan-les-pins. Assolto per
insufficienza di prove, era stato in prigione e più volte
torturato.
Il 1929 vede gli anarchici ancora in prima fila nella lotta
al fascismo, anche se tale lotta è affidata, data la
scarsità pressoché totale di mezzi, alla sola
volontà e al solo coraggio. Nel giugno del 1929 i compagni
raccolti attorno alla redazione della rivista “Lotta Anarchica”,
fanno arrivare in Italia, clandestinamente, un giornale di piccolo
formato e stampato su carta velina.
Si tenta anche di passare all'azione: nell'agosto dello stesso
anno l'anarchico Paolo Schicchi (compie in quell'anno 65 anni!)
si imbarca dalla Francia e poi Tunisia per la Sicilia, dove
vuole suscitare con il proprio esempio, un movimento di ribellione
contro il fascismo; ma al suo arrivo a Palermo viene immediatamente
arrestato assieme al compagno Gramignano. Vennero condannati
rispettivamente a 10 e a 6 anni di galera. Il compagno Renda,
anch'egli partecipante all'impresa venne condannato a 8 anni.
Nel gennaio del 1921 a Parigi si tiene un convegno di anarchici
per intensificare la lotta clandestina in Italia, lotta che
porterà molti compagni ad essere arrestati e deportati
al confino. Questo non impedì di continuare a spedire
materiale in Italia portato da vari compagni. Gli anarchici
comunque in quegli anni collaborarono anche con altre formazioni
antifasciste, soprattutto con “Giustizia e Libertà”,
senza interrompere la serie di continue azioni individuali.
Anche in America gli anarchici svilupparono una forte attività
antifascista. Già il 16 giugno del '23 il governo fascista
premeva su quello americano per far chiudere il foglio anarchico
“l'Adunata dei Refrattari”. La risposta degli anarchici
non si fece attendere: il 24 novembre scoppia una bomba al consolato
italiano mandandolo completamente in rovina. Tutto l'anno 1924
segna una serie continua di manifestazioni antifasciste organizzate
ed animate dagli anarchici. A Cuba, per esempio; gli anarchici
organizzarono uno sciopero generale in occasione dell'arrivo
di una nave italiana (27 settembre 1924).
Non si contano le provocazioni fasciste di quegli anni, sebbene
il più delle volte i fascisti ricevano delle lezioni
durissime, come nel caso di una provocazione fascista ad un
comizio anarchico (16 agosto 1925) a New York. Certo gli anarchici,
sebbene pochi e sempre perseguitati e soprattutto senza nessun
appoggio esterno, furono in quegli anni una spina non indifferente
per il governo americano. Non passava giorno che alle provocazioni
fasciste, appoggiate e protette certe volte, dalle autorità
americane, gli anarchici non rispondessero per le rime. Il '26
e '27 sono due anni infuocati per il movimento anarchico negli
Stati Uniti. Infatti, in quegli anni, alla protesta contro il
fascismo, si assomma la protesta contro la criminale persecuzione
di Sacco e Vanzetti.
È praticamente impossibile enumerare qui tutte le manifestazioni,
gli attentati, e gli scontri sia contro le autorità americane
che contro i fascisti. Sono gli anni in cui gli anarchici venivano
presi molte volte a pistolettate sulla pubblica via, sia da
poliziotti americani che da agenti fascisti.
Anche negli anni seguenti, fino al '36, continuarono da parte
degli anarchici manifestazioni e attività antifasciste
che culminarono in arresti e deportazioni in Italia. Molti compagni,
come Armando Borghi, vissero lunghi anni clandestinamente, a
causa di tali persecuzioni. Altri, sfuggiti miracolosamente
a tante peripezie, morirono poi valorosamente in Spagna, o fatti
prigionieri, vennero poi deportati in Italia.
Coatti e baldi
Fieramente
ribelli anche al confino
|
Ustica, 1927: I confinati anarchici (in una foto scattata
dal dirigente comunista Amadeo Bordiga, anch'egli confinato).
Al confino gli anarchici (alcune centinaia) furono il secondo
gruppo politico dopo i comunisti per numero, e furono gli organizzatori
di tutte le proteste contro i soprusi delle autorità |
L'8 novembre 1926 fu pubblicato sulla “Gazzetta Ufficiale”
il decreto che istituiva il “Tribunale Speciale per la
difesa dello Stato” e le “Commissioni provinciali
per l'assegnazione al Confino di Polizia”. Ma fin da prima
di quel decreto molti anarchici furono relegati su quelle isole
sperdute nel Mediterraneo che già erano state utilizzate
alla fine del secolo scorso per tenervi raccolti (ed isolati
dal mondo esterno) i sovversivi.
Al confino, gli anarchici costituirono sempre un gruppo compatto
e battagliero, e seppero combattere la dittatura fascista anche
in quelle dure condizioni. Basti pensare alle condanne al carcere
subite da 152 confinati politici che nel 1933 organizzarono
a Ponza le proteste contro i continui soprusi della direzione
della Colonia; numerosi fra questi condannati gli anarchici
(Failla, Grossuti, Bidoli, Dettori, ecc.). L'anno successivo
l'anarchico Messinese, confinato ad Ustica, prese a schiaffi
il direttore della Colonia che voleva obbligarlo a fare il saluto
romano. La ribellione contro simili soprusi si estese progressivamente
ad altre isole, in particolare a Ventotene ed a Tremiti, portando
a nuove condanne contro compagni nostri.
Uniti da stretti vincoli di solidarietà, gli anarchici
riuscirono a far giungere e circolare clandestinamente fra i
compagni alcuni testi anarchici e sostennero nel contempo vivaci
polemiche con gli altri confinati. Particolarmente tesi furono
sempre i rapporti fra confinati comunisti ed anarchici poiché
i primi, ligi alle direttive politiche provenienti dal Partito
e da Mosca, fecero sempre di tutto per ostacolare l'attività
politica dei libertari. Ad acutizzare questa polemica giunsero,
a partire dal 1936, le notizie dal fronte spagnolo, che, seppur
senza precisione, riferivano di scontri armati fra anarchici
e stalinisti.
Ribelli ad ogni autorità, gli anarchici tennero costantemente
un comportamento fiero e deciso, e furono sempre ritenuti i
più pericolosi e sediziosi dalle autorità del
confino; questa pessima (e meritata) fama presso le alte gerarchie
fasciste fu causa di nuove persecuzioni e condanne e spesso
dell'allungamento della pena di confino senza neppure una parvenza
di processo. Accadde così che alcuni compagni, pur condannati
inizialmente a pochi anni, dovettero restare sulle isole fino
al 1943, quando, con la caduta del fascismo in luglio, esse
furono “smobilitate”.
Significativa al riguardo la liquidazione del confino di Ventotene,
dov'era stato concentrato un numero elevato di anarchici. Quando
giunse la notizia della caduta del fascismo i primi ad esser
liberati furono i militanti di “Giustizia e Libertà”,
cattolici, repubblicani e testimoni di Geova; per cui in un
primo tempo rimasero a Ventotene solo comunisti, socialisti
ed anarchici. Quando però il maresciallo Badoglio chiamò
al governo Roveda per i comunisti e Buozzi per i socialisti,
questi pretesero ed ottennero la liberazione dei carcerati comunisti
e socialisti, trascurando gli anarchici ed i nazionalisti sloveni.
Si ruppe così quel vincolo di solidarietà che,
al di là delle accese polemiche, aveva pur sempre legato
le varie comunità politiche di confinati di fronte al
comune nemico fascista. Nonostante alcuni militanti dei partiti
di sinistra cercassero di rifiutarsi di partire per non lasciar
soli gli anarchici, il grosso dei confinati se ne andò
libero, noncurante di quelli che erano costretti a restare sull'isola.
Gli anarchici, dopo una decina di giorni dalla partenza degli
altri, furono trasportati, per nave e poi in treno, fino al
campo di concentramento di Renicci d'Anghiari (Arezzo). Durante
questo lungo viaggio di trasferimento molti compagni cercarono
di fuggire, eludendo la stretta vigilanza di poliziotti e carabinieri,
ma solo uno riuscì nel suo intento. Appena giunti nel
campo gli anarchici ebbero a scontrarsi con le autorità
e due compagni nostri furono immediatamente segregati in cella;
questo diede l'avvio alle proteste ed alla continua agitazione
degli anarchici (fra i quali ricordiamo Alfonso Failla) che
giunsero a scontrarsi violentemente con le forze dell'ordine
del campo. Successivamente, comunque, alcuni riuscirono a fuggire
ed andarono a costituire le prime bande partigiane delle zone
circostanti. Solo nel settembre le guardie se la squagliarono
ed i compagni lasciarono il campo, appena prima che arrivassero
i tedeschi.
P.F.
Nella rivoluzione spagnola
La notizia che in Spagna era scoppiata la rivolta popolare contro
il “putsch” di Franco fu come lo scoppio di una
bomba, negli ambienti dell'emigrazione antifascista italiana
a Parigi. Gli esuli, da anni costretti a lottare sulla difensiva,
videro subito che in terra di Spagna si osava finalmente dire
chiaramente no al fascismo, e si impugnavano le armi per impedirne
il trionfo.
|
Spagna, 1936. Anarchici italiani della Colonna Ascaso nel
cimitero di Huesca, luogo di furibondi combattimenti |
Mentre alcuni compagni partirono immediatamente per andare a
combattere a Barcellona, molti altri si preparavano a partire
e si riunivano frequentemente per decidere il da farsi. Ad un
convegno appositamente indetto, di tutte le forze politiche
antifasciste italiane a Parigi, sia Longo per i comunisti sia
Buozzi per i socialisti dichiararono che i loro partiti erano
disposti ad inviare aiuti sanitari e a dare un appoggio morale
al popolo spagnolo, ma non erano d'accordo per un intervento
armato. Il rappresentante dei repubblicani restò sulle
generali, evitando qualsiasi impegno, per cui gli anarchici
ed il “giellisti” (militanti del movimento “Giustizia
e Libertà”) furono gli unici a sostenere la necessità
di un'immediata partenza per la Spagna. E così fecero.
Il 18 agosto 1936, infatti, meno di un mese dopo l'insurrezione
popolare (19 luglio), partì per il fronte d'Aragona un
primo scaglione di antifascisti italiani, arruolatisi volontariamente
nella sezione italiana della colonna “Ascaso”, organizzata
e formata da militanti anarchici della F.A.I. e anarcosindacalisti
della C.N.T. La maggior parte di questi primi volontari italiani
erano anarchici (un centinaio).
Altri anarchici italiani, giunti in Spagna successivamente,
si aggregarono alla colonna “Durruti” (C.N.T.-F.A.I.),
alla colonna “Tierra y Libertad” (C.N.T.-F.A.I.),
alla colonna “Ortiz” (C.N.T.-F.A.I.) e ad altre
formazioni. Secondo una stima documentata dai registri di arruolamento
della sezione italiana, depositati presso la C.N.T.-F.A.I.,
gli anarchici italiani combattenti in Spagna furono seicentocinquantatre.
|
Spagna, settembre 1936: anarchici italiani al fronte |
Nei primissimi mesi dell'inizio della rivoluzione moltissimi
compagni italiani furono trascinati da un entusiasmo rivoluzionario
che li portò sempre in prima fila: è in questo
periodo che morirono e rimasero feriti la maggior parte di essi.
Molti compagni feriti ritornarono al fronte a combattere nuovamente.
Questo, per esempio, è il caso del compagno Pio Turroni,
che ferito una prima volta in ottobre ritornò dopo pochi
mesi al fronte, dove rimase nuovamente ferito; rientrò
quindi a Barcellona, dove fu commissario politico per gli italiani,
nella caserma “Spartacus”.
È impossibile qui ricordare anche solo i nomi di tutti,
morti e superstiti. Tra i sopravvissuti ricordiamo in modo particolare,
perché ancor oggi militanti attivi nel movimento anarchico,
oltre a Turroni, Umberto Marzocchi ed Umberto Tommasini.
|
Barcellona, luglio 1936: miliziano della C.N.T., l'organizzazione
anarco-sindacalista iberica, nelle cui «colonne»
combatterono oltre seicento anarchici italiani |
Gli anarchici italiani mantennero sempre una posizione coerente,
soprattutto di fronte alla contro-rivoluzione comunista, come
nelle giornate del maggio '37 a Barcellona. Non è un
caso che gli stalinisti in quei giorni assassinassero gli anarchici
italiani Camillo Berneri (che redigeva a Barcellona il periodico
in lingua italiana “Guerra di classe”) e Francesco
Barbieri.
Anche di fronte al processo di militarizzazione la loro posizione
intransigentemente rivoluzionaria fu espressa in modo pressoché
unanime. Già il 10 ottobre prima, e il 13 novembre poi,
stilarono rispettivamente due documenti in cui denunciavano
il pericolo di involuzione controrivoluzionaria, se fosse passato,
come poi passò, il processo di militarizzazione (documenti
firmati, per la sezione italiana della colonna “Ascaso”,
da Rabitti, Mioli, Buleghin, Petacchi, Puntoni, Serra, Segata).
Anche se durante le tragiche giornate della controrivoluzione
comunista essi si trovarono in disaccordo con la “dirigenza”
della F.A.I. e della C.N.T. e nonostante avessero ormai compreso
che le sorti della rivoluzione volgevano al peggio, essi continuarono
a combattere e a morire.
Sono circa sessanta gli anarchici italiani morti in Spagna e
centocinquanta i feriti, di cui molti morirono più tardi
a causa delle privazioni sopportate nei campi di concentramento
in Francia.
SARZANA
UNA
RISPOSTA ESEMPLARE ALLE SQUADRE FASCISTE
La presenza di un forte e combattivo movimento operaio, ed
in particolare di molti gruppi anarchici ed anarco-sindacalisti,
fece sì che lo squadrismo fascista assumesse un carattere
violentemente provocatorio ed omicida nell'intera provincia
di La Spezia, così come nel Carrarino.
Il padronato ed i fascisti non potevano sopportare che continuasse
la tradizione di ribellione dei lavoratori, che nella occupazione
delle fabbriche avevano decisamente mostrato il proprio carattere
rivoluzionario; per questo motivo, fin dagli inizi del 1921,
poche settimane cioè dopo il tradimento dei riformisti
e la grave sconfitta dell'occupazione delle fabbriche, i fascisti
tentarono di spadroneggiare, minacciando e colpendo i militanti
rivoluzionari.
Basti ricordare, per esempio, l'assalto fascista alla Camera
del Lavoro di La Spezia (27 febbraio '21), l'uccisione del compagno
Olivieri (28 febbraio), gli incidenti provocati ai suoi funerali
(11 marzo), l'inaugurazione provocatoria del gagliardetto dei
fasci spezzini (11 aprile) e la devastazione da parte dei fascisti
delle due Camere del Lavoro, aderenti rispettivamente alla C.G.L.
ed all'U.S.I. (12 maggio). Ma furono soprattutto le grandi spedizioni
punitive a caratterizzare (qui come altrove) la violenza delle
camicie nere, ed a provocare la decisa rabbiosa risposta popolare;
era ormai abitudine per i fascisti “concentrarsi”
in un centro abitato, assaltarvi le sedi antifasciste, uccidere
gli oppositori più irriducibili, per poi ripartire certi
dell'impunità da parte dello Stato “liberale”.
Il capo riconosciuto di queste squadracce nello spezzino era
Renato Ricci, ex-legionario fiumano e futuro onorevole: fra
le altre imprese, fu lui a guidare personalmente una spedizione
punitiva contro i centri di Pontremoli e di Sarzana (12 giugno).
La reazione popolare antifascista fu allora così decisa
che gli squadristi furono costretti a ripiegare, e le autorità
non poterono fare a meno di arrestare il Ricci e di rinchiuderlo
nelle carceri di Sarzana.
Privati momentaneamente del loro ducetto locale, i fascisti
decisero di cercare di liberarlo, e soprattutto di dare una
storica lezione alla popolazione di Sarzana, scelta come simbolo
della lotta dei “sovversivi” contro la reazione
padronale e fascista. Sarzana, infatti, trovandosi a metà
strada fra La Spezia e Carrara, era un centro particolarmente
importante nelle lotte anarco-sindacaliste e nella propaganda
anarchica, ed inoltre aveva tradizionalmente una giunta comunale
“rossa”, tutte cose queste che la rendevano giustamente
odiata dall'avversario di classe. Gli squadristi, dunque, guidati
da Amerigo Dumini (uno dei più noti criminali fascisti,
futuro correo nell'assassinio del deputato socialista Matteotti),
calarono da molte province della Toscana nelle zone circostanti
Sarzana, preparandosi ad attaccarla in forze. Quando furono
informati che nel paese di Arcola (La Spezia) un loro camerata,
tal Procuranti, era stato ucciso, subito iniziarono la spedizione
punitiva, compiendo violenze ancor prima di entrare in Sarzana:
fra gli altri, fu ucciso un contadino a Santo Stefano Magra
(La Spezia). Giunti a Sarzana, i fascisti si concentrarono alla
stazione ferroviaria per inquadrarsi bene e per sferrare l'attacco;
fu allora che accolsero sparando 7 carabinieri e 4 soldati,
che, comandati dal capitano Jurgens, li volevano consigliare
a desistere dai loro propositi “nel loro stesso interesse”.
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Partenza di una squadraccia fascista per una spedizione punitiva.
La lezione data ai fascisti a Sarzana nel luglio 1921 dalla
popolazione, se generalizzata, avrebbe potuto fermare il fascismo.
Ma per generalizzare l'esempio era necessario che il P.S.I.,
il P.C.d'I. e la C.G.L. gettassero nella lotta armata tutto
il loro peso |
Dopo il breve scontro a fuoco con le forze dell'ordine, i
fascisti si trovarono a dover affrontare l'assalto armato da
parte degli Arditi del Popolo che, organizzati dall'anarchico
Ugo Boccardi detto “Ramella”, dettero per primi
il benvenuto ai fascisti. Ma non furono i soli, poiché
sopraggiunsero presto gli arsenalotti, cioè quei lavoratori
che ogni mattina prendevano il treno da Sarzana a La Spezia
per recarsi a lavorare là all'arsenale. Quel treno quotidiano,
infatti, quella mattina non era partito, nell'attesa del previsto
attacco squadrista; l'intera popolazione partecipò alla
sollevazione contro le camicie nere, che subito ebbero dei morti
e furono costrette a cercar scampo nelle campagne circostanti.
Ma anche qui non trovarono sorte migliore, chè anzi i
contadini (anch'essi perlopiù anarchici, e comunque decisamente
antifascisti) collaborarono con gli Arditi del Popolo alla cattura
degli aggressori, molti dei quali furono uccisi. Si parlò
allora di circa venti fascisti uccisi, e così afferma
anche la storiografia ufficiale, ma da testimonianze pervenuteci
da compagni che erano attivamente presenti risulta che furono
molti di più.
Ad ogni modo resta la realtà della grande vittoria
popolare di Sarzana, che, con la collaborazione degli Arditi
del Popolo prontamente giunti dai centri circostanti, segnò
un duro colpo alla violenta protervia fascista. Basti pensare
che la rabbia per la disfatta subita in Lunigiana portò
i fascisti a vendicarsi contro i “sovversivi” anche
lontano da quei posti, nel vano tentativo di dimenticare la
lezione di Sarzana. La via indicata quel 21 luglio dal popolo
sarzanese, e confermata dalle altre violente resistenze popolari
allo squadrismo fascista (Parma, Civitavecchia, ecc.), era quella
giusta per battere sul nascere la reazione padronale.
Pochi giorni dopo, però, firmando il Patto di Conciliazione
con i fascisti su scala nazionale, i socialisti contribuiranno
a disarmare il popolo, lasciandolo inerme vittima dello squadrismo
fascista. La stessa responsabilità toccherà ai
comunisti, da pochi mesi costituitisi in partito, che preferiranno
ritirare i propri militanti dagli Arditi del Popolo pur di non
collaborare con gli anarchici.
IMOLA
Violenze
fasciste e forte resistenza popolare
Gli anarchici in prima fila
Il 1920 segna la riorganizzazione definitiva degli anarchici
imolesi che danno vita a due folti gruppi: il gruppo giovanile
anarchico e l'U.S.I.
In tutto i giovani che si impegnavano attivamente erano una
ottantina: organizzavano dibattiti, conferenze, comizi e cercavano
di realizzare una stretta unità con i giovani socialisti.
L'attività sindacale era diretta soprattutto verso quelle
categorie come i muratori, gli infermieri, gli imbianchini,
i barbieri, i metallurgici ed i camerieri che non erano seguiti
dalla c.d.l. (aderente alla CGL) impegnata com'era nell'agitazione
agraria e quindi nell'organizzazione delle categorie agricole.
La preparazione rivoluzionaria degli anarchici cresceva ogni
giorno, per cui non si trovarono sprovvisti di fronte al fascismo.
Infatti il 28 ottobre 1920 Dino Grandi, allora giovane avvocato
di Nordano (comune vicino a Imola), poi uno dei più grandi
gerarchi fascisti, subisce un attentato: gli vengono sparati
contro quattro colpi di rivoltella che, (purtroppo) non lo colpiscono.
Si attribuisce il fatto agli anarchici e i socialisti declinano
le loro responsabilità. In effetti gli autori dell'attentato
risultano essere veramente anarchici che, nel momento in cui
il fascismo nascente si appoggia a giovani studenti infiammati
di patriottismo e di spirito reazionario e di odio verso il
socialismo, hanno intuito in Grandi un possibile futuro nemico.
Il 1920 si conclude con il tentativo, da parte dei fascisti
di crearsi le premesse per poter penetrare in Imola, ma fino
al giugno del 1921 i fascisti a Imola non hanno voce in capitolo.
Gli anarchici partecipano, con i giovani socialisti, che poi
passeranno in massa al P.C. d'I., alla formazione delle “guardie
rosse” a cui è affidato il compito di difendere
Imola dalle squadracce provenienti da Bologna. I fascisti infatti
avevano già “assoggettato” Castel S. Pietro
e si servivano di questo comune come base per le incursioni
nei paesi vicini e soprattutto per distruggere il mito di “Imola
rossa” e della combattività degli imolesi, dovuta
alla cinquantennale propaganda anarchica e socialista e al grande
prestigio che aveva avuto Andrea Costa. I fascisti bolognesi
fanno vari tentativi fin dal novembre, sempre sconsigliati però
dalla autorità locale e dagli stessi capi socialisti
perché l'eccezionale livello di mobilitazione del popolo
avrebbe provocato una “carneficina”. Ma il 14 dicembre
una colonna di fascisti in camion tenta di venire a Imola. Il
servizio di informazione scatta immediatamente e tutta la popolazione
armata, chiamata dal campanone comunale che suona a stormo,
scende in piazza. Le cinque squadre di “guardie rosse”
si dispongono nei punti strategici della città e gli
anarchici collocano due mitragliatrici all'ingresso di Imola,
sulla Via Emilia, in modo da prendere i fascisti in un fuoco
incrociato. Anche questa volta i fascisti non vengono, pare
che Romeo Galli, socialista, telefonasse al Sindaco di Ozzano
per pregarlo di dissuaderli. Ma i fascisti avevano intuito quale
era il mezzo più efficace per entrare a Imola: lasciare
che una snervante attesa fiaccasse la difesa degli imolesi.
Così, con l'appoggio dei popolari, fanno le loro prime
apparizioni fino a lanciare un attacco in grande stile. Il 10
aprile, durante una processione organizzata dal Partito Popolare,
arrivano i fascisti provenienti da Castel S. Pietro: l'esercito
e i carabinieri occupano il centro per difendere dal popolo
gli squadristi. Il 28 maggio i fascisti danno l'assalto al Circolo
ritrovo socialista, naturalmente di sera. Un gruppo di essi,
nascosto nell'ombra dei giardini pubblici, si prepara ad attaccare
con pugnali, bombe a mano e rivoltelle. Mentre parte di essi
entrano nel circolo, altri, fuori, sparano all'impazzata per
impedire alla gente di accorrere.
Il bilancio dell'assalto è di sette feriti e la distruzione
di parte delle suppellettili, registri ecc., poste nei locali
in cui aveva sede anche la redazione del settimanale socialista
“La lotta” e la sezione socialista.
La reazione comincia a prendere piede apertamente anche ad Imola,
i capi socialisti fuggono a S. Marino e torneranno solo a settembre,
a bufera momentaneamente passata.
Così la reazione armata fascista colpisce le avanguardie
mentre la massa è disorientata e impaurita.
Il 26 giugno i fascisti con Dino Grandi, Gino Baroncini ecc.
inaugurano il gagliardetto di combattimento sotto gli occhi
soddisfatti della gretta borghesia locale.
I fascisti locali, figure squallide, in alcuni casi addirittura
malati di mente, trovano appoggio negli agrari che li esaltano,
li ubriacano con soldi e vino, e lo stretto collegamento col
gruppo già forte del fascismo bolognese li fa sentire
improvvisamente padroni della piazza quando in 100 contro 1,
protetti dalla polizia, si scagliano contro le avanguardie rivoluzionarie.
I primi ad essere colpiti sono gli anarchici, poi i socialisti
ed infine la reazione si abbatte su tutto il proletariato.
Il 10 luglio vi sono i fatti della Birreria Passetti in cui,
fallito il tentativo di alcuni fascisti di uccidere l'anarchico
Primo Bassi (1892-1972), si costruisce una montatura per accusarlo
della morte del rag. Gardi, estraneo ai fatti e rimasto ucciso
nella sparatoria.
Racconta Primo Bassi: “Il 10 luglio 1921 una squadra di
fascisti Imolesi iniziava le prime azioni di violenza indiscriminata.
Alle ore 10 di sera, incontrato un muratore - tal Campori -
lo colpirono con randellate al capo sino a che, sanguinante,
potè rifugiarsi nella birreria Passetti, in quel momento
affollata di clienti. Fu allora che notai un giovincello che,
battendomi un giunco sulla spalla, mi invitava ad uscire. Accondiscesi,
ma dopo pochi passi nell'ampio cortile fui circondato dalla
squadra che pretese perquisirmi e quando, palpate le tasche,
furono persuasi fossi inerme, iniziarono la bastonatura. Con
una spinta mi aprii il passo verso l'uscita e, guadagnando l'uscita
sotto le percosse, fui raggiunto da una randellata allo zigomo
sinistro che per poco non mi abbattè al suolo. Voltandomi
di scatto fu allora - solo allora - che l'istinto di conservazione
prevalse in me. Il fascista Casella mi era quasi addosso con
l'arma in pugno ed io - già estratta la pistola dalla
cintura dei pantaloni - gli sparai contro colpendolo ad una
gamba. Sparai ancora in aria un colpo e mentre attorno era tutto
una sparatoria fuggii per via Aldovrandi per consegnarmi ai
carabinieri sopraggiunti, ferito da una pallottola di rimbalzo.
Accompagnato in caserma prima ed all'ospedale poi, fui tempestato
di pugni sino a che un infermiere, il socialista Maiolani, non
intervenne a redarguirli. Intanto all'interno della birreria
un cittadino - voluto poi fascista - era stato colpito dal basso
all'alto da un colpo di rivoltella, decedendo. I fascisti si
impadronirono di quel morto ed iniziarono una violenta reazione
contro uomini e cose”.
La stessa sera numerose squadre di fascisti percorrono le vie
della città, sparando all'impazzata con lo scopo di impaurire.
Poi assalgono la sede dell'Unione Sindacale, distruggendo sistematicamente
tutto ciò che trovano: devastano gli uffici delle leghe,
la redazione del giornale anarchico Sorgiamo, il circolo
ritrovo, la ricca biblioteca. Tutto ciò che non si può
dare alle fiamme nel piazzale sottostante è reso completamente
inservibile. Il lunedì continua per le vie di Imola la
caccia al sovversivo.
Viene arrestato il maestro anarchico Ciro Beltrami per aver
sparato all'ex repubblicano Mansueto Cantoni, diventato segretario
del fascio locale. Viene picchiato selvaggiamente coi calci
di moschetto alla schiena, tanto da morire nel 1941 a Bruxelles
in seguito alla tubercolosi, provocata dalle botte fasciste.
Anche il responsabile de “Il Momento”, giornale
della Federazione Prov. Comunista Bolognese e organo della c.d.l.
di Imola, Romeo Romei viene aggredito e, ferito gravemente al
petto con un colpo di rivoltella, lasciato per terra moribondo;
Ugo Masrati, bracciante agricolo anarchico, mentre è
tranquillamente addetto in un'aia come paglierino ai lavori
di trebbiatura, viene assassinato dai fascisti.
Alla tipografia Galeati, pena l'incendio, si impedisce di stampare
il periodico anarchico Sorgiamo. Si vieta alle edicole
di vendere giornali “sovversivi”, come Umanità
Nova e Ordine Nuovo. Ma il movimento anarchico non
è ancora definitivamente abbattuto, bisogna quindi ancora
colpirlo, ancora assassinare.
La sera del 21 luglio '21, cinque fascisti si recano in un'osteria
alle “Case Gallettino” con lo scopo ben preciso
di colpire un altro anarchico che si era sempre distinto per
il suo coraggio, Vincenzo Zanelli, detto Banega, muratore, anarchico.
Arrestato per i moti del caro-vita del luglio 1919, era stato
di nuovo arrestato nel 1921 senza una imputazione precisa e
rilasciato dopo 20 giorni. Da allora non era più stato
lasciato in pace dai fascisti. Raggiunto con altri due anarchici
- Farina e Tarozzi - dai fascisti, viene colpito ma, mentre
gli altri due anarchici disarmati fuggono, egli a terra si difende
e uccide il suo aggressore, il fascista Nanni, di professione
ladro. Ormai quasi tutti gli anarchici imolesi più in
vista sono eliminati.
L'uccisione del giovane fascista Andrea Tabanelli serve da pretesto
per manovre contro gli anarchici: caduta la prima accusa contro
l'anarchico Diego Guadagnini, viene accusato il cugino Enrico
Guadagnini e i fascisti fanno altre rappresaglie: compiono un
altro assalto alla sede dell'U.S.I. e ammazzano a randellate
in testa Raffaele Virgulti, mutilato di guerra anarchico.
Il movimento è così decimato: messi in condizioni
di non nuocere i compagni migliori come Diego Guadagnini e Primo
Bassi (condannato a 20 anni nonostante che la perizia balistica
avesse dimostrato che il proiettile che uccise Gardi non apparteneva
all'arma di Bassi), uccisi tanti dei migliori come Leo Branconcini,
Vincenzo Zanelli, Raffaele Virgulti, carcerati o confinati tantissimi
altri come Tarozzi, Baroncini, Farina, Errani, i fratelli Tinti,
Tonini ecc. il movimento anarchico imolese darà il suo
contributo alla lotta di liberazione in Italia nel 44-45 e,
precedentemente, in Spagna nel 1936.
BIOGRAFIE IMOLESI
Le vicende degli anarchici Imolesi dal '20 al '45 sembrano
ricalcate su un unico modello: lotta contro il fascismo in Italia,
esilio, rivoluzione spagnola, Francia, deportazione in Italia,
confino e, dopo l'8 settembre, Resistenza partigiana.
Pur in un piccolo centro come Imola gli anarchici che, con
variazioni, passarono attraverso questa “trafila”
sono tanti che non possiamo riportarne le biografie intere.
Basti quella d'uno di loro per esemplificarle tutte.
Vindice Rabitti, nato nel 1902, impiegato. “Ardito
del Popolo”, partecipò a vari conflitti contro
gli squadristi. Subì processi, condanne (ad 1 anno e
3 mesi il 25-7-1922; ad 11 mesi nel luglio del 1923) e carcere.
Fu ferito dai fascisti in seguito ad un attentato. Espatriò
in Francia nel 1923. Rientrò in Italia nella primavera
del 1924. Partecipò a nuovi scontri con i fascisti e
riparò successivamente in Francia. Fu arrestato per presunto
attentato alla Società delle Nazioni. Nel 1932 raggiunse
l'Algeria ove continuò l'attività antifascista.
Arruolatosi per la Spagna il 23-7-1936, fu tra gli organizzatori
della colonna italiana “Ascaso” della quale divenne
delegato politico. Combattè sui fronti di Monte Pelato,
di Huesca, di Almudevar e, poi, nel Carrascal di Huesca nell'aprile
1937. Ritornò in Francia, nell'aprile 1938, ove continuò
l'attività antifascista. Fu arrestato a Bardonecchia
nel marzo 1940. Successivamente venne rinchiuso al confino di
Ventotene per due anni. Partecipò alla lotta di liberazione
nell'Imolese e in Romagna.
Simili, come s'è detto, le vicende di molti altri
compagni imolesi: Carlo Alvisi, muratore; Gino Balestri, muratore;
Giuseppe Tinti, muratore; Gelindo Zanasi, muratore; Gaetano
Trigari, fabbro (arrestato per attività partigiana nel
settembre del '43 venne deportato dapprima a Dachau e poi a
Mathausen); Eutilio Vignoli, commesso; Natalino Matteucci, muratore;
Umberto Panzacchi, pavimentatore (morto nel '41 a Parigi, a
seguito di malattia contratta durante la guerra in Spagna);
Armando Malaguti, barbiere; Ugo Guadagnini, muratore; Bruno
Gualandi, edile (caduto sul fronte di Huesca nell'ottobre '36);
Luigi Grimaldi, bracciante; Lorenzo Giusti, ferroviere; Francesco
Gasperini, operaio; Mario Girotti, operaio (ferito e reso “inabile”
nella battaglia di Monte Pelato); Attilio Balzamini, ferroviere
(ferito a Monte Pelato e morto all'ospedale di Barcellona nel
giugno del '38); Raffaele Catti, operaio (ferito a Huesca);
Cesare Forni, artigiano; Ferruccio Tantini, muratore; Tosca
Tantini (sorella di Ferruccio, partecipò ai combattimenti
di Huesca e Almudevar).
Centro «Malatesta»
PISA
Come tutte le province circostanti, quella di Pisa fu particolarmente
presa di mira dai fascisti, che ben ne conoscevano le tradizioni
di lotte operaie e contadine. Gli anarchici erano numerosi sia
in città sia in quasi tutti i centri piccoli e grandi
del circondario; a Pisa si stampava “L'Avvenire Anarchico”,
che era conosciuto e diffuso in molte regioni italiane, ed inoltre
vi era una attiva Camera del Lavoro sindacalista (cioè,
aderente all'Unione Sindacale).
I fascisti locali, pur divisi da gravi contrasti interni,
svolsero, qui come altrove, la medesima opera di provocazione
e di eliminazione fisica dei “sovversivi”, finanziati
e guidati da alcuni noti capitalisti della zona.
Fra gli atti criminali delle squadracce pisane basti ricordare
la scorreria compiuta nella zona di Cascina (Pisa) il 22 luglio
1921, all'indomani cioè della disfatta subita dai loro
camerati a Sarzana: per solidarietà con Amerigo Dumini
e gli altri squadristi messi in rotta dalla popolazione della
Lunigiana, infatti, pretendevano che tutte le famiglie esponessero
la bandiera a lutto.
Di ritorno dalla loro scorreria, le squadre fasciste si fermarono
nella trattoria dell'anarchico Luigi Benvenuti, provocarono
i presenti ed infine li aggredirono; nella furibonda lotta che
ne seguì perirono sia i due capi degli squadristi, sia
il compagno Benvenuti. Impressionati dalla reazione dei presenti
i fascisti se ne andarono e tornarono la notte dello stesso
giorno a bordo di un camion loro fornito - come al solito -
dai carabinieri. Dopo aver fra gli altri assassinato il figlio
di un antifascista, trafiggendolo con quattro pugnalate e scagliandolo
poi in un torrente, si diressero verso la casa del Benvenuti,
che devastarono ed incendiarono, costringendo i due giovanissimi
figli (orfani) del compagno Benvenuti a gettarsi dalla finestra.
Grande eco ebbe anche l'assassinio dell'anarchico Comasco
Comaschi, maestro d'arte e capo-officina ebanista della Scuola
d'Arte di Cascina (Pisa), il cui pensiero politico risentiva
parimenti dell'insegnamento umanitario di Leone Tolstoi e della
propaganda anarchica di Pietro Gori. I fascisti non gli potevano
perdonare la sua difesa degli allievi di un corso della Scuola
d'Arte, che loro volevano aderissero forzatamente al loro partito.
La morte, decretata dalle camicie nere locali, arrivò
al Comaschi sotto forma di quattro pallottole che lo colpirono
alle spalle nei pressi del Canale Emissario. Gli assassini furono
identificati ed arrestati, ma vennero naturalmente assolti dalla
magistratura con la formula significativa del “non luogo
a procedere”.
Ricordiamo infine l'assassinio dell'anarchico Ugo Rindi,
tipografo e segretario della sezione pisana della Federazione
Italiana del Libro: prelevato a casa sua la notte dell'8 aprile
1924 da alcuni fascisti travestiti da poliziotti, fu assassinato
a pugnalate appena fuori casa, ed il suo corpo orrendamente
mutilato.
Reggio Emilia
La presenza anarchica nella lotta antifascista a Reggio Emilia
fu costituita essenzialmente dall'azione di alcuni singoli compagni;
ciò è comprensibile se si considera l'assoluta
prevalenza del socialismo riformista, che aveva in Camillo Prampolini
un leader nazionale, oltre che locale.
Fin dal primo anteguerra gli anarchici, seppur poco numerosi,
fecero sentire la loro voce antimilitarista, anche se solo durante
il “biennio rosso” (1919-20) si costituì
il primo gruppo specificamente libertario, il gruppo “Spartaco”,
cui aderirono intellettuali di diversa estrazione (fra cui Camillo
Berneri e l'avvocato Nobili) e molti militanti operai (fra cui
Torquato Gobbi, Fortunato Sartori ed alcuni dipendenti delle
Officine Reggiane): la loro presenza sia con attività
propagandistica sia in campo anarco-sindacalista fu molto efficace
e attirò su di loro le pesanti attenzioni del nascente
squadrismo fascista, che si reggeva soprattutto grazie ai finanziamenti
dei grossi agrari della provincia reggiana.
Per rendere il clima instaurato dalle camicie nere in città,
riportiamo dal quotidiano liberal-fascista Il giornale di
Reggio del 25-3-21 la seguente cronaca cittadina: “L'incidente
più grave di ieri (24 marzo, giorno successivo all'attentato
del Diana a Milano) fu provocato da un noto anarchico locale,
certo Torquato Gobbi, faccendiere assai attivo.... Questo Gobbi,
dunque, ieri mentre già si era diffuso il raccapriccio
per l'infame orrenda carneficina del Teatro Diana, a Milano,
si aggirava ostentatamente intorno ai nuclei di fascisti che
nel centro si venivano riunendo, commentando l'avvenimento.
Ad un certo momento, interpellato da un fascista sulle ragioni
del suo aggirarsi, rispose evasivamente e quindi, invitato ad
andarsene, rispose, quasi con dileggio e per canzonatura, che
non poteva allontanarsi rapidamente perché aveva male
ai piedi. Il suo contegno aumentò l'irritazione del fascista,
che aggiunse “E allora, se vuol star qui, gridi Viva l'Italia!”.
L'anarchico, che evidentemente era in vena di attaccar brighe,
o in cerca di facile martirio, rispose allora gridando “Viva
l'Anarchia!”. Com'era da immaginarsi fu picchiato abbastanza
energicamente... e ne avrà per alcuni giorni”.
A Cavriago (Reggio E.) in occasione del I maggio 1921 ebbero
luogo violenti scontri fra socialisti ed anarchici da una parte
e fascisti dall'altra: il bilancio fu di due anarchici morti
(Primo Francescotti e Andrea Barrilli) ed alcuni feriti. Anche
in quell'occasione i fascisti erano calati dalle zone circostanti,
e pare che a pretesto dell'aggressione fascista fosse addotto
il motivo che un compagno portava un nastro rosso-nero all'occhiello.
Un altro importante episodio di persecuzione contro gli anarchici
ebbe luogo nel febbraio del 1923, allorché venne inventato
un “complotto sovversivo”, procedendo quindi a numerosi
arresti, sia fra i comunisti sia fra gli anarchici (tra i quali
Gobbi e Nobili). Anche questo colpo contribuì a spingere
molti compagni sulle vie dell'esilio.
Alcuni anarchici reggiani parteciparono alla rivoluzione spagnola
combattendo sul fronte antifascista, e fra loro ricordiamo innanzitutto
Camillo Berneri (vedi A 16 - “Un intellettuale anarchico”),
e poi Mario Corghi, Lebo Piagnoli ed Emilio Zambonini.
Quest'ultimo, dopo l'8 settembre 1943, tornò nel reggiano,
dove fu tra i promotori delle bande partigiane della zona appenninica
di Villa Minozzo. Catturato insieme al gruppo di don Pasquino
Borghi, Zambonini venne fucilato al poligono di tiro di Reggio
il 29 gennaio 1944; prima di morire lanciò un grido:
“Viva l'Anarchia!”.
La strage di Torino
Il
18 dicembre 1922 Torino fu teatro di tremende violenze
fasciste, che ancor oggi sono ricordate come “la
strage di Torino”. Molti operai furono aggrediti
nelle loro case, bastonati di fronte ai loro familiari,
altri furono caricati sui camion e crivellati di colpi
in riva al Po, nei prati della Barriera di Nizza, sulle
strade della collina.
Fra gli undici “sovversivi” trucidati dalle
camicie nere ricordiamo l'anarchico Pietro Ferrero, che
era stato due anni prima uno dei promotori e degli organizzatori
dell'occupazione delle fabbriche a Torino nella sua qualità
di segretario della FIOM torinese. Colpito selvaggiamente
dagli squadristi fascisti, Ferrero fu legato per i piedi
ad un camion e trascinato a lungo per i viali di Torino;
il suo corpo ormai irriconoscibile fu abbandonato in un
viale non molto distante dalla Camera del Lavoro.
Miglior fortuna ebbe l'anarchico Probo Mari, attivista
dell'U.S.I. torinese, portato in riva al Po dai fascisti
che gli legarono le mani dietro alla schiena e lo gettarono
nel fiume. Mari riuscì però a raggiungere
la riva ed a farsi ricoverare in ospedale.
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BRESCIA
A Brescia, città industriale con forte sezione U.S.I.
(ricordiamo che gli operai della fabbrica di fiammiferi - ora
non c'è più - erano iscritti quasi tutti all'U.S.I.
ed avevano costantemente una funzione pilota per le maestranze
degli altri stabilimenti) e folto gruppo di “Arditi del
Popolo”, il fascismo trovò pane per i suoi denti.
Se fu dura la lotta ancor più dura fu la vendetta fascista
e numerosi anarchici subirono persecuzioni, galera, confino,
esilio. Fra essi ricordiamo Ettore Benometti, Angelo Alberti,
Mario Conti (assassinato dai fascisti), Leandro Sorio (che scontò
16 anni di galera per complicità nel fallito attentato
a Mussolini di Lucetti), Ernesto Bonomini (che a Parigi uccise
nel '24 il gerarca fascista Bonservizi).
Alla resistenza alcuni anarchici parteciparono nelle brigate
G.L. e Garibaldi, altri individualmente. Ricordiamo Bortolo
Ballarini di Bienno, la cui casetta di montagna a quota 2000,
due volte bruciata dai nazifascisti, fu usata come base da una
brigata mista G.L.-Garibaldi, ed Ettore Benometti, la cui bottega
di calzolaio era centro di ritrovo clandestino bresciano e di
collegamento e smistamento di partigiani, nonostante la stretta
sorveglianza e le varie perquisizioni domiciliari cui era sottoposto.
I.G.
Angelo
Damonti.
Nato a Brescia nel 1886, A. D. entrò giovanissimo
nelle file del movimento anarchico milanese. Nel 1920
era a fianco di Errico Malatesta e della redazione del
quotidiano Umanità Nova. Da allora fino al 1926
assunse insieme ai compagni Meniconi e Mantovani l'incarico
del Comitato Pro Vittime Politiche; durante quel periodo
fu continuamente in viaggio per l'Italia a contattare
i compagni detenuti, a cercare i migliori avvocati, a
raccogliere fondi, a litigare con direttori carcerari
e con poliziotti per far pervenire gli aiuti ai compagni
detenuti. Per questa sua infaticabile attività
subì numerosissimi fermi ed arresti da parte della
polizia e persecuzioni da parte dei fascisti.
Costretto ad emigrare in Francia continuò l'attività
politica con gli altri compagni italiani esiliati a Parigi,
finché, espulso dalla Francia, riparò in
Belgio (1934).
Rientrato in Francia poco prima dell'inizio dell'ultima
guerra, entrò nei ranghi dei “Franchi tiratori
partigiani francesi” contro gli invasori nazisti;
divenne uomo di fiducia del sindacato generale delle industrie
elettriche (aderente alla C.G.T. clandestina), che effettuava
lavori lungo la linea ferroviaria. Con questa copertura
potè continuare la sua attività antifascista,
nascondendo in un treno speciale, destinato alla manutenzione,
tutti quei lavoratori che si rifiutavano di essere convogliati
in Germania ed indirizzandoli invece verso le formazioni
partigiane. Per i suoi meriti ed il suo valore fu nominato
generale del Maquis francese.
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Castel Bolognese
Fin dai primi mesi del 1921 la Romagna fu utilizzata dalle camicie
nere come base di partenza per imprese squadriste nelle zone
circostanti; ma per lungo tempo non potè essere una base
sicura per i fascisti, che ebbero da fare i conti con la tradizione
di lotta che caratterizzava le popolazioni romagnole fin dai
tempi della Prima Internazionale. Repubblicani, socialisti ed
anarchici costituivano tre grandi forze popolari che, seppur
divise da polemiche estremamente vivaci, contribuivano a tener
desto lo scontro sociale.
A Castelbolognese furono soprattutto i giovani anarchici del
gruppo locale a rispondere alle provocazioni fasciste, portate
sia da camerati provenienti da altre città (soprattutto
Bologna) sia dai pochi fascistelli locali. Quando, per esempio,
gli anarchici attaccarono sulla via Emilia due grandi bandiere
rosso-nere con la scritta “Viva la Comune”, subito
i fascisti locali informarono quelli bolognesi che arrivarono
nel pomeriggio vestiti con le solite camicie nere, teschio sul
petto e pugnali ai fianchi. Ma non fu loro possibile strappare
le bandiere perché il coraggio dei giovani compagni li
costrinse ad una precipitosa fuga via da Castelbolognese; purtroppo,
comunque, quel 18 marzo del '21 fu l'ultimo in cui fu possibile
festeggiare l'anniversario della Comune.
Ma non fu certo l'ultimo episodio di lotta antifascista, chè
anzi per conquistare Castelbolognese le camicie nere dovettero
di fatto attendere che i compagni più attivi fossero
messi nella condizione di non poter più svolgere alcuna
forma di attività politica.
Nei mesi successivi si intensificarono le provocazioni fasciste,
che venivano compiute di preferenza durante la notte; vennero
bastonati molti notori nazifascisti, e la violenta furia delle
camicie nere non risparmiò neppure un fattore agricolo
fascista, che salutò i camerati picchiatori, ma fu ugualmente
da loro pestato perché aveva dimenticato a casa tessera
e distintivo, e si ritrovò con un braccio rotto.
Se furono soprattutto i giovani anarchici (Nello Garavini, Antonio
Patuelli e tanti altri) a combattere attivamente contro i fascisti,
non bisogna dimenticare il contributo dato dai compagni più
anziani, alcuni dei quali ricordavano bene i tempi da loro vissuti
della Prima Internazionale. Il più anziano degli anarchici
di Castelbolognese era allora Raffaele Cavallazzi: subì
più di cento arresti! Sempre in prima fila nelle lotte
contro la polizia, veniva da questa perseguitato ed arrestato
con qualsiasi pretesto, tanto che l'urlo del delegato di P.S.
“Arrestate Cavallazzi!” era diventato proverbiale;
dopo qualche giorno, comunque, doveva essere rilasciato e riprendeva
così il suo posto di lotta continuando la diffusione
della stampa anarchica. In occasione del 18 marzo, del I maggio
e di altre ricorrenze di avvenimenti rivoluzionari esponeva
alla finestra due bandiere a brandelli, rosso-nere: sosteneva
che erano ancora più gloriose, perché gli strappi
erano dovuti a ferite di guerra. Quando i fascisti gli ebbero
tagliato per spregio un pezzo di barba, Cavallazzi ebbe cura
di lasciare sempre “dissestata” la barba, in modo
da poter ripetere mostrandola: “Tutti devono vedere e
sapere come quei manigoldi dei fascisti maltrattano i vecchi”.
Per questo suo atteggiamento ribelle, ereditato dai genitori
anch'essi anarchici (i familiari si chiamavano Ribelle, Arnaldo
e Anarchina), Cavallazzi era odiato e scansato dai reazionari
e dai bigotti del paese, ma nemmeno le persecuzioni poliziesche
lo poterono piegare, tanto che ancor oggi lo ricordiamo come
il simbolo della resistenza opposta dagli anarchici di Castelbolognese
alle violenze fasciste.
Piombino
Anarchici
ed anarcosindacalisti vendono cara la pelle
Nei primi mesi del 1921, quando già in tutta la Toscana
si è scatenata l'offensiva fascista, Piombino non conosce
ancora la violenza squadrista e ancora per più di un
anno resisterà al cerchio nero che la stringe.
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L'Ideal Bar, o «Barrino», ritrovo dei fascisti
piombinesi |
A differenza di altri luoghi, a Piombino il fascismo nasce all'ombra
delle ciminiere con il denaro dei “dirigenti” dell'ILVA
e della Magona, le due fabbriche siderurgiche più importanti
della città, occupate nel '20 dagli operai armati. Questi
due colossi industriali non forniscono solo i finanziamenti,
ma anche i gregari per le azioni teppistiche trasformando in
squadracce nere le guardie dei due stabilimenti, gente abituata
da sempre all'odio antioperaio. Tuttavia questi primi fenomeni
dell'ondata fascista non trovano lo spazio per ingrandirsi e
attecchire perché circoscritti da una classe lavoratrice
estremamente combattiva e rivoluzionaria, fortemente influenzata
sia dagli anarchici, sia dagli anarco-sindacalisti della locale
Camera del Lavoro federata all'U.S.I.
Per avere un'idea di questa influenza basta guardare i risultati
delle elezioni politiche del '19, con 3483 schede bianche contro
1487 voti socialisti, su un totale di 6098 votanti ed alla composizione
delle Commissioni Interne dell'ILVA e della Magona con 15 delegati
anarco-sindacalisti dell'U.S.I. contro i cinque delegati socialisti
e comunisti della FIOM.
È così che alla fatidica “marcia su Roma”
dell'ottobre del '22, il fascismo Piombinese non arriva nemmeno
a cento teppisti. Prima del '22 i fascisti locali non osano
tenere i loro raduni nella città; anzi ogni volta che
lo squadrismo pisano, senese o fiorentino compiva qualche “impresa”
essi dovevano subire l'ira degli anarchici e degli Arditi del
Popolo.
Il lento affermarsi del fascismo a Piombino in certa misura
è da attribuirsi anche all'azione sprovveduta della CGL
e del Partito Socialista che, assieme agli esponenti dei vari
partiti, degli industriali e dei fasci di combattimento, forma
un Comitato Cittadino per pacificare la città e risolvere
la crisi dell'industria siderurgica che minacciava di chiudere,
licenziando tutte le maestranze.
Questo riconoscimento ufficiale delle forze socialiste verso
il nascente fascismo è l'equivalente locale della stessa
politica che a livello nazionale porterà al Patto di
Pacificazione fra fascisti e socialisti. Sarà proprio
il Comitato Cittadino che, purgato dagli elementi socialisti,
prenderà in mano l'amministrazione di Piombino dopo la
conquista della città.
Ovviamente a questo Comitato Cittadino sia gli anarchici che
la Camera del Lavoro federata all'U.S.I. rifiutano di partecipare,
ribadendo che non è possibile (...) sia con i fasci di
combattimento, ma che anzi è dovere rivoluzionario scendere
nelle piazze e combattere per soffocare la violenza fascista.
Furono infatti proprio gli anarchici e gli anarco-sindacalisti
i maggiori sostenitori e attivisti degli Arditi del Popolo.
Per iniziativa del deputato socialista Giuseppe Mingrino si
era costituito a Piombino il 144° battaglione degli Arditi
del Popolo, cui aderivano gli anarchici e l'ala comunista del
Partito Socialista, che dopo poco esce dal partito per formare
il Partito Comunista. Presto però i comunisti usciranno
da queste formazioni operaie di difesa ed anzi una circolare
dell'esecutivo del P.C. diffida tutti i militanti dall'entrare
negli Arditi o anche solo di avere contatti con loro. Dopo questa
defezione, gli Arditi del Popolo a Piombino saranno costituiti
quasi esclusivamente da elementi anarchici e anarco-sindacalisti
e saranno loro a sostenere le lotte dure e spesso sanguinose
che impediranno fino alla metà del '22 ai fascisti di
entrare a Piombino.
L'attentato al socialista Mingrino, il 19 luglio 1921, fa scattare
per la prima volta gli Arditi. Essi attaccano il “covo”
dei fascisti piombinesi, ma lo trovano deserto, quindi casa
per casa e nei luoghi di lavoro catturano i fascisti e costringono
un loro capo, il direttore del Cantiere navale, a firmare un
atto di sottomissione.
Le Guardie Regie corse in aiuto dei fascisti vengono sopraffatte
e disarmate.
Solo dopo alcuni giorni la reazione degli Arditi termina e le
forze dell'ordine riescono a riprendere il controllo della città.
Intanto il 2 agosto socialisti e fascisti firmano a Roma il
Patto di Pacificazione. Gli Arditi affiggono a Piombino un manifesto:
“Non vi può essere nessuna possibilità di
pace, in questo momento, tra il proletariato piombinese e i
suoi sfruttatori... gli Arditi del Popolo resteranno vigili
ed armati contro gli sgherri neri”.
Il 3 settembre l'anarchico Giuseppe Morelli sorpreso ad affiggere
manifesti contro il Patto di Pacificazione reagisce con la pistola
alle guardie regie ed ai fascisti, rimanendo ucciso nel conflitto.
Durante la notte, prevedendo la reazione degli anarchici, la
Polizia irrompe nelle abitazioni e nei luoghi di lavoro (durante
i turni notturni) arrestando oltre 200 compagni. Privati gli
Arditi e gli anarchici dei loro militanti politici e sindacali
più attivi, i fascisti capirono che quello era il momento
per sferrare il loro attacco. Prima incendiarono la sezione
socialista, poi la Camera Confederale e la tipografia “la
Fiamma”, e quindi si diressero verso la Camera del Lavoro
sindacale, ma si scontrarono con una pattuglia di giovani anarchici,
fra cui: Landi, Lunghi, Venturini, Marchionneschi, Panzavolta,
Franci, Messena e Lucarelli. Giungevano nel frattempo gruppi
di operai e la polizia fu costretta ad arrestare i fascisti
per salvarli dalla sana ira popolare.
Racconta Armando Borghi “Una conferenza la tenni a Piombino,
presente il deputato comunista Misiano. I fascisti lo avevano
scacciato dal Parlamento, minacciandolo di morte, e lui si era
rifugiato sotto la protezione degli anarchici, nella cittadina
toscana, tenuta ancora dai nostri alla fine del 1921”.
I fascisti tentarono la conquista di Piombino il 25 aprile del
'22, ma giunti alla periferia della città, trovarono
gli anarchici e gli Arditi che rapidamente misero in fuga le
camicie nere.
Frattanto, dopo la riapertura degli stabilimenti siderurgici,
manovrando abilmente con le assunzioni discriminate per rendere
più debole la compattezza operaia (Piombino anche allora
era una città-fabbrica) le direzioni aziendali preparavano
il colpo definitivo, essendosi anche assicurata la totale collaborazione
del Comitato Cittadino.
Un'altra vittima fu il giovane anarchico Landi Landino (21 maggio
1922), che i fascisti tenevano presente come il principale artefice
delle loro “ritirate”.
Il 12 giugno (dopo un incidente appositamente creato dove rimaneva
ucciso uno studente fascista e per i funerali del quale giunsero
in città i fascisti di tutta la zona) gli squadristi
e le guardie regie inviate da Pisa a “ristabilire l'ordine”
si impadronivano della città.
Dapprima occupano il Comune e la Pretura, poi i fascisti assaltano
e distruggono le sedi del Partito Socialista e della CGL per
tutta la notte e tutto il giorno dopo, con centinaia di assalti,
le squadracce tentano la conquista della Camera Sindacale dell'U.S.I.
e della tipografia del giornale anarchico “Il martello”,
sempre respinti. Solo dopo un giorno e mezzo di combattimento,
fascisti e guardie legge riescono a piegare anche gli anarchici.
|
La Camera del Lavoro di Piombino, nel 1911. In Piombino,
città operaia con forte presenza anarchica ed anarco-sindacalista,
le squadracce fasciste non si avventurarono fino all'autunno
del '21 e solo nel giugno del '22 «espugnarono»
la Camera del Lavoro (aderente all'U.S.I) dopo un giorno e mezzo
di combattimenti |
Il fascismo era passato anche a Piombino ed i compagni più
in vista trovarono scampo nell'espatrio; altri dovettero subire
persecuzioni e angherie durante tutto il regime fascista.
Prendiamo ad esempio le vicende di due compagni: Egidio Fossi
e Adriano Vanni.
Egidio Fossi, condannato nel '20 dalle Assise di Pisa a 12 anni
e 6 mesi, 2 anni dei quali trascorsi in segregazione a Portolongone,
gli altri in varie galere. Venne liberato per amnistia nel mese
di ottobre 1925, fu poi perseguitato ripetutamente, ammonito
e minacciato dai fascisti, finché espatriò clandestinamente
in Francia. Anche all'estero non sfuggì alla persecuzione
e cominciò così la vita randagia del fuoriuscito,
braccato anche dalla polizia francese. Alla notizia che in Spagna
il popolo era insorto contro il tentativo nazi-fascista, non
mise tempo in mezzo e raggiunse nell'agosto 1936 la colonna
italiana Francisco Ascaso, partecipando a tutte le azioni sul
fronte Aragonese di Huesca, rimanendo a combattere in Spagna
fino al marzo del 1939; fu poi internato nel campo di concentramento
di Gurs e mandato nelle compagnie di lavoro. Nel 1940 fu fatto
prigioniero dai tedeschi, venne quindi tradotto in Italia e
assegnato al confino di Ventotene per 5 anni. Fu liberato nel
settembre 1943; potè rientrare a Piombino nel 1945, dove
riprese il suo posto nelle file anarchiche e come operaio all'Italsider.
Adriano Vanni, condannato insieme a Egidio Fossi e scarcerato
nello stesso periodo fu subito bastonato a sangue dai fascisti;
dovette riparare all'estero, ma anche qui ebbe vita difficile.
Rientrato in Italia dopo qualche anno, cominciarono di nuovo
le persecuzioni del regime e le bastonature dei delinquenti
in camicia nera. Partecipò attivamente alla sommossa
della popolazione contro i nazi-fascisti del 10 settembre 1943.
La lotta partigiana lo vide fra i più validi animatori
della resistenza e assieme ad altri libertari operò in
formazioni che agivano nelle zone all'interno della Maremma;
fece parte anche del nucleo periferico del CLN. A liberazione
avvenuta, nonostante si ritrovasse faccia a faccia con molti
dei suoi aguzzini del ventennio, ebbe la forza morale della
non vendetta.
Altri compagni dovettero prendere la via del fuoriuscitismo
da Piombino, come Franci Dario, Bacconi, (dirigente della U.S.I.),
Agnarelli Smeraldo, e altri ancora. A Torino si trasferirono
compagni come Guerrieri Settimo, Baroni Ilio (caduto nelle formazioni
GAP), Bellini e Cafiero. I compagni che riuscirono a rimanere
a Piombino non rimasero immuni da ammonizioni e minacce e, quando
venivano personalità del regime, erano prelevati dalle
loro abitazioni e tenuti in carcere per 3 o 4 giorni.
F. A. Piombinese
L'anarchico
Emilio Marzani, di San Benedetto.
Fece parte alla
fine della prima guerra mondiale del gruppo “I Nichilisti”,
che operava nel mantovano. Fra le azioni di questo gruppo
ricordiamo l'assalto del deposito militare effettuato
alla fine del '19, con la partecipazione della popolazione
di San Benedetto. Nel 1920 fu accusato dell'omicidio di
due fascisti e nel '21 del ferimento di due carabinieri.
Costretto alla clandestinità, fu scoperto dai carabinieri,
che presero d'assalto il suo rifugio e che lo ferirono
mentre nuovamente riusciva a scappare. Rifugiatosi in
Spagna e poi in Francia ebbe modo di conoscere le galere
straniere. Nel 1942 fu arrestato dai tedeschi e destinato
a morire in un lager: lo salvarono... i fascisti nostrani
che ne ottennero l'estradizione e lo confinarono nell'isola
di Ventotene. Tornato nel mantovano dopo l'8 settembre
1943, non partecipò alla lotta armata della resistenza
perché, dice, convinto che inutile era ormai lottare
contro i nazifascisti già sbaragliati dagli eserciti
alleati. |
Trieste ed Istria
Ecco un quadro non completo, anche se documentato, del contributo
degli anarchici giuliani all'opposizione al fascismo.
Nel '19 i fascisti triestini avevano l'abitudine di radunarsi
al Caffè degli Specchi. Erano circa una trentina e reclutavano
i loro componenti più attivi nelle spedizioni punitive
fra il sottoproletariato, offrendo come remunerazione denaro
e cocaina.
L'elemento trainante di questa banda di camicie nere era Giunta
che, dopo il suo fallimento come avvocato a Firenze, si era
installato a Trieste dove aveva assunto la carica di segretario
del fascio. Da questo primo gradino poi continuò la sua
brillante carriera di gerarca (ed è morto pochi anni
fa, di morte naturale!).
Sotto il suo incitamento nel 1920 venne bruciato l'Hotel Balkan
(Narodni Dom) sede delle organizzazioni slovene. Seguirono poi
l'incendio de “Il Lavoratore”, organo dei comunisti
locali, e quello della Camera del Lavoro.
In quest'ultima occasione il proletariato triestino rispose
con l'incendio del cantiere San Marco, la più grande
industria della città, al quale partecipò anche
la compagna anarchica Maria Simonetti. Assieme ad altri quindici
operai, subì un processo che si concluse con l'assoluzione
di tutti e fu un ottimo contributo alla propaganda antifascista.
L'attività del Gruppo Anarchico Germinal era ripresa
a Trieste subito dopo la fine della prima guerra mondiale. Essa
si concretizzava soprattutto in due settori. Uno era la propaganda
(attraverso conferenze, dibattiti e per mezzo del giornale “Germinal”)
e l'altro l'anarcosindacalismo. I compagni, essendo tutti lavoratori,
partecipavano alle assemblee delle leghe, dove venivano discussi
i più importanti problemi sindacali. Spesso in tali occasioni
essi avevano una funzione determinante, godevano dell'appoggio
di molti simpatizzanti e spingevano alla radicalizzazione delle
lotte attraverso l'uso dello sciopero generale.
Ben presto però, accanto a queste due attività
se ne affiancò un'altra, cioè l'azione diretta
contro gli squadristi e l'insorgere del fascismo.
Una delle prime conseguenze fu l'ordine della polizia di sgomberare
dalla loro sede per motivi di ordine pubblico, avendo questa
più volte attirato l'attenzione delle squadre, con terrore
degli inquilini.
Ma se la chiusura del circolo limitò l'attività
culturale, la propaganda e l'agitazione continuavano sul luogo
di lavoro. Il compagno Volpin apparteneva al Consiglio Direttivo
dei fornai, Cartafina a quello dei poligrafici, Frausin di Muggia
e Radich di Monfalcone a quello dei metallurgici, Umberto Tommasini
a quello dei metallurgici edili.
I compagni, sfrattati, dovettero perciò limitare i loro
incontri e si trovarono al Caffè “Union”,
una cooperativa socialista. Ben presto il ritrovo venne individuato.
I fascisti nell'agosto del 1922 tentarono di eliminarli in blocco
tirando due bombe nel caffè. Ma le bombe non esplosero.
Intervenne la polizia che chiuse il locale per rappresaglia
per la durata di un mese. Ormai la vita per gli oppositori del
fascismo fu resa impossibile. Gli anarchici, in particolare,
vennero braccati ovunque.
Una situazione non migliore c'era anche a Monfalcone dove gli
anarchici erano attivissimi soprattutto nel cantiere. Nel marzo
1919 il compagno Frausin fu aggredito dai fascisti. Creduto
morto lo abbandonarono in terra; ricoverato all'ospedale di
Monfalcone, i fascisti, accortisi dell'errore, tentarono di
raprirlo per completare l'opera omicida, ma non vi riuscirono
e il compagno fu trasferito a Trieste per sicurezza.
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Spagna 1936. Anarchici italiani sul fronte di Huesca; al
centro Umerto Tommasini di Firenze. Quasi tutti gli anarchici
triestini e giuliani in esilio si ritrovarono in Spagna a combattere
nelle file della formazione italiana della colonna Ascaso (C.N.T.-F.A.I.);
due di loro morirono in combattimento, un terzo in ospedale
a causa di una malattia contratta al fronte |
A Muggia, comune di Trieste, una squadra fascista nel 1920 tentò
di invadere la casa del compagno Koenig, ma fu respinta a colpi
di fucile da caccia.
Sempre nel 1920, i fascisti tentarono in gran numero di invadere
la Casa del Popolo di Trieste. Il compagno Pietro Cociancig,
assieme ad altri, prese parte alla difesa e gli assalitori dovettero
fuggire anche questa volta. Cociancich di Monfalcone si occupava
tra l'altro di racimolare armi per la difesa, armi che poi venivano
smistate in vari nascondigli in tutta la città. In tal
modo si aveva in ogni occasione dei piccoli arsenali vicini
che permettevano di agire con estrema rapidità.
Nel luglio 1921 ad esempio tre anarchici, un comunista e un
repubblicano gettarono alcune bombe su una squadra di fascisti
di ritorno da una spedizione punitiva nel quartiere popolare
di San Giacomo. Ventotto fascisti feriti. Nessuno venne riconosciuto
né fermato. Queste però erano iniziative individuali
e, come gruppo, i compagni si dedicavano a rendere più
dura l'opposizione di massa durante gli scioperi generali. Essi
si ribellavano contro i crumiri e contro i commercianti che,
nonostante la proclamazione della agitazione, continuavano a
tenere aperto.
Nonostante l'opposizione armata e di massa, il fascismo riuscì
ben presto a controllare Trieste. L'ultima azione organizzata
fu quella dello sciopero di agosto, che però non riuscì:
i negozi rimasero aperti, ci furono sporadici episodi di lotta
ma nulla di decisivo. Da allora non ci furono più né
cortei né proteste perché la gente aveva ormai
timore di affrontare il fascismo in campo aperto.
Nelle fabbriche si reagì più a lungo per mezzo
di scioperi interni, che pur avendo carattere economico erano
a sfondo antifascista.
Gli ultimi scioperi a Trieste, prima della promulgazione delle
leggi eccezionali, vennero effettuati nella Fabbrica Macchine
Sant'Andrea nel marzo 1926. Nella fabbrica esisteva un'efficiente
Commissione Interna il cui segretario era l'anarchico Mario
Del Bel che venne, per la sua attività, sospeso dal lavoro.
Gli operai fecero tre giorni di sciopero di protesta e il Del
Bel fu riammesso al lavoro.
Si può dire che gli anarchici giuliani reagirono con
tutte le loro forze al fascismo. Dopo i comunisti, ebbero il
maggior numero di incarcerati, confinati, esiliati, e se si
fanno le dovute proporzioni numeriche furono i più colpiti.
Non mancavano nemmeno azioni di affermazione di principio, come
affissioni di manifesti in occasione del I Maggio ed esposizione
di bandiere per la ricorrenza della rivoluzione russa.
Nel 1926, in occasione dell'anniversario della marcia su Roma,
venne attuato un ulteriore fermo di polizia, per motivi di pubblica
sicurezza. Vennero arrestati dodici fra socialisti, comunisti
e repubblicani e tre anarchici (Umberto Tommasini, Cartafina
e Negri). Nel frattempo, in seguito all'attentato di Zamboni
a Mussolini, entrarono in vigore le leggi eccezionali e Gunsher
e Umberto Tommasini furono tra i primi anarchici confinati.
Venne inflitta l'ammonizione a Rodolfo Defilippi, Giovanni Riboli,
Nina Montanari, Mery Pahor, Lucia Minor. Per sopravvivere, ad
essi e ad altri anarchici non restava che la via dell'esilio.
L'esilio non significò abbandono della lotta; anzi uno
dei motivi per cui i compagni lasciarono l'Italia fu proprio
l'impossibilità, per gli anarchici notori, di continuare
la battaglia contro il fascismo in “patria”.
Ad esempio, l'anarchico giuliano Cociancich lanciò una
bomba ad Anbagne (Marsiglia) contro la cosiddetta Casa degli
Italiani, noto covo di fascisti e di spioni. Arrestato, fu condannato
a cinque anni; uscito di galera andò in Spagna a combattere
il fascismo. Tornato a Bruxelles, fu arrestato ed estradato
in Italia. Morì nel '44, nel carcere di Castelfranco
Emilia, durante un bombardamento aereo.
La maggior parte degli anarchici triestini e giuliani esuli
partecipò alla rivoluzione spagnola, nella formazione
italiana della colonna Ascaso (C.N.T.-F.A.I.). Vi presero parte:
Luigi Krizaj di Pola, caduto ad Almudevar nel dicembre del 1936;
Giuseppe Pesel di Rovigno, caduto a Carascal (Huesca), nell'aprile
1937; Rodolfo Gunsher di Trieste, morto nel maggio 1938 all'ospedale
di Barcellona a seguito di una malattia contratta al fronte;
Egidio Bernardini di Trieste, ferito a Carascal nell'aprile
1937; ed inoltre Nicola Turcinovich di Rovigno e Umberto Tommasini,
Antonio Mesghez, Guglielmo Scheffer, Lina Simonetti Alpinolo
Bucciarelli e Lucia Minor di Trieste.
Molti compagni, sparsi per l'Europa dopo la guerra di Spagna,
vennero estradati in Italia e si ritrovarono al confino. Nel
'43 si ritrovarono a Ventotene Tommasini, Bucciarelli, la Minor,
Turcinovich e Giovanni Bidoli; inoltre si trovarono alle Tremiti
Gabriella Zetko e Ludovico Blokar.
A Trieste c'era frattanto stata un'altra vittima del fascismo,
il compagno Vittorio Puffich. Nel '38 i rilevatori dell'ACEGAT
addetti all'acqua erano in agitazione, Puffich venne individuato
come promotore e licenziato. Impossibilitato a trovare altro
lavoro e a mantenere la moglie e le due figlie malate, si tolse
la vita.
C'erano però nella Venezia Giulia i primi sintomi di
ripresa. Non si crearono formazioni partigiane anarchiche indipendenti,
ma dei compagni liberati dal confino nel 1943, alcuni rimpatriati
e quelli che erano rimasti a Trieste, collaborarono alle formazioni
comuniste. Il compagno Bidoli teneva il collegamento con le
stesse. Nel 1944 venne arrestato e portato in Germania nei campi
di concentramento e non tornò più. Dai lager tedeschi
non tornò più nemmeno il compagno Carlo Benussi.
Il compagno Defilippi, che era grafico, procurava timbri per
compilare documenti. Le case di molti altri erano punti di riferimento
per la raccolta di viveri, indumenti e armi, e di rifugio per
partigiani in pericolo.
Il compagno Turcinovich, lasciato il confino alla caduta del
fascismo, rientrò a Rovigno, suo paese natale e partecipò
con le formazioni partigiane slovene alla cacciata dei tedeschi.
In seguito ad un feroce rastrellamento dovette fuggire a Genova,
dove collaborò a gruppi di combattimento locali. Finita
la guerra rientrò a Rovigno e lì venne riconosciuto
dagli Jugoslavi quale militante antifascista attivo, ma ben
presto entrò in dissidio con i bolscevichi. Un amico
d'infanzia, che faceva parte della guardia popolare, lo avvertì
che era in pericolo e lo consigliò di andarsene. Turcinovich
perciò, suo malgrado, ritornò nella città
ligure.
Nel maggio '45 a Trieste cominciarono a ritornare gli ultimi
confinati, mentre era ancora in atto l'occupazione slava. Tornarono
Tommasini, torna Bruch dal confino in Calabria e si ricostituisce
il Gruppo Germinal. Il primo lavoro fu di chiarificazione
e si parlò soprattutto della Spagna. Molti compagni,
che fino a quel momento avevano collaborato coi comunisti, abbandonarono
tale collegamento e furono attivi solo nel gruppo. Con l'occupazione
americana riprese il lavoro di propaganda con l'uscita quindicinale
del “Germinal”, con conferenze nelle varie località
confinanti, ma soprattutto con l'attività sul luogo di
produzione. Nei sindacati unici, Volpin riprese il suo lavoro
fra i panettieri, Cartafina nei cantieri e Umberto Tommasini,
come metallurgico, ottenne 1100 voti per presentarsi come delegato
al Congresso sindacale europeo, che si tenne a Trieste nel 1947.
CLARA
RAVENNA
Tutti gli anarchici di Ravenna furono in ogni momento in
prima fila nella lotta contro il fascismo.
Durante la resistenza vi furono numerosi anarchici nella
28a Brigata Garibaldi. Fra i più attivi ricordiamo:
Bartolazzi Primo, membro del CLN Prov., Merli Ulisse del
C. di Liberazione, Bosi Digione, Melandri Giovanni coi figli,
Francia, Minghelli, Gatta, Minardi, Zauli, Stinchi, Guberti,
Rambaldi, Galvani.
Ricordiamo in modo particolare, a mò d'esempio, nella
storia dell'antifascismo anarchico ravennate, Bartolini, Orselli,
Spadoni, Rossi.
Guglielmo Bartolini, fin dalla prima giovinezza attivo militante
anarchico, condannato a morte per sabotaggio durante la guerra
'15-'18 (la pena commutata in ergastolo), uscì dal carcere
dopo l'8 settembre 1943; ritornato a Ravenna, partecipò
alla Resistenza e fu tra i più attivi. Catturato durante
un rastrellamento in montagna dai nazi-fascisti, di nuovo condannato
a morte, riuscì con uno stratagemma e con l'aiuto di
compagni, ad evadere e continuò la sua attività
di partigiano fino alla Liberazione.
Pasquale Orselli, il più giovane dei compagni del
ravennate, di famiglia anarchica, fin dalla più tenera
età conobbe le angherie fasciste. Durante la liberazione
le case degli Orselli furono rifugio dei G.A.P. che operavano
nella zona. Pasquale Orselli si distinse in varie azioni di
combattimento e fu al comando della prima pattuglia partigiana
che entrò in Ravenna.
Angelo Spadoni, generoso, forte come un toro, era un operaio
agricolo, privo di cultura ma intelligentissimo. Stimato da
tutti per la sua generosità ed intelligenza, fu arrestato
diverse volte durante il fosco ventennio e scontò 3 anni
di prigione a Volterra per aver picchiato dei fascisti che volevano
dare dell'olio di ricino a dei vecchi operai.
Ludovico Rossi, uno dei primi antifascisti di Ravenna (comunista)
dovette, con la moglie ed un figlio in tenera età, emigrare
in Francia, dove divenne e si mantenne anarchico fino alla morte.
Volontario fra i primi in Spagna, assieme alla moglie ed al
figlio e malgrado una deformazione fisica, fu un invalido e
stimato combattente. Dopo la sconfitta si rifugiò in
Francia, dove fu messo in campo di concentramento; tuttavia
evase, si ricongiunse con la famiglia, e con documenti falsi
rimase in Francia fino alla liberazione.
P.O.
La Carnia
In Carnia, fin dal primo sorgere del fascismo negli anni 1920-22,
ci fu resistenza da parte di tutti i movimenti politici di sinistra
contro le squadre d'azione.
Il comune più combattivo fu quello di Prato Carnico e
a lungo i fascisti non osarono penetrare all'interno della Val
Pesarina. Quando ad esempio cercarono di bruciare la Casa del
Popolo (sede di tutte le associazioni, partiti popolari e del
Gruppo Anarchico) si scontrarono con l'opposizione armata di
tutti gli antifascisti, in prima linea i compagni anarchici,
tanto che alla fine dovettero rinunciare, constatando che la
loro spedizione “costava” troppo. A causa dell'accanita
lotta antifascista il comune di Prato Carnico fu denominato
dalla questura di Udine il “Comune Rosso”.
Nel luglio 1933 morì a Parigi un anarchico. La sua compagna
lo fece portare al suo paese natio, cioè a Pesaris, frazione
di Prato Carnico. Quando arrivò la salma i compagni anarchici
e antifascisti organizzarono un corteo funebre con la fanfare
in testa. La mesta cerimonia, svolta in forma civile, ebbe il
grande concorso di tutto il popolo e assunse il carattere di
dimostrazione antifascista. Il giorno dopo gli sgherri procedettero
all'arresto di tre anarchici e di due comunisti che, tradotti
alle carceri di Udine, furono poi processati. Gli anarchici
vennero condannati a cinque anni di confino; un comunista venne
condannato anche lui a cinque anni e l'altro ad un anno da scontarsi
tutti all'isola di Ponza. Degli anarchici, Guido Cimador, avendo
la cittadinanza statunitense, sotto la pressione delle autorità
americane fu rilasciato dopo due mesi. Italo Cristofali e Luigi
D'Agaro invece scontarono tutta la pena. Anzi il compagno D'Agaro
poco dopo fu raggiunto al confino dalla moglie e da due figli
in tenera età, uno dei quali morì a Ponza.
|
Prato Carnico: la Casa del Popolo. Costruita da anarchici
e socialisti all'inizio del secolo, fu difesa da ripetuti assalti
fascisti; alla fine gli squadristi dovettero rinunciare alla
conquista del piccolo ma combattivo «comune rosso» |
Allo scoppio della seconda guerra mondiale, ben pochi compagni
erano rimasti in Carnia, a causa della forte emigrazione, soprattutto
verso le due Americhe, e dell'opera di vent'anni di dittatura
fascista. Ciononostante, alla caduta del fascismo, il 25 luglio
1943, i pochi rimasti si organizzarono per la lotta armata contro
il nazifascismo.
Sin dall'8 settembre si costituirono dei piccoli reparti locali
e si diede ospitalità ai soldati della Divisione Julia
che, per evitare la deportazione in Germania e per sottrarsi
al reclutamento, salivano le montagne armati. I molti anarchici
di Pradumblis approfittarono del momento di disorganizzazione
generale per recuperare le armi delle caserme, dislocate nelle
zone alpine, e per nasconderle. Guidava le operazioni l'operaio
anarchico Cristofali Italo (detto Aso).
Subito dopo l'8 settembre 1943 i partigiani dell'Alta Carnia
si misero in contatto con gli antifascisti friulani per i primi
rifornimenti di armi automatiche e per tutti i problemi logistici.
In seguito a questi primi collegamenti dell'inverno '43-'44,
ai primi di aprile si poté dare l'assalto ad una e poi
a tutte le stazioni e caserme dei Carabinieri e della Guardia
di Finanza dell'Alta Carnia e delle zone limitrofe dell'Alto
Cadore. Lo scopo era di rifornire di armi, divise, materiale
radiotelegrafico tutti compagni che man mano aderivano al fronte
di Liberazione armata che lentamente si andava estendendo in
tutta la regione.
Gli anarchici ed i simpatizzanti, non potendo formare bande
autonome, dato l'esiguo numero, si inserirono nei quadri della
Divisione Garibaldi-Friuli in cui diedero prova di grande combattività.
Gli anarchici ebbero anche posti di responsabilità. Va
ricordato Petris di Pradumblis che ebbe il compito di fornire
tutto il vettovagliamento alla Brigata Carnica, facente parte
della Divisione Garibaldi-Friuli.
Fra i primi, anzi il primissimo fra gli organizzatori fu proprio
il nostro compagno Aso che, sia come combattente sia come comandante,
collaborò al disarmo di tutte le caserme dell'Alta Carnia
e Cadore e che morì nell'espugnare la caserma della gendarmeria
tedesca Sappada nel luglio 1944, assaltata per vendicare un
compagno garibaldino ucciso in modo atroce. Le informazioni
passate da un venduto ai tedeschi davano la gendarmeria per
semincustodita. Invece un reticolato alto un metro e mezzo circondava
l'edificio e tutte le finestre erano murate ed in esse vi erano
solo piccole feritoie. Aso, che guidava l'azione al comando
di una quarantina di garibaldini, riuscì ad aprire un
varco nel reticolato e si lanciò verso la porta, sotto
il fuoco tedesco. Raggiuntala, spaccò il vetro con la
canna del mitra ma in quel momento fu raggiunto da una scarica
di pistol-machine e cadde morto.
Fu anche con il contributo dei nostri compagni che si costituì
la Zona Libera in Carnia che durò dal luglio all'ottobre
1944. In questo territorio liberato, la vita di 80.000 persone
era organizzata in forme simili all'autogoverno, e alle necessità
dello scontro armato provvedeva direttamente la popolazione.
In ogni vallata si formarono dei comitati di liberazione per
risolvere i problemi locali, mentre il “potere”
centrale dava solo indicazioni sulle questioni generali.
Finita la guerra, purtroppo i nostri sacrifici e le nostre speranze
restarono deluse a causa della faziosità di tutte le
correnti in lotta e particolarmente del PCI.
Tullio Toniutti
Pistoia
Gli anarchici e i militanti del Partito Comunista Libertario
(nato a cavallo fra il '39 e il '40) costituirono a Pistoia
le prime formazioni partigiane, che dettero inizio alla lotta
armata contro il nazifascismo. Tra queste, la formazione che,
con la morte del suo comandante il 29-7-1944, prenderà
il nome di “Silvano Fedi”.
Gli
anarchici avevano a Pistoia un retroterra storico di esperienze
e di lotte. Durante il biennio rosso 1919-20 il movimento, superata
la tradizionale base artigianale, investe nuovi strati sociali.
La Unione Sindacale Italiana è presente un po' ovunque
ed è particolarmente forte fra i lavoratori del legno
e i tipografi. La sua incisività va oltre la sua forza
reale: essa costituisce un punto di riferimento per tutto l'arco
rivoluzionario, ha una funzione di stimolo e di catalizzatore
all'interno del movimento operaio che molte volte mette in crisi
l'egemonia della CGL. Su una linea di azione diretta si trova
anche il Sindacato Ferrovieri, il cui segretario è l'anarchico
Egisto Gori, segretario anche della locale U.S.I.
Il 7 luglio 1920, i ferrovieri pistoiesi si rifiutano di far
partire un vagone diretto in Polonia, per solidarietà
con la Russia dei Soviet. Dove è presente una forte componente
anarcosindacalista, la lotta si radicalizza. Durante la prima
fase della lotta, che vedeva gli operai di tutta Italia impegnati
nell'ostruzionismo, il prefetto di Firenze, Crivellaro, informa
il Ministro degli Interni con un telegramma delle ore 19,40
del 25 agosto che a Pistoia: “gli operai che fanno capo
all'U.S.I. hanno talmente ridotto la produzione che industriali
hanno dichiarato che ove perdurasse stato di cose sarebbero
costretti ridurre paghe base”.
Anche a Pistoia le violenze fasciste colpiscono duramente il
proletariato e le sue organizzazioni. Con l'avvento del fascismo
molti militanti vengono duramente colpiti con la galera e con
il confino. Una testimonianza efficace di tale clima ci è
fornita dal figlio dell'anarchico Egisto Gori: “... inaspettatamente
il babbo, gli zii, li venivano a prendere e poi per mesi si
stava ad aspettare... il babbo fu il primo ferroviere del dipartimento
di Firenze ad essere licenziato per motivi politici nel giugno
del '22... il 21 luglio '22 passò un camion in via Curtatone
e Montanara, videro mio zio che lavorava da falegname, lo scambiarono
per mio padre e lo ammazzarono...”.
Il movimento è costretto a un lavoro sotterraneo di propaganda
e di contatti. È un lavoro che darà i suoi frutti
nel 1936 quando un gruppo di giovani studenti e operai entrerà
nel movimento anarchico. Nel giugno dello stesso anno, 3 compagni
partono per la Spagna in appoggio alla rivoluzione, ma vengono
fermati alla frontiera italo-francese nei pressi di Clavier
(Torino). Il 27 febbraio 1937 i compagni Archimede Peruzzi e
Enzo Gozzoli vengono condannati a 5 anni di confino.
Il 25 gennaio 1940, 4 giovani anarchici, fra i quali Silvano
Fedi, compaiono davanti al Tribunale Speciale per appartenenza
ad “associazione antinazionale e propaganda”. Gli
imputati vengono assolti per insufficienza di prove, ma il movimento
subisce un nuovo giro di vite. L'agitazione e la propaganda
lasciano ora il posto alla preparazione della lotta armata.
Le prime formazioni che a Pistoia passarono alla lotta armata
(1943) furono costituite da militanti anarchici e dal Partito
Comunista Libertario. La Resistenza pistoiese interessa la XI
Zona, comandante Manrico Ducceschi (Pippo) e la XII Zona, comandante
Silvano Fedi.
In entrambe le Zone la presenza anarchica e libertaria è
preponderante. Nel luglio-agosto 1943 a Piuvica, nella piana
di Pistoia, gli anarchici che operano con Silvano Fedi non si
limitano alla lotta armata, e si preoccupano di organizzare
la popolazione per superare i disagi del momento. Convincono
i contadini a battere il grano che essi avrebbero lasciato marcire
per mancanza di mercato, impiantano un forno dove lavorano fissi
due uomini e il pane viene distribuito gratuitamente alla popolazione
del luogo, alla quale si sono aggiunti gli sfollati di Montagnana
e di Momigno.
In seguito alla efficace organizzazione, le formazioni anarchiche
libertarie aiutano le formazioni di diverso colore politico
con rifornimenti di formaggio, riso, zucchero, farina, scarpe
e sigarette, e vengono date anche 30.000 lire al C.L.N. locale
per l'acquisto di un ciclostile.
Inoltre la formazione “Silvano Fedi”, il cui comandante
fu delegato del gruppo anarchico di Pistoia nelle riunioni tenute
con i compagni fiorentini, sostenne il giornale Umanità-Nova,
stampato clandestinamente a Firenze, con 5.000 lire settimanali.
Fu la prima formazione partigiana, guidata dall'anarchico Artese
Benesperi, a entrare militarmente a Pistoia. Alle cinque di
mattina la bandiera rosso e nera degli anarchici sventola in
cima al campanile in piazza del Duomo: alle 10 è sostituita
dal tricolore, simbolo dell'ordine repubblicano tuttora vigente,
codice Rocco, Concordato e sfruttamento compresi.
Silvano
Fedi.
Giovane compagno, animatore della Resistenza nel
pistoiese, Fedi portò a termine con gli altri partigiani
alcune imprese estremamente rischiose. Ricordiamo tre
attacchi alla fortezza di Pistoia: il primo con il furto
di circa 10.000 colpi di mitraglia (17-10-43), il secondo
con un nuovo furto di bombe, caricatori e due casse di
munizioni (20-10-43), ed un nuovo definitivo attacco,
superando questa volta la vigilanza della guardia tedesca
molto numerosa (1-6-44). Il 26 giugno dello stesso anno
vari partigiani simularono la traduzione in carcere di
Fedi e di un altro compagno. Quando i falsi poliziotti
ed i due nostri compagni (ammanettati per l'occasione)
furono all'interno del carcere, si fecero consegnare con
la violenza le chiavi di tutte le celle e misero in libertà
tutti i carcerati, fornendo di moschetto quelli che intendevano
raggiungere le formazioni partigiane. Il compagno Fedi
fu ucciso il mese successivo in uno scontro a fuoco con
una pattuglia tedesca. |
MILANO
|
Milano,
testate di giornali clandestini libertari editi e diffusi nel
1944 |
Milano, che prima dell'avvento del fascismo era stato uno dei
centri più attivi del movimento anarchico italiano, fu
nuovamente centro di lotta e propaganda durante la Resistenza.
Nel 1944 uscirono nel capoluogo lombardo vari giornali anarchici
clandestini fra i quali ricordiamo L'adunata dei libertari,
L'azione libertaria, e, dal primo dicembre, Il comunista
libertario (organo della Federazione Comunista Libertaria
Lombarda).
Figura di particolare spicco per la sua lunga militanza nel
movimento (che risaliva ai primi anni del secolo) fu quella
di Pietro Bruzzi; studioso ed abile polemista, efficace propagandista
rivoluzionario, Bruzzi era stato in Russia nel '21, quindi in
esilio a Parigi dove diresse il Comitato Pro Vittime Politiche.
Durante la rivoluzione spagnola del '36 militò nelle
Brigate anarchiche dando prova di grande coraggio; ritornato
in Francia fu deportato in Italia e confinato per 5 anni nell'isola
di Ponza. Alla caduta del fascismo fu trattenuto nel campo di
concentramento di Renicci d'Anghiari (Arezzo) per volontà
della dittatura militare di Badoglio. Fuggito insieme con altri
anarchici, riprese le fila della lotta clandestina guidando
una formazione partigiana anarchica operante nel milanese e
curando la redazione e la diffusione de L'adunata dei libertari.
Catturato su delazione di una spia fascista, pur essendo stato
torturato per cinque giorni con tale violenza da averne il volto
sfigurato, non rivelò nessuna informazione ai nazifascisti,
che quindi lo fucilarono: prima di morire ebbe ancora la forza
di gridare: “Viva l'anarchia!”.
Dopo la sua morte gli anarchici milanesi costituirono le formazioni
“Errico Malatesta” e “Pietro Bruzzi”
che avevano la loro sede nello stabilimento Carlo Erba. Il 25
aprile 1945 le brigate anarchiche disarmarono una colonna tedesca
in fuga, e fecero cadere in possesso del popolo insorto tutta
la zona industriale senza pericolo di sabotaggi né di
nuove violenze.
|
Milano, documento rilasciato dalle Brigate libertarie «Malatesta»
e «Bruzzi», nel giugno del '45. Nel milanese gli
anarchici si organizzarono autonomamente nell'ambito delle formazioni
socialiste «Matteotti» |
Nel popolare quartiere di Porta Ticinese gli anarchici furono
gli animatori della lotta e qui prima che altrove nella città
l'intero quartiere fu in mano agli insorti.
Con una serie di abili e coraggiose manovre, le brigate anarchiche
giunsero a controllare le arterie che conducevano a Porta Sempione
e a Porta Garibaldi, occuparono la caserma Mussolini e protessero
la centrale elettrica. Inoltre espugnarono molti fortilizi fascisti,
e perfino la stazione della Radio fu occupata dalle brigate
della formazione Malatesta in cooperazione con altre brigate.
LUCCA
Premettendo che nessuna formazione partigiana anarchica ha
operato nella zona di Lucca, possiamo solo mettere in rilievo
l'impegno militante rivoluzionario di alcuni compagni che tanto
hanno fatto durante la lotta partigiana a Lucca.
Luigi Velani, militante anarchico, di professione avvocato
(morto nel 1973); nella primavera del 1944 svolse importanti
incarichi informativi a Lucca per conto delle forze della resistenza.
Quando fu scoperto, si sottrasse all'arresto e raggiunse i compagni
sui monti nella zona della Val di Serchio. Fu aiutante maggiore
della XI Zona, in cui agivano anche molti partigiani anarchici.
Questa formazione partigiana composta da 1000 compagni, a
capo della quale si trovarono il famoso “Pippo”
ed il compagno anarchico Luigi Velani ebbe tra le sue fila 300
caduti e fece prigionieri 8000 nazi-fascisti.
Emanuele Diena, militante anarchico di professione prima
elettricista nelle ferrovie e dopo impiegato, fu arrestato a
Taranto nel 1943 durante il lavoro in ferrovia e fu mandato
al confine a Pisticci (provincia di Matera). A Milano durante
la Liberazione fece parte della guardia rossa come comandante
responsabile della Tramvia Municipale a Porta Vittoria.
Ferruccio Arrighi, militante anarchico, di professione rappresentante
(morto nel 1956), e Vittorio Giovannetti, militante anarchico,
di professione scultore in legno (morto nel 1968) svolgevano
importanti attività di coordinamento all'interno della
città per mettere in contatto gli antifascisti con le
formazioni partigiane che operavano nella Garfagnana (monti
nella vicinanza di Lucca).
Tutti questi compagni hanno aderito durante la Liberazione
ai comitati cittadini antifascisti.
PIACENZA: Emilio Canzi
Nato nel 1893, Emilio Canzi combattè sin dall'inizio
contro il fascismo militando negli Arditi del Popolo. Costretto
all'esilio in Francia, accorse in Spagna all'inizio della rivoluzione.
Combattè nelle file della Divisione Ascaso e quale ufficiale,
successivamente, nella Divisione Garibaldi.
|
Il monumento a Canzi, eretto dallo scultore Tizzoni vicino
al cimitero di Peli di Coli (Piacenza), ov'è sepolto |
Tornato in Francia fu arrestato nel 1940 dalla polizia nazista,
chiuso nel carcere della “Santé” a Parigi,
e quindi trasportato in Germania e rinchiuso nel campo di concentramento
di rigore di Hinget. Restituito all'Italia venne confinato a
Ventotene e, dopo l'8 settembre 1943, assegnato al campo di
Renicci D'Anghiari. Fu successivamente l'organizzatore delle
prime bande armate nel piacentino, fu fatto prigioniero dai
fascisti e scambiato con ostaggi. Ripreso il suo posto di lotta
fra i partigiani, per il suo valore divenne comandante di ben
tre divisioni e 22 brigate (oltre diecimila uomini!). Partecipò
nel contempo all'attività clandestina di riorganizzazione
del movimento anarchico fino alla sua morte (17-11-'45) avvenuta
in seguito alle gravi lesioni riportate in uno “strano”
incidente motociclistico. Come altre volte in quell'epoca, fu
infatti un autocarro alleato ad affiancarglisi e ad investirlo:
e proprio il fatto che una simile meccanica dell'incidente sia
stata riscontrata in incidenti stradali mortali per altri anarchici
ha sempre lasciato aperto il dubbio di un premeditato assassinio
da parte dello Stato e degli “alleati”.
TORINO: un episodio
Il 24 aprile 1945 il compagno Ruju, partigiano della 23a Divisione
autonoma “Sergio De Vitis”, fu inviato ad Avignana
per organizzare la resistenza e la difesa di alcuni stabilimenti
industriali.
Giunto sul posto, mentre cercava di contattare alcuni giovani
antifascisti si imbattè in una pattuglia tedesca e riuscì
ad approfittare di un attimo di (...) nazisti e condurli a Giaveno
(dove già si trovavano alcuni tedeschi catturati). Quando
tornò ad Avignana gli si fece incontro il parroco che
lo implorò di restituire i tre prigionieri perché
altrimenti la città sarebbe stata distrutta alle due
del pomeriggio di quella stessa giornata.
Recatosi subito al comando tedesco accompagnato da due pubblici
funzionari, il compagno Ruju ebbe modo di parlare con il comandante;
questi lo pregò di rendere i tre soldati catturati perché,
altrimenti, sarebbe stato costretto ad ordinare la distruzione
della città secondo gli ordini ricevuti dalla 5a divisione
Alpina. Il nostro compagno gli fece notare che 10.000 partigiani
circondavano il centro e che allo scadere di 30 minuti sarebbero
passati all'attacco; non solo, ma gli eventuali tedeschi superstiti
sarebbero stati considerati criminali di guerra e quindi passati
per le armi.
Tutto ciò era un “bluff”, ed i 10.000 partigiani
esistevano solo nella mente di Ruju. Ma il comandante gli credette
e si arrese con i 500 uomini del suo presidio, consegnando tutte
le armi ai partigiani.
Per questo episodio lo stato “democratico” volle
decorare Ruju di una croce al valor militare, ma il nostro compagno
rifiutò l'inutile decorazione come fecero altri partigiani
anarchici per testimoniare nuovamente la loro fede anarchica.
CARRARA
La
resistenza anarchica nel centro apuano tradizionalmente libertario
Fin dal suo sorgere, il movimento operaio locale era stato fortemente
influenzato dal socialismo libertario, a tal punto che Carrara
divenne fin dai primi anni del secolo un importante centro di
propaganda anarchica.
Furono soprattutto le lotte anarcosindacaliste dei lavoratori
delle cave - che organizzati dall'anarchico Alberto Meschi ottennero
per primi in Italia le sei ore e mezza di lavoro - ad indicare
ai lavoratori la validità dell'attività politica
degli anarchici: e così Carrara fu sempre in prima linea
nelle lotte di popolo contro il militarismo, contro la tracotanza
padronale, contro la repressione di stato e quindi oppose fin
dall'inizio decisa resistenza al fascismo. L'intera provincia
del carrarino, con quelle vicine di La Spezia, Pisa e Livorno,
fu uno degli epicentri del terrorismo squadrista. Basti ricordare
la sparatoria contro un gruppo di anarchici da parte di una
squadraccia fascista appoggiata dai carabinieri, a Carrara (giugno
1921). E poi lo sciopero generale nella stessa città
in risposta all'aggressione fascista contro il compagno Alberto
Meschi, allora segretario della Camera del Lavoro (18 ottobre
1921), ed il ferimento, sempre da parte delle camicie nere,
dell'anarchico Bonnelli a Berizzano (Carrara). Tanti simili
episodi costellano l'opposizione antifascista dei lavoratori
della zona, che sempre portarono il loro aiuto anche agli altri
centri vicini assaliti dai fascisti, come durante i fatti di
Sarzana, in seguito ai quali una cinquantina di anarchici furono
processati sotto l'imputazione di “associazione a delinquere”
(19 gennaio 1922).
Durante il ventennio della dittatura fascista l'opposizione
popolare al fascismo si mantenne viva, anche se non vi furono
episodi clamorosi a testimoniarla (a parte il fallito attentato
al duce degli anarchici carrarini Lucetti e Vatteroni, di cui
parliamo in altra parte.
la
formazione “Lucetti”
Quando, all'indomani dell'8 settembre 1943, seppero che i tedeschi
stavano disarmando i soldati italiani nella caserma “Dogali”
di Carrara, molti anarchici (fra cui Del Papa, Galeotti, Pelliccia,
ecc.) si recarono sul posto e riuscirono ad impossessarsi di
molte armi, formando squadre di partigiani.
La partecipazione degli anarchici alla Resistenza propriamente
detta assunse proporzioni determinanti nel carrarino, più
che in qualsiasi altra zona d'Italia. Non si trattò infatti
né della presenza di singole individualità né
fu caratterizzata dall'adesione degli anarchici a formazioni
partigiane non anarchiche, in maniera disorganica. Fu veramente
un fenomeno di massa, che coinvolse la grande maggioranza della
popolazione è che vide in prima fila sempre formazioni
anarchiche.
Dal settembre 1943 i compagni stesero una valida rete di contatti
che comprendeva anche Sarzana ed altri centri, ed il primo rastrellamento
operato dai carabinieri e dalla milizia fu appunto attuato contro
i primi tentativi organizzati di resistenza anarchica. Ma l'azione
repressiva non sortì l'effetto sperato, poiché
il movimento di resistenza era saldamente radicato; furono compiuti
alcuni arresti fra gli anarchici, dopo meno di due mesi, comunque
fu rapito il figlio del direttore delle carceri di Massa, ed
in cambio della sua liberazione fu ottenuta la scarcerazione
dei compagni arrestati.
Ricostituita la sua piena organicità, il movimento anarchico
si sviluppò ulteriormente sia in città sia nei
piccoli centri, prendendo contatti con gli altri raggruppamenti
antifascisti. La formazione anarchica “Gino Lucetti”
si trovò ad operare nella stessa zona di altre formazioni;
si stabilì di costituire un comando unificato della Brigata
Apuana, pur lasciando autonomia alle singole componenti politiche
(anarchici, comunisti, ecc.). Questa decisione fu conseguente
alla necessità, fortemente sentita, di coordinare tecnicamente
le operazioni belliche contro i nazifascisti, che - con il progressivo
stabilizzarsi della Linea Gotica - si erano fatti ancora più
numerosi e più spietati nel reprimere il movimento partigiano.
In generale i rapporti fra la “Lucetti” e le altre
formazioni erano buoni, anche se la recente traumatizzante esperienza
della guerra di Spagna spingeva ad una grande diffidenza nei
confronti dei comunisti, ed in particolare della loro formazione
“Giacomo Ulivi”.
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Partigiani anarchici in marcia nelle Alpi Apuane |
l'episodio
di Casette
Quanto questa diffidenza non fosse infondata lo dimostra l'episodio
di Casette, finora assolutamente inedito, e sconosciuto al di
fuori della cerchia di coloro che vi parteciparono. Si avvicinava
l'inverno del '44, e la situazione era veramente difficile sia
a causa della crescente repressione nazifascista sia per il
mancato arrivo degli aiuti alleati. In compenso Radio Londra
continuava a trasmettere inviti ai partigiani a tornarsene a
casa, per trascorrervi l'inverno. Ma le vendette nazifasciste
attendevano chi fosse tornato a casa dai monti e dalle valli,
per cui i partigiani preferirono restare alla macchia, preparandosi
alla prossima primavera. Fu stabilito di cercare di superare
la linea Gotica attraverso i monti, e di cercare di riparare
a Lucca, città tenuta dagli alleati.
In un'unica colonna si trovarono a marciare partigiani della
“Lucetti” e quelli comunisti della formazione “Giacomo
Ulivi”, con i rispettivi comandanti Ugo Mazzucchelli (che
ci ha narrato questo episodio di casette) e Guglielmo Brucellaria.
Quando giunsero nei pressi di un ponte che, vicino al paesino
di Casette, congiunge due vallate, i comandanti comunisti chiesero
con insistenza agli anarchici di prendere la testa della colonna,
e di passare per primi sul ponte. Era notte fonda, e quando
Ugo Mazzucchelli per primo si accinse a traversare il ponte,
il cupo silenzio dell'oscurità fu rotto dal crepitare
infernale di una mitraglia, che, posta in una casa-matta antistante
il ponte, poteva fortunatamente colpire solo una parte del ponte.
Così il nostro compagno, ed altri anarchici, poterono
mettersi in salvo, contrariamente a quelle che certamente erano
le speranze dei comunisti. La loro precedente insistenza fece
subito sorgere gravissimi interrogativi fra gli anarchici, che
stesero un duro rapporto al comando unificato della Brigata
Apuana: questi interrogativi ebbero una precisa risposta quando
si venne a sapere con certezza che i dirigenti comunisti sapevano
con anticipo della presenza di una mitraglia in quella casa-matta,
ma sul tutto venne subito steso il silenzio più assoluto,
con la solita giustificazione della necessità dell'unità
(sic!) antifascista.
la difesa di Carrara
Oltre alla “Lucetti”, operarono nel carrarino la
formazione anarchica “Michele Schirru”, parallela
alla “Lucetti”, la divisione “Garibaldi Lunense”,
formata soprattutto da anarchici e la formazione “Elio
Wockievic”, il cui vice-comandante, l'anarchico Giovanni
Mariga, fu talmente valoroso da vedersi concessa la medaglia
d'oro al valor militare, che naturalmente rifiutò per
restare coerente alle idee anarchiche.
Sia sulle Apuane sia nella pianura costiera operarono costantemente
numerosi raggruppamenti anarchici, che ovunque si trovarono
ad affrontare la criminale repressione nazifascista.
Il carrarino fu infatti teatro di alcune delle stragi più
efferate commesse dai tedeschi e dai loro servi repubblichini:
basti pensare alla distruzione delle popolazioni del paesino
di Sant'Anna di Stazzena (560 morti, 12 agosto 1944), di Vinca
(173 morti, 24 agosto 1944) e di San Terenzo Monti (163 morti,
19 agosto 1944). E l'elenco non finisce certo qui. In questa
tragica realtà di guerra, distruzioni e rappresaglie,
gli anarchici del carrarino ebbero il grande merito di organizzare
e di difendere la vita della popolazione nella città
di Carrara. Soprattutto i compagni si incaricarono di assicurare
il regolare flusso degli approvvigionamenti, e di far funzionare
l'Ospedale, continuando nel contempo la lotta armata contro
il nemico.
Indispensabili erano i fondi, ed il loro reperimento resta una
delle pagine più belle scritte dagli anarchici carrarini.
Il metodo adottato fu quello di convocare i ricchi possidenti,
e di obbligarli a versare ingenti somme ai partigiani, sotto
la minaccia delle armi e dietro regolare... ricevuta di versamento!
Di questa anzi venivano stilate tre copie, una per il versatore,
una per il Comitato di Liberazione Nazionale (C.L.N.) ed una
per il compagno Ugo Mazzucchelli, comandante della “Lucetti”,
presso la cui sede avvenivano queste convocazioni.
Così fu possibile aiutare le famiglie più bisognose,
finanziare le formazioni partigiane e l'Ospedale, rinsaldando
quella forte unità fra popolo e partigiani anarchici,
che resta la lezione più importante della resistenza
anarchica nel carrarino.
GENOVA
Fra gli anarchici più attivi nella resistenza ligure
ricordiamo Marcello Bianconi (membro del C.L.N. di Pontedecimo),
Emilio Grassini (combattente nella formazione anarchica “Malatesta”,
Emilio Caviglia, Adelmo Sardini, Giuseppe Pasticcio, Antonio
Pittaluga. Quest'ultimo morì a Genova il 24 aprile 1945,
durante le ultime fasi della lotta per la liberazione della
città. Quel giorno Pittaluga, già distintosi in
numerose azioni armate, si imbattè nelle preponderanti
forze tedesche asserragliate nell'albergo “Eden”,
ed all'invito ad arrendersi rispose con il lancio di una bomba
a mano, prima di cadere ucciso sotto i colpi dei nazi-fascisti.
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Genova, 25 aprile 1945, partigiani in azione |
Anarchici ammazzati dai nazifascisti durante
la resistenza
Questo elenco, che riprendiamo dal periodico libertario “L'Impulso”
(15 aprile 1955) è, come avvertono i curatori, assolutamente
incompleto. Esso non comprende i nomi di numerosi compagni dei
quali non sono riusciti a raccogliere dati sufficienti. Non
comprende altresì i nomi di tanti compagni caduti nella
mischia talvolta senza lasciare una traccia.
Nel Veneto
ALFREDO MUNARI, già volontario in Spagna, partigiano
sull'Altipiano dei 7 Comuni, ucciso a Valgallania il 5 settembre
1944.
GIOVANNI DOMASCHI, attivo militante anarchico e antifascista,
condannato a 15 anni di reclusione durante il fascismo, poi
confinato, nel 1943 partecipa alla fondazione del C.L.N. di
Verona. Arrestato e torturato dalle SS fu successivamente fucilato.
A Trieste
GIOVANNI BIDOLI, già perseguitato e confinato, militante
della resistenza triestina, arrestato dai tedeschi, deportato
in Germania, morì in campo di concentramento.
CARLO BENUSSI, originario di Zara, perseguitato, esule, arrestato
a Trieste dai tedeschi, deportato, morì in campo di concentramento.
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Giaveno (TO), 14 Agosto 1944: partigiani impiccati |
In Piemonte
SPARTACO ERMINI, attivo elemento di una formazione partigiana,
cadde nelle Langhe.
GIACINTO REPOSSI, di Torino, militante della resistenza,
deportato in Germania ed ucciso a Mathausen.
GIULIO GUERRINI, comandante di formazioni partigiane in Val
Pellice, preso prigioniero nel corso di un combattimento, deportato
in Germania, morì a Leitmeritz, in Cecoslovacchia nel
maggio 1945.
DARIO CAGNO, già confinato, arrestato per complicità
nell'esecuzione del seniore Giardina, venne fucilato nel cortile
della Caserma Monte Grappa il 22 dicembre 1943.
ILIO BARONI, militante attivo della resistenza torinese,
cadde nel corso dei combattimenti per la liberazione di Torino.
A Milano
PIETRO BRUZZI, vecchio militante, più volte esule
in Francia, Russia, Germania, Spagna; confinato, redattore di
pubblicazioni clandestine anarchiche, fu arrestato, torturato
e fucilato dai tedeschi nel 1944.
A Roma
GIOVANNI GALLINELLA, già confinato, tornato a Roma
dopo la caduta del fascismo, fece parte di una banda partigiana
libertaria; arrestato, fu deportato a Mathausen dove morì.
ALBERTO DI GIACOMO, già confinato, arrestato nel febbraio
1944 per la sua attività partigiana; deportato in Germania
morì a Mathausen.
LELLO LOTTI, perseguitato politico, fece parte di una banda
partigiana libertaria; arrestato, deportato in Germania, morì
a Mathausen.
GIULIO RONCACCI, militante della resistenza romana, operante
con le squadre del Partito d'Azione, ucciso alle Fosse Ardeatine.
ALDO ELOISI, partigiano, catturato durante un conflitto a
fuoco, torturato alla Pensione Jaccarino, quindi fucilato alle
Fosse Ardeatine.
UMBERTO SCATTONI, partigiano, catturato da poliziotti italiani
al servizio dei tedeschi, condotto a Via Tasso, quindi fucilato
alle Fosse Ardeatine.
RIZIERO FANTINI, già esule nel Nord e nel Sud-America,
collaboratore di periodici nostri, operò in formazioni
partigiane del Partito Comunista. Arrestato, torturato nella
propria casa, quindi incarcerato con i propri figli. Fucilato
a Forte Bravetta il 31 dicembre 1943.
Nelle Marche
ALFONSO PETTINARI, prima elemento attivo della Resistenza
a Roma, poi commissario politico di una formazione partigiana
nelle Marche, cadde nella zona di Macerata il 14 luglio 1944.
CRISTOFANO GIORGIANI, militante della Resistenza, arrestato
per la sua attività, fucilato insieme a suo figlio diciottenne
a Fermignano (Pesaro) il 2 agosto 1944.
In Toscana
GINO MANETTI, perseguitato ed esule, arrestato a Firenze
nel 1943, venne fucilato per rappresaglia al Poligono di Tiro
delle Cascine.
ORESTE RISTORI, vecchio militante, incarcerato a Firenze
nel 1943, venne fucilato per rappresaglia al Poligono di Tiro
delle Cascine.
RENATO MACCHIARINI, carrarese, esule e combattente in Spagna,
deportato dai tedeschi in Italia dopo l'occupazione della Francia,
confinato, viene paracadutato dagli alleati in Toscana: fatto
prigioniero dai tedeschi ad Altopascio, è deportato in
Germania ed ivi soppresso in un campo di concentramento.
SILVANO FEDI, comandante partigiano nel pistoiese, cadde
in un'imboscata nel luglio 1944.
In Romagna
FABIO MELANDRI, di Ravenna, già redattore del giornale
anarchico “L'Aurora”, fucilato dai tedeschi insieme
alla figlia, a Villa dell'Albero nel novembre 1943.
FILIPPO PERNISA, militante di Massalombarda, venne ucciso
da elementi di una “brigata nera” sulla pubblica
via il 24 ottobre 1943.
In Emilia
ATTILIO DIOLAITI, di Bologna, fucilato il 1 aprile 1944 alla
Certosa insieme ad altri compagni.
EMILIO ZAMBONINI, perseguitato ed esule, già volontario
in Spagna, fucilato al Poligono di Reggio Emilia il 29 gennaio
1944.
In Liguria
RENATO OLIVIERI, dopo aver scontato molti anni di carcere
e di confino, prese parte alla lotta partigiana in Lunigiana;
fatto prigioniero durante uno scontro, venne torturato e fucilato
a La Spezia.
ANTONIO PITTALUGA, attivo partigiano nella zona di Genova-Nervi,
cadde il 24 aprile 1945, nell'assalto all'Albergo Eden dove
si trovavano asserragliate forze tedesche.
UMBERTO RASPI, originario di Volterra, già combattente
in Spagna, comandante delle Squadre d'Azione anarchiche nella
zona Genova-Arenzano, arrestato e deportato in Germania, fucilato
a Buchenwald il 4 aprile 1945.
MARIO COLANDRO, arrestato dalle SS tedesche e deportato in
Germania nel gennaio del 1944, fucilato a Dachau il 22 marzo
1945.
EMANUELE CAUSA, membro delle Squadre d'Azione della Federazione
Comunista Libertaria, militante attivo nel periodo della cospirazione
a Genova-Sestri, fucilato dalle Brigate Nere a Portofino nell'agosto
1944 e gettato a mare.
DOMENICO DI PALO, arrestato e fucilato dalle Brigate Nere
a Portofino nell'agosto 1944.
BRUNO RASPINO, originario di Govone d'Asti, componente delle
formazioni della Federazione Comunista Libertaria a Sestri,
arrestato e fucilato dalle Brigate Nere a Portofino il 29 agosto
1944. Aveva diciotto anni.
CIPRIANO TURCO, arrestato il 20 luglio 1944 e deportato in
Germania dove morì due mesi dopo.
MARIO BISIO, membro delle squadre d'azione. Arrestato nel
1944 e fucilato in un forte di Genova.
CARLO RAVAZZANI, membro dei GAP. Arrestato nell'ottobre 1944,
venne fucilato nel successivo dicembre a Portofino.
EMANUELE SCIUTTO, membro dei GAP dal gennaio 1944. Arrestato
nel novembre e fucilato a Portofino nel dicembre dello stesso
anno.
RINALDO PONTE, membro dei GAP per tutto il periodo cospirativo;
cadde il 25 aprile 1945, assieme al comunista Raffaele Pieragostini.
CATANI GIACOMO, nato il 24 dicembre 1923. Membro delle Squadre
d'Azione. Disperso. Non si è più avuta alcuna
notizia di lui.
PARODI ATTILIO, nato il 15 ottobre 1889, cadde in combattimento
in Val Bronda (Cuneo) il 19-4-1945.
DACCOMI MARIO, nato il 2 novembre 1924. Caduto in combattimento
a Rocchetta (Modena) l'11 agosto 1944.
STANCHI DARIO, nato il 21 agosto 1923. Membro della FCL e
partigiano. Arrestato e fucilato il 17 marzo 1944 a Ceva (Cuneo).
NATALINO CAPECCHI arrestato nell'agosto 1944 e trasferito
alla Casa dello Studente di Genova, in seguito deportato in
Germania dove morì.
ERNESTO ROCCA, membro dei GAP, arrestato una prima volta
e poi rilasciato, arrestato nuovamente nell'agosto 1944 e deportato
in Germania nel campo di Flossemburg dove morì.
Walter Stanchi, fece parte di una formazione partigiana,
cadde in combattimento a Pian Casotto nel 1944.
PIETRO BIGATTI, arrestato nell'agosto 1944 dalle SS tedesche,
deportato in Germania dove morì nel dicembre 1944.
OTELLO GAMBELLI, arrestato dalla polizia fascista e fucilato
a Portofino, nel 1945.
DOPO IL '45
La lotta degli anarchici italiani al fascismo non si è
fermata al '45. È continuata, soprattutto in termini
di solidarietà internazionale rivoluzionaria con i compagni
spagnoli. Il nostro breve ed incompleto panorama storico però
si vuole fermare alla cosiddetta liberazione. Citiamo solo tre
episodi del dopoguerra.
L'8 novembre del 1949, tre giovani anarchici, Busico, De Lucchi
e Mancuso, irrompono armati nel consolato spagnolo a Genova;
riuniscono il personale presente in anticamera, con le mani
alzate, poi espongono una bandiera anarchica al balcone e danno
fuoco all'archivio. Processati nel giugno e nel novembre del
'50, si trasformano da accusati in accusatori del fascismo iberico,
riuscendo ad avere pene relativamente lievi (da due a tre anni,
condonati).
Il 30 agosto del 1957, a Barcellona, il giovane anarchico carrarino
Goliardo Fiaschi viene arrestato assieme al compagno spagnolo
Luis Vicente. Essi con Josè Facerias trucidato dagli
sbirri quello stesso giorno, fanno parte di un commando italo-spagnolo
di “guerriglieri urbani”. Condannato a vent'anni,
sconterà solo una parte della pena in Spagna, perché
nel '65 viene estradato in Italia, dove nel frattempo è
stato condannato dalla “giustizia” italiana a tredici
anni e sette mesi per una rapina che il commando avrebbe compiuto
a Casale Monferrato nel '57 per finanziare l'azione antifranchista..
È ancora in carcere, a Lecce.
Nel settembre del 1962, quattro giovani anarchici, Amedeo Bertolo,
Gianfranco Pedron, Luigi Gerli, e Aimone Fornaciari, con l'aiuto
di tre giovani socialisti rapiscono il vice console spagnolo
di Milano e chiedono, per la sua liberazione, la revoca della
condanna a morte inflitta a Barcellona pochi giorni prima al
giovane anarchico Jorge Conil Valls. La condanna a morte viene
revocata e dopo tre giorni di prigionia il vice console viene
liberato. Tutta la vicenda ed il successivo processo a Bertolo
e compagni (conclusosi con pene lievi) è una grande occasione
di propaganda antifranchista e libertaria.
Hanno collaborato alla redazione di questo numero speciale
dedicato agli anarchici contro il fascismo molti compagni,
gruppi e federazioni: Antonio Ruju (Torino); Ivan
Guerrini (Brescia); Clara Germani (Trieste);
Gino Ganese e Vincenzo Toccafondo (Genova);
Federazione Anarchica Spezzina; Mario Marenghi
(Piacenza); Michele Reggio (Reggio Emilia); Pio
Turroni (Cesena); Giampiero Landi e Nello
Garavini (Castelbolognese); Piero Orselli (Ravenna);
Centro Studi Sociali “Malatesta” (Imola);
Gino Cerrito (Firenze); Sergio Ravenna (Carrara);
Alfredo e Ugo Mazzucchelli (Carrara); Renzo
Vanni (Pisa); Organizzazione Anarchica Lucchese;
Gruppo “Azione Anarchica” di Pistoia;
Federazione Anarchica di Livorno; Federazione
Anarchica di Piombino; Renzo Zuccherini (Perugia);
Remo Franchini (Ancona); Giuseppe Galzerano
(Casalsavino Scalo - SA); Giuseppe Sallustro (Torre
del Greco); Achille Maccioni (Romana - SS); Pietro
Montaresi (Bruxelles). |
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