governo Renzi
Il vecchio che avanza
di Antonio Cardella
Il nuovo che avanza ha i connotati di un passato remoto che credevamo di aver sepolto.
Il vecchio sedeva sull'uscio
di una stretta apertura a piano terra di un piccolo edificio
di due piani in calce bianca, abbacinato dal sole già
alto. Fumava un sigaro nero e nodoso, emettendo a cadenze regolari
nuvolette di fumo che, da un'apertura impercettibile delle labbra
sottili, si perdevano veloci verso un arco di pietra grezza
che immetteva in uno dei mille vicoli della Casbah algerina.
Sedeva su una sedia impagliata larga e robusta, tanto che il
suo corpo, interamente coperto dalla tunica bianca, ne occupava
solo una parte.
Non si sorprese quando, fermandomi di fronte a lui, gli chiesi
bruscamente dove fosse suo figlio.
Avevo conosciuto Abder in uno dei tanti caffè in prossimità
del porto, dove il giovane (doveva avere non più di 25
anni), attendeva clienti da trasportare con la sua vecchia Ford
nelle varie località della costa. Dovevo andare ad Annaba,
una cittadina della costa, alla periferia della quale era accampata
una guarnigione di parà, destinata a proteggere le numerose
fattorie francesi del territorio. All'appuntamento, stabilito
per il giorno dopo, il giovane algerino non si era fatto vivo.
Era la primavera del 1961 ed ancora il caldo non era soffocante,
tanto che il vecchio poteva sopportare il sole che lo investiva
in pieno. Mi guardò senza mostrare sorpresa per quella
domanda perentoria rivoltagli da uno straniero sconosciuto.
Poi, guardandomi fisso, disse, con voce inespressiva:
- È inutile ormai chiedere ad un padre dei propri figli.
Entrano furtivi nella casa che li ha visti crescere, prendono
qualcosa, alcune volte mangiano, in fretta e poi scompaiono,
corrucciati ed in silenzio come sono arrivati. No, non so proprio
dove sia Abder. Non lo vedo da tre giorni. Può darsi
che si faccia vivo stanotte, o domani... Chissà! –
Parlava un francese stentato e cantilenante, con voce bassa
e lamentosa, quasi parlasse a se stesso e non fosse per lui
importante che io lo capissi. Del resto, non sembrava gli importasse
neppure capire se, dati i tempi, costituissi un pericolo per
lui o per il figlio. Cercai tuttavia di rassicurarlo, spiegandogli
quale fosse la semplice ragione per cui chiedevo di Abder.
Allargò le braccia sconsolato, poi dopo un breve silenzio:
– lei ha dei figli? – chiese, e si diede subito
la risposta – No, per essere venuto in quest'inferno,
di figli non deve averne. Ma noi qui ci viviamo e ci vivono
i figli che abbiamo visto crescere e che adesso chissà
dove sono.–
Doveva aver deciso improvvisamente che, tutto sommato, chi gli
stava davanti non poteva essergli ostile e neppure al figlio
che non vedeva da tre giorni. Così continuò, animandosi
un po', quasi a liberarsi di un grumo di sorda sofferenza consolidatasi
giù, nel profondo – I figli... chi li capisce più?
Certo, vivevamo a fatica, con i francesi a imporre alla nostra
gente il modo di vivere o di morire, ma in famiglia si parlava,
si condivideva la fatica del lavoro e della vita quotidiana.
Poi scesero quelli di Costantine e i giovani, quasi tutti, uscirono
sempre più spesso da casa, senza motivi apparenti. Divennero
evasivi, sfuggenti. Sembrava avessero trovato altrove una famiglia
più accogliente e che avvertissero improvvisamente angusti
non solo gli ambiti familiari ma anche le motivazioni consolidate
che ne sostenevano l'impianto.. Da un giorno all'altro non andava
più bene niente: come ci si vestiva, come si sceglieva
e si cadenzava il lavoro, perfino come si mangiava.
La famiglia – continuò – i parenti più
prossimi, gli amici di sempre sembrava costituissero per loro
solo l'appendice di qualcosa più grande e importante,
a noi vecchi lontana e imponderabile –.
Si agitò sulla sedia sconfortato, forse sorpreso di aver
parlato così a lungo con un perfetto sconosciuto al quale
il suo mondo era ignoto e indifferente.
Negli anni '60...
Debbo confessare che, sul momento, questo dialogo sorprendente
con un vecchio al quale avevo solo chiesto dove potessi trovare
suo figlio, mi parve solo lo sfogo di un padre, preoccupato
delle frequentazioni di un giovane poco più che ventenne,
in un'Algeri sconvolta da una guerra spietata.
Dopo qualche tempo, ripensando a quella stagione sconvolgente,
andai pian piano convincendomi che quello sfogo sorprendente
di un anziano genitore nascondeva molto di più di un
comune conflitto familiare tra un padre ansioso e un figlio
insofferente.
Nelle società patriarcali il fattore generazionale era
di norma vissuto, con maggiore o minore sofferenza, all'interno
dei nuclei familiari. Era, insomma, il prodotto di quel lento
progresso delle tecnologie che sostituivano il trattore all'aratro
ma non intaccavano più di tanto i riti e le consuetudini
delle comunità.
In Italia, sino agli anni Sessanta del Novecento, i valori,
le gerarchie, le classi sociali erano quelli tradizionali: non
vi erano scambi tra i vari strati sociali: i figli dei contadini
sapevano di dover continuare a fare i contadini, i figli degli
operai gli operai, così come i figli dei notai i notai,
quelli degli avvocati gli avvocati. La cultura dominante era
quella cattolico-conservatrice e la società nel suo complesso
sembrava condividerne i valori. Naturalmente, non mancavano
i fermenti: l'espandersi dell'industria manifatturiera e i flussi
migratori dal Sud al Nord di masse contadine che tentavano di
trovare la soluzione dei loro problemi esistenziali nelle fabbriche
del cosiddetto Triangolo industriale, in una certa misura scossero
le fondamenta di un mondo che era rimasto immobile per secoli.
Ancora, però, appariva del tutto normale che ciascuno
dovesse rimanere ancorato al proprio ambito sociale e all'interno
di questo delimitare aspirazioni e speranze. Su tutti, poi,
aleggiava la massa opprimente dei valori consolidati, dei riti
ripetitivi di costumi e consuetudini mummificati.
Con il Sessantotto, il malessere profondo che serpeggiava già
dal drammatico dopoguerra, prende coscienza e mette in discussione,
non solo le discriminazioni e le ingiustizie di un assetto sociale
sostanzialmente immobile, ma la legittimità stessa delle
istituzioni che lo sostengono.
Per la prima volta il conflitto generazionale assumeva il carattere
di una rivolta contro l'esistente e impiegava le sue forze migliori
per progettare un futuro alternativo al presente, un futuro
credibile, fondato sull'egualitarismo, la solidarietà
e la libertà. Era la rivolta non più contro le
ingiustizie particolari, ma contro un mondo che complessivamente
era ingiusto ed oppressivo.
Il vecchio algerino incontrato nella primavera del 1961 non
poteva capire il male di vivere che aveva indotto suo figlio
a buttarsi nella mischia, certamente per liberare il suo Paese
dal dominio coloniale, ma anche e soprattutto per non continuare
a vivere nella sconfitta continua alla quale erano destinati
lui e la sua gente.
Non poteva capire, e neppure io compresi appieno la forza e
la profondità del movimento algerino di liberazione.
Anche se avevo conosciuto donne ed uomini incredibili per determinazione
e coraggio, non riuscii a percepire l'alito di quel vento che
avrebbe investito presto i popoli di due continenti.
Purtroppo, alla resa dei conti, si rivelò solo una folata,
fresca e rigeneratrice ma solo una folata.
Dalla fine degli anni Settanta iniziano quel progressivo regredire
delle condizioni generali del Paese, quel recupero lento ma
inesorabile del sistema capitalistico-borghese con il suo reticolo
implacabile di norme oppressive, di sfruttamento e di mortificazione
continua della dignità dei popoli.
Grande aspettativa?
Lo scarto generazionale si manifesta oggi nell'emblematico,
sconfortante ritorno di quel figlio alla casa paterna. I volti
e le cose che sognava di liberare dalle spesse ragnatele di
un vissuto che si riteneva poter relegare in un passato remoto,
adesso riacquistano attualità, anzi, appaiono come ancore
di salvezza.
Nell'era dei Renzi, oltre il 40% della popolazione giovanile
si trova senza risorse per vivere una vita normale. Molti, già
avanti negli anni, si ritrovano, senza colpa, a casa dei genitori,
a dipendere da loro.
Il nuovo che avanza ha i connotati di un passato remoto che
credevamo di aver sepolto.
A sopravvivere – e bene – sono gli imbonitori di
sempre. Continuano a mischiare le carte, a manipolare la gente,
promettendo mirabolanti riforme e futuri radiosi, rimanendo
loro comodamente seduti su quelle stesse poltrone dalle quali
i loro predecessori, vicini o lontani, usavano i medesimi termini
per imbrogliare i rispettivi contemporanei.
C è grande aspettativa per quello che Renzi riuscirà
a fare per uscire da una crisi che ha spossato un intero popolo.
La gente è esausta e vuole credere nei miracoli, affidandosi
come al solito all'uomo carismatico di turno. Sarà ancora
una volta delusa, sempre che, in aggiunta, non debba pagare
un prezzo salato per questa sua ennesima illusione.
Qualcuno ha definito Renzi un riformista minimalista, forse
perché tenterà di raggranellare qualche briciola
dal grandioso progetto di riforme che promette. Se volete la
mia opininione, eccovela: il Renzi che io vedo è un mediocre
giocatore di poker che abusa del rilancio. Alla fine del gioco,
avrà sperperato soldi non suoi e noi rimarremo soffocati
dai debiti.
Antonio Cardella
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