Alla
base
dell'evoluzione sociale
Per la prima volta in italiano viene tradotto e pubblicato
il digest di Mutual Aid (Altruismo e cooperazione
in Pëtr A. Kropotkin, Negretto editore, 2013, pp. 218),
compendio o sunto de Il mutuo appoggio di Kropotkin,
che la scrittrice femminista libertaria Miriam Allen de Ford
curò nel 1945 per conto dell'editrice Haldeman-Julius.
Come spiega bene l'ultimo capitolo della prefazione, questa
casa editrice, fondata da un ex giornalista squattrinato e dalla
scrittrice e suffragetta americana Anna Haldeman, aveva un indirizzo
radicale e controcorrente e pubblicava in prevalenza testi anticonformisti
e antagonisti dell'area della sinistra radicale. Si distinse
anche pubblicando digests, cioè compendi sunti
e riduzioni di classici del pensiero e della letteratura mondiali,
curandone la diffusione tra i ceti sociali più poveri,
in particolare tra lavoratori e migranti con lo scopo di una
divulgazione della cultura.
Nell'introduzione, la stessa De Ford chiarisce che per comprendere
appieno l'opera di Kropotkin sarebbe indispensabile leggere
l'edizione integrale. Si era comunque impegnata in questa riduzione
con lo scopo precipuo di favorire la comprensione e la divulgazione
del Mutuo appoggio, perché riteneva meritasse
d'esser conosciuto per l'importanza e la validità di
ciò che asserisce. Sostiene la cooperazione e l'aiuto
reciproco come base di sopravvivenza ed evoluzione all'interno
delle specie, contrapposti alle posizioni del darwinismo di
destra che sosteneva che la perpetuazione evolutiva delle specie
si fonda invece sul “conflitto permanente” e la
“lotta per la vita”. L'una è la visione mutualistica
di un anarchico, l'altra è la giustificazione della guerra
per il potere e della competizione capitalistica.
In questa edizione italiana è veramente interessante
la prefazione di Giancorrado Barozzi che ne è il curatore.
Vi svolge un'ampia e minuziosa disamina, puntuale e aggiornata,
di come la ricerca scientifica abbia continuato ad aggiornare
e arricchire, confermando e rafforzando al tempo stesso, la
concezione/proposta di solidarietà sociale che fece a
suo tempo Kropotkin col Mutuo appoggio, raccolta di «una
serie di articoli usciti in precedenza (tra il 1890 e il 1896)
sulla rivista The Nineteenth Century, in risposta al
manifesto del darwinista Thomas H. Huxley sulla Lotta per
l'esistenza nella società umana, apparso sulla stessa
rivista londinese nel febbraio 1888» (pag. 13). Kropotkin
rovesciò completamente il paradigma che poneva la competizione
e il conflitto alla base dell'evoluzione sociale.
Barozzi ci mostra come negli ultimi decenni la scienza, trovando
continue conferme nello studio e nella ricerca antropologica
e naturalistica, abbia completamente riconosciuto la cooperazione
e la mutualità quali fondamentali fattori di evoluzione.
Nel 1998, a distanza di circa un secolo dalla pubblicazione
di quegli articoli, il paleontologo statunitense Stephen Jay
Gould sulla rivista Natural History riprese quella concezione
e la rivalutò sottolineandone l'estrema importanza. Dopodiché
diversi scienziati e studiosi hanno ampliato, e continuano tuttora,
le conoscenze e le conferme di quel filone di pensiero di cui
Kropotkin fu l'iniziatore. Tra tutti particolarmente importante
l'antropologo e saggista Ashley Montagu, che curò l'edizione
del 1955 de Il mutuo appoggio (ristampata nel 2005) scrivendo
la prefazione e curando la bibliografia del “fondatore
del comunismo anarchico Petr Kropotkin”, come lo definisce.
Per un primo significativo approccio al Mutuo appoggio
e per capire e conoscere aggiornamenti e approfondimenti della
ricerca scientifica che lo valorizzano, questa pubblicazione
su Altruismo e cooperazione in Pëtr A. Kropotkin
rappresenta perciò una lettura puntuale e interessante.
Andrea Papi
Un'offesa
al potere
Ostaggi a teatro (Ferrari Editore, 2013, pp. 208, €
15,00) raccoglie, in un unico volume, tutto il teatro di Angelo
Gaccione. Quattordici lavori di forte impatto e di tono diverso:
dalla commedia brillante Tradimenti al massacro della
Comunità Valdese nella Calabria del Cinquecento; dalla
farsa che dà il titolo al volume ad un testo altrettanto
duro come Stupro; da La finzione a Single,
ad Hermana, a La seduta, e così via, in
un continuo cambio di stili, dal brillante al farsesco al drammatico
e con una scrittura “chirurgica”, come l'ha definita
Pino Aprile, che non trova riscontri nei drammaturghi italiani
contemporanei. È un volume di 208 pagine e copre un arco
di tempo di oltre vent'anni: dal 1985 al 2007, e dunque non
è possibile darne conto per intero in una semplice nota
come questa.
Il libro edito dall'Editore Ferrari si apre con una citazione
di Primo Levi: “Non è lecito dimenticare, non è
lecito tacere. Se noi taceremo, chi parlerà?”;
è una epigrafe per il dramma La porta del sangue,
il primo dei 14 testi teatrali. Su questo dramma Roberto Guiducci
scrive nell'introduzione (pag. 12) : “...il potere
in quanto tale non ha ideologie se non apparenti e legittimanti,
mentre la sua essenza è sempre monotonamente identica,
e porta, come costante storica, alla altrettante monotona tragedia
della repressione più spietata in nome di religioni o
ideologie completamente intercambiabili nel loro inganno. E
contro l'ottimismo del Cristo, secondo cui gli ultimi sarebbero
stati i primi, le “voci” che parlano nella sacra
rappresentazione di Gaccione dicono con durezza:
“I giusti non si aspettino giustizia
Gli innocenti non si aspettino premi
Così è scritto sulla pietra della verità”
E le “voci” fatte emergere da Gaccione, concludono:
“Cosa può lavare il sangue?”
“L'offesa”
“Cosa può levare l'offesa del sangue?”
“Il sangue”
“Cosa resta dopo il sangue?”
“Il sangue”.
Dunque, nessuna redenzione, in questa visione spietatamente
tragica e pessimista.
È già una novità anomala che un editore
italiano pubblichi un libro di testi teatrali. Diventa ancora
più anomala quando si viene a sapere, leggendoli, che
alcuni dei testi, se non tutti, non troveranno mai un regista
o una compagnia teatrale così spericolati da sfidare
il rischio di affrontare dei testi così forti. Quel che
Angelo Gaccione ha scritto è un'offesa al potere, diabolico
e non angelico.
Morando Morandini
Se la poesia
mette a fuoco la vita
Ieri pomeriggio sono stata dal gommista con Davide Rondoni.
Insieme. A fissare “il chiaro ottobre che finisce/fuochi
dietro agli alberi/tra l'odore di copertoni bruciati”.
Eravamo lì, con sue le parole e la puzza che si infittiva.
In una realtà dove “l'allegria è/uno schianto”.
Ma prima in libreria sono stati “Gli alberi, gli alberi,
gli alberi”, sullo scaffale “Poesia”, a piantarmi
su questo argine. Per guardarli “disegnati/con ineffabile
cura”.
Davide Rondoni, “cristiano cattolico anarchico”,
poeta, è nato nel 1964 a Forlì. E io che non m'intendo
di poesia, sento la sua poesia, questo suo Si tira avanti
solo con lo schianto (WhiteFly Press Snc, 2013, euro 12,00),
vibrarmi dentro in un viluppo che mi incalza. Frammenti di vita
– persone viaggi sensazioni – che mi sono estranei.
E che forse nemmeno mi piacciono. Che non fanno parte del mio
mondo. E che Davide “soprannomina”. Perché
“quando la realtà ci viene incontro”, dice
lui, “le parole non possono più rimanere le stesse”.
E lui le parole le tratta. Lui e loro sono assieme davvero.
Così mi lascio soggiogare dal commiato elegante del suo
barbiere, “che lavora/con la 'zigaretta' tra le labbra/fottendosene
come un dio/dei divieti e della salute”. E accetto perfino
che questo barbiere diventi il mio “patrono, l'estremo/dono
del cielo ai combattenti/per qualcos'altro dallo stupido benessere
delle copertine”.
In questa raccolta, accanto a ogni poesia scrivo qualcosa. Spesso
questo qualcosa è solamente “bella”. Che
vuol dire tutto e vuol dire niente. Non importa... Purché
io possa essere “ginocchia bellissime”, “la
convessa/dolce fine di me”. Amare il suono di queste parole,
assaporarne l'amalgama, la consistenza.
Non sono, non mi ritrovo, nella “realtà”
che Davide mi sta offrendo. E lui lo sa. Ma scrive: “Dio
ci ha creati diversi per pensare a Lui/fino alla morte/degno
di ogni lode e di ogni grido”. Sono d'accordo. Non tanto
su dio... Sulla diversità sì, però. Quindi
torno alla poesia. A questa vita che Davide mi restituisce salata
sulla lingua. Cerco “il suo muso ferito/di tigre”.
Desidero i suoi artigli. Perché “Non si tratta
di avere molto coraggio/né di essere saggi”, ha
ragione Davide. Quanto, vivendo, di “mirare/a una felicità
micidiale./E non temere il crepacuore”. (...E comunque
sì, Davide, “la poesia mette a fuoco la vita”.)
Davide Rondoni ha pubblicato alcuni volumi di poesia, tra i
quali Apocalisse amore, Mondadori 2008, Avrebbe amato
chiunque, Guanda 2003, Compianto, vita, Marietti
2001 e Il bar del tempo, Guanda 1999, Rimbambimenti,
Raffaelli 2010, Si tira avanti solo con lo schianto,
Whyfly 2013, con i quali ha vinto alcuni dei maggiori premi
di poesia. È tradotto in vari paesi in volume e rivista.
Eccetera...
www.daviderondoni.altervista.org/public2/index.php
Emanuela Scuccato
Moltitudine
e grammatica
Spinoza
contro Hobbes
Cosa c'entrano Spinoza e Hobbes con noi, con il nostro tempo
e le questioni che ci riguardano dappresso? A poco verrebbe
da dire, ma leggendo Grammatica della moltitudine di
Paolo Virno, recentemente riedito da DeriveApprodi (la prima
edizione è del 2002), il confronto con i due filosofi
del Seicento non si rivela polemica oziosamente accademica.
I due incarnano visioni della sfera pubblica fra loro incompatibili,
quella fra popolo e moltitudine. Vediamole.
Per Spinoza la nozione di multitudo è l'architrave
della libertà civile. Con tale espressione vuole indicare
una pluralità di soggetti in quanto tale, che resiste
a ogni tendenza omologante. La moltitudine si costituisce e
si mantiene come rete di individui, come aggregazione di singolarità,
quindi va sempre declinata al plurale. La reductio ad unum
è un arnese che non funziona con la moltitudine. Certo
si dà collettività, ma la dimensione collettiva
qui non è centripeta, non è il luogo su cui fondare
l'unità statuale e le sue gerarchie, ma apre la possibilità
a forme democratiche orizzontali, recalcitranti nei confronti
di ogni forma di delega e di rappresentatività (democrazia
diretta, radicale, partecipativa, ecc.).
Hobbes, dal canto suo, detesta la moltitudine, l'esistenza sociale
e politica dei molti in quanto molti è vista pericolosa
rispetto all'esistenza di quell'entità che incarna il
monopolio di ogni decisione politica e di ogni violenza; stiamo
parlando dello stato, se non lo si è capito. Per Hobbes,
alla multitudo va contrapposto il popolo. Se la moltitudine
non ama lo stato, il concetto di popolo, al contrario, è
legato a filo doppio con ciò che incarna lo stato. Affinché
si dia stato ci dev'essere il popolo e viceversa. La moltitudine
può esistere solo prima della nascita dello stato, vale
a dire prima del trasferimento dei propri diritti naturali al
sovrano e allo stato. Il ripresentarsi della moltitudine mina
alle basi la legittimità dello stato. Hobbes: «I
cittadini, allorché si ribellano allo Stato, sono la
moltitudine contro il popolo». In breve: quando parliamo
di popolo diciamo qualcosa che rinvia sempre a una trascendenza
(lo stato, il sovrano, le leggi, ecc.), mentre la moltitudine
è il nome di un'immanenza irriducibile.
Maledetti quegli anni!
Ci fermiamo qui per quanto riguarda il confronto Spinoza-Hobbes.
Il conflitto fra i due appare chiaro, così come risulta
parimenti chiara – dinanzi alla crisi delle varie forme
di delega e rappresentanza civile – la spendibilità
odierna della nozione di moltitudine. Veniamo dunque a noi e
ai nostri problemi. Scrive Virno: «Fu la nozione di “popolo”
a prevalere. “Moltitudine” è il termine perdente,
il concetto che ebbe la peggio. (...) Resta da chiedersi se
oggi, alla fine di un lungo ciclo, non si riapra quell'antica
disputa; se oggi, allorché la teoria politica della modernità
patisce una crisi radicale, la nozione allora sconfitta non
mostri una straordinaria vitalità, prendendosi una clamorosa
rivincita». Il testo di Virno costituisce allora, come
recita il titolo stesso del libro, un tentativo di elaborare
una sorta di “grammatica della moltitudine”, vale
a dire l'enunciazione degli elementi costitutivi di questa forma
alternativa di aggregazione sociale.
Ma il conflitto moltitudine-popolo riecheggia anche nell'ultimo
libro di Mario Tronti, ai tempi uno dei padri dell'operaismo,
dal titolo Per la critica del presente (Roma, Ediesse,
2013), in cui l'autore riprende e riflette su termini quali
“lavoro”, “partito”, “stato”
e, appunto, “popolo”. Per Tronti queste parole antiche,
cariche di storia, mantengono ancora valore nel presente. Congedarsi
da esse non significa altro che fare un gradito regalo ai nuovi
potenti. Leggiamo: «L'operazione di seppellire con disonore
il Novecento, inaugurando un nuovo modo di fare politica, è
venuta agli immaginosi contestatori degli anni Sessanta-Settanta
ed è stata realizzata dai fattivi conservatori degli
anni Ottanta-Novanta. Emerge lì e si impone dopo la figura
dell'individuo sovrano, quando fin lì era sovrano il
popolo, sovrano lo Stato, sovrana la nazione, entità
collettive, dove la sovranità può incarnarsi,
nella storia, ed esprimersi, nella politica». Non ci potrebbe
essere distanza maggiore con le tesi di Virno (ma certe letture
antisessantottine hanno attecchito anche in ambito libertario:
cfr. il pamphlet di Mario Perniola, Berlusconi
o il '68 realizzato, Milano-Udine, Mimesis, 2011).
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Paolo Virno |
Moltitudine cosmica?
Sullo sfondo dell'analisi di Virno vi è la riorganizzazione
socio-economica che va sotto il nome di post-fordismo. Contrariamente
alla fase del fordismo e del taylorismo, la cui caratteristica
precipua era la produzione industriale basata sul lavoro ripetitivo,
privo di qualifiche e specializzazioni, il post-fordismo si
caratterizza per l'adozione di nuove tecnologie e nuovi criteri
organizzativi che pongono enfasi sulla flessibilità dei
lavoratori (il libro si chiude proprio con “Dieci tesi
sulla moltitudine e il capitalismo postfordista”).
La moltitudine post-fordista viene letta da Virno sotto i bagliori
del «Frammento sulle macchine» presente nei Grundrisse
di Marx, in cui si parla di General Intellect, l'intelletto
generale della società, l'insieme delle conoscenze, il
sapere da cui dipende sempre più la produttività
sociale. Giungendo a questa conclusione: «la moltitudine
postfordista mette in rilievo sul piano storico-empirico l'antropogenesi
come tale, ossia la genesi stessa dell'animale umano, i suoi
caratteri differenziali. Li ripercorre in compendio, la ricapitola».
Su questa osservazione ci permettiamo di coltivare alcune riserve.
Che il capitalismo post-fordista e la reazione ad esso costituiscano,
tout court, la ricapitolazione della storia della specie
umana è un dono all'Occidente e un omaggio che nessun
capitalismo francamente si merita; al massimo si può
parlare, dentro la storia delle umane genti, di un possibile
esito – uno fra i tanti – rispetto agli infiniti
futuri possibili; altrimenti restiamo irretiti e impoveriti
in una visione lineare e unidimensionale del tempo (quella dell'Occidente
e del capitalismo). La pluralità dei soggetti (per carità,
non riducibile ai lavoratori della conoscenza europei) invoca
la pluralità delle scansioni temporali! Il tempo storico,
infatti, è qualcosa di più complesso e articolato,
prevede dislivelli e torsioni temporali, al cui interno il passato
(anche quello più primitivo) non è mai definitivamente
passato, ma può riaffiorare gravido di futuro.
Questa osservazione sbocca su di un'altra. La “grammatica
della moltitudine” analizza la soggettività nella
sua interiorità (l'intelletto, le tonalità emotive),
così come nella sua socialità (il lavoro, la politica),
ma non compare mai in relazione con tutto il resto (ambiente,
natura, ecosistema, cosmo, Umwelt o con la denominazione
che più aggrada). Insomma, di relazione con l'ambiente
non c'è traccia. O meglio: se ne parla solo in rapporto
al lavoro («il lavoro è ricambio organico con la
natura»); ma, coi tempi che corrono (inquinamenti ed emergenze
varie), considerare la natura solamente come fonte di approvvigionamento
di materie prime è davvero poco. Il soggetto della moltitudine
é così tagliato via (ancora una volta!) da una
relazione con gli altri viventi (piante, animali, cose), se
non rubricandoli a mezzi per i propri fini; ma questo è
proprio un tratto che marca tristemente l'Occidente e la sua
storia. Qui non ci discostiamo di molto dall'antropologia e
dalla cosmologia bibliche che hanno conferito all'uomo quel
potere di dominare e soggiogare ogni forma vivente, e che perdura
fino a oggi. Dalla moltitudine, così intesa, non ci si
può attendere molto. Si tratta allora di andare oltre
tali limiti, la rete di relazioni e comunicazioni plurali, di
cui parla Virno, va raccolta e spinta oltre le soglie dell'umano,
verso un insieme di relazioni e comunicazioni di portata cosmica,
queste sì veramente plurali. Ma qui siamo già
dentro un altro discorso, stiamo alludendo a una nuova grammatica.
Federico Battistutta
Guarire
(da tutto?)
con i libri
Si può guarire da razzismo e/o capitalismo e/o sessismo
e/o fanatismo religioso leggendo? Forse no, ma ci sarà
una ragione se sempre nella storia padroni e reazionari di ogni
tipo hanno bruciato i libri.
Un altro dubbio di partenza: la farmacologia (in questo caso
la biblio-terapia) funziona allo stesso modo per tutte le persone?
Certamente no, ha solo un valore indicativo e ognuna/o poi si
aggiusterà farmaci e dosi...
E poi il dubbione, quello grande come la montagna: gli anarchici
hanno le stesse malattie – ci riferiamo al corpo e alla
mente - di tutti gli altri bipedi? In parte sì (dal raffreddore
alla febbre del fieno) ma si suppone che noi libertari siamo
abbastanza differenti che so nel “mal d'amore” o
nello stakanovismo. La differenza però resta abbastanza
grande o, come diceva nella copertina
del numero 387 di “A”, una bella scritta murale:
«Voi ridete perché sono diverso, ma io rido perché
siete tutti eguali».
Ciò premesso, sbirciamo cosa ci consiglia Curarsi
con i libri – sottotitolo: «rimedi letterari
contro ogni malanno», ma proprio “ogni” come
vedremo - di Ella Berthoud e Susan Elderkin: è un volumone
(640 pagine con curioso riflesso verdazzurro per 18,00 euro;
traduzione di Roberto Serrai) con la collaborazione di Fabio
Stassi, pubblicato da Sellerio contemporaneamente ad altri editori
europei.
Alla voce «Razzismo» per esempio leggiamo: «Chiunque
sia vittima di atteggiamenti o comportamenti razzisti –
o chi ancora sia propenso a dare la colpa delle tensioni razziali
alle minoranze interessate – farebbe bene a leggere L'uomo
invisibile, romanzo straordinario e radicale di Ralph Ellison».
Io sono pienamente d'accordo con le due curatrici (in ogni senso)
tranne che sull'utilizzo dell'aggettivo “razziali”:
esistono i razzisti ma non le razze, è bene ricordarselo
anche nel linguaggio. È una voce molto ben fatta e il
libro di Ellison (del 1952) non è invecchiato di un giorno;
alle ultime righe Elderkin e Berthoud rimandano alle voci «vigliaccheria»
e «vergogna». Contro la vigliaccheria «Guarire
con i libri» suggerisce Il buio oltre la siepe
della scrittrice statunitense Harper Lee mentre per curare la
vergogna consiglia L'aiuto di Kathryn Stockett: in entrambi
i casi siamo negli Usa dell'apartheid.
Ultima voce di questa bella enciclopedia (ma anche ricettario
o cofanetto di erbe curative) è «Xenofobia»,
un morbo che ha molte – ma tutte brutte – facce
e proprio per questo il duo Berthoud/Elderkin consiglia un decalogo
librario. Ecco i titoli: Jubiabà di Jorge Amado,
Gridalo forte di James Baldwin, Vedi alla voce: amore
di David Grossman, Un bambino nero di Camara Laye, il
già citato Il buio oltre la siepe, Vita
di Melania Mazzucco, La capanna dello zio Tom (sempre
citato ma poco letto) di Harriet Beecher Stowe, Il colore
viola di Alice Walker, Ragazzo negro di Richard Wright
e Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar. Ottima
decina ma forse troppo centrata sulle differenze di pelle, dimenticando
che la xenofobia colpisce altre diversità (l'handicap,
la “bruttezza”, la «grassezza», l'omosessualità...):
per una seconda edizione consiglio alle due biblioterapiste
di aggiungere queste altre voci.
Di autori dichiaratamente anarchici c'è Kurt Vonnegut
ma fra i “nostri” conterei anche Alejandro Jodorowsky.
Contro la «mancanza di empatia» le autrici consigliano
E Johnny prese il fucile di Dalton Trumbo. uno dei più
bei libri antimilitaristi che io conosca. Altro grandissimo,
ma in questo caso divertente, libro contro «la truppa
che difende la trippa di chi ha troppo» è Comma
22 di Joseph Heller; vedrete voi a qual proposito. Per affrontare
l'«eutanasia» - chiariscono le autrici: «non
chiamate suicidio quello che suicidio non è» -
si suggerisce Romanzo civile di Giuliana Saladino. Contro
un eventuale «senso di inutilità» sembra
indicata La vita, istruzioni per l'uso di Georges
Perec e contro l'«egoismo» appropriato Qualcuno
volò sul nido del cuculo di Ken Kesey. E che ve ne
pare di Corri coniglio di John Updike per far fronte
alla «voglia di mollare tutto»? Non male curarsi
dall'«essere troppo organizzati» con il Kerouac
di Sulla strada. Per la «fatica del vivere in città»
suggerito un libro di China Mièville, dalle parti della
fantascienza, La città e la città. Sul
morbo della «paternità» ecco un consiglio
“eroico” e uno cialtronesco: La strada di
Cormac McCarthy e Pinocchio di Collodi.
Vi pare abbastanza controcorrente il disturbo di «andare
dietro una donna anche se è una suora»? Probabilmente
chi è libertaria/o soffre più della media dell'«insofferenza
per le case di cure»; io approvo i due rimedi consigliati
ovvero Dino Buzzati e Gesualdo Bufalino. E secondo voi Il
figlio di Bakunin (di Sergio Atzeni) è indicato contro
cosa? Curiosissimo – almeno per chi non conosce il libro
– che il sovversivo La vita agra di Luciano Bianciardi
sia indicato contro l'alcolismo ma anche «per quei giorni»
ovvero la «sindrome premestruale». Fra gli autori
ribelli (o presunti tali?) anche i due «bu» ovvero
Bukowsky e Burroughs. Non poteva mancare Alice oltre lo specchio
ma vi sfido a indovinare per quale terapia è consigliato.
Mi sorprende che le autrici indichino Tempo di uccidere
di Ennio Flaiano come rimedio al «mal di denti»,
io lo vedo meglio per curare «rigurgiti coloniali».
E per lo «stress» ecco un eccellente antidoto: L'uomo
che piantava gli alberi di Jean Giono mentre fra i «10
migliori romanzi brevi» per chi fa la chemio vi sorprenderà
(o no?) trovare Accabadora di Michela Murgia.
Fra i disturbi di lettura che potrebbero riguardare gli anarchici
più che altre persone indicherei «esaurire la propria
biblioteca a forza di prestare libri», «essere infastiditi
dall'eccessiva pubblicità» e forse «essere
troppo occupati per leggere».
Ma forse vale accennare malattie di tutt'altro tipo. È
sempre utile avere una farmacia attrezzata, no?
La dose di 10 medicine per volta torna su 41 disturbi particolari:
«adolescenza» è la prima voce ma ci sono
anche «per quando si resta chiusi fuori», «per
evadere» (non in quel senso), ovviamente «da leggere
al gabinetto», «per fare appassionare il (o la)
partner... alla letteratura», «sulla fine di una
relazione», «da leggere in ospedale», e persino
«per coprire qualcuno che russa». Ipotizzo che anche
nell'area libertaria questi mali siano diffusi.
Ci sono voci più sorprendenti: «perdita della memoria»,
«cervicale», «fare il bullo», «sesso,
farne troppo poco» ma anche «farne troppo»,
«malessere del lunedì mattina», «wanderlust»,
«caffè, non riuscire a trovare una buona tazza
di» oppure «vecchiaia, orrore della», «sentirsi
messo da parte», «vendere l'anima» (direi
che non è roba da anarchici), «furbizia»,
«crisi di identità», «allergia al matrimonio»
(in effetti), «bulimia», «apatia», «tinnito»
(il sibilo alle orecchie), «disoccupazione», «pianto,
bisogno di un bel», la terribile «diarrea»,
la «miopia» (tre eccellenti libri curativi), «tentazione
di vuotare il sacco» (su questo vigilerei al massimo),
«postumi della sbornia» (ehm), «sentirsi un
fallito», «emorroidi»... e persino «tristezza
da compleanno» o «andare a sbattere con l'alluce».
Non potevano mancare i «disturbi della lettura»,
con una trentina di malattie note: dall'«acquisto compulsivo»
al «leggere invece di vivere» passando per «il
desiderio di sembrare colti». E per il comune, banale
raffreddore? Cito: «Non esiste una cura. Ma è un'ottima
scusa per avvolgersi in una coperta insieme a un romanzo»
ed ecco 10 consigli senz'altro da tener presenti.
Daniele Barbieri
Azioni
criminose, terrore, potere
nella Sicilia dell'800
Le vicende storiche, cruente e sanguinarie, di quello che fu
chiamato banditismo maurino, perché aveva origine a San
Mauro Castelverde, un paese della Sicilia centro-occidentale,
sono state indagate da Giovanni Nicolosi che vi ha dedicato
un volume (La Sicilia dell'ottocento prigioniera dei briganti
maurini, Vittorietti edizioni, Palermo 2013, pagg. 228 €
15,00), estremamente documentato nella ricostruzione dei fatti
e avvincente e scorrevole nella stesura, che ha un pregevole
andamento narrativo.
I fatti di cui Nicolosi scrive si sono svolti alla fine dell'ottocento
e hanno visto per protagonisti due terribili bande di briganti,
quella di Vincenzo Rocca e Angelo Rinaldi e quella capeggiata
da Melchiorre Candino. La caratteristica peculiare delle due
bande è che hanno operato in un'area estesa della Sicilia,
nel territorio di ben tre province, Palermo, Messina ed Enna,
facendo base nel loro alto, isolato - e per questo inaccessibile
alle forze dell'ordine - Comune: i briganti maurini hanno operato
in paesi, campagne e contrade delle Madonie e dei Nebrodi, le
due catene montuose più suggestive dell'Isola, facendo
dei boschi e delle loro fitte vegetazioni il loro introvabile
rifugio e cercando di costruire di loro stessi - alla maniera
di nuovi Robin Hood – l'immagine di briganti che rubano
ai ricchi e aiutano i poveri.
Azione comune delle due bande fu infatti quella dei sequestri
di nobili e di proprietari terrieri ai fini della riscossione
del riscatto: il rapimento più famoso, ad opera della
banda di Candino, fu quello del barone Spitaleri di Adrano –
un grosso centro agricolo della provincia di Catania - per il
rilascio del quale, il brigante ricevette un compenso, per i
tempi, stratosferico; bersagli e vittime di taglieggiamento
furono anche parecchi nobili della provincia di Enna: il barone
Varisano di Enna, il barone Salamone di Nicosia, il conte Bonsignore
di Leonforte.
Delle bande maurine, Nicolosi racconta la nascita, la vita dei
capi e dei gregari, le azioni criminose di cui si fecero carico,
il terrore che seminarono – non avendo riguardo neanche
per i parenti sospettati di tradimento –, il potere che
esercitarono e la fine violenta a cui andarono incontro: decimati
in uno scontro a fuoco con i carabinieri, capi e membri della
banda Rocca e Rinaldi; trucidati dai fratelli Leanza, campieri
e malavitosi anch'essi, in un podere di Cesarò - un paese
di montagna posto a confine tra la provincia di Enna e quella
di Messina - Candino e i suoi uomini. Dei briganti, Nicolosi
indaga acutamente l'uso che facevano dei comunicati murali e
delle lettere ai quotidiani del tempo per propagandare le loro
azioni e per comunicare con i loro amici e i loro nemici; effettua
poi un'interessante analisi delle foto che li ritraevano: quelle
che gli stessi briganti si facevano fare, in pose eroiche e
da liberatori del popolo; quelle delle forze dell'ordine che
li facevano fotografare da morti, dopo gli scontri a fuoco.
Esamina infine, Nicolosi, il vasto repertorio di canti popolari
che dei briganti narrava, con trepida enfasi, la vita e le gesta,
presentando 'cunti' in gran parte poco conosciuti, come quello
che narra de 'I fatti di Troina', altro paese dei Nebrodi.
Un'opera di microstoria, quella di Nicolosi, che porta alla
luce documenti e avvenimenti circoscritti ad un'area piccola
e remota della Sicilia, ma importante perché mostra bene
ambienti e istanze che causarono il fenomeno del brigantaggio,
che va riconsiderato come una forma di rivolta sociale (non
a caso repressa dai campieri al servizio dei grandi feudatari,
quelli dai quali nascerà la mafia come organizzazione
criminale strutturata, gerarchica e alleata ai potenti): rozza,
violenta, spropositata ma di fatto generata da un contesto storico
di sopraffazione e dominio selvaggio esercitato dai proprietari
terrieri e dai politici del nuovo regno italico, organici ai
loro interessi.
Come ha sottolineato, infatti, nella sua prefazione al volume,
lo storico siciliano Mario Renda, che - riprendendo l'interpretazione
del banditismo come ribellione all'ordine esistente, avanzata
da Hobsbaum nei I ribelli (Einaudi, 1966) - afferma: 'il banditismo
maurino può essere inteso come ribellismo in rapporto
con la società nazionale'.
Silvestro Livolsi
Il
trionfo
dell'egoismo liberale
Il 4 e il 27 marzo del 1986 la rete televisiva britannica Chanell
4 mandò in onda una conversazione tra Cornelius Castoriadis
e Christopher Lasch, moderata da Michael Ignatieff.
Sono trascorsi 28 anni da allora e l'analisi delle ragioni profonde
della crisi della sinistra in Europa, tema dell'incontro, è
ancora attuale. E questo non è un buon segno. I due studiosi
concordano infatti nell'individuare un elemento di tale crisi
che da allora si è dispiegato sino a non essere più
neppure avvertito. Si tratta dell'individualismo liberale che
ha contagiato la cultura di sinistra sino a trasformarla alla
radice. Cornelius Castoriadis e Christopher Lasch (La cultura
dell'egoismo. L'anima umana sotto il capitalismo, Eleuthera
2014, postfazione di Jean-Claude Michéa, traduzioni di
Andrea Aureli e Carlo Milani pagg. 68, euro 8,00) partono entrambi
dalla consapevolezza aristotelica che «quel che noi chiamiamo
individuo è in un certo senso una costruzione sociale»
(p. 9), che «una vita morale è una vita vissuta
in pubblico» (p. 11), che -come sintetizza Ignatieff a
conclusione della conversazione- «nella società
attuale non stiamo più producendo individui capaci di
incarnare la visione aristotelica. Ed è appunto questo
uno dei messaggi forti di stasera, che ci lascia con una domanda
spinosa: siamo ormai un altro tipo di individui? Abbiamo perso
quell'ideale?» (p. 36).
Sì, la sinistra lo ha perso, sostituendo la lotta di
classe con una ideologia dei diritti umani di evidente impronta
liberale, non certo marxiana. Invece che affiancarsi
alla lotta di classe, la lotta contro le discriminazioni ha
sostituito la lotta di classe, segnando in questo modo il
tramonto della sinistra. La lotta contro le discriminazioni
formali è infatti semplicemente liberale, come le tesi
di Friedrich Hayek ben testimoniano. «Sotto l'accorto
magistero di François Mitterrand la 'lotta contro il
razzismo e contro ogni forma di discriminazione prendeva del
tutto logicamente il posto dell'arcaica' lotta di classe, diventando
la nuova buona novella dell'intellighenzia 'illuminata' »
(p. 43).
Nella densa Postfazione Jean-Claude Michéa ricorda
le analisi di Rawi Abdelal, che nel suo Capital Rules
mostra come «la sinistra francese si era addirittura posizionata
in prima linea a sostegno di tutte le lotte della borghesia
europea per sgombrare il campo da tutti gli ostacoli politici
e culturali che si frapponevano all'espansione 'civilizzatrice'
del mercato mondiale deregolamentato e della sua volontà
di crescita illimitata» (pp. 42-43).
Alla lotta per il mutamento delle condizioni sociali di produzione
si è sostituita la «vittimizzazione come unico
criterio di giustizia in grado di ottenere un riconoscimento.
Se si riesce a provare di essere stati vittima di qualcosa,
di essere stati discriminati (e quanto più a lungo lo
si è stati, tanto meglio è), questo diventa la
base su cui fondare le proprie rivendicazioni» (Lasch,
p. 20). Alla coscienza di classe si è sostituita l'enfasi
sull'identità mutevole e volontaria dell'individuo, quando
invece è evidente che «nessuno è senza passato,
anche se la nostra società ci spinge a negarlo, nessuno
ha carta bianca sulla propria identità. [...] Di conseguenza,
è necessario riconoscere i limiti al grado di libertà
che ha ogni individuo di scegliere identità intercambiabili,
magari per cambiarle ogni settimana» (Lasch, p. 31).
I dispositivi concettuali di questa autodissoluzione sono consistiti
-secondo Castoriadis, Lasch e Michéa- nella negazione
delle invarianti antropologiche, nella rinuncia a ogni identità
collettiva a favore dei diritti del singolo, nel mito della
crescita illimitata, al quale sono legati quelli dello 'sviluppo
sostenibile' e dell'equa distribuzione dei profitti del capitale.
Si esprime qui una certa ironia verso coloro che si sentono
di sinistra perché negano che «la differenza tra
un uomo e una donna potrebbe avere un qualche rapporto con la
loro rispettiva anatomia» e che a questo materialismo
somatico preferiscono quella che Michéa definisce «l'ideologia
neospiritualista» dei Gender Studies (p. 44). Di
sinistra sarebbe piuttosto «il radicale rifiuto di un
mondo fondato -in nome della 'libertà individuale' e
dei 'diritti dell'uomo'- sulla concorrenza estenuante di tutti
contro tutti [...]; il rifiuto della conseguente riduzione degli
esseri umani allo statuto di 'atomi isolati privi di consapevolezza
generale' (Engels)». La sinistra del XXI secolo ha rinunciato
alla critica nei confronti di un mondo dominato dall'iperindividualismo
e ha accettato come inevitabile e foriera di opportunità
«una 'società dei consumi' basata sul credito,
sull'obsolescenza programmata e sulla propaganda pubblicitaria»
(pp. 47-48). E quindi «il radicale sradicamento
degli individui e la metodica svalutazione di ogni forma
di appartenenza storica e culturale che lega effettivamente
tali individui a un passato, a dei luoghi o ad altri esseri
(o, in altri termini, l'interiorizzazione da parte di ciascuno
dell'imperativo incondizionato della 'flessibilità' e
della mobilità geografica e professionale generalizzata)
dovevano prima o poi apparire per ciò che essenzialmente
sono: l'imperativo categorico primario del nuovo modo di
vita capitalista, e dunque la verità ultima di qualsiasi
liberalismo realmente esistente» (Michéa, p. 47).
È sulla base di tale consapevolezza, certo assai amara,
che Castoriadis e Lasch «pur attraverso percorsi filosofici
differenti, erano entrambi giunti ad avere lo stesso sguardo
disincantato sulla triste evoluzione delle moderne sinistre
occidentali e su quello che fin dal 1967 Guy Debord definiva
'Le false lotte spettacolari delle forme rivali del potere separato'
(La società dello spettacolo, tesi p. 56)»
(Michéa, p. 41). Un disincanto che li induce ad affermare
che ormai «da lungo tempo il divario destra-sinistra,
in Francia come nel resto del mondo, non corrisponde più
ai problemi del nostro tempo, né riflette scelte politiche
radicalmente opposte» (Castoriadis, Le Monde, 12.7.1986,
qui a p. 57) e a riconoscere «l'obsolescenza del divario
tra destra e sinistra» (Lasch, p. 57).
Ma per entrambi la possibilità della libertà nell'eguaglianza
è sempre aperta. Castoriadis, in particolare, insiste
sulla natura «tragica» della libertà poiché
essa non possiede limiti esterni sui quali fare affidamento
ed è fondata invece sulla pratica dell'autonomia, il
cui modello rimangono per lui sempre i Greci. Nelle loro tragedie,
infatti, «l'eroe non muore perché c'è un
limite che ha violato. Questo è il peccato, il peccato
cristiano. L'eroe tragico muore a causa della sua hybris,
della sua superbia, perché trasgredisce in un contesto
dove non esistono limiti predefiniti. Questa è la nostra
condizione» (p. 35). La negazione del limite sta a fondamento
della presunta razionalità liberale, il cui principio
di crescita indefinita contrasta con la realtà dei limiti
del pianeta, il cui principio di opportunità per tutti
confligge con la realtà del profitto che moltiplica soltanto
se stesso. Contro l'illusione di una crescita illimitata Michéa
ricorda «la distanza politica che separa oggi un 'uomo
di sinistra' (o di estrema sinistra) da un partigiano della
rivoluzione socialista. [Distanza che induce] sempre più
spesso gli ideologi della sinistra liberale ad assimilare ogni
critica della 'crescita' e ogni progetto di rottura radicale
del controllo capitalista sulla vita a una ripresa pura e semplice,
da parte dei 'nuovi reazionari', di idee vetuste espresse dal
'fascismo' e dall' 'estrema destra'» (p. 64).
Questo libro non si limita a una critica argomentata e convincente
dell'individualismo di sinistra. Propone delle alternative lucide
e praticabili, fondate sul fatto che tradizione e mutamento
devono essere viste e vissute in una logica non oppositiva ma
inclusiva di identità e differenza: «Perciò
il problema non è tanto quello di giustapporre l'immobilità
sempre mortifera al cambiamento sempre salvifico (secondo l'abituale
retorica della sinistra), ma di imparare e distinguere i cambiamenti
che possono verificarsi a un ritmo umano (si rivela qui
centrale la questione del tempo sociale e della sua accelerazione
moderna) e quelli che vengono imposti solo in base alla logica
omogeneizzante del mercato globale, del diritto astratto e della
cultura alienante che ne è la traduzione» (Michéa,
nota 21, p. 67). E quindi, conclude Michéa, un programma
politico di sinistra -vale a dire anticapitalista, egualitario
e libertario- deve «definire le istituzioni concrete grazie
alle quali una 'società libera, egualitaria e decente'
(George Orwell) possa conferire tutto il proprio senso a questa
dialettica creatrice tra il particolare e l'universale»
poiché «non è certo demonizzando e bollando
come 'reazionario' ogni sentimento di appartenenza e di filiazione,
non è etichettando per principio come 'passatista' l'attaccamento
legittimo dei popoli alla propria lingua, alle proprie tradizioni
e alla propria cultura (ed è proprio questo oggi il nucleo
residuale di tutte le metafisiche di sinistra) che gli individui
moderni potranno trovare il sentiero verso una emancipazione
possibile, individuale e collettiva, che sia al tempo stesso
reale e davvero umana. Ecco dove sta tutta la differenza
fra una lotta politica che, sulla scorta di quella degli anarchici,
dei socialisti e dei populisti del XIX secolo, mirava innanzitutto
a offrire agli individui e ai popoli i mezzi per accedere a
una vita realmente autonoma (condizione basilare per
ogni vita 'bella' e, possibilmente, felice), e un processo storico
di perpetua fuga in avanti (sotto il triplice pungolo del mercato
'autoregolato', del diritto astratto e della cultura mainstream)
che quasi più nessuno, quanto meno tra le file delle
nostre sfavillanti 'élite', si cura di padroneggiare
a fondo e che potrà solamente condurre (ancorché
santificato con il nome di 'Progresso') a una definitiva atomizzazione
della specie umana» (pp. 54-55).
Non si può dire che non fossimo stati avvertiti.
Alberto Giovanni Biuso
Un
affresco collettivo,
una botta di entusiasmo
Oltre quaranta i ritratti presentati da Massimo Ortalli (Ritratti
in piedi, dialoghi tra storia e letteratura, La Mandragora,
Imola 2013, pagg. 574, € 32,00), dati alla stampa raccogliendo
i contributi pubblicati sulla rivista anarchica “A”
in nove anni di assiduo, appassionato, puntuale lavoro di sistemazione.
In quasi seicento pagine, sono racchiusi molti tra i variegati
apporti diffusi, di recente o in passato, nell'ambito storico
e letterario in seno all'anarchismo. Un'operazione davvero lodevole
e ben riuscita, mai tentata prima da altri.
Ritratti credibili, come li definisce Paolo Finzi nella sua
convinta e partecipata introduzione all'opera, riprendendo un
motto dell'amico don Andrea Gallo: non mi interessa se tu
sei credente, mi interessa che tu sia credibile.
Ritratti singoli o raffigurazioni plurali, voci corali o assoli,
dai colori caldi o a forti tinte, non delineati seguendo una
linea sequenziale, cronologica, e proprio per questo restituiti
a vita autonoma, in un dialogo con ritratti reali. Il filtro
della letteratura è ampliato da approfondimenti bibliografici,
documenti, lettere, saggi storiografici e fonti iconografiche:
frontespizi di riviste, schizzi, immagini delle copertine di
libri, disegni serigrafati, locandine, manifesti, fotografie
di ritratti “in piedi”, come quella eloquente del
Primo Maggio anarchico, del 1913, riportata in copertina.
Gallerie di affreschi ispirati al titolo dell'opera di Gianna
Manzini Ritratto in piedi del padre Giuseppe, amato,
spesso incompreso. Un rapporto intimo, difficile da conciliare
con l'impegno nella vita pubblica. Memorabili per lei, il Primo
maggio passato con il padre o il cavalluccio sopra le ginocchia
dondolanti di un buffo ometto con la parrucca e i baffi finti,
quale si era presentato Errico Malatesta nella bottega dell'amico
Giuseppe. Mentre fuori, il canto dei libertari si mescolava
con “l'autentico brusìo della vita”.
Cavatori, operai, minatori, falegnami, calzolai, strampalati,
bombaroli, ma anche scrittrici e giornaliste insieme a idealisti,
intellettuali, romantici, sottoproletari ribelli, pacifisti
tolstoiani, ministri anarchici, cavalieri dell'ideale o sognatori.
Una trama cromatica accesa lega tra loro le figure: l'aver creduto
e continuare a credere nelle proprie idee, rischiare in prima
persona, resistere a testa alta e sperimentare sogni possibili,
per cambiare un mondo che non si decide a cambiare.
Incontriamo ritratti come quelli di Pietro Gori, il grande poeta
dell'utopia delle idee libertarie. Anche noi partecipiamo ai
suoi funerali insieme alla sentita solidarietà delle
popolazioni elbane e della Versilia attraverso le parole del
bel romanzo Luigi Regoli anarchico di Angelo Toninelli.
L' autore ci accompagna anche in un viaggio storico nell'anarchismo
agli inizi degli anni Settanta dell' Ottocento: Un sogno
d'amore di un'intera generazione che per prima, dopo l'unificazione
nazionale, sulla spinta della Comune di Parigi, si fa internazionalista,
rivoluzionaria, anarchica.
Accanto, i quadretti di Armando Borghi e dell'instancabile agitatore
Malatesta, redattori del quotidiano Umanità Nova
incarcerati ingiustamente, e di Luigi Fabbri, l'intellettuale
visto con gli occhi della figlia Luce, dopo lo scoppio nel '21
dell'ordigno al Teatro Diana di Milano: “È l'unica
volta che ho visto piangere mio padre”. Morti vendicati
e nefandezza in nome dell'anarchismo ne offuscano l'ideale di
solidarietà ed emancipazione. Incrociamo anche il ritratto
di Giuseppe Mariani, l'unico coinvolto nelle vicende del Diana
e a scriverne, dopo aver maturato in 27 anni di galera il rifiuto
della violenza.
Nell'ampia e ben allestita galleria ci imbattiamo anche in personaggi
meno noti scovati con dedizione certosina. È il caso
del ritratto dell' operaia pisana Jessa Fontana scaturita dalle
pagine di Una città proletaria di Athos Bigongiali,
temuta già a 14 anni per il suo contributo attivo all'anarchismo.
Battagliera, energica, pericolosa, il suo primo arresto, nel
1901 per “istigazione a delinquere”.
Accanto ai ritratti presentati dalla letteratura russa dell'Otto-Novecento,
da Turgenev, a Kropotkin, Dostoevskij, troviamo autodidatti
come Ausonio Zuliani, Tomaso Concordia, Umberto Postiglione
che hanno dato dignità letteraria al teatro degli esclusi
e dei sovversivi. Non teatro minore, ma alto strumento culturale
di sensibilizzazione, coesione e identità, per un proletariato
dal gusto fine e ricercato.
Vengono altresì riabilitati ritratti volutamente dimenticati
da tanta manualistica in uso nelle scuole, come Metello
di Vasco Pratolini.
La conferma che l'anarchismo da sempre ha rappresentato un'
interessante occasione di spunto letterario, anche con i suoi
pregiudizi e stereotipi lo dimostrano le pagine d'appendice
Il figlio dell'anarchico di Carolina Invernizio. Un ritratto
collettivo di tutti gli anarchici dell'epoca che si intreccia
ad altri stereotipi che convivono nella retorica letteraria
in Duri a Marsiglia, di Gian Carlo Fusco: il bandito
gentiluomo e l'anarchico in bilico tra legalità e illegalità.
Un affresco plurale quello della Banda Bonnot. Pino Cacucci,
In ogni caso nessun rimorso tra ricostruzione storica
e invenzione letteraria racconta la delicata questione dello
scontro dialettico interno al movimento anarchico francese agli
inizi del Novecento. Fanno da contraltare le Memorie di un
rivoluzionario di Victor Serge, incarcerato perché
ritenuto implicato nella Banda. Ne è tratteggiato un
ritratto ricco di profonda partecipazione umana.
La funzione pedagogica del romanzo apre le porte della galleria
su L'eroe della folla di Leda Rafanelli. Un ritratto
in formazione quello del protagonista Lorenzo, verso la consapevolezza
dello spirito libertario e delle idee di riscatto sociale, insieme
all'altro ritratto dell'eroe Comunardo, un vero faro di riferimento
per la classe che rappresenta e per la quale lotta.
Emblematica l'altra faccia di un'atavica e primitiva Puglia
di cafoni e analfabeti. Terra nera di Giuse Alemanno,
arida e avara di frutti, tuttavia, a partire dalla seconda metà
dell'Ottocento, terra feconda poiché cultura anarchica
e cultura contadina vi si fondono. Vediamo Bruttacapa- Malatesta,
un ritratto “in piedi”, unica forma di resistenza
al dilagante individualismo e contro la cultura dello sfruttamento.
Ideali vivi, ancora pochi anni or sono, presso la comunità
di Canosa di Puglia, la Carrara del sud, in cui ben si esprime
tra le masse, l'ideale di libertà e fratellanza.
Ritratti onirici e fantastici, concreti e reali introducono
nel romanzo corale Zero maggio a Palermo ben ricostruito
da Fulvio Abbate nel ricordo del popolo della sua città
intorno agli anni Settanta.
E come non lasciarsi appassionare da Caserio, garzone fornaio
a Motta Visconti, ghigliottinato a Lione il 16 agosto 1894,
poco più che ventenne, per aver attentato alla vita del
presidente della repubblica francese Sadi Carnot. Rino Gualtieri
in Per Quel Sogno di un mondo nuovo ci introduce attraverso
una cronaca romanzata nel quadro della Milano metropoli in formazione,
città dello sfruttamento e delle ingiustizie. E nelle
angherie cui erano sottoposti gli italiani costretti ad emigrare
per lavoro in Francia, coglie le ragioni profonde del moto di
protesta che hanno armato il fornaio. Ritratto controverso,
dibattuto, amato, guardato con rispetto anche dall'opinione
pubblica francese e dai giudici, per quel suo senso di giustizia
profondo e di amore altruistico. Ci penserà invece Cesare
Lombroso a tratteggiare del contadino fornaio un ritratto da
psicopatico: l'epilessia ereditata dal padre in Caserio prenderà
forma di “epilessia politica”.
Sempre a Milano, il lucido ritratto di Pino Pinelli è
delineato da Camilla Cederna e da Licia Rognini, moglie di Pino.
Lei stessa un altro bel ritratto “in piedi”, per
la sua caparbietà, il coraggio, la capacità di
resistere e a non lasciar perdere, come emerge dalla toccante
conversazione riportata da Piero Scaramucci. E il volo di Pinelli
dal quarto piano rappresentato in un'atmosfera surreale ironica,
grottesca e sarcastica da Dario Fo, interprete straordinario
di quella controinformazione sulla strage di Milano, che ha
cambiato la storia del nostro paese.
E tra tanti altri da scoprire passeggiando nella galleria, conosciamo
altresì la resistenza nella guerra civile spagnola attraverso
i ritratti di Buenaventura Durruti e di Enrique Castillo. Oppure
l'autoritratto di un anarchico, meccanico d'officina, antifascista,
con le sue memorie dal carcere e dal confino, fino all'internamento
nei campi di concentramento, e nel lager di Dachau per motivi
politici.
La prospettiva dei ritratti in un affresco di colori luminosi
e ombreggiati non poteva che condurci oltreoceano. Il Brasile,
terra mitica, meta di emigrazione di molti libertari italiani.
Ne fa un ritratto corale Zélia Gattai, nel suo fortunato
racconto autobiografico Anarchici, grazie a dio in cui
traspare grande umanità e coerenza ideale dei libertari
italiani, nel loro grande sforzo di lotte sociali ed emancipazione.
Edgar Rodrigues documenta altri due bei ritratti: Oreste Ristori,
fondatore del giornale La Battaglia, uno degli organi
brasiliani di propaganda più diffusi e importanti, insieme
a quello di Alessandro Cerchiai, collaboratore di Ristori oltre
che netturbino, tornitore e grande “maestro”.
Sempre in Brasile, Alfonso Smith, giornalista brasiliano, attraverso
le memorie scritte dallo stesso fondatore Giovanni Rossi sotto
lo pseudonimo “Cardias”, ci presenta la Colonia
Cecilia fondata a Palmeria, nel Paranà. Il villaggio
di canne chiamato “Anarchia”, con la sua azienda
agricola e la bandiera rosso e nera issata su una palma, dove
vige la consapevole legge non scritta: “ciascuno secondo
le proprie possibilità, a ciascuno secondo i propri bisogni”.
Per Laura Pariani, Dio non ama i bambini nella terra
dell'oro: l'Argentina. Con i suoi convertillos, sorta
di comunità autonome, sembra replicare le corti venete,
lombarde, piemontesi, luoghi di origine degli emigrati. Dove
si riproducono solidarietà e miseria, dove i più
piccoli sono vittime di sanguinosi fatti di cronaca. Pagine
in cui compare Fortunato Serantoni -un figlio morto perché
non c'era denaro per curarlo- attento testimone dell'impegno
dei libertari, anche di quelli di lingua spagnola.
E poi il Messico, sempre attuale. Con Il collare spezzato
di Valerio Evangelisti, tra una moltitudine di personaggi conosciamo
due fratelli anarchici Ricardo e Enrique Flores Magón,
le influenze che esercitarono su tutto il movimento rivoluzionario
del Messico, e le sollecitazioni per capire cosa ancora agita
il presente.
Insomma, Ortalli riesce a farci apprezzare le proposte presentate
nella sua galleria anche grazie a una scrittura chiara, invitante,
fluida. E il piacere della lettura delle quasi seicento pagine
di sguardi plurali invita a un ulteriore dialogo aperto. In
particolare con i lettori che non conoscono questo mondo, ma
rappresenta altresì una sollecitazione rivolta a tanta
parte delle giovani generazioni virtuali, dai pollici ipertrofici
e dalla testa china, cresciute con grandi fratelli, dragon ball,
playstation e telequiz.
Per questo, all'antologia si dovrebbe ricavare uno spazio negli
scaffali delle biblioteche pubbliche e in quelle scolastiche.
L'affresco plurale della galleria ha infatti valore di testimonianza.
Ritratti che hanno saputo credere, lottare fino in fondo, continuare
a sperare e sognare che un mondo migliore sarà possibile.
Una botta di entusiasmo, di speranza per il presente, un invito
ai giovani ad alzare la testa e mettersi “in piedi”.
Claudia Piccinelli
Povera
principessa,
poveri noi tutti
C'è qualcosa di più noioso che essere una
principessa rosa? (Raquel Dìaz Reguera, pp.48, €
16, Settenove) è un racconto dedicato ai bambini e ricco
di illustrazioni. Nonostante sia rivolto ad un pubblico di lettori
sopra i cinque anni, è bene non farsi ingannare: quella
scritta da Reguera non è semplicemente una storia pensata
per i più piccoli, ma qualcosa di più profondo
e complesso. Sfogliando le pagine, si può comprendere
la forza educativa e l'acume presenti all'interno del testo,
il cui personaggio principale è Carlotta, una ''principessa
rosa'' come viene descritta dall'autrice.
Fin dall'inizio della narrazione, la protagonista si trova a
dover fare i conti con le norme e le consuetudini che regolano
i suoi comportamenti e che prescrivono la condotta che meglio
si addice alla sua posizione. ''Le principesse sono molto delicate
e non possono uscire dal palazzo perché potrebbero ammalarsi,
non possono correre e saltare perché potrebbero rovinare
i loro preziosi vestiti di seta. E non possono vestirsi né
di verde né di azzurro, perché certi colori non
si addicono a una principessa.''
Carlotta si accorge presto delle imposizioni alle quali è
sottoposta, che non le permettono di esprimersi e vivere secondo
le proprie inclinazioni; si trova così a dover scegliere
tra i canoni predefiniti ed il proprio sconfinato desiderio
di espressione individuale. ''Sognava di risolvere misteri,
costruire aerei di carta, nuotare a cavallo di un delfino, seguire
i piccioni viaggiatori e scoprire i confini della Terra viaggiando
in una gigantesca mongolfiera.'' La protagonista di questo piccolo
libro è 'solo' una bambina, ma non per questo accetta
senza remore gli obblighi che vincolano il suo agire. Non si
arrende a ciò che è considerato conforme e consono,
ma si interroga sul motivo delle prescrizioni e pone lo stesso
interrogativo ''ai grandi'' che fino a quel momento si erano
dimostrati acquiescenti nei confronti degli stereotipi. ''Le
principesse sono come le rose, fiori fragili i cui petali non
resisterebbero nemmeno ad un soffio di vento.'' Quella descritta
da Reguera è la storia di un piccolo grande personaggio
che sa affrontare gli adulti con semplicità e che ha
il coraggio di affermare la volontà di inseguire i propri
innumerevoli e fantasiosi sogni.
Per sottolineare come il genere femminile non sia l'unico ad
essere colpito dalle standardizzazioni, l'autrice inserisce
la figura del ''principe azzurro'', incastrato in una vita monocolore
che gli impedisce di dispiegare la propria potenza creatrice.
L'obiettivo di Reguera è quello di porre l'accento sull'effettività
della divisione di ruoli e sulla presenza, all'interno della
nostra società, di una categorizzazione binaria maschio-femmina
da cui derivano regole di comportamento, come quelle che limitano
l'azione individuale di Carlotta. ''Io non voglio essere una
principessa rosa. Voglio viaggiare, giocare, correre e saltare.
Voglio vestirmi di rosso, di verde o di violetto.'' L'esistenza
di tali norme può essere interpretata come un tentativo
di semplificare il caos generato dalla libera espressione di
sé: con l'intento di portare ordine all'interno delle
comunità, vengono forniti modelli di condotta che si
richiede siano rispettati pena l'esclusione o la marginalizzazione.
Tra le pagine di questo libricino illustrato, arrivato in Spagna
alla terza edizione, si trova un racconto sugli stereotipi che
si tramandano di genitori in figli; una storia sul coraggio
di pensare con la propria testa, di agire attivamente ed in
prima persona per non lasciare che le consuetudini influenzino
le nostre vite.
Carlotta Pedrazzini
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