Nuove prospettive per l'organizzazione della società
intervista a Emanuele Amodio
Cari lettori della rubrica
per due numeri della rivista avrete modo di leggere una lunga
intervista che ho fatto a un grande antropologo di origine italiana
Emanuele Amodio che da svariati anni vive tra centro e sud America.
Ero molto interessato a pubblicare una nostra conversazione
perché anche se purtroppo non ci conosciamo personalmente
abbiamo tante idee in comune sul senso del fare antropologia
in modo non egemonico e su le sue possibili connessioni con
il pensiero libertario.
A.S.
Ormai sono anni che ti occupi di antropologia ma per
iniziare ti chiederei cosa ti ha avvicinato a questa disciplina?
La ricostruzione del passato è sempre una trappola e
il senno di poi apporta ragioni che forse all'inizio erano solo
embrionali o semplicemente le scelte sono il risultato de molti
fattori in parte casuali. Guardando indietro posso senz'altro
dire che si trattava di un acuto senso della differenza, vissuta
da un osservatorio vitale com'era la Sicilia della fine degli
anni sessanta, in cui gli altri erano la gente del nord
e il noi si costruiva per opposizione negativa: eravamo i terroni
e, come direbbe Guccini o quasi, i primi che si affacciavano
agli studi non da una posizione dominante ma subalterna. Se
a questo si aggiunge una militanza già posizionata a
sinistra, è facile pensare che l'antropologia, appena
agli inizi in Italia, costituiva in qualche modo un riscatto
personale e anche uno sociale: capire la diversità che
si faceva quotidianamente disuguaglianza. Si entrava in questo
campo attraverso la Facoltà di sociologia ad Urbino o
Trento, e poi la decisione o il caso ti portavano a militare,
per dirlo in qualche modo, o per la via dell'antropologia nordamericana,
con la sua marcata tendenza “culturale”, o per quella
che da Gramsci dei Quaderni del carcere passava per De
Martino e le posture critiche, già esplicitamente politiche.
Così io finì a Urbino a studiare sociologia, e
li mi formai come antropologo, con forti interessi di ricerca
verso il Meridione. In ogni caso, fin da quegli anni, antropologia
e militanza libertaria andarono a braccetto e a volte finirono
per confondersi, soprattutto nei miei interessi teatrali, insieme
a compagni e compagne con cui giravamo l'Italia con spettacoli
politicamente impegnati.
Quali connessioni dal tuo punto di vista possono esserci
tra pensiero libertario e pratica antropologica?
Prima di teorizzare, vorrei spiegare che sopratutto si trattò
di una doppia linea di attività che, come ho detto, finirono
un poco per confondersi: da un lato m'interessavo di emigrazione
e feste del sud e dall'altro militavo in gruppi anarchici, tutto
questo negli anni settanta della repressione democristiana e
fascista. Pensa che avevamo anche formato un “Fronte libertario
della lotta di classe” a Urbino, un gruppuscolo fra tanti
pero molto agguerrito e naturalmente in perenne polemica con
altri compagni di sinistra, stalinisti soprattutto. In ogni
caso, gran parte della mia militanza era siciliana e Franco
Leggio, con la sua storia ed energia, non fu solo un compagno
amico, ma anche e soprattutto un maestro che seguivo, insieme
a Pippo Gurrieri e molti altri ragazzi quasi ancora adolescenti.
Ed è a Franco probabilmente che devo l'idea e la possibilità
che quello che studiavo poteva essere un referente importante
anche per la lotta politica, per lo meno da una prospettiva
anarchica, e fu su Sicilia libertaria che cominciai a
pubblicare le mie prime riflessioni sulle culture subalterne
e questa collaborazione è continuata fino ad oggi, ovvero
quasi quarant'anni dopo.
Dal punto di vista più teorico e storico, sarebbe tutta
da studiare l'influenza libertaria decimononica sulla nascente
antropologia, basti pensare a Reclus con la sua geografia umana
o a Kropotkin, anch'egli geografo, anche se il potenziale esplosivo
della nuova disciplina sociale finirà in gran parte recuperata
e controllata dagli inglesi funzionalisti. In termini teorici,
penso che il nodo chiave fra antropologia e anarchismo va cercato
nelle due visioni del mondo da cui, più o meno di maniera
esplicita, discendono: nel caso dell'anarchismo, la decostruzione
delle regole sociali in pro di un'utopia libertaria; nel caso
dell'antropologia, la necessità metodologica de relativizzare
il proprio mondo culturale per capire quello degli altri, anche
quando i risultati della ricerca terminavano e spesso ancora
terminano per “dimostrare” la pretesa superiorità
dell'uomo occidentale. Per fare un esempio, si pensi alla proposta
anarchica contro il matrimonio borghese e l'idea della comune
come spazio ideale per la crescita dei figli e il “libero
amore”, e la parallela scoperta degli antropologi che
la famiglia poteva avere molte variazioni e nessuno di queste
era naturale... Como puoi vedere, tutte e due posizioni teoriche
molto pericolose!
Clastres ha lasciato una grande eredità ai ricercatori
libertari tu cosa ne pensi del suo lavoro?
Il contributo di Clastres all'antropologia politica continua
a essere fondamentale, soprattutto con la sua critica allo stato
e il suo centrarsi sul problema del controllo e della violenza.
Anche se molte volte sembra più un discorso filosofico
e politico, non bisogna dimenticare che Clastres fu un antropologo
di campo e i suoi lavori sui Guayaki e Guaranì del Paraguay
sono ancora esemplari. Precisamente da queste lunghe ricerche
di campo, Clastres derivava l'idea che, in queste società,
il potere è un luogo “vuoto”, cioè
che non permetterebbe accumulare potere, basato sulla parola
e non sul possesso di bene. È in questo senso che può
parlare di “Società contro lo stato”, come
se queste società avessero previsto le sue caratteristiche
negative e si fossero premuniti per bloccare la sua emergenza.
Al dì là di questa metafora, oggi è evidente
che le variazioni sul luogo di potere nelle società indigene
americane sono molte di più di quelle immaginate da Clastres
e, mantenendo valide le sue intuizioni, occorre anche accettare
che in molti casi, come ho cercato di dimostrare, la parentela
funziona anche come rete che permette l'acceso al potere, senza
considerare che storicamente furono proprio alcune di queste
società orizzontali che si trasformarono in società
stratificate e piramidali.
Penso che l'opera di Clastres, insieme a quella di sua moglie
Helene, può essere ancora un pungolo per spingerci a
non assolutizzare l'esistenza dello stato e pensare a prospettive
nuove per l'organizzazione della società, anche in questa
era di globalizzazione.
Perché hai deciso di trasferirti in Venezuela?
È stata una scelta legata alla ricerca sul campo?
Per cercare di spiegare la mia scelta di rimanere in America
Latina e non ritornare in Italia e sistemarmi in una università,
quando ancora non era difficile, occorre dire chiaramente che
l'idea della ricerca pura non mi attraeva particolarmente. Così,
spinto anche da un po' di stanchezza per i lunghi anni settanta,
marcati dalla repressione, abbandonai l'università di
Urbino accettando una proposta di cooperazione nel nord del
Brasile fra gli indigeni Makuxí, dentro a un progetto
locale di appoggio alle lotte indigene. Finì per rimanere
nella foresta per tre anni, imparando la lingua e scrivendo
con Vincenzo Pira la prima grammatica e sintassi della loro
lingua, pero con fini didattici più che linguistici.
Facevo certamente ricerca, ma ci dedicavo più che altro
all'educazione bilingue e interculturale e naturalmente al rafforzamento
delle organizzazioni indigene. In Brasile erano tempi di dittatura
e molti “indigenisti”, tanto brasiliani come stranieri,
finirono espulsi dal paese, io fra questi, naturalmente con
l'etichetta di sovversivo! Di nuovo in Italia, dopo aver tentato
di ritornare in Brasile, Accettai la proposta di andare a lavorare
fra i Quechua dell'altopiano peruviano, dove rimasi altri tre
anni, sempre con il desiderio forte di ritornare nella selva
amazzonica. Anche qui mi dedicai alla lingua e al lavoro con
sciamani, dentro della mia collaborazione con il Centro di Medicina
Andina di Cuzco. È da qui che, dopo una collaborazione
con gli Shuar dell'Ecuador, mi sposto in Venezuela con un progetto
locale di collaborazione con gli indigeni Ka'riña e gli
Ye'kuani. Ero così ritornato a lavorare con popoli di
lingua e cultura caribe, campo che continuava a interessarmi,
ed è qui, spinto dalle necessità dei capi Ka'riña
nella difesa delle terre, che comincio a interessarmi anche
di storia indigena coloniale e repubblicana, sempre da una prospettiva
antropologica, creando la prima cattedra di antropologia storica
del Venezuela, nell'Università Centrale de Caracas, dove
ancora insegno.
Andrea Staid
(1. - continua)
Leggere
Amodio
Emanuele
Amodio è docente di antropologia all'Università
di Caracas, da oltre quarant'anni svolge una incessante
attività di ricerca sulle popolazioni native dell'America
del Sud; avvalendosi di osservazioni dirette, ne ha studiato
vita, abitudini, lingue, credenze e relazione sociali.
Ha pubblicato decine di articoli e scritto almeno 29
monografie. Tra le ultime tradotte in Italiano vi segnalo
una novità importante della casa editrice di Ragusa
La Fiaccola dal titolo Stato e burocrazia (2013)
e un testo molto interessante uscito nel 2000 per Sicilia
Punto L Sguardi incrociati. Identità, etnie
e globalizzazione.
2005a - El fin del mundo culturas locales y desastres:
una aproximación antropológica. Caracas:
Universidad de Venezuela Facultad de Ciencias Económicas
y Sociales.
2005b - La tierra de los caribes. Caracas: Universidad
Central de Venezuela, Facultad de Ciencias Económicas
y Sociales.
2005c - Pautas de crianza entre los pueblos indígenas
de Venezuela. Caracas: UNICEF-Venezuela.
2006a - Producción y transmisión del
saber: oralidad, escritura e imágenes. : IESALC
UNESCO, 2006.
2006b - Cultura, comunicación y lenguajes.
Caracas: IESALC UNESCO, 2006.
2010a - Las profundas cavernas de la memoria. La
Paz: Fundación Visión Cultural.
2010b - La casa de Sucre. Sociedad y cultura en Cumaná
a finales del siglo XVIII. Caracas: General de la
Nación.
2011 - Relaciones interétnicas e identidades
indígenas en Venezuela. Procesos históricos,
territorios y culturas. Caracas: Archivo General de
la Nación.
2012 - Stupor Mundi. Federico II e le radici dello
stato moderno. Ragusa: Sicilia Punto L (traducción
Italiana de “Stupor Mundi. Federico II de Suabia
y el Estado y sus múltiples nacimientos”.
Fundación García Pelayo, Caracas 2009).
2013 - Stato e burocrazia. Ragusa: La Fiaccola
(traducción italiana de “El saber de los
burócratas”. Fundación García
Pelayo, Caracas 2011).
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