Il tripudio dei numeri
Quando ero più giovane
e campionavo fidanzati che regolarmente mi abbandonavano perché
inadatti a me, un amico molto caro era solito dirmi questo:
«Hai una considerazione talmente scarsa di te stessa che
basta che uno ti faccia un sorriso e tu ti innamori».
Ecco, noi siamo questo genere di paese.
Basta
che arrivi uno squinternato a farci due promesse e noi ne facciamo
un leader. Ce lo portiamo in trionfo come fosse la nostra sola
speranza. Ne ascoltiamo le parole quasi fossero scolpite nella
pietra, il che peraltro determina la nostra distrazione quando
il leader in questione ci truffa ripetutamente e magari alla
fine fugge con il malloppo.
Noi, il malloppo, non sappiamo neanche che ci sia.
Non abbiamo dimestichezza coi numeri.
Nella maggior parte dei casi, li spariamo a vanvera, pensando
che in realtà essi non contino e che in fondo la sola
cosa importante sia l'ideale che li autorizza e li rende una
sgradevole necessità. Per i numeri, ci sono in contabili,
una categoria inferiore dell'esistenza, deprivata di ogni creatività.
Ora, in effetti il problema è che di recente i numeri
hanno rivelato una straordinaria potenza. Scandiscono le differenze.
Determinano il destinano. Scandiscono, in alcuni dolorosi casi,
il tempo della vita e quello della morte, riempiendo lo spazio
nel mezzo di scelte difficili.
In numeri, per esempio, sono responsabili della progressiva
riduzione e del finale, recente congedo di un giovane giornalista,
poco tempo fa. Se ne è parlato poco e niente, e anche
qui per una questione di numeri: sono così tanti i giovani
e i vecchi liquidati per le spicci in tempi di recessione che
uno di più o uno di meno non conta poi molto. Il giovane
giornalista era un numero in questa statistica, un numero la
cui sorte era legata ad altri numeri, appunto, che il giornalista
in questione vedeva calare a un ritmo preoccupante. I numeri
delle commissioni lavorative e il numero di cifre, progressivamente
ridotte a due, che scandivano il pagamento per ogni suo articolo.
Probabilmente, l'esiguità del compenso e della gratificazione
connessa, nel tempo (e neanche tanto) ha determinato quel genere
di disgusto per se stessi e per il mondo che alla fine uno non
è in grado di tollerare. Quantitativamente, c'è
un limite al numero di porte chiuse in faccia che uno può
tollerare.
Non conoscevo il giornalista in questione. Il che non esclude
che io sia stata colpita dal suo silenzioso andarsene. Improvviso
– dicono gli amici: un atto senza ragioni o con troppe,
tutte legate, appunto, alla magia dei numeri. È volato
giù da un palazzo. «In dismissione». Esattamente
come la nostra dignità di persone per bene.
Numericamente, le persone per bene – secondo una definizione
in uso in tempi preberlusconiani – sono esigue e collocate
in fasce sociali inimportanti. Hanno la tendenza a non riprodursi,
sempre da qualche tempo a questa parte, e un'ancor più
marcata attitudine e a pensare libere e marciare fuori dal gioco
quando esso richiede compromessi, catene e silenzi. Appartengono
a fasce sociali di poca rilevanza, tipo il mondo dell'istruzione,
del volontariato, della mediazione, delle culture di strada.
Lì il potere dei numeri è al tempo stesso ignorato
e responsabile dei destini, e anche lì i numeri si sparano
a vanvera. È di questi giorni la trattativa tra le scuole
materne e il comune di Milano. C'è uno stato di necessità,
che include la richiesta di 120 educatrici di nuova assunzione
come numero base per far funzionare il lavoro. Il Comune ne
propone 30, e dopo una estenuante trattativa, si chiude a 85
a tempo determinato. Il che in soldoni vuol dire che se col
numero di partenza c'era, poniamo, una educatrice ogni 10 bambini,
il Comune ne ha proposta una ogni 40, e alla fine si è
chiuso alla percentuale di un'educatrice ogni 14 bambini e spiccioli,
ma solo per un tempo determinato. Poi si torna a zero. In questo
balletto di cifre, io dubito che il lettore non coinvolto si
renda conto di quanta differenza faccia, per una persona sola,
occuparsi di 10 bambini, 40, o 14 e un po'. Una differenza abissale,
direi, considerata l'età dei piccoletti e il numero di
ore di lavoro che il mestiere richiede. Tutti numeri, lo vedete,
la cui realtà fattuale tuttavia sfugge ai più.
Rendiamoci conto, per esempio, che la questione dei numeri si
sta facendo sostanziale nella scuola tutta, e qualifica il numero
di scuole che un preside può dirigere, ad esempio. Teoricamente,
non vi è limite al numero di istituti che un dirigente
può avere in reggenza, e nei fatti a Milano c'è
chi ne ha fino a 6. Il che vuol dire che può manifestarsi
in un plesso scolastico non più di una volta alla settimana:
praticamente una star del rock, senza il carisma che ne conseguirebbe.
E il numero di studenti per classe come il numero di ore cui
ammonta una cattedra sono cifre che tendono a lievitare, in
un universo teorico che risulta del tutto scorporato dall'applicazione
reale di queste cifre.
Perciò io propongo questo: mandiamo il nuovo ministro
dell'istruzione, diciamo, per un mese in incognita a insegnare
in un istituto professionale per l'industria e l'artigianato
nella cintura urbana di Milano, o di Torino, o di qualunque
grande metropoli contemporanea. Diamogli una cattedra pesante,
possibilmente frantumata su più sedi e con il numero
massimo di ore di lezione previsto per settimana. Priviamolo
di ogni rispetto per il mestiere che sta facendo. Facciamogli
avere lo stipendio molto in ritardo e costringiamolo ad alloggiare
come un normale supplente.
Poi intervistiamola, la nuova ministra. Sul numero di neuroni
attivi che le sono rimasti in testa. Sono sicura che il conteggio
non richiederà molto tempo.
Nicoletta Vallorani
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