non solo No-Tav
Sull'orlo del cratere
di Maria Matteo
Nei tempi che viviamo l'insorgenza sociale è affrontata dallo Stato con crescente violenza poliziesca, e con una sempre più marcata delega al potere giudiziario, cui è affidato il compito di chiudere i conti con i movimenti più radicali.
Vivere alle pendici di un vulcano
attivo è un gioco pericoloso. Anno dopo anno, si rischia
di perdere tutto quello che si ha, persino la vita. Tuttavia
c'è sempre qualcuno che ci abita, perché i terreni
sono più fertili, i materiali eruttivi hanno numerosi
impieghi utili, l'energia geotermica è una buona fonte
di riscaldamento.
Vivere ai tempi della crisi è un gioco pericoloso che
nessuno sceglie volontariamente, tuttavia offre delle possibilità
di sviluppo a pratiche di autonomia dall'istituito, che le politiche
di welfare parevano aver mandato definitivamente in soffitta.
Il welfare, strumento principe di ammortizzazione del conflitto
sociale, rende più tranquillo e sicuro il cammino, ma
incatena con lacci robusti chi ne beneficia.
D'altra parte la fine di tutele strappate con decenni di lotta
ed erose da corsi politici via, via più impetuosi negli
ultimi trent'anni, se rende più difficili le vite dei
poveri, rischia tuttavia di innescare un'eruzione sociale, che
non sempre le politiche disciplinari riescono a contenere.
Le prospettive che emergono dalle scelte del nuovo governo Renzi
sono il tentativo di prevenire il conflitto sociale, asservendo
con poche briciole e molti lacci tanta parte dei lavoratori
precari, disoccupati, giovani nel nostro paese. La parola magica
è workfare e si ispira al modello tedesco delle leggi
Hartz. Sul piatto c'è l'introduzione di un sussidio condizionato
alla partecipazione ad un corso di formazione e ad un'offerta
di lavoro. Peggio di quanto prospettavano nel recente passato
il Partito Democratico o il Movimento 5 Stelle con le fumosissime
allusioni al “reddito di cittadinanza”.
Nell'Atene di Pericle non c'erano vie di mezzo: o eri schiavo
o eri cittadino. Nella Germania dell'era Merkel la “schiavitù
di cittadinanza” è la ricetta con la quale il governo
tedesco è riuscito a ridurre la disoccupazione, garantendo
lauti guadagni agli imprenditori tedeschi, sgravati dall'impegno
di versare contributi.
In Germania chi non ha un'occupazione riceve intorno ai trecento
euro al mese. Se gli viene proposto un lavoro per venti ore
settimanali a 450 euro al mese – senza obbligo per il
padrone di versare tasse – ha due possibilità ugualmente
sgradevoli. Se rifiuta perde buona parte dell'assegno di cittadinanza,
se accetta si lega mani e piedi ad una condizione di super sfruttamento
non contrattabile e senza prospettive di pensione.
Schiavo e cittadino insieme. Un infelice ma ben riuscito ossimoro
politico.
Nel 2008 la disoccupazione in Germania era superiore a quella
italiana, oggi le parti si sono invertite, ma il numero di ore
lavorate in realtà non è cambiato.
Per uno dei tanti paradossi di cui è capace un capitalismo
sotto oculata e tenera tutela statale la Germania è riuscita
ad avvicinare la realizzazione di un obiettivo che, in altri
tempi, è stato molto caro al movimento dei lavoratori:
che tutti lavorino meno, che tutti lavorino. Peccato che la
ricetta tedesca non comporti una seconda – fondamentale
– parte: la parità di salario nonostante la riduzione
di orario.
Al momento si tratta di “suggestioni”, poiché
il governo Renzi su questo terreno ha deciso di muoversi con
un percorso più lento e prudente, cercando di far passare
una legge delega sulla riforma del lavoro e affidandone poi
la realizzazione ai successivi decreti attuativi, poiché
il reperimento delle risorse per dare corpo a queste misure
potrebbe rivelarsi non facile.
Nuove opportunità per il conflitto
Molto concreto e immediatamente operativo è il decreto
legge su contratti a termine e apprendistato, che offre ai padroni
manodopera usa e getta, con vincoli sempre più esili.
Il contratto di apprendistato – per “giovani”
sino a 29 anni – prevede l'eliminazione degli esili limiti
imposti dalla riforma Fornero, in particolare l'obbligo per
i padroni di mettere per iscritto il piano formativo, di garantire
l'assunzione dei vecchi apprendisti al momento di assumerne
di nuovi, di sostenere l'accesso a corsi di formazione. Per
tre anni – con otto rinnovi – si lavora per poco
senza alcuna garanzia di assunzione al termine dell'iter. Per
i contratti a termine viene cancellato l'obbligo di giustificare
l'utilizzo di precari.
I
padroni ottengono un'altra bella fetta di libertà, di
scioglimento di lacci e lacciuoli che gli consentono di assumere
e licenziare liberamente lavoratori sotto pagati.
Sulla bilancia di Renzi potrebbe da un lato stare il workfare,
dall'altro migliaia di licenziamenti nel pubblico impiego e
la fine della cassa integrazione. Di fatto la rottura tra le
generazioni potrebbe favorire un piano d'azione destinato ad
impoverire tutti, senza provocare eruzioni sociali incontenibili.
Nell'immaginario di chi non ha mai avuto diritti, i dipendenti
pubblici e la cassa integrazione guadagni rappresentano aree
di mero privilegio.
L'abilità nel rendere difficile la costruzione di percorsi
di solidarietà, lotta e mutuo appoggio, nel dividere
ed asservire, non cancella tuttavia la durezza delle condizioni
materiali di vita, l'assenza di prospettive per il futuro, chiudendo
l'orizzonte progettuale di tanta parte di coloro che, per vivere,
devono lavorare.
Su questo irto pendio vulcanico si offrono nuove opportunità
al conflitto come alla sperimentazione autogestionaria, nonché
al dispiegarsi di realtà istituenti che si diano fuori
e contro l'ambito statuale, foss'anche in chiave democratica.
Serve tuttavia una riflessione sui margini e prospettive della
pratica libertaria a metà del secondo decennio del secolo.
Un secolo ancora avvinghiato a quello che l'ha preceduto, nel
lungo distacco dalla politica ideologica, dalla ferocia dispiegata
dei totalitarismi, e, insieme, dalla vischiosità della
democrazia, dal lieve ma fortissimo abbraccio delle merci, catene
immateriali di un vivere asservito.
In tempi di crisi l'orizzonte politico e sociale pare insuperabile.
Le lotte che si limitano al qui ed ora, provando a limitare
i danni, ne sono il segno. C'è chi si mette di mezzo
perché una fabbrica non chiuda, negoziando sulla propria
pelle il prezzo, chi protesta contro l'erosione dei servizi
elargiti dallo Stato, chi lotta contro la gentrificazione di
un quartiere, l'espulsione dei poveri. Manca tuttavia il passaggio
dalla resistenza all'attacco, alla sottrazione conflittuale
dal controllo/dipendenza dallo Stato e dal capitalismo.
La crisi, la perdita irreversibile di un ampio sistema di garanzie
e tutele, la fine dello scambio socialdemocratico tra sicurezza
e conflitto, ci offre prospettive inesperite. E, qua e là,
paiono aprirsi anche altre possibilità. Possibilità
per costruire nel conflitto, possibilità per fare dell'esodo
il punto di forza per l'estendersi di lotte che non vogliono
negoziare i propri obiettivi con l'istituito.
La possibilità di riprenderci le nostre vite, sperimentando
i modi per garantir(ci) salute, energia, cura degli anziani
e dei bambini fuori e contro il recinto statuale. La scommessa
è tentare percorsi di autonomia che ci sottraggano al
ricatto delle regole dalla governance transnazionale, alla continua
evocazione dell'apocalisse che abbatte chi non segue i diktat
della politica nell'epoca del liberismo trionfante, della finanza
anomica, della logica del fare per il fare, perché chi
fa mette in moto l'economia, fa girare i soldi, “crea”
ricchezza.
Questa logica “crea” solo rovine: l'emblema sono
i cumuli di immondizia che ci avvelenano e uccidono, l'enorme
fiera dell'usa e getta, dello spreco programmato. Qualche volta
le lotte territoriali hanno aperto lievi tracce di un percorso
diverso, perché nei momenti apicali hanno consentito
la ri-creazione di uno spazio pubblico strappato alla delega
democratica. Comincia a emergere un immaginario che allude all'incompatibilità
tra capitalismo e salute, tra capitalismo e domani, consentendo
di mettere all'ordine del giorno, come necessità di sopravvivenza,
la rottura dell'ordine della merce.
Gli specialisti della mediazione
In questo arazzo la cui trama è tracciata di volta in
volta, altri fili si intrecciano nelle lotte contro gli sfratti
e per l'occupazione di spazi abbandonati. Lotte che spesso non
si limitano a (cercare di) sottrarre alcuni beni al controllo
del mercato, ma negano legittimità alla nozione stessa
di proprietà privata, diventando sovversivi. Lo sa bene
Renzi che ha promosso una normativa sulla casa che impedisce
a chi occupa di fare contratti per le utenze e nega la residenza,
e, quindi, l'accesso ai servizi sanitari, alla scuola, all'abbonamento
per i trasporti.
Chi
si illude che esista uno spazio di negoziazione, chi ha costruito
una teoria dei beni comuni, che sottrae e sacralizza alcuni
ambiti, lasciando però intatta la struttura relazionale
basata su sfruttamento e dominio, è un illuso, nostalgico
della socialdemocrazia delle mutue e del liberalismo delle fiabe.
Non solo. Nella materialità trasforma una pratica radicale
di riappropriazione in terreno di mediazione politica per l'ennesima
escrescenza partitica della sinistra “radicale”
italiana, orfana di partito dopo l'esplosione della supernova
rifondata.
Da evitare come la peste, peggio della peste, perché
alimenta ancora una volta l'illusione che sia possibile riformare
la democrazia, un sistema di potere che, per quanto corrotto
e corruttibile, manterrebbe un proprio nucleo valoriale potente,
capace di ri-portare la barra al centro, ri-consegnando al “popolo”
la propria sovranità.
Narrazione rivoluzionaria
I guai cominciano quando scendono in campo gli specialisti
della mediazione, ceto politico che prova a rappresentare i
movimenti. Specialisti del “realismo”, del buon
senso, della necessità di fare cassa, di portare a casa
il risultato. I loro spazi di manovra oggi sono ridotti dall'asprezza
stessa del conflitto sociale, dalla difficoltà dei governi
a porsi sul piano della mediazione, dalla sempre più
marcata attitudine disciplinare nel trattare le questioni sociali.
Non mancheranno tuttavia di mettere in piedi le proprie botteghe
in vista delle prossime elezioni europee e amministrative, di
chiedere una delega in bianco o su programmi fatti di fumo e
demagogia.
Nei tempi che viviamo l'insorgenza sociale è affrontata
dallo Stato con crescente violenza poliziesca, e con una sempre
più marcata delega al potere giudiziario, cui è
affidato il compito di chiudere i conti con i movimenti più
radicali.
Occorre rimettere in pista una narrazione rivoluzionaria. Non
la grande narrazione che pretende di anticipare e descrivere
la storia, ma la narrazione che emerge dalla pratica concreta
dei movimenti sociali, dalla nostra capacità di porre
al centro lo scontro con il potere e la sottrazione dall'istituito.
Esodo, sperimentazione nel conflitto, conflitto che si alimenta
ed alimenta dell'autogestione di quanto riesce a strappare con
le lotte è la prospettiva radicale e libertaria che emerge
nell'attraversamento di tanta parte dei movimenti sociali nel
nostro paese. Una partita di libertà ed una sfida per
l'anarchismo sociale. Il momento è difficile, ma alle
pendici del vulcano il terreno è più fertile.
Maria Matteo
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