Piacenza
Resistenza: sostantivo femminile. Plurale
di Iara Meloni
Dalle testimonianze di anziane che vissero la stagione della Resistenza e dell'occupazione nazista e di loro più giovani parenti, che ricordano i racconti di madri, nonne, zie, ecc, emerge uno spaccato della vita quotidiana, delle difficoltà, dei valori di fondo – in pianura come nelle valli appenniniche – in cui il segno al femminile è determinante.
Excursus: le ragioni di una ricerca
Quando avevo circa nove anni feci una scoperta che mi cambiò la vita.
In una vecchia cassapanca della casa di campagna, quella dove,
con la mia famiglia, trascorrevo tutte le estati, trovai una
vecchia collezione di dischi 33 giri, appartenuti forse a qualche
zio o cugino. Fu lì che per la prima volta sentii cantare
Fabrizio De André.
Si trattò di un'illuminazione improvvisa. Passai il resto
delle vacanze scolastiche ad ascoltare e riascoltare fino allo
sfinimento quei dischi e a riempirmi la testa di quelle parole
e di quelle melodie.
Un disco in particolare, ancora non lo sapevo, ma sarebbe diventato
fondamentale per la mia formazione, come spesso succede, in
maniera assolutamente imprevedibile e trasversale.
Adorai dal primo ascolto Non al denaro, non all'amore ne
al cielo e i suoi personaggi così veri, con le loro
piccole storie umane, capaci di raccontarsi con incredibile
sincerità e trasparenza, quando ormai la morte e il tempo
hanno fatto piazza pulita di vuote convenzioni sociali, piccole
bugie e meschinità.
Paradossalmente però la cosa che mi colpì più
in profondità di quel disco non fu un brano, un personaggio,
un verso. Nelle note di copertina, che lessi e rilessi fino
ad impararle a memoria, si trovava un'intervista a Fabrizio
De André fatta da una donna, Fernanda Pivano, che solo
in seguito avrei imparato a conoscere.
Un'intervista vera, diretta, che lasciava intravedere l'uomo
De André dietro al cantautore. Un'intervista che si chiudeva
in modo inusuale, con una domanda che, in maniera affettuosamente
provocatoria, l'intervistato rivolgeva all'intervistatrice.
“Ti sei dimenticata di rivolgermi una domanda: chi è
Fernanda Pivano? Fernanda Pivano per tutti è una scrittrice.
Per me è una ragazza di venti anni che inizia la sua
professione traducendo il libro di un libertario mentre la società
italiana ha tutt'altra tendenza. È successo tra il '37
e il '41: quando questo ha significato coraggio.”
Forse ognuno si costruisce a posteriori spiegazioni suggestive
per ricercare l'origine di interessi, passioni, idee ricorrenti,
che invece sono solo il frutto di innate inclinazioni, occasioni
fortuite, incontri dettati dal caso.
Ecco, a me piace pensare che sia in quella lontana estate, china
sui dischi di De André, con le note de Il suonatore
Jones nelle orecchie, colpita nel profondo da quelle parole
che ancora non capivo bene, che sia nata in me la curiosità
di sapere cosa fosse successo a quella ragazza di nome Fernanda,
in quegli anni (neanche tanto) lontani. Ma soprattutto di quella
breve frase mi portai dietro un'idea, che solo anni dopo, quando
cominciai ad occuparmi di storia delle donne nell'antifascismo
e nella Resistenza, riuscii a sviluppare chiaramente: cioè
che in alcuni momenti storici avere coraggio, fare una scelta,
“resistere”, si concretizzi anche in azioni piccole,
quotidiane, normali, che in virtù dell'eccezionalità
degli eventi in corso assumono tutt'altro significato e valore.
Quella frase letta tanto tempo prima continuava a suggestionarmi
e a suggerirmi che in tempi bui, di dittatura, guerra, occupazione,
“resistere” potesse significare non solo impugnare
un'arma e sparare, ma anche infornare una pagnotta per uno sconosciuto,
avere pietà per un cadavere esposto per strada e fare
di tutto per seppellirlo, tradurre testi che parlano di libertà
e antimilitarismo in tempi di oppressione e culto della guerra.
Mi piace pensare che sia stato allora, in quell'estate lontana,
che in me nacquero in nuce gli interessi, le curiosità,
le domande da rivolgere al passato, le sensibilità ideali,
che mi avrebbero portata anni dopo a realizzare una tesi di
laurea magistrale sulla storia delle donne nella Resistenza
a Piacenza, la mia provincia; un lavoro che si concentra non
solo sulla partecipazione in armi alla lotta partigiana ma anche
sulle categorie di “resistenza civile”, “guerra
ai civili”, e vita delle donne in regimi di occupazione
militare.
Per realizzarla ho raccolto trenta interviste a donne piacentine
che settant'anni fa avevano vissuto i terribili mesi del dominio
tedesco nella provincia e preso parte al movimento di liberazione
locale. Partigiane, staffette, ma anche donne comuni che nelle
piccole comunità dell'Appennino si erano prodigate per
dare aiuto e supporto alle formazioni di combattenti coordinate
dal Comitato di Liberazione Nazionale.
Le storie delle loro vite e del loro impegno resistenziale sono
andate così ad affiancarsi alle altre fonti storiche,
ai documenti ufficiali, alla bibliografia, permettendo di far
luce non solo su quanto materialmente queste ragazze avessero
contato nella Resistenza, a quali azioni avessero partecipato,
che ruoli avessero ricoperto, ma anche con quali sentimenti
vi avessero aderito, quali speranze e quali paure avessero sperimentato.
Ne sono usciti ritratti di giovani donne coraggiose, ricche
di inventiva e ingegno, capaci di utilizzare tutte le proprie
risorse per arginare il disastro immane della guerra. Donne
capaci di agire sole in momenti in cui gli uomini sono braccati,
di mettere in campo forza morale, coraggio, fantasia e passione
per limitare gli effetti mortali del conflitto sulle persone,
ma anche sul territorio in generale, sui beni materiali ottenuti
grazie alla fatica e all'impegno di generazioni, sulle comunità
sottoposte a molteplici spinte centrifughe.
Vi proporrò qui alcuni dei loro racconti, raccolti nel
corso della ricerca, per cercare di capire cosa abbia significato
per le piacentine degli anni '40, vivere in una provincia occupata,
essere coinvolte negli scontri, nelle requisizioni, nelle rappresaglie,
e scegliere di prendere parte al movimento resistenziale, ognuna
con i propri mezzi e modi.
Si tratta di un quadro limitato, della storia di una trentina
di ragazze di una piccola provincia periferica dell'Emilia Romagna.
Ma che si allarga e assume rilevanza storica se immaginiamo
un filo rosso che lega idealmente Pierina, Maria, Mina, Alessandra,
che sulle colline del piacentino elaboravano creative strategie
di sopravvivenza e resistenza all'occupazione nazifascista,
a Fernanda che, a Torino, consapevole del rischio, traduceva
un libro proibito. E tutte le ragazze, le donne, che in silenzio,
ma con coraggio, sceglievano da che parte stare.
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Luisa Calzetta “Tigrona”. Nella foto a sinistra
è ritratta in compagnia di altre donne, a Folli di Ferriere |
“La mia piccola patria, dietro la Linea Gotica”: Piacenza occupata
Dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943 e l'uscita dell'Italia dall'alleanza con la Germania, Piacenza viene occupata dalle forze della Wehrmacht, così come gran parte del territorio italiano.
Come nelle altre zone soggette al controllo tedesco la quotidianità dell'occupazione è caratterizzata da un'intensa attività di sfruttamento dell'economia agricola e industriale e da razzia di manodopera, e il comportamento nei confronti della popolazione è contraddistinto da un crescendo di episodi di violenza. Le stragi diffuse, gli eccidi, le razzie e le deportazioni permettono di parlare dell'occupazione nazista in Italia come di un “sistema terroristico di dominazione”.
Per la popolazione piacentina il regime di occupazione significa sottostare a limitazioni alla libertà individuale, vedere ogni aspetto della vita economica e sociale sottoposta al controllo del Comando Militare germanico, subire requisizioni che influenzano negativamente le condizioni di vita, aumentando i problemi legati all'approvvigionamento alimentare, essere vittime di rappresaglie e violenze.
Spesso, in una situazione di assenza forzata di gran parte della popolazione maschile, a scontrarsi con gli aspetti crudi e disumani del dominio nazista sono proprio le donne, vittime di rappresaglie, sequestri di cibo e materiali vari, violenze, stupri. Le testimonianze raccolte mostrano una moltitudine di soprusi piccoli e grandi, subiti (anche se non sempre e non completamente in maniera passiva), per mano degli occupanti tedeschi e dei loro alleati fascisti, che restituiscono la violenta e terrorizzante dimensione quotidiana dell'occupazione. È qui che si vede il conflitto entrare nelle vite individuali, modificarle, sconvolgerle dalle fondamenta, scombinarle anche negli aspetti più piccoli e comuni.
Come raccontano le testimoni:
«Hanno ammazzato due tedeschi, allora ogni tedesco che si ammazzava, loro ne ammazzavano dieci. Ci avevano portati tutti in piazza.»
Anche lei?
«Anche io con mio figlio, davanti al monumento. Il presunto colpevole dell'uccisione dei tedeschi era un vecchio. L'hanno trovato dentro la greppia, dove si era andato a nascondere, e l'hanno ucciso. Se non l'avessero trovato avrebbero scelto tra noi chi uccidere.»
«Il signor N. era esonerato dal servizio militare perché lavorava per la Ditta Petroli, aveva tre bambini ed era a casa. Quando sono arrivati con il rastrellamento bussavano alle porte, come sono entrati a casa mia sono entrati in casa sua (...). Lui è sceso ad aprire la porta e come hanno aperto l'hanno preso e l'hanno portato via. Sua moglie chiamava: “Aiuto! Mi hanno portato via mio marito”. Allora mia mamma le ha detto: “Ti aiuto io a cercarlo.”
L'hanno trovato morto. Come l'hanno preso, l'hanno portato dietro un cascinale e l'hanno fucilato, forse perché... per cattiveria, che c'era stato un morto tra di loro, per vendicazione [sic]... non lo so.»
«Viene un tedesco e va nella nostra stalla. Noi il maiale l'avevamo nascosto dentro, con tutte le fascine intorno, non si muoveva neanche. È stata una donna; volevano prendere il suo, e allora lei ha detto: “Andate di là che ce n'è un altro più bello”. Allora sono venuti da noi e ci hanno portato via il maiale. Mia mamma piangeva e allora un tedesco le ha detto: “Mamma italiana non essere molto furba, perché uccidere maiale, metterlo sotto la neve e mangiarlo dopo, con tutti i bambini!”. Ma ormai...»
Lo sforzo di “restare umani”
I rastrellamenti tedeschi sono a Piacenza una triste realtà già
nell'estate del 1944, quando la provincia è investita
dall'Operazione Wallenstein, un rastrellamento strategico, guidato
dal Walter von Hippel, pensato per perseguire due obiettivi
di primaria importanza: requisire manodopera maschile e generi
alimentari per le esigenze del Reich e terrorizzare gli abitanti
della montagna, minando alla base il sostegno che i partigiani
potevano ricevere dai contadini. Operazioni militari come queste
creano una situazione anomala, di rovesciamento, in cui anche
i pochi uomini rimasti scappano e si nascondono, anche per periodi
piuttosto lunghi, e le donne rimangono sole a fronteggiare pericoli
e minacce.
«Cercavano uomini (...). Gli uomini si nascondevano. Mi
ricordo che mio marito e i suoi fratelli avevano fatto un buco
sotto alla concimaia...»
In questa situazione le donne si trovano ad affrontare la guerra,
e gli enormi disagi che essa provoca, attraverso lo sfruttamento
esponenziale delle proprie energie individuali e delle risorse
famigliari.
Garantire il sostentamento della famiglia, sottraendo cibo e
risorse all'inesorabile controllo degli occupanti, diventa progressivamente
un compito sempre più difficile, faticoso, per assolvere
al quale occorre fare appello a tutte le proprie forze, al proprio
coraggio, alla propria inventiva.
«Mio marito era riuscito a comprare un maialino. L'aveva
messo nel suo stallaccio, ma si sentiva sempre il maiale grugnire
e bisognava portarlo via, se no l'avrebbero scoperto. Allora
sono andata su con una carriola e mio figlio. Mi sono messa
d'accordo con i miei fratelli che lo portavo da loro. In piazza
c'era pieno di gente e pieno di tedeschi, noi siamo andati dentro
per prenderlo con un sacco (...). Allora l'ho preso così
e l'ho messo dentro il sacco. C'era pieno di gente, la piazza...
Il maiale ringhiava e mio figlio ci teneva su le manine, era
piccolino. Allora un tedesco, scherzando, ha preso un coltello
e ha fatto finta di colpirlo. Mio figlio ci è volato
contro le gambe: “Lascia stare il mio maialino! Lascialo
stare, eh!”. La gente che rideva... Anche i tedeschi ridevano
e alla fine non ce l'hanno ammazzato.»
In un tale contesto il significato della categoria di “Resistenza
civile” trova pieno risalto. Non si tratta infatti solo
di reperire con difficoltà, tra mille disagi e pericoli,
il cibo per assicurare la sopravvivenza a se stesse e alla propria
famiglia e comunità:
«si tratta nel suo insieme di un enorme lavoro di tutela
e trasformazione dell'esistente – vite, rapporti, cose
– che si contrappone sul piano sia materiale sia simbolico
alla terra bruciata perseguita dagli occupanti; di un rifiuto
a sottomettersi le cui conseguenze possono andare dalla denuncia
alla deportazione.»
Tanti gli episodi narrati in cui le donne si espongono perché
gli occupanti restituiscano bestiame requisito, liberino il
transito su una strada interdetta, permettano il celebrarsi
di feste e ricorrenze; altrettanti gli episodi in cui le civili
cercano di mantenere, in una situazione brutale e disumanizzante,
un simulacro di “normalità”, custodendo all'interno
di famiglie e comunità un nucleo intangibile di solidarietà
e di valori umani.
Una in particolare tra queste storie colpisce, per lo sforzo,
che trova uniti partigiani e popolazione civile, fatto per garantire
ai bambini del piccolo paese di Vernasca non solo il cibo e
la sopravvivenza materiale, ma anche un momento ricreativo e
spensierato.
«Mi ricordo che doveva passare Santa Lucia.
Era l'inverno del 1944-45, e c'era un posto di blocco a Vernasca.
Ho detto a mio figlio: “Bruno, vedi, quest'anno Santa
Lucia non può venire, perché c'è il posto
di blocco. Il carretto con l'asinello non passa…”.
Lui era tanto triste ma a quel tempo non c'era niente da mangiare,
non ce n'era, e io cosa gli dicevo?
C'era un ragazzo di Castell'Arquato, partigiano, che mi fa:
“Signora non ha proprio niente da dare al bambino?”
“Niente! Purtroppo quest'anno Santa Lucia non porta niente”.
Allora lui è andato al magazzino dove i partigiani conservavano
i viveri e ha preso un pezzo di burro e dello zucchero. Ho fatto
un'infornata immensa di biscotti e li hanno mangiati tutti i
bambini di Vernasca.
Li ha portati Santa Lucia»
Lo sforzo di “restare umani”, di difendere, pur
nel terribile contesto della guerra, spazi comuni di spensieratezza
e allegria, l'impegno per garantire ai figli un'infanzia il
più possibile serena e normale, la cura spesa, pur in
un clima radicalmente mutato, nel ricordare tradizioni e feste
locali, momenti fondanti della costruzione di una identità
comunitaria: tutti aspetti che restituiscono alcuni tratti del
carattere profondo dell'impegno femminile.
Come scrive Mirco Dondi
«Le feste nelle zone rurali sono innanzitutto riti che
sanciscono o confermano l'unione della comunità, e nel
conflitto che si sta sviluppando l'unione della comunità
è minacciata (...).»
Siamo quindi di fronte a forme di Resistenza apparentemente
secondarie ma molto importanti dal punto di vista simbolico:
si cerca di creare le condizioni di vita più favorevoli
per tutta la comunità, si capitalizzano i piccoli passi,
i risultati parziali e provvisori, si dà importanza a
gesti di lieve entità ma di grande peso morale.
E a incaricarsi di questa funzione di mantenimento della continuità
con le scansioni e i riti del tempo di pace sono spesso le donne.
I rastrellamenti tedeschi per la requisizione di forza lavoro
maschile per fini militari e di vettovaglie per le esigenze
dell'esercito danno luogo a un rovesciamento dei ruoli tradizionali:
sono le donne che devono provvedere integralmente al sostentamento
del nucleo famigliare, sobbarcandosi l'intero peso delle attività
agricole e piccolo-imprenditoriali. Se gli uomini sono costretti
in una situazione di passività, obbligati a fuggire e
nascondersi, le donne li proteggono, tacendo sulle loro posizioni,
facendo finta di non conoscere i loro nascondigli, avvertendoli
sugli spostamenti delle truppe.
È interessante notare come spesso nei racconti dei pericoli
corsi in questo momento di “assenza di uomini”,
emerga una precisa strategia narrativa, che vuole essere una
forma di riscatto femminile: si enfatizza il proprio ruolo da
protagonista, la propria astuzia, il disprezzo del rischio,
la capacità di fare ricorso a strategie creative per
giustificare le assenze maschili senza subire ritorsioni.
«Mi ricordo che avevo un cognato io, il marito di mia
sorella, che era andato in Germania, e ci aveva scritto da là.
Una volta sono venuti dei tedeschi severi, severi: “Suo
marito?”. Per fortuna che io avevo quel cognato lì
che era stato in Germania a lavorare. Ho messo la mano in alto
e ho tirato fuori una cartolina postale scritta da lui: “Ecco,
mio marito è qui, a lavorare in Germania”. Ma aveva
visto degli scampoli e mi ha detto: “E chi lavora?”
“Io, io faccio la sarta”. È andata bene che
non mi ha detto di cucire qualcosa, se no...»
I tedeschi cosa facevano?
«Arrivavano e cercavano. Quando avevo mio figlio piccolino
sono venuti i tedeschi e mi facevano: “Dove marito?”.
Mio marito era scappato, era nell'Ongina dentro un buco, sotto
un cespuglio. Io ho detto: “Non ce l'ho il marito”
“Come? E questo figlio?”. Ho alzato le spalle, così.
C'erano delle altre sposine, hanno visto, c'era la Giulia...
e nessuna aveva il marito, erano tutti scappati e allora uno
fa: “Signorine italiane niente bene, tutte senza marito
con bambino”. Il mio vicino aveva una cagnetta incinta,
un tedesco l'ha messa sul davanzale della finestra: “E
questa? Niente marito neanche lei!”. Aveva una panciona,
questa cagnetta!»
«Una volta mio marito era scappato e aveva lasciato un
paio di scarpe sotto il letto. Io ero con mio figlio piccolino
e il tedesco mi ha fatto: “Dov'è il marito?”
“Non c'è, non ce l'ho” “E queste scarpe
da uomo?”. Mi è venuto in mente e ho detto: “Sono
per mio figlio quando sarà grande”... che stupidata!
Lui si vede che era una brava persona, che aveva bambini piccoli.»
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Giuliana e altre ragazze di Gropparello |
Le piacentine e il “Grande Rastrellamento”
La situazione descritta peggiora esponenzialmente tra il novembre del 1944
e il gennaio seguente, quando l'intera provincia viene investita
da un'operazione militare su più larga scala, mirata
a debellare definitivamente la presenza partigiana. Approfittando
della situazione di stallo determinatasi in seguito al cosiddetto
“Proclama Alexander” del 13 novembre, i tedeschi
riversano sulla XIII Zona partigiana, corrispondente ai territori
della provincia di Piacenza, e su zone limitrofe del Pavese,
del Genovese e dell'Alessandrino, circa 21 mila effettivi, oltre
a contingenti ausiliari della Repubblica Sociale Italiana. L'obiettivo
principale è quello di riacquistare il controllo della
Zona, che nell'estate precedente aveva visto un'enorme crescita
del fenomeno partigiano, con ampie aree controllate direttamente
dalle formazioni patriottiche. L'assoggettamento di Piacenza
e della sua provincia era considerato infatti di primaria importanza
per il Comando Tedesco, perché, in caso di sfondamento
della Linea Gotica, la libertà di muoversi su questo
territorio avrebbe permesso di ritirarsi ordinatamente o predisporre
un'ulteriore linea difensiva lungo il fiume Po. La centralità
di Piacenza come snodo stradale e ferroviario, poi, rendeva
essenziale riprendere il controllo delle vie di comunicazione,
diventate pericolose a causa delle continue imboscate partigiane.
La funzione antipartigiana di quello che è comunemente
definito il “grande rastrellamento invernale” ha
delle ricadute pesanti non solo per le brigate partigiane, ma
anche per tutta la popolazione civile: alle grandi battaglie
volte a disperdere le forze della Resistenza si accompagna una
violenta azione di rastrellamento casa per casa. Alle misure
di repressione della guerriglia si unisce una sistematica operazione
di razzia di beni alimentari, utile non solo a sostenere le
esigenze dell'imponente esercito occupante ma anche a mettere
in difficoltà la già provata popolazione delle
montagne, rendendo sempre più difficile e gravoso il
rapporto di solidarietà che in molte zone si era instaurato
con i “ribelli”.
Si tratta del momento di maggiore difficoltà per le formazioni
partigiane del Piacentino, che non riescono a fronteggiare la
gigantesca forza d'urto e si disperdono, nascondendo le armi
e cercando riparo singolarmente o a piccoli gruppi.
Nell'inverno del “grande rastrellamento” il dare
rifugio a partigiani e sbandati diventa ancora più pericoloso
per i civili, a causa del sempre maggiore controllo esercitato
dall'esercito tedesco e dell'accresciuta severità delle
punizioni, che puntavano ad essere esemplari e scoraggiare qualsiasi
forma di sostegno e supporto ai “ribelli”.
Simbolo di questa fase di sbandamento è il “buco”,
fossa sotterranea scavata con mille precauzioni e accorgimenti
per risultare invisibile dall'esterno, in cui ci si rifugia,
rimanendo immobili in spazi angusti per intere giornate e affidandosi
totalmente ai civili, di solito alle donne. Sono loro che portano
il cibo cercando di non farsi notare, avvisano in caso di arrivo
dei reparti di rastrellatori, cercano di distrarre i militari
nel caso si avvicinino troppo ai nascondigli.
«Gli uomini si nascondevano. Mi ricordo una che mio marito
e i suoi fratelli avevano fatto un buco sotto alla concimaia...
robe da matti! (...) La gente si nascondeva... dei buchi sotto
terra facevano.»
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Claudia Catelli “Cicci”, 38a Brigata
Garibaldi Divisione Val D'Arda |
I “mongoli” della Turkestan
Combattimenti impari, disperati tentativi di resistenza, cascine date alle fiamme, uccisioni, fughe precipitose in mezzo alla neve, nascondigli ingegnosi ma non sempre efficaci, sbandamenti, razzie di bestiame, distruzione di suppellettili: il grande rastrellamento invernale ritorna nelle parole dei testimoni come un periodo di paura, confusione, difficoltà estrema declinata in mille forme diverse. Eppure c'è un aspetto che tutti ricordano e di cui tutti parlano, un qualcosa che viene da lontano, da luoghi esotici, quasi inimmaginabili per il ristretto orizzonte dei contadini di montagna, degli abitanti dei piccoli paesi dell'Appennino per molti dei quali la stessa città di Piacenza rimaneva un altrove mai visto. Un qualcosa che incuriosisce e spaventa, e finisce per incarnare la violenza, la brutalità, la bestialità del grande rastrellamento. Non si può parlare infatti con qualcuno, partigiano o testimone, uomo o donna, che abbia vissuto nel Piacentino nell'inverno 1944-45 senza che emerga, quasi sempre con forza, il discorso dei “mongoli”.
Ricordati con un nome coniato in tempi lontani dalla sensibilità del politically correct, i “mongoli” sono soldati calmucchi, uzbechi, tartari, georgiani, karakalpachi, azebargiani, ucraini, kirghisi inquadrati nella 162a Divisione “Turkestan”, una delle Ostlegionen, le formazioni volontarie composte da prigionieri catturati dai nazisti sul fronte sovietico. Un nome dovuto ai tratti somatici di sapore asiatico ma che, non a caso, rimanda a Gengis Khan, alle orde barbariche, a terribili invasioni e devastazioni, a un'ondata di terrore che viene da lontano, quasi dai margini del mondo civilizzato. Sono loro, i circa 12 mila uomini della 162a ai comandi del generale Ralph Von Heygendorff, che, insieme a reparti tedeschi e della RSI, compiranno in ampie zone del Piacentino, del Genovese e del Pavese, durissimi rastrellamenti in funzione antipartigiana, scompaginando le fila del locale movimento partigiano e mettendo in ginocchio la popolazione.
Nelle testimonianze raccolte i “mongoli” sono raffigurati come individui bestiali, dai tratti somatici spaventosi, tali da non sembrare nemmeno umani.
«I mongoli erano molto piccoli e molto brutti, non sembravano neanche persone. Ci sarà stato un metro e mezzo di neve a quell'epoca, nevicava a più non posso, venivano sotto la neve... non sopra, camminavano sotto la neve come le talpe. Noi si guardava dalla finestra e si vedeva la neve muoversi, poi spuntavano fuori... era un disastro vedere quelle persone lì... paurose proprio.»
«I mongoli sono molto brutti eh! Poverini, non è colpa loro... però quando te li vedi davanti, tutti sporchi, tutti pieni di fango. Aver davanti degli omoni così... io ho fatto in tempo a scappare in mezzo ai campi ma hanno portato via la bicicletta e poi hanno picchiato tanto mio nonno.»
«Erano spaventosi da vedere, brutti, con quei baffoni, con quegli occhi.»
È interessante notare come spesso, nelle testimonianze, i “mongoli” siano associati alla bestialità e alla ferinità in riferimento al cibo. Già da tempo gli antropologi si occupano del cibo e delle pratiche legate ad esso, cercando di svincolarlo dalla sua mera accezione di “nutrimento”, inteso come soddisfacimento di un bisogno fisiologico, per evidenziarne la natura di costruzione culturale, elaborata dalle comunità umane nel corso dei secoli. In un mondo in cui il contatto, il dialogo, lo scambio tra culture sono ormai una consolidata normalità, le attuali riflessioni sul cibo come strumento di ostentazione dell'identità culturale e di definizione della differenza etnica offrono spunti interessanti di analisi sulla percezione che i testimoni hanno avuto delle truppe naziturkestane. In particolare le pietanze tradizionali sono state al centro di recenti polemiche nazionali legate all'immigrazione e alla supposta perdita dell'identità culturale, che hanno reso evidente come attraverso il cibo si definisca non solo l'identità, a livello sia individuale che comunitario, ma anche l'alterità, legando fortemente un alimento percepito come insolito e “non buono da mangiare e assimilare”, a chi lo consuma, percepito anch'esso come alieno e non assimilabile.
Con le dovute differenze di contesto storico e culturale anche le testimonianze sul “grande rastrellamento” rimandano al cibo: nel delineare gli aspetti di bestialità e inumanità dei naziturkestani si sottolinea come fossero soliti nutrirsi di alimenti che in queste zone venivano consumate raramente, e soprattutto come si cibassero in modo ferino, macellando e cuocendo la carne in modo approssimativo.
Mi parli dei mongoli.
«I mongoli mangiavano le pecore, i tedeschi mangiavano i maiali e le galline. Oppure ammazzavano le oche e dicevano: “Calina grande”. I mongoli mangiavano le pecore.»
Voi mangiavate la carne di pecora?
«No, noi non l'abbiamo mai mangiata, non l'abbiamo mai voluta.
I mongoli tagliavano la testa alle galline e facevano venire fuori il sangue. Tu dovevi pulirgliele e farle cuocere nella pentola. Tu dovevi mangiare con loro perché avevano paura che tu li avvelenassi, non ti andava giù niente delle volte, e non avevi fame... ma dovevi mangiare con loro...»
«La carne di pecora era particolarmente gradita ai mongoli.»
La violenza contro i corpi, la violenza contro le cose
E poi l'aspetto che le donne intervistate ricordano sempre con terrore
è quello degli stupri. Si tratta di un tipo di violenza
specificamente connotata in base al genere, e che fatica a trovare
spazio nella memoria popolare: se è molto comune trovare
nelle testimonianze racconti relativi alle violenze, questi
sono sempre lontani, appresi per sentito dire, accaduti a qualche
vicina o conoscente e mai narrati in prima persona. Allo stesso
modo nella storiografia locale sulla guerra di Liberazione,
che pur spesso fa generici riferimenti alla violenza sulle donne
che avrebbe accompagnato il rastrellamento, non si riescono
a trovare indicazioni puntuali e accurate sui tempi, i modi
e le vittime di questa violenza.
Al di là dei comprensibili silenzi dei testi e dei testimoni,
la violenza sessuale sulla popolazione civile accompagna le
diverse fasi del grande rastrellamento, assumendo rilevanza
come problema sociale se il parroco di Broni, piccolo paese
a cavallo tra il Piacentino e il Pavese, nel dicembre 1944 scrive
sul suo diario:
«Le gravi voci di violenza sulle donne da parte delle
truppe germaniche comprendente [...] truppe di ogni nazionalità,
già prima prigionieri di guerra, vengono confermate da
una circolare segreta inviata dall'autorità degli ospedali
in cui si autorizzano gli aborti per far scomparire le prove
della violenza.»
Le testimonianze raccolte fanno spesso riferimento alla violenza
sessuale compiuta dai “mongoli”, una violenza che
ha due caratteri:
a) è indiscriminata, si rivolge verso ogni donna,
anche quelle anziane, non risparmia donne incinte e malate,
poco appetibili, e a nulla valgono strategie di camuffamento
come il tentare di invecchiarsi, di rendersi meno piacenti;
b) è brutale, si accompagna a pestaggi, rapimenti
e torture, anche efferate.
«Mia cognata, di 24 anni, quando l'hanno vista l'hanno
portata di sopra e l'hanno violentata quasi tutti. Aveva una
gamba nera, che sembrava fosse stata rotta (...). Stava svolgendo
un compito di staffetta, ha bussato alla porta ma non sapeva
che c'erano i tedeschi che stavano facendo la colazione. Lei
ha bussato la porta e quando l'hanno vista hanno detto a quei
signori: “La conoscete?” e loro hanno detto di no.
Potevano dire: “Sì, è una nostra amica,
è venuta a trovarci”, invece loro hanno detto:
“No, non l'abbiamo mai vista”. Allora l'hanno portata
di sopra.»
Hanno capito che lavorava per i partigiani?
«No! Non l'hanno capito, l'hanno immaginato! Hanno immaginato...
se quella famiglia avesse detto: “Sì, è
una signora che passa ed è stata a messa...” perché
aveva il velo in tasca... ma quelli là gli hanno detto
così e allora hanno immaginato che era una staffetta.»
Cosa le hanno fatto?
«L'hanno violentata e poi l'hanno uccisa. L'hanno portata
in fondo al cortile, le hanno dato un colpo di pistola in testa
ed è caduta giù. Ci è stata tre giorni,
che nevicava... hanno fatto fatica anche a trovarla (...). 24
anni, una bella ragazza. Aveva tutto il corredo pronto perché
aveva il fidanzato per sposarsi.»
In alcuni casi le testimoni ammettono di aver subito attenzioni
sgradite, addirittura di essere state percosse pesantemente,
ma la violenza carnale vera e propria è sempre, nei racconti,
un pericolo scampato, o che qualcun'altra ha subito, di solito
una conoscente o una parente.
Si ricorda il rastrellamento invernale, quello coi mongoli?
Questo è stato triste. Loro, i mongoli, non cercavano
gli uomini, loro cercavano soldi, oro e donne da violentare.
Mi ricordo quando è entrato un mongolo in casa mia. Io
aspettavo la bambina, hanno bussato la porta... erano spaventosi
da vedere, brutti, con quei baffoni, con quegli occhi. Io ho
fatto: “Ohiamme! I mongoli!” e mi ha dato uno schiaffone
tanto forte che sono caduta e mi sono sentita... che stavo per
abortire. Allora è entrato un tedesco che aveva la croce,
non so se era infermiere o dottore, e mi ha detto: “Signora
si sente male?” “Sto perdendo il mio bambino”
“Si metta a letto...” “Con questa gente?”
“Si metta a letto! Non c'è un dottore qua?”
“No”. Il dottore era scappato coi partigiani. Lui
è andato sulla porta, ha scritto delle parole in tedesco
e non è più entrato nessuno. Ho saputo dopo che
significato avevano quelle parole lì, significavano:
In questa casa vivono dei tubercolotici. I mongoli erano
terrorizzati dalla tubercolosi, e non è più entrato
nessuno.
Lei si è rimessa?
«La cosa... poi si è fermata.»
Si ricorda i mongoli?
«C'era una signora, una donna anziana, da sola per strada...
non era neanche tanto a posto con la testa. L'hanno presa e
le hanno fatto di tutto. Ha pianto tanto quella donna lì...»
«Lì ai Badoni hanno preso delle ragazze e le hanno
violentate.»
«Hanno violentato a Lugagnano, molto, ma anche a Vernasca
(...): Hanno detto che erano andati con una vecchia che piangeva
e diceva: “Io sono vecchia!”, la signora Irene.»
«Oh mamma, una volta stavo andando in là dalla
mia bambina, dalla finestra ho visto una faccia e ho detto:
“Ho visto il Diavolo!”. Pensavo di aver visto il
Diavolo... col naso spiaccicato sul vetro. Allora [..] sono
scappata ma han preso su mia cugina.»
I mongoli?
«I mongoli. È tornata dopo quattro anni che era
finita la guerra, con un bambino.»
Quanti anni aveva sua cugina?
«21.»
L'hanno rapita?
«L'han portata via con loro, al suo paese. E io quel bambino
lì, finita la guerra, l'ho tenuto a battesimo... ma assomiglia
un po' a un mongolo.»
Cosa le ha raccontato sua cugina di quei quattro anni?
«La violavano... la violentavano... mica appena uno. Non
era più stata lei, dopo la guerra, dopo che è
tornata... era stata molto prepotente... si ribellava, poverina.
Io sono scappata da quell'altra porta, lei era nell'altra casa,
l'han presa, non è riuscita a scappare. Io credevo di
aver visto il diavolo.»
Le violenze sessuali sembrano essere un fenomeno diffuso e noto,
tanto che nei mesi del “grande Rastrellamento” si
pratica un'inversione di genere della pratica del nascondimento:
se prima, specie nel rastrellamento dell'estate 1944, a nascondersi
erano soltanto gli uomini, e le donne potevano rimanere a casa
perché “alle donne non facevano niente, loro portavano
via gli uomini”, ora sono le donne a scappare, a nascondersi,
cercando di evitare la terribile sorte dello stupro.
«Quei giorni lì che c'era il rastrellamento proprio
grosso, nel mese di gennaio, siamo andati via anche noi. Eravamo
una squadra di 5 o 6 o 7 ragazze e siamo andate a finire a Fossero.
A Fossero abbiamo trovato due partigiani, uno era un sudamericano
e ci ha portato in una casa di una signora tanto brava... poverina,
non avevano niente neanche loro e ci hanno dato pane e miele
da mangiare la sera, e burro che faceva lei in casa. Poi ci
hanno messo là, davanti a un camino grosso pieno di legna,
sopra la paglia... abbiamo dormito per terra un paio di notti
(...). Quando siamo tornati a casa nostra c'era di tutto per
aria.»
«Mia mamma conosceva quella signora là che l'ha
chiamata e le ha detto: “Vieni a casa mia che qui i mongoli
non ci vengono di sicuro”, infatti non ci sono andati.
Al mattino siamo tornati a casa subito. Mio papà non
è scappato: “Se volete andare andate ma io da casa
mia non mi muovo”.»
Voi ragazze siete scappate perché arrivavano i
mongoli. Come mai?
«Perché dove arrivavano facevano la festa.»
E la violenza esercitata dalle truppe d'occupazione tedesche
e turkestane, con la collaborazione degli alleati della RSI,
non si rivolge soltanto verso i corpi ma anche verso le cose,
gli oggetti, le abitazioni. La presenza sul territorio di eserciti
che necessitano di strutture logistiche e d'appoggio ha ricadute
pesanti sulla popolazione: le case vengono occupate per far
spazio alle truppe, la tavola non viene più preparata
per la famiglia, che attorno ad essa si riunisce in un rito
quotidiano, ma i pasti si devono dividere, volenti o nolenti,
anche con i soldati stranieri. Dalle testimonianze emerge lo
spaesamento, il dispiacere, nel vedere come le proprie case
e le proprie cose fossero utilizzate senza riguardo dagli occupanti,
e ancora l'umiliazione, la paura nell'essere costretti a condividere
spazi e pasti con quelli che erano percepiti come nemici.
«Comunque noi siamo rimasti tutti disastrati perché
a casa nostra non hanno fatto niente di incendi e di maltrattamenti
però ci hanno distrutto tutto... i nostri viveri, la
nostra mobilia... tutto buttato dalla finestra, tutto calpestato
coi piedi... ci hanno distrutto tutto, questi soldati. Poi sono
partiti, hanno attraversato la montagna e continuato il loro
rastrellamento.»
«I fascisti, uniti ai mongoli, portarono via tutto dalle
case e distrussero tutto dalla biancheria ai piatti, ai bicchieri.
Spaccarono i mobili per scaldarsi e far cuocere la carne delle
pecore, dei buoi, delle galline.»
«Si erano messi in casa mia, i tedeschi. Mi hanno mangiato
anche il maiale. Sono venuti che c'era la neve, avevamo due
mucche, hanno tirato fuori le mucche e hanno messo i loro cavalli
e le mucche via, in mezzo alla neve, e dopo le hanno portate
in un altro paese. Loro sono andati di sopra, hanno aperto le
finestre, hanno messo le mitragliatrici sulle finestre e stavano
lì. Loro a letto e noi sulle sedie, in casa.»
Quanto sono stati?
«Un mese. Ci hanno requisito tutti i letti, aprivano il
comò, prendevano la roba, le mutande, la biancheria e
ci pulivano i fucili.»
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Pierina Tavani “Stella” |
La scelta comune, una storia comune
Credo che l'aspetto veramente sorprendente che l'indagine sull'impegno
resistenziale femminile consente di constatare è come,
a Piacenza e nella sua provincia, si fosse creato un vasto movimento
d'appoggio, di spalleggiamento, di consenso ai partigiani. Se
è vero che per le donne il coinvolgimento in combattimenti
veri e propri è un fenomeno di minoranza, molto ampio,
generalizzato e diffuso era invece l'appoggio popolare del mondo
femminile al fenomeno resistenziale. Un appoggio che non può
configurarsi però come un semplice aiuto esterno a causa
degli stessi caratteri del conflitto in corso: un conflitto
combattuto sul territorio anche nelle sue più piccole
frazioni, una guerra che cancella il confine tra civili e armati
e in cui anche il più piccolo atto di connivenza può
costare la vita.
Sembra essere questo uno dei tratti eccezionali di quel momento
storico, il fatto cioè che il corso degli eventi spinga
tutti, anche coloro che fino ad allora erano restati ai margini
della vita politica, come le donne, a compiere una scelta sostanziale.
Claudio Pavone è il primo ad individuare come nocciolo
dell'esperienza resistenziale proprio quella scelta necessaria,
autentica, dalla posta in gioco molto alta. In questo senso
lo storico cita Jean-Paul Sartre, per il quale “non siamo
mai stati tanto liberi come sotto l'occupazione tedesca”,
proprio per rimarcare come, alla base della pregnanza dell'esperienza
partigiana, ci sia l'apertura forzata di uno spazio di scelta.
Questo allargarsi dell'orizzonte decisionale individuale ha
un grande valore, perché arriva dopo lunghi e dolorosi
anni di espropriazione forzata della possibilità di scelta,
e ha un valore tanto più grande per il genere femminile,
tradizionalmente subalterno, incapace di iniziativa e decisione
autonoma.
È un insieme di tante scelte individuali, dal quale però
nasce un'esperienza collettiva molto pregnante a livello storico,
che non si esaurisce alla Liberazione ma continua per i decenni
successivi, con il progressivo rafforzamento di partiti e aggregati
sociali che contribuiranno in modo determinante a costruire
la cultura, le forme di azione politica, la socialità,
l'identità nazionale italiana.
Una scelta importante che tutte le protagoniste di questa piccola
storia hanno compiuto, che per alcune si è tradotta nel
rompere tutte le convenzioni di genere e unirsi alle formazioni
partigiane, magari addirittura imbracciando un'arma. Per altre
si è invece trattato di continuare a fare quello che
si faceva prima: cucinare, curare, offrire ospitalità,
svolgere la propria professione, ma in un contesto completamente
diverso, capace di trasfigurare profondamente il senso di quelle
azioni, un tempo così “normali”.
Ecco, secondo me è questo il significato profondo di
questa piccola storia di donne.
Perché, oggi come settant'anni fa, la scelta rimane una
categoria fondamentale e necessaria dell'esperienza umana, una
conditio sine qua non per una vita reale, autentica, vera. Me
lo ha insegnato sempre lui, Fabrizio De André, in Storia
di un impiegato, dove la domanda fondamentale che il protagonista
pone alla sua ex fidanzata è proprio quella: “Continuerai
a farti scegliere o finalmente sceglierai?”.
Iara Meloni
Grazie
La mia più profonda gratitudine va a Pierina, Alessandra,
Mina, Iolanda, Carolina, Milena, Albertina, Liliana, Maria,
Artemisia, Rambalda, Giuliana, Gabriella, Elena, Maria, Fanny,
Italina e a tutte le piacentine che, con pazienza e generosità,
hanno condiviso con me le loro storie di Resistenza e di vita.
I.M.
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